Il controverso “Parthenope” con Celeste Dalla Porta, bellissima e intrigante
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Si snoda, tra colori e zone d’ombra, l’arco pressoché intero della vita di Parthenope, nata nell’acqua del mare come la sirena che le ha dato il nome, quel mare azzurro (il primo nome che mi viene in mente, in questo inizio, è quello di Raffaele La Capria, e del suo “Ferito a morte”) che è nascita e vita ma che può anche accogliere il suicidio del fratello (un convincente Daniele Rienzo) della bellissima protagonista, innamorato di lei e geloso di quel Sandrino (Dario Aita) che con lei avrà il primo rapporto sessuale: in una mescolanza di consapevolezza della sconfitta e di gelosia, in uno sguardo convinto e convincente ai “Dreamers” di Bertolucci. “Pathenope” di Paolo Sorrentino, presentato a Cannes con esiti opposti, è favola e realtà, è elegia volta allo scorrere del tempo, un ampio mosaico che potrebbe non avere confini, luccicanti bellezze e un insieme di atrocità abnormi, un attraversamento dei gironi della città come attraverso la Roma della “Grande Bellezza” poteva passeggiare il disincanto di Jep Gampardella. Sotto gli sguardi di tutti (perché non ritrovarci dalle parti di “Malena” di Tornatore?), sotto il desiderio di tutti. Il sole, il mare, i panorami di luce a lungo ripresi ma non è la felicità perché “non si può essere felici nella città più bella del mondo”. “Parthenope” è il mistero, la giovinezza, anzi l’illusione della giovinezza, una giovinezza dove anche è venuto a mancare un abbraccio paterno, perché “è stato meraviglioso, ragazzi, è durato poco”, dirà la Parthenope matura di Stefania Sandrelli, che se n’è andata, scappata a fare la professora ordinaria a Trento, per poi ritornare, senza rimpianti, con un sorriso finale. Lungo i 138’ è passata più di una volta, al centro di una colonna sonora bellissima, “Era già tutto previsto” di Riccardo Cocciante.
Se prima avevamo visto – e preferito – con “È stata la mano di Dio” il Sorrentino più intimo e personale, adesso guardiamo al fuori, all’altro, a quel destino che ha continue giravolte e incontri, speranze e disillusioni, a volte ogni cosa fatta di vera commozione, tutta femminile. Lunga settant’anni e poco più, tra il 1950 e il ’73 per assaporare tutta la gioia dello scudetto al Napoli, dentro una trama che trama non è, come poteva essere “Roma” felliniana, una storia zigzagante che racconta amori giovanili, il nume di Achille Lauro – l’armatore, per carità, non il cantante! – che nel suo abito bianco regge un’intera città e sforna protezioni e lunghe tavolate e dona, direttamente da Versailles, una carrozza d’oro, che sarà letto per la principessa appena nata; la scelta universitaria poi degli studi d’antropologia (“l’antropologia è vedere” sarà la grande verità forgiata per lei dal mentore ormai pensionabile e in odore di tramandare la cattedra: e “vedere” è così difficile, troppo facile il “guardare”) interrotta momentaneamente da qualche press agent in avanscoperta che vorrebbe portarla sui sentieri del cinema, previa consultazione di una Isabella Ferrari da viso perennemente ricoperto, a nascondere un intervento non del tutto riuscito. Ed è anche: il corteggiamento da bordo di un elicottero di un giovane boss della camorra che prima ti offre frutti di mare per accompagnarti poi tra i vicoli di Rione Sanità a dispensare quattrini e a sbirciare tra i bassi, tra i cumuli di miseria, tra le donne sfatte e i femminielli in attesa, a far calar giù dai balconi certi azzurrati panierini (uno dei momenti più suggestivi del film) per essere riempiti, là dove dinanzi a quello che è un pubblico teatrino due ragazzi concepiranno il figlio che metterà pace tra due opposte famiglie.
Le feste nei grandi palazzi che sostituiscono la fragorosa terrazza romana della “Grande Bellezza” – e qui davvero di “grande bellezza” non ce n’è più, maggiore è il degrado, la corruzione, la nostalgia che prende a rotolare tra i vicoli, la povertà, la religiosità ostentata e camuffata; l’apparizione della grande attrice, che è emblema e cornice tutta della città, metti – certo non per assurdo – una Loren che ha le sembianze perfette di Luisa Ranieri, che dopo la zia Patrizia di “È stata la mano di Dio” diviene il cameo d’obbligo e insuperato del regista – nella sua grande parrucca posta a nascondere la calvizie, la sua parure di smeraldi, e la sua bocca che vomita roventi rimproveri e disillusioni (“ve ne andate a braccetto con l’orrore e non lo sapete, siete solo trasandati e folcloristici, con l’abitudine di piangervi addosso, sempre”), pagata con una miseria in luogo dell’assegno ben maggiore pattuito, ma con altro esito; è l’urticante religioso Tesorone che Beppe Lanzetta incarna, ripugnante nel proprio eros che alterna al miracolo di San Gennaro, in una celebrazione che accomuna superstizione e realtà e truffa, è il percorso universitario, composto e svolto sotto la guida del professor Marotta (altro aggancio a Napoli, un sempre più straordinario Silvio Orlando), l’unico dallo sguardo e dall’abbraccio innocente e disinteressato, portatore della tragedia di quel figlio mostro “fatto di acqua e sale”, biancastro, lattiginoso, un sorriso perso nell’enormità del corpo e nelle vene che gli si disegnano addosso, uno di quei “mostri” ancora una volta che Napoli genera. Forse anche qui una pagina che confina con il fellinismo, un essere informe arenato sulla spiaggia della “Dolce vita”.
È questo e altro ancora “Parthenope” di Sorrentino, nella splendida fotografia di Daria D’Antonio, il suo primo film al femminile, dallo e attraverso lo sguardo di una donna, un film spezzato nelle tante sue parti, che hanno è vero un centro nella protagonista ma che troppo spesso si sciolgono negli episodi che si susseguono, taluni scritti per poter vivere di vita propria, di poter correre a far parte di un altro film, episodi inconclusi di cui non si sente alcuna necessità, come potrebbe essere la presenza vuota di Gary Oldman e del suo poeta John Cheever. Mentre sono piene di luci cinefile le memorie cinematografiche (anche un piccolo omaggio a De Sica, con il funerale di Riccardo, prima che divampi il colera: ancora un mostro), convincenti certe annotazioni di costume, non soddisfano l’eccessivo ricorso al ralenti, il traboccare che è sempre in agguato, taluni vuoti di scrittura, le troppe frasi a effetto, la mancanza di quella trama che abbiamo capito a Sorrentino non interessa. Restano complete la bellezza e la bravura della protagonista Celeