ARTE

IL TEMPO NELL’ARTE. La settima… compresa

Quanto è lo scarto temporale richiesto in un’opera letteraria e cinematografica dal momento della sua presentazione al pubblico rispetto alla sua ambientazione temporale?
Probabilmente la domanda è un po’ criptica, ma nasconde dati di fatto piuttosto angolari.
George Orwell, famoso studioso inglese, scrisse il suo romanzo ‘1984’ in un allora lontano 1949, cioè all’inizio della Guerra Fredda, una guerra non guerreggiata ma che per decine di anni dividerà l’intero pianeta fra due opposte ideologie.
La trama è conosciuta ai più ma, sintetizzabile; lo scrittore descrive in un lontanissimo 1984 (solo 35 anni dal 1949) tre macro società mondiali in lotta fra loro. Viene disegnata una realtà politica planetaria, globale, inimmaginabile per chi scrive quel romanzo solo pochissimi anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Il romanzo si avviluppa però attorno alla macro realtà OCEANIA, governata da un onnipresente Grande Fratello che governa tutto e tutti grazie a una polizia spietata ed efficientissima, assistita da futuribili tecnologie ancora inimmaginabili (!!!) al giorno d’oggi.

Quando ho letto il libro negli anni ’70 ero uno svogliato studente di liceo e nell’anno che titola il romanzo (1984) avevo solo 29 anni. Come è stato possibile per il grande scrittore preconizzare una spaventosa ma futuribile e super avanzata Società mondiale, solo un pugno di anni dopo la pubblicazione del suo lavoro?

Ma quanto futuro distopico e futurista avrebbe potuto svilupparsi in soli 35 anni? Nei fatti, dittatura nazi-stalinista a parte (il vero soggetto del romanzo), tecnologicamente il mondo non è così cambiato rispetto al primo dopo guerra.

La fantascienza al cinema porta esempi abbagli temporali ancora più macroscopici.

Tanti sono gli esempi: il mitico film Blade Runner (sugli schermi già nel 1982) mostrava una distopica ma iper-tecnologica società vissuta dai protagonisti nel … 2019!
In quell’anno il film mostra una incomprensibile e irriconoscibile Los Angeles, ricca di astronavi, palazzi altissimi (forse chilometri), robot umanoidi dalle capacità sovrumane, lontanissime colonie da gestire e sottomettere a distanze per noi neanche concepibili (… navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser). Tutta questa futuribilità si realizzava niente meno che… SEI ANNI FA.

Tornando alla realtà di tutti i giorni, sono già passati sei anni dalla Los Angeles del film, che resta però quella di sempre, magari ancora un po’ bruciacchiata dagli incendi nei pressi di Hollywood, ma resta sempre quella che tutti conosciamo.

E parlare del primo Terminator, interpretato dal giovane Arnold Schwarzenegger nel 1984?
Anche questo è un famoso cult osannato da pubblico e critica. Nel film il gigante austriaco interpreta il guerriero angelo protettore delle protagoniste in arrivo negli anni ’80 nientemeno che dal … 2029. In effetti mancano ancora 4 anni, e qualcosa può ancora cambiare nel nostro immediato futuro; difficilmente però vivremo quello che ha reso famosi i protagonisti del film.

Il caso più eclatante di questa carrellata di successi cinematografici ricchi di genio, fantasia e rare capacità; non possiamo però eludere gli impressionanti errori sul passare del tempo da tutti visti in 2001, Odissea dello Spazio.
Già solo nel titolo è evidente l’ossimoro.
L’indimenticabile film di Kubrick è uscito nel 1968 e parla della missione dell’astronave Discovery verso Giove (scelta, tra l’altro, contenente un errore astrofisico clamoroso. Giove è pianeta gassoso e non roccioso come la Terra, Marte o Venere: impossibile quindi da ‘toccare ed esplorare’).
Ma, viaggio verso Giove a parte, nel film l’anno 2001 vedeva già astronavi-navetta da e per la Luna, organizzate approssimativamente come i nostri attuali voli di linea.
Purtroppo per gli autori (Clark il romanziere e Kubrik il regista del film) dal 1968 al 2001 mancavano solo 23 anni.
Nel mondo reale il 2001 sarà ricordato, nel bene, per la nascita di Wikipedia, e nel male per la distruzione delle Torri Gemelle di New York. Chissà se i nostri nipoti potranno veramente viaggiare dalla Terra alla Luna sulle stupefacenti navette del film. Potrebbe forse essere ma noi – Super Musk permettendo – non ne siamo per niente certi.

In questo pezzo estivo abbiamo certamente guardato il pelo nell’uovo, ce ne rendiamo conto. Si dirà infatti che l’Arte può permettersi di essere ben superiore rispetto a simili particolari.

Quando si tratta di Futuro con la F maiuscola crediamo però che risparmiare sugli anni non sia attività redditizia.

Un paio di secoli per un ‘robusto futuro possibile’ possono bastare .. ma potremmo consigliare pure di più.

Ferruccio Capra Quarelli

CAMERA meets ICP. Un archivio vivente

Una selezione fra 10mila fotografie, realizzate in 10 anni di storie per immagini, raccolte nella “Project Room” di “CAMERA” a Torino

Dal 4 luglio al 14 settembre

Un Oceano di “scatti fotografici”. Impressionante per quantità e contenuti. Per gli organizzatori “un archivio vivente di immagini e storie su Torino e oltre”.

Parliamo della mostra “CAMERA meets (incontra) ICP. Un archivio vivente”, ospitata da venerdì 4 luglio a domenica 14 settembre, all’alba della decima edizione dell’“Intensive Program in Visual Storytelling”, nella “Project Room” di “CAMERA – Centro Italiana per la Fotografia” di via delle Rosine, a Torino. In rassegna, una ricca selezione del materiale fotografico realizzato nelle scorse edizioni del programma di “alta formazione professionale” nato nel 2016 dalla collaborazione di “CAMERA” con l’“International Center of Photography (ICP)” – scuola fondata da Cornell Capa (fratello del leggendario Robert) nel 1974 e sede degli “Infinity Awards” dal 1985 – che ad oggi conta oltre 10mila fotografie realizzate da 221 studenti arrivati a Torino, ogni anno a luglio, da 34 Paesi del mondo.

Curata da Cristina Araimo (responsabile delle attività educative), Barbara Bergaglio (responsabile archivi) e Giangavino Pazzola (curatore e responsabile dei progetti di ricerca), la mostra, che per tutta l’estate farà da forte richiamo a un pubblico sempre più curioso e attento, presenterà un’accurata selezione tra le migliaia di fotografie prodotte fino ad ora, un vero e proprio archivio visivo della città di Torino, protagonista dei progetti fotografici degli studenti e delle studentesse provenienti, oltre che da diverse zone d’Italia, da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Canada, Ucraina, Filippine e Argentina.

“I partecipanti al programma intensivo – spiegano gli organizzatori – hanno lavorato sulla città osservandola da diverse angolature e attraverso la lente di numerose tematiche, alcune delle quali ricorrenti, come la crisi abitativa connessa alla fragilità sociale, affrontata in diversi progetti tra cui quello dedicato ai servizi di ‘social housing’ e ai ‘bagni pubblici’ di via Agliè; le comunità straniere, come quella somala e cinese, la vita dei giovani di seconda generazione e le esperienze di integrazione nei quartieri di Barriera di Milano, Borgo Dora e Aurora; il tema dell’identità di genere e dei diritti, esplorato in progetti che hanno messo in luce la vita di persone ‘queer’ nell’ambito dell’associazionismo e dello spettacolo dal vivo per arrivare infine al tema centrale delle donne e del lavoro”.

Immagini che raccontano i sostanziali, spesso infelici cambiamenti, realizzati e subiti nell’ultimo decennio dal tessuto urbano e umano cittadino e che, in esposizione vengono presentate, in vario modo: attraverso la “visualizzazione grafica” delle dieci edizioni del programma di formazione rappresentata da “dieci cassetti” di un “archivio ideale”, dove i visitatori, attraverso il materiale informativo, possono approfondire i dati relativi alle provenienze degli studenti, ai temi trattati nei loro progetti, ai risultati e alle forme del processo creativo o (è il caso di una selezione di 300 immagini) “come proiezione” o “formato cartolina” a disposizione del pubblico all’interno di un “archivio reale”.

Infine sono esposti 42 scatti firmati da sette giovani fotografi internazionali – Lucia Buricelli (Italia), Nastassia Kantorowicz Torres (Colombia), Gianluca Lanciai (Italia), Ashima Yadava (USA), Deka Mohamed (Italia), Andrés Altamirano (Ecuador), Iva Sidash (Ucraina) – che hanno frequentato sia il programma intensivo di “CAMERA” a Torino sia il “One Year Certificate Program” a New York. Particolarmente toccante lo scatto (2024) di Iva Sidash che ritrae “Stepan”, soldato ucraino di 28 anni seduto nella sua camera da letto in un centro di riabilitazione a Staten Island (New York), mentre ripensa con occhi stanchi al caro prezzo pagato a una guerra scellerata e disumana di cui porterà a vita le gravi, criminali ingiurie. Suggestiva anche la foto scattata nel 2019 dall’americana Ashima Yadava e inserita nel progetto “Bright Star” realizzata a Torino e che narra la bellezza e l’intensità delle relazioni sentimentali tra persone di diverse età, genere e provenienza; così come la fresca briosa immagine realizzata a Torino, al mercato di Porta Palazzo, nel 2016 da Nastassia Kantorowicz Torres, durante la prima edizione del “CAMERA/ICP Intensive Program in Visual Storytelling”.

In rassegna, anche video e contenuti multimediali dedicati alle proposte educative delle due istituzioni.

Gianni Milani

“CAMERA meets ICP”; “CAMERA”, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Dal 4 luglio al 14 settembre

Orari: lun. mart. merc. ven. sab. dom. 11/19; giov. 11/21

Nelle foto: Allestimento, part. (Ph. Enrico Turinetto); Iva Sidash “Stepan”; Ashima Yadawa “Bright Star”; Nastassia Katorowicz Torres: “Porta Palazzo”

L’arte che nasce dalle crepe dell’asfalto

Al torinese “PAV – Parco Arte Vivente”, Centro Sperimentale d’Arte Contemporanea, la prima mostra istituzionale dell’americano Alan Sonfist

Fino al 19 ottobre

Classe 1946, newyorkese cresciuto nel South Bronx, Alan Sonfist è universalmente noto come il “pioniere”, l’“apripista” della “Land (o Earth) Art”. Certamente fra i più rigorosamente “fedeli” a quell’arte (che coinvolse con le più varie sfaccettature artisti del calibro di Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Jean Claude e Christo, fino al nostro Alberto Burri)  “fatta con – e nella – natura”, nata negli Stati Uniti nel decennio ’67 – ’78, in antitesi con il “figurativismo” della “pop art” e le fredde “geometrie” della “minimal art”. A regalare, da subito, a Sofist la notorietà, il suo “Time Lanscape”, una sorta di scultura ambientale datata 1965, un appezzamento rettangolare (tuttora in via di compimento e trasformazione) situato nella parte sud di Manhattan, all’angolo fra West Houston Street e LaGuardia Place nel “Greenwich Village” di New York City, dove l’artista insieme a una numerosa comunità di esperti, urbanisti, biologi, architetti e politici locali, per 13 anni ha studiato e creato una “foresta”, la prima “foresta urbana” del genere, abitata da piante precoloniali. Non un parco né una riserva naturale, ma “un monumento pubblico vivente e in mutamento, che gli uccelli, il vento e la presenza umana circostante modificano lentamente ancora oggi ogni giorno”. Opera studiata e progettata insieme ad altri fantasiosi (ma insieme concreti) interventi successivi sull’ambiente, di cui è data specifica contezza nella mostra “Seeds of Time” (“Semi del Tempo”), la prima in Italia, dedicata dal “PAV” di via Giordano Bruno a Torino, fino a domenica 19 ottobre, al grande artista statunitense. Curata da Marco Scotini, la rassegna – inserita nell’ambito di “Exposed, Torino Foto Festival”, con il sostegno di “Compagnia di San Paolo” e “Fondazione CRT” –  intende, soprattutto, approfondire i primi anni di attività di Sonfist (“archeologo visivo”, per sua stessa autodefinizione) per mettere in luce le peculiarità di quei suoi “monumenti pubblici” attraverso i quali guardare “non più solo agli eventi della storia umana – spiega Scotini – ma a quelli che celebrano l’intero ecosistema naturale, rivitalizzando così la storia dell’ambiente e delle diverse specie di un luogo”.

E proprio partendo dall’interesse “per l’interazione della natura negli ecosistemi urbani”, la mostra di Sonfist al “PAV” si apre con l’installazione a lui commissionata di “Growth Between the Cracks” (2025), opera curiosa, assolutamente singolare e non priva di genialità, che nasce partendo dall’invito fatto dall’artista alla comunità locale di  raccogliere nel perimetro della città di Torino campioni di terra nelle crepe dell’asfalto, negli interstizi dei marciapiedi e negli spazi liminali solitamente ignorati. Gran lavoro e materiale in abbondanza per i cittadini torinesi! Che, di certo, non hanno vieppiù che l’imbarazzo della scelta nel discernimento delle “buche” stradali più generose per adempiere al compito loro assegnato. E poi? E poi, si sottolinea, “le piante e i semi contenuti nel suolo raccolto e successivamente portati al ‘PAV’ vanno e andranno a costituire una mappatura frammentata della città, un carotaggio che racconta la storia di una via o di un quartiere attraverso la presenza di vegetali autoctoni o che testimoniano migrazioni a volte risalenti a ere o geografie lontane”.

In mostra troviamo anche gli scatti fotografici che illustrano il momento più “performativo” di Sonfist legato ai suoi esordi artistici, quelli più intensamente vincolati al rapporto, anche strettamente fisico, con la grande sua “musa ispiratrice”, quella “natura” che è “albero da abbracciare” per confrontarne le dimensioni rispetto al suo corpo (“Myself Becoming One with the Tree”, 1969) o “soggetto per studiare il comportamento animale, diventando egli stesso animale, tigre in ‘Tiger Chance Kill’ (1972 – ’74) o gorilla in ‘Territorial Gorilla Invasion’ (1972 – ’73)”.

A completare la rassegna anche la memoria di uno dei più ambiziosi e grandiosi progetti firmati da Sonfist, quel “Circle of Time” (1986), attraverso il quale l’artista documenta la storia del “paesaggio toscano” attraverso “sette anelli concentrici” (e qui la memoria va all’enorme “Spiral Jetty” creata nel ‘70 con cristalli di sale, sabbia e rocce basaltiche, per inventarsi una spirale che incorniciasse una piccola isola artificiale sulle rive del “Grande Lago Salato” dello Utah, da Robert Smithson!) che rappresentano ognuno una nuova fase dell’uso del territorio, portando alla luce la complessa relazione tra l’essere umano e la terra.

Nell’ambito dell’inaugurazione della mostra, giovedì 15 maggio scorso, le AEF/PAV (“Attività Educazione Formazione”) hanno realizzato anche un proficuo incontro – con la collaborazione di Carmen Concilio, “Dipartimento Lingue e Letterature Straniere” e “Culture Moderne” di “UniTO” – fra Alan Sonfist e le persone che hanno partecipato alla call to action lanciata dall’artista, contribuendo alla realizzazione dell’installazione “Growth Between the Cracks” (2025).

