Nelle Sale Chiablese, fino al 31 gennaio 150 immagini – in un allestimento che lascia ogni respiro ad una perfetta visione e che nei supporti esplicativi non sbrodola testi troppo ingombranti ma va dritto all’attenzione -, è come sfogliare un libro che mai ti è capitato di avere tra le mani, praticamente del tutto nuovo, inconsueto, suggestivo.
Finora avevano avuto facile memoria il vecchio siciliano pronto a indicare al soldato italoamericano accovacciato la direzione presa dal nemico tedesco (era l’agosto del ’44, ci viene tramandato persino il nome del soggetto locale, Francesco Coltiletti detto “massaru Ciccu”), o Pablo Picasso, con la sua corona di capelli bianchi, sulla spiaggia assolata, costretto servizievole a ombreggiare con un grande ombrellone la compagna Françoise Gilot, mentre un giovanotto muscoloso e sorridente occhieggiava in secondo piano o il miliziano della guerra spagnola del ’36 (immagine controversa: immediata realtà o troppo perfetta, falsa ricostruzione?) colpito a morte. Immagini in bianco e nero, rigorosamente (c’insegna una pubblicità), un attimo catturato e tramandato alla Storia.
Oggi, un altro sguardo, di una nuova “poetica” parla Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali. Fino al 31 gennaio prossimo, nelle Sale Chiablese, la mostra Capa in color ci regala l’altra strada intrapresa da Robert Capa – il suo vero nome Endre Ernó Friedmann, origini ungheresi, costretto ventenne, nel ’33, a fuggire a Parigi con l’avvento di Hitler -, quella che tra il ’41 (Hemingway ripreso nella sua casa di Sun Valley) e il 1954, anno della morte (gli ultimi scatti, durante la guerra in Indocina), gli fa amare il colore e la necessità di portarsi dietro due fotocamere, una per le pellicole in bianco e nero e una per quelle a colori, usando una combinazione di 35 millimetri e 4×5 Kodachrome, e le pellicole Ektachrome di medio formato. Credeva nei nuovi mezzi, spingeva le riviste francesi, statunitensi e inglesi a cui collaborava a mettere nei preventivi un buon carico di rullini e a dare sempre maggior spazio alle immagini a colori (sapeva anche farsi debitamente i conti in tasca, erano certo meglio pagate). Magari con qualche esempio già alcuni anni prima. Trovandosi in Cina per testimoniare il conflitto sino-giapponese, scriveva il 27 luglio 1938 ad un amico della agenzia di New York: “Spediscimi immediatamente 12 rulli di Kodachrome con tutte le istruzioni su come usarli, filtri, etc… in breve, tutto ciò che dovrei sapere, perché ho un’idea per Life”. Fu esaudito ma dell’arrivo di quel materiale ci rimangono soltanto quattro immagini.
Nata da un progetto di Cynthia Young, curatrice della collezione di Robert Capa al Centro internazionale della fotografia di New York, l’esposizione è prodotta dalla Società Ares con i Musei Reali e allinea – non trascurando riviste stampate nei decenni interessati, lettere in cui il grande fotoreporter trasmette fatti e descrizioni e sensazioni, presentazioni inserite in volumi, battute a macchina e corrette di proprio pugno, telegrammi -, per capitoli, l’intero percorso di una vita folle e avventurosa, vissuta al centro dei campi di battaglia e sui mari (“Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete andati abbastanza vicini”, il suo insegnamento pieno di fierezza), ma anche e sempre curiosa dei luoghi e degli amici, della tranquillità e delle distese innevate della montagne (gli sciatori di fronte al Cervino, i reali d’Olanda con cui stringe amicizia in bella posa), della voglia di divertimento che sempre più accampava i propri diritti nel periodo postbellico, delle feste romane in un clima pre-dolcevita e delle sfilate di moda da Schubert (alcuni anni dopo, in un clima sempre di spensieratezza, troverà le sue mannequin in place Vendôme o sul lungosenna), dei pezzi di vita nuova che chiedevano di ricostruirsi e di affermarsi, dei volti famosi (quando riuscì ad incrociare Hollywood e il suo mondo, eccolo correre di gran fretta sul set di Notorius per omaggiare forse Hitchcock e per iniziare una breve quanto intensa storia d’amore con Ingrid Bergman; quando scese tra le risaie del Vercellese, sul set di mitico Riso amaro, probabilmente l’intreccio della vicenda e il lavoro di De Santis poco lo interessarono ma il viso e le forme di Doris Dowling lo colpirono parecchio). Quindi sfilano l’immagine di un membro dell’equipaggio del commodoro Magee che manda segnali, i soldati americani che ispezionano un carrarmato tedesco o si ricoprono di una bandiera con svastica che hanno catturato; il volto di Trockij e quasi l’udibile voce stessa su di un palco di Copenhagen ed il conflitto arabo-israeliano, tra la lotta e le prime costruzioni a formare i nuovi kibbutz, tra il ’49 ed il ‘50; il viaggio nel 1947 a Mosca in compagnia di John Steinbeck e le code sulla Piazza Rossa negli anni a venire, a visitare la tomba di Lenin, con i visi degli uomini, delle madri con i figli, riverenti e muti, Picasso che gioca con il figlio, perfetto nonno ed incredibile padre; l’allegria all’aria aperta di Hemingway in compagnia della terza moglie, Martha Gellhorn, e dei due figli, la bellezza di certe facce, le fasce rosse legate attorno alla fronte, in un primo maggio descritto tra le strade del Giappone. Ancora i set cinematografici che lo incuriosiscono e lo eccitano, Ava Gardner che balla durante le riprese della Contessa scalza, una Anna Magnani carica di vitalità, John Huston intento a raccontare tra Parigi e gli studi di Londra la vita di Toulouse-Lautrec in Moulin Rouge, l’amico Humphrey Bogart (con cui nel ’52 andrà nella capitale inglese per riprendere l’incoronazione di Elisabetta) e Peter Lorre, ombroso e ingessato viveur l’uno, elegante damerino l’altro, entrambi alle prese con Il tesoro dell’Africa (possibile che nell’occasione la nostra Lollo non l’abbia almeno fotograficamente punzecchiato?), Ingrid Bergman che ascolta le indicazioni di Roberto Rossellini prima che si giri una scena di Viaggio in Italia nel ’53. Sono gli ultimi sprazzi di questo suo mondo che non vuole più dolori, combattimenti e morti, i divertimenti di Bayonne e di Deauville stanno lì a testimoniare. Ma anche per questa vena di divertimento l’interesse s’affievolisce, o addirittura si spegne del tutto: e Capa chiede di essere mandato dove ancora una volta possa respirare i venti della guerra. Invitato dalla Mainichi Press, si trova in Giappone quando riceve da Life la proposta di sostituire il fotografo della rivista in Indocina dove infuria il conflitto franco-vietnamita. Raggiunge Luang Prabang, fotografa i soldati feriti e le zone di guerra e la vita che continua a scorrere ad Hanoi e nelle altre città. Accompagna un convoglio francese lungo il delta del Fiume Rosso: mentre il convoglio è costretto a fermarsi per il fuoco nemico, Capa scende dalla jeep su cui viaggiava per fotografare un campo di riso a lato della strada. Mette il piede su una mina antiuomo e resta ucciso. Era il 25 maggio del 1954. Quella sconosciuta località aveva un nome forse grazioso, Tay Ninh. Capa aveva da pochi mesi compiuto quarant’anni. Era stato il più grande fotoreporter di guerra.
Elio Rabbione
Le immagini:
Robert Capa fotografato da Gerda Taro
Un membro dell’equipaggio segnala ad un’altra nave di un convoglio alleato che attraversa l’Atlantico, 1942
Humphrey Bogart e Peter Lorre sul set del “Tesoro dell’Africa”, aprile 1953
Capucine, modella e attrice francese, al balcone, Roma, agosto 1951
Credits immagini Robert Capa International Center of Photography Magnum Photos
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