Sugli schermi arriva da Cannes “Fuori” di Mario Martone
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
L’ultimo istante è uno sguardo in macchina, pensoso e dolente, a testimoniare una vita difficile, una tempesta di sentimenti, l’alternarsi caotico dei rapporti, le scorribande e i momenti intimi, il “dentro” e il “fuori” che abbiamo attraversato lungo i 117’; lo ha preceduto una manciata di minuti di altissimo cinema, quando riusciamo finalmente a mettere a fuoco il personaggio di Roberta, una ragazza che da sempre entra ed esce dal carcere, la sua voglia di ribellione e di libertà, la sua inadeguatezza al mondo, le sue debolezze, le sue risate forse forzate ma liberatorie, con una valigia piena zeppa di lettere che ha tirato fuori dal deposito bagagli della stazioni Termini, legami con i compagni e un processo in pendenza per banda armata (siamo nel 1980, in una scena precedente un calendario aveva mostrato la data del due agosto), la sua lenta fuga e lo smarrimento della scrittrice Goliarda Sapienza a cui “Fuori” Mario Martone ha dedicato, unico rappresentante dell’Italia a Cannes e uscito a mani vuote.
Martone, con l’abituale collaborazione alla sceneggiatura della moglie Ippolita Di Majo, ha ricavato il film sulla base dei romanzi di Goliarda, di intima vena autobiografica, “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio” – riportati alla luce dal marito Angelo Pellegrino, caratterista della commedia all’italiana ma anche presente con Bertolucci in “Novecento” o con Tornatore in “Malèna”, come con grande fatica e accanimento pubblicò a sue spese il migliaio di copie dell’”Arte della gioia” due anni dopo la morte dell’autrice -, frutto sulla pagina dell’esperienza carceraria della scrittrice, dopo l’impulsivo furto di pochi gioielli nella casa di un’amica, un luogo – le mura e le celle del carcere – dove ha toccato con mano l’iniziale sospetto ma dove ha ritrovato egualmente se stessa, l’accoglienza e l’amicizia e la solidarietà, per guardare poi in faccia la difficoltà nel tornare alla vita di ogni giorno, “a un mondo che non capisce il diverso e non perdona gli errori”, quello che la obbligava a cercare l’occupazione di correttrice di bozze che le salvasse le bollette e lo sfratto. Più facile quel gruppo d’amiche insomma che i salotti della Roma bene. Più facile la quotidiana costruzione del “tempio dell’amicizia” che non rapporti non sentiti e indesiderati. Un’amicizia, una stretta sorellanza, una femminile complicità che nei giorni di piena libertà continuerà a fortificare con Roberta soprattutto e con Barbara, tra telefonate e appuntamenti e una allegra gita al mare (che certo avrebbe necessitato di una maggior estensione, magari senza spingersi in quella doccia a tre, tanto sottolineata nelle colonne dei giornali, che peraltro il regista filma con estremo pudore e delicatezza), occasioni a intonare con quelle che ancora stanno là “dentro” “Sinnò me moro”: un Rustichelli d’annata, dal “Maledetto imbroglio” di Germi, ieri come oggi nella voce di Luisa De Santis.
Martone, con l’aiuto eccellente del montaggio di Jacopo Quadri, non ha scelto la linearità del racconto ma ha saggiamente quanto nervosamente inquadrato, vivificandola, la vicenda di Sapienza – contrariamente a quanto scritto nei giorni scorsi da “Variety”, bibbia festivaliera: “ripetitivo e noiosamente non lineare, tenta qualcosa di più impressionistico ed espansivo, con risultati emotivamente muti e talvolta stranamente strumentali” – in un continuo passato e presente, in un frammentarsi e ricomporsi che rendono vitale ogni episodio, in un “dentro” e un “fuori” che sono l’anima della narrazione, in un andamento imprevedibile che a ogni passo irrobustisce l’azione senza relegarla mai in quella consequenzialità che avrebbe finito per renderla debole e anonima. Quello che semmai manca al film di Martone, nella sua scelta di scrittura e registica, è lo scavare a fondo nella descrizione, nel chiarire e nello scoprimento da parte dello spettatore quindi, dei sentimenti dei due principali personaggi soprattutto, Goliarda e Roberta, le rabbie e le riconciliazioni, i vuoti e i pieni ci verrebbe da dire di una relazione: ma forse, questa, una imposizione a se stesso, un raccontare sfocato, considerato e lasciato, non allineato, affidato agli altri nelle sue conclusioni.
Barbara è Elodie, sempre più presenza cinematografica. Da applauso incondizionato le interpretazioni di Valeria Golino, una Goliarda catturata da un mondo che non ha mai pensato di considerare suo ma che è un panorama senza limiti e confini di amicizia e di libertà insperate, il suo mondo intero controverso (lo spezzone finale con Enzo Biagi è lì giustamente a spiegare i dissapori e i dubbi con la “normalità” che sta fuori), forte, umanamente sballottata, incredula a tratti; soprattutto la Roberta di Matilde De Angelis, una trentenne attrice che cresce a vista d’occhio, mostra tutta la ribellione del personaggio come pure le tante crepe, di vita e di affettività, in una maniera estremamente sincera, con il corpo e la mente e gli occhi, con la voce imperfetta, con i suoi improbabili tacchi a spillo, con il suo grande bagaglio di attrice pronta a prove sempre più ardite e alte.
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