Gianni Milani

Per info:  “PAV – Parco Arte Vivente”, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcoartevivente.it

Nelle foto: Alan Sonfist “Time Landscape”, fotografia, 1965; “Myself Becoming One with My Tree”, serie fotografica autoritratti, 1969; Workshop _ “84 Semi del tempo: crescita tra le crepe”, 2025

“Olimpia – Prova d’orchestra” Biennale di Arte Contemporanea in Alta Langa

Dal 5 luglio al 31 agosto

Alta Langa (Cuneo)

Intrigante il titolo dell’evento “Olimpia”, che ci rimanda all’antica “Olimpia” (oggi “Archea Olympia”), città greca del Peloponneso dove si svolsero, dal 776 a. C. al 393 d. C., i primi “Giochi Olimpici” della Storia; e non meno intrigante il sottotitolo “Prova d’orchestra”. L’iniziativa, infatti, tutta e con varie sfaccettature dedicata all’“arte contemporanea”, intende proprio presentarsi come una perfetta “Prova d’orchestra”, capace di mettere insieme in un’unica sinfonia le più varie espressioni delle attuali prove d’arte visiva (dalle performance alle installazioni site-specific), senza dimenticare la musica, la letteratura e il paesaggio stesso (come elemento non meno decisivo alla completezza del messaggio estetico), interpellando e dando spazio alle più interessanti e  giovani voci della “contemporaneità” di casa nostra.

Programmata da sabato 5 luglio a domenica 31 agosto, l’iniziativa – curata dalla Galleria “Lunetta11” di Mombarcaro (Cuneo) e organizzata dall’“Unione Montana Alta Langa” con la collaborazione di “Fondazione La Masa”di Venezia, “Recontemporary Torino” e “Firenze Jazz Festival”  – coinvolgerà ben sette Comuni della Provincia Cuneese del Basso Piemonte: da Cortemilia a Prunetto, da Paroldoa Castino, a Camerana, Serravalle Langhe e Niella Belbo.

“Il programma – sottolineano gli organizzatori – è un racconto a tappe, per costruire un percorso immersivo e itinerante”.

La prima tappa, sabato 5 luglio (alle ore 17), ci condurrà all’“Ecomuseo dei Terrazzamenti e della Vite” di Monteoliveto a Cortemilia , con l’inaugurazione dell’installazione “Fairy Ring”di  Stefano Caimi, lecchese di Merate, oggi residente a Montevecchia e docente alla “Naba Computer Art – Nuova Accademia di Belle Arti”.L’opera si presenta composta da una serie di “sfere di acciaio” disposte a forma di anello sul terreno, con l’intento di riportare alla memoria e alla luce il cosiddetto “cerchio delle streghe”, secondo antiche leggende popolari il tracciato delle loro danze rituali. In realtà, nulla più della manifestazione del “micelio”, l’apparato vegetativo, sotterraneo e invisibile, del fungo, mezzo principale di assorbimento e distribuzione dei nutrienti. “L’installazione intende rimarcare – secondo Caimi – la capacità dell’elemento naturale, maestoso o nascosto che sia, di incuriosire e stregare l’essere umano, rompendo le barriere tra razionale e soprannaturale”. E, in questo caso, c’è da dire che il “gioco” appare perfettamente riuscito.  Sempre sabato 5 luglio, l’“Oratorio di San Michele” a Serravalle Langhe, dipinto dall’artista britannico David Tremlett nel 2020, si trasformerà, fino a domenica 13 luglio, in uno “studio d’artista” dove sarà possibile vedere all’opera la videoartista Emma Scarafiotti e il musicistaPaolo Dellapiana .

Domenica 6 luglio, alle 15, gli Otto cieli” , le sculture volanti dell’artista “fanciullino” Oliviero Fiorenzi , voleranno sopra il “Castello di Prunetto”, invitando il pubblico a partecipare all’azione performativa dell’artista marchigiano con il proprio aquilone.

Sabato 12 luglio, la giornata di “Olimpia” si apre, alle 11, a Niella Belbo, con la presentazione di Fioritura” , la plastica essenziale scultura del giovane cremasco Edoardo Manzoni, in cui è ben chiaro l’influsso esercitato da un mondo contadino da sempre, particolarmente caro all’artista e che rimarrà in permanenza alla “Confraternita dei Battuti”.

Alle 15, la “Torre medievale” di Camerana accoglierà Come due gocce d’acqua” , opera site-specific di Dora Perini , realizzata in collaborazione con la “Fondazione Bevilacqua La Masa” di Venezia, mentre, alle 17, alla “Confraternita di San Sebastiano” a Paroldo, si presenterà, in collaborazione con la “Fondazione Recontemporary” di Torino, la mostra “Listen to me, why is everything so hazy?” della fotografa e videoartista milanese Mara Palena.

Ma “Olimpia” non sarà solo “arte visiva contemporanea”.

Domenica 13 luglio, alle 17, a “San Bovo di Castino”, andrà in scena una rilettura di 1984” di George Orwell , un reading sonoro tra letteratura e musica dal vivo a cura dello scrittore Giuseppe Culicchia e del musicistaGiorgio Li Calzi, in collaborazione con il“Firenze Jazz Festival”.

Tutte le opere (fatta eccezione per lo “studio d’artista” di Serravalle Langhe) rimarranno visibili durante i weekend (venerdì, sabato e domenica), fino al 31 agosto.

 

Info e programma completo: www.olimpiacontemporanea.com

g.m.

Nelle foto: Oliviero Fiorenzi “Giant Kite”, 2024 (ph. credit Matteo Natalucci); Stefano Caimi “Fairy Ring”, 2023; Edoardo Manzoni “ Fioritura”, 2023; Giuseppe Culicchia

Renzo Rolando, omaggio alla natura morta

A Casale Monferrato, un singolare omaggio alla natura morta attraverso la personale di Renzo Rolando, versatile artista, pittore, restauratore di affreschi, autore di meridiane e di libri che, con documenti e fotografie del passato, riportano in vita personaggi, artisti, monumenti, chiese, vecchie osterie e botteghe, tutto un mondo suggestivo ormai scomparso ed ancora rimpianto.

GRB

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)

La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 9. La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Il Liberty al Cimitero Monumentale
Il Cimitero Monumentale, un tempo chiamato Cimitero Generale, si trova a Nord della città, in una zona non lontana dalla Dora Riparia, nell’area del Regio Parco. Nel 1827 la città di Torino ne deliberò l’edificazione decidendo di situarlo lontano dal centro abitato, in sostituzione del piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli, nel quartiere Aurora. L’opera si poté attuare grazie alla donazione di 300 mila lire piemontesi del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Aperto nel 1828, su progetto dell’architetto Gaetano Lombardi, con disegno a pianta quadrata dagli angoli smussati, il Monumentale fu presto ingrandito con una parte aggiunta a cura dell’architetto Carlo Sada Bellagio, collaboratore di Pelagio Palagi e vincitore del concorso per la realizzazione della chiesa dedicata al primo vescovo torinese, San Massimo. Seguirono poi necessari ampliamenti, e negli anni tra Ottocento e Novecento l’alta società borghese di Torino affidò a celebri scultori il mandato per la costruzione di imponenti edicole funerarie, a solenne affermazione del prestigio raggiunto dalle singole famiglie. Proprio l’estetica Liberty, sintesi raffinata di natura, tecnica e arte, riuscì ad interpretare il compianto pietoso verso il defunto, delineando il triste tema della morte attraverso pure ed efficaci metafore di una grande arte funeraria.

Tra le opere che possiamo visionare in rigoroso e rispettoso silenzio vi è il Monumento Porcheddu, dedicato al grande ingegnere Giovanni Antonio Porcheddu, che ha introdotto in Italia la tecnica delle costruzioni in cemento armato. Figura essenziale per l’imprenditoria torinese, alla sua impresa si devono imponenti opere, quali l’immenso Stadium del 1911 (demolito nel 1946), il progetto dello stabilimento Fiat Lingotto del 1922, il Ponte Risorgimento a Roma. Il monumento, realizzato dallo scultore Edoardo Rubino e dal decoratore Giulio Casanova, è composto da un semplice sacello marmoreo su cui è posto un corpo femminile, lievemente ricoperto da un lenzuolo che ne lascia scoperto il volto e che scivola appena oltre i bordi del sepolcro. Da una parte e dall’altra di questo, quattro figure femminili, due per ciascun lato, vegliano il feretro: quelle che stanno dal lato del capo porgono su questo le mani un poco rialzate come in segno di protezione, dall’altro lato una delle due donne veglia sul corpo con il capo reclino e l’altra alza il braccio sorreggendo una lampada. La compostezza delle figure lascia trasparire una sobrietà di sapore classico, nei gesti, nei panneggi, nella postura, mentre un delicato senso di pietas avvolge con intensità l’intera struttura compositiva. Sullo sfondo compare una particolare croce con tralci stilizzati di rose nella parte verticale e motivi dorati nel lato orizzontale. Al centro della croce una corona di rose bianche è posta intorno all’inquadratura dorata con la scritta “IHS” (sigla intesa come “Gesù salvatore degli uomini”, ma in realtà è la trascrizione latina abbreviata del nome greco di Gesù). Sulla volta del portico che accoglie il gruppo scultoreo, un cielo stellato d’oro mosaicato su fondo blu inquadra una grande croce.

Un’altra opera che richiama la mia attenzione in questo luogo di assordante silenzio è il Monumento Kuster, realizzato da Pietro Canonica nel 1921. Esso mostra una figura femminile con abito succinto che, inarcando la schiena, si solleva con il busto in posa quasi teatrale, ed emerge da un giaciglio posto di fronte ad una croce. I suoi lunghi capelli sono scompigliati dal vento che gonfia anche un drappo posto sulla croce e agita le foglie morbidamente rappresentate sulla bronzea stele verticale. Tra le note di tristezza e di intenso pathos, vi aleggia in primo piano la spettacolarità della scena, la figura si pone come la “divina” del cinema muto, la nuova arte che nei primi anni del Novecento andava affermandosi in città.La protagonista del Monumento Roggeri è una fanciulla inginocchiata e piegata dal dolore, le mani le coprono il volto, e i capelli fluenti e raccolti dietro il capo le scendono fin oltre la schiena. Il lungo abito, movimentato dal panneggio di morbide linee, scende e si posa sul basamento in travertino e in parte lo ricopre. La nota di un patire intenso e irrefrenabile è il messaggio che viene dalla donna che, inginocchiata e chiusa al mondo, sembra pregare, tormentata da un affanno senza fine. Su di un lato, si intravvede appena la firma di O.Tabacchi, allievo di Vincenzo Vela, al quale succederà nella cattedra di scultura presso l’Accademia Albertina di Torino.

È ancora un’altra fanciulla ad essere al centro della composizione funebre del Monumento Maganza, posta tra colonnine in marmo verde Roja, una giovane dal volto delicato, da cui traspare una espressione affranta; una sottile tunica le avvolge lieve il corpo esile, ha un’acconciatura alla moda, con i capelli corti, il volto, appena piegato e reclinato sulla mano sinistra, sembra voler trasmettere un messaggio di triste rimpianto. Alle spalle, marmorei tralci di fiori e, dietro, la croce. Soffermiamoci ancora sull’opera che si trova sulla sinistra, entrando dall’ingresso principale del Cimitero. Si tratta di un gruppo statuario che comprende una figura velata da un ampio panneggio, rappresentata mentre sta per avvolgere in un abbraccio simbolico una giovane figura femminile in piedi, con le braccia abbandonate lungo il corpo e il capo reclinato su una spalla. Dal basamento crescono steli e boccioli di rosa che paiono voler avvolgere i corpi sovrastanti: si tratta di una sintesi di decorazione Art Nouveau, completata dalla dedica dei committenti. L’opera fu eseguita da Cesare Redduzzi, scultore affermato e insegnante di scultura presso l’Accademia Albertina, più noto ai Torinesi come l’autore dei gruppi scultorei allegorici: l’arte, il lavoro, e l’industria, collocati nel 1909 a coronare le testate verso corso Moncalieri del ponte dedicato a Umberto I.
Moltissimi sono i monumenti funebri di squisito gusto Liberty davanti ai quali sarebbe opportuno soffermarsi, e numerose le figure femminili modellate con l’estetica della Nuova Arte, o che, con il loro atteggiamento da “dive” affrante del cinema muto, sorvegliano le anime di chi non c’è più e accompagnano silenziose gli sguardi di chi le va a trovare.

Alessia Cagnotto

La performance di FUJI|||||||||||TA al MAO Museo d’Arte Orientale

Terzo appuntamento del public program Evolving Soundscapes

nell’ambito della mostra Haori

 

A cura di Chiara Lee e freddie Murphy

Martedì 1 luglio ore 18:30

MAO Museo d’Arte Orientale, Torino

L’edizione di Evolving Soundscapes nell’ambito della mostra Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone chiude con la performance di FUJI|||||||||||TA.

FUJI|||||||||||TA è un sound artist di base in Giappone, la cui ricerca si concentra sull’esplorazione del suono ai limiti di ciò che è udibile.

Il suo lavoro e la sua estetica sono in continua evoluzione: nelle performance, FUJI|||||||||||TA

incorpora suoni sintetici e ambientali per dar vita ad ambienti acustici complessi, in cui le texture si intrecciano e si trasformano come organismi viventi. Corpo, oggetti ed elementi si fondono nella costruzione dello spazio, generando un’esperienza che coinvolge l’ascoltatore a un livello fisico.

Nella sua pratica, l’artista si interfaccia con fenomeni naturali come aria e suoni minimali in risposta al suo interesse nel voler dar voce a rumori inesplorati, ispirandosi alla musica classica giapponese (gagaku).

L’uscita dell’album iki per l’etichetta culto Hallow Ground nel 2020 ha avuto un ottimo successo di critica, che lo ha portato sui palchi di Rewire Festival (NL), Big Ears Festival (US), Bourse de Commerce (FR) tra gli altri.

 

Ingresso incluso nel biglietto di mostra.

Assonanze, dalla carta all’acciaio Corten

Cinque artisti alla Galleria del Ponte, sino al 15 luglio

 

Scrivevo, soltanto un paio di mesi fa, della mostra che Stefano e Stefania Testa – della Galleria del Ponte – avevano ideato, con la cura di Armando Audoli, intorno alla figura di Clotilde Ceriana Mayneri, scomparsa a ottantatré anni nel marzo del 2023, “uno sguardo completo alla sua parabola artistica”, punto d’orgoglio per i responsabili nell’accrescerne sempre più l’interesse e sottrarla a quelle oscurità dentro cui post mortem ricadono certi artisti (“Molti l’hanno guardata, nessuno l’ha vista”, era il titolo della mostra, già di sfiducia se si pensa di voler guardare alle spalle di una esistenza intera). Quindi “un approfondimento, quel riconoscimento che le è dovuto” davanti alle “forme” in bronzo e a quelle terrecotte ricercate come a quei diversi materiali che vanno ben oltre “un semplice assemblaggio”, scrivevo: “sono ricordi tutti colti per intervalli, suggestioni, incontri fortuiti, scelte improvvise, affermazioni di sensazioni, emozioni che nessun altro capirebbe, sono il filo rosso che la lega alla sua scrittrice dell’animo, la Dickinson; quasi la ricerca musicale all’interno del mondo della natura”. In questi giorni (e fino al 15 luglio) Ceriana Mayneri occupa ancora alcuni spazi della medesima galleria, in buona – anzi, buonissima – compagnia, di Sandro Cherchi, di Franco Garelli, di Umberto Mastroianni, e di Riccardo Cordero (unico vivente del gruppo, è nato ad Alba nel 1942, ancora nuove opere in Italia e all’estero), in una mostra dal titolo “Impressioni oltre la materia”, dal vivace interesse, riflessione che vuole esplorare dentro quel rapporto stretto che intercorre – “quasi sempre indissolubile” – tra la scultura e i lavori su carta, o su altri supporti che mettano comunque in relazione il fare tridimensionale dell’artista con una tensione verso la bidimensionalità.”

Qua e là, mentre ci si aggira attraverso le sale, si percepisce con forza sempre maggiore quanto l’idea prima di una scultura venga posata nelle proprie due dimensioni per ampliarsi poi al pensiero “massiccio” dell’autore che coinvolge i valori plastici e i conseguenti “materiali diversi, differenti tecniche e l’uso del colore, pur restando sempre e soltanto ‘scultura’, anche se non a tutto tondo e non ‘plasmata’ nella materia” come noi la riconosciamo. Pertanto ecco lì diversi “ragionamenti intorno alla scultura”, di cinque artisti legati in vario modo al territorio piemontese, una decina di opere su carta esposte o fatte con la carta, come nel caso della “contessina Clotilde”, o ancora lavori che vedano l’uso di materiali cartacei, come i cartoni operati e dipinti di Mastroianni. Dalle pareti agli angoli più interni delle stanze il passo è breve per ammirare quel singolo esempio, al massimo due, di ogni singolo artista di un operato che definiremo davvero “scultura”, posto in dialogo con quella che è stata la propria radice.

Quindi gli assemblage di Ceriana, un polimaterico come “Crimea” del 2012 raggiungere la bidimensionalità attraverso carte e intrecci, fili colorati e quasi impercettibili rami, sovrapposizioni, scritture e rimandi linguistici che guardano a Emily Dickinson, pezzi di natura disposti poeticamente per guardare all’intimità. Da pensare all’interno di un ventennio che corre tra i Cinquanta e i Settanta le opere di Sandro Cherchi (è morto nel 1998, genovese di nascita ma torinese d’adozione, uno dei protagonisti della scultura informale italiana ed europea, un rapporto privilegiato con il disegno fin dagli anni di “Corrente”, piccola rivista fondata a Milano nel 1938 da Ernesto Trecani appena diciassettenne, punto di riferimento di un’azione artistico-culturale collettiva), una cartella di disegni – monocromi o alcune volte interessati da interventi di colore -, tecniche miste su carta con sagome umane, veloci e raffinate, che ruotano attorno a “Cassandra”, bronzo del 1955. Sono realizzati tra il 1960 e il ’66 i dieci pezzi inediti di Franco Garelli (nativo di Alba e trasferitosi a Torino con i genitori all’indomani della Grande Guerra, una laurea in Medicina e Chirurgia, scomparso nel 1973), interessanti smalti e collage su carta e tecniche miste su cartoncino, sovrapposizioni dove spiccano i bianchi e i gialli, vivacemente squillanti, o quelle ampie macchie rosate che s’alternano al nero (“Collage”), esperimenti che lo trasportano a una realtà esplicitamente tridimensionale, di cui qui è esempio “Nastri” del 1961. Personalità di spicco nel panorama della cultura e della scultura torinesi del Novecento, Mastroianni ci offre il misteri di tante atmosfere, “La foresta impenetrabile “ e “Vascello fantasma”, entrambi del 1967, su carta incisa, sbalzata e strappata, ne sono i validi esempi, mentre “Maternità”, bronzo del 1962, “restituisce tutta la forza espressiva del gesto plastico di Mastroianni, in grado di essere al tempo stesso delicato e brutalmente incisivo.”

Di Riccardo Cordero – ancora una nascita ad Alba, classe 1942, allievo di Cherchi e Garelli – in mostra opere che ricoprono un arco d’anni che va dal 1964 sino ai giorni nostri (progetti eseguiti con grafite, carbone, carbone pressato, sanguigna e rari interventi di spray), dove il visitatore non dovrà lasciarsi sfuggire il “Giocatore di baseball”, carbone e acrilico su carta del 1964, espresso con grande vitalismo nella scelta del bianco nero e grigio, con un nervosismo di tratti che ben lascia individuare il guizzo dinamico del campione; come le linee ricurve e verticali e le semicirconferenze dei progetti “053” e “054” accompagnano facilmente al recente bozzetto in acciaio Corten per la scultura “Aletai”, ispirata all’omonimo meteorite ritrovato nel 1898 nella regione settentrionale dello Zinjiang, in Cina. Sottolineava – e ampliava – Martina Corgnati in occasione della mostra “Giganti dell’età del ferro. 1960 – 2013”, realizzata al Filatoio di Caraglio dodici anni fa: “Non a caso, già nel 1964, si affaccia nella sua elegantissima produzione un interessante elemento di rottura: penso a quei giocatori di baseball, o di football, a quegli astronauti che l’artista realizza per lo più in poliestere, dichiaratamente artificiali e violenti. Questi ometti dotati di elmetti che li rendono simili a guerrieri, sembrano parenti stretti, o meglio eredi, delle creature ‘nucleari’ inventate da Enrico Baj negli anni Cinquanta per rappresentare l’umanità futura. Ecco, ancora una volta, un riferimento alle avanguardie milanesi e anche all’umanesimo implicito in quelle ricerche che risalivano all’inizio del decennio precedente e che attribuivano all’arte una intensa responsabilità dell’uomo, della civiltà e della natura.”

In occasione della mostra, da segnalare, in galleria, oggi giovedì 26 giugno alle ore 18, una conversazione dal titolo “Anima Corpo Materia”, a cura di Ettore Ghinassi.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Riccardo Cordero, “Studio giocatore baseball”, 1964, carbone e acrilico su carta, cm 70 x 49,8; Franco Garelli, “Collage”, tecnica mista su carta, 1960; Clotilde Ceriana Mayneri, “Mosaico”, tessere musive e ferro, s.d.

Il Cartoliniere alla Confraternita

Sono circa 400, fra cartoline disegni ed incisioni, le opere di Antonio Mascia esposte ad Acceglio alla “Confraternita di Chiappera”

Fino al 10 luglio

Chiappera – Acceglio (Cuneo)

Origini bolognesi, classe 1960. Al secolo, Antonio Mascia. In arte, l’“Artigliere Cartoliniere” o il “Dragone Cartoliniere”, appellativi derivatigli dal suo essere, da anni, “disegnatore ufficiale” e “socio volontario” dell’Associazione “Amici del Museo Pietro Micca e dell’Assedio di Torino del 1706”, con tanto di uniforme appartenente ai “Dragoni del Piemonte”. Vesti sotto le quali Mascia ha di recente esposto, in una suggestiva mostra (circa 200 opere originali, tutte realizzate a mano, fra cartoline, disegni, incisioni, quadri, taccuini, perfino una cassetta postale e un tamburo) al “Mastio della Cittadella” di Torino. Lì, anche se prevalentemente ristrette al mondo militare sabaudo, abbiamo conosciuto le sue opere, decisamente originali, decisamente suggestive, decisamente oceani di fantasia. “Ironico giocoliere dell’immagine”, attratto in particolare e in modo viscerale alla realizzazione di cartoline illustrate, campo dov’è imbattibile per perizia tecnica e geniale inventiva, Mascia è oggi – e fino a giovedì 10 luglio – ospitato con una ricchissima personale nella sede settecentesca della “Cappella di San Gregorio” appartenente alla Compagnia della Confraternita dei “Disciplinanti del Gonfalone” di Borgata Chiappera, frazione della cuneese Acceglio, in Valle Maira.

Fra i momenti clou del calendario di eventi culturali pensati per l’estate accigliese 2025 dalla “MAMO Educational Foundation” (Fondazione No Profit nata nel 2019, operante nel campo dell’educazione e della formazione accessibile a tutti), in collaborazione con l’“Accademia Albertina di Belle Arti” di Torino, sotto il patrocinio del “Comune di Acceglio” e dell’“Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Saluzzo”, la rassegna torna piacevolmente a ripresentarci mondi che attingono al reale trasformandolo, attraverso gesti e colore, in universi di pura innocente infantile fantasia, dove esseri umani, natura e mondo animale paiono aver trovato la più perfetta sintesi di un vivere comune in cui parole come pace, gioco, gioia hanno ancora un senso nel guidare la normale quotidianità dell’esistenza. Oggi così brutalmente messa all’angolo. In fondo, basta poco. Un semplice picnic dai mille colori e dalle mille risate (fra buon cibo, bicchieri di vino che van giù ch’è un piacere, bikini e improbabili “canottierone” da battaglia a contenere gli eccessi di grasso di “panzuti” omini e omoni gaudenti in piena festa); o ancora aquiloni, velieri, fiori e fanciulle spinte in magici voli dal semplice innocuo alitare di un bimbo o di un omone barbuto accanto a un altro impeccabile in abito tirato, occhialini e cravatta. Disegni policromi, incisioni, acrilici, sculture e installazioni, ma soprattutto le sue cartoline: in mostra sono loro (antico strumento di comunicazione – la prima pare essere stata emessa dalle Poste dell’Impero Austro – Ungarico il 1° ottobre del 1869) a guidare la più attenta visita. Realizzate a penna biro e colorate con matite, le tematiche variano e svolazzano in piena libertà. A dar di briglia alla pura invenzione, l’assoluto equilibrio dei giochi cromatici. “Disegno cartoline – sottolinea lo stesso Mascia – da anni. Le ho scelte come modalità d’espressione perché fanno parte di un taccuino di viaggio immaginario, inoltre sono semplici e comprensibili a tutti … Sono delle miniature, piccoli quadri, ma per me diventano disegni volanti. Le prime risalgono al 1980 e sono state realizzate per la mia fidanzata di allora, diventata mia sposa. Avevo promesso di scriverle tutti i giorni! Ma io non sono uno scrittore”.

In mostra tutte le cartoline sono corredate – cosa di certo particolarmente gradita ai filatelici o ai semplici collezionisti e appassionati delle cartoline postali – da un apposito “annullo postale” ideato per l’occasione dal “Cartoliniere” e accompagnato da una originale “cartolina invito” e da un “manifesto”. Inoltre (attenzione!), sabato 5 luglio, dalle 11 alle 17, il pubblico sarà accolto da una vera e propria “postazione da campo” organizzata da Poste Italiane all’interno della quale si svolgeranno le procedure ufficiali di annullo con il timbro della mostra sulle cartoline invito. Una preziosa “cassetta postale da viaggio” è già stata messa disposizione nella giornata inaugurale, domenica 8 giugno. Saranno anche messe in vendita decine di cartoline (editate in questi anni) e ben visibili sull’inconfondibile raccoglitore espositivo.

Scrive Antonio Musiari, curatore della rassegna: “Nelle cartoline di Mascia si condensano microracconti in cui i luoghi e le persone circondano da sempre l’operato dell’artista alle prese con una particolare forma d’arte che alcuni hanno voluto accostare alla ‘Mail Art’ seppure sia più giusto ritenere che egli disegni le cartoline per un naturale processo di conoscenza del mondo attuato secondo una personale visione”. Parole pienamente condivisibili.

Gianni Milani

“Il Cartoliniere alla Confraternita”: Confraternita di Chiappera – Acceglio (Cuneo); tel. 376/2183156

Fino al 10 luglio /Orari: giov. – dom. 15/19

Nelle foto: Antonio Mascia “Picnic a Chiappera” Big cartolina; Antonio Mascia; “NORDsudEST”; “Un, due, tre, GIOIA!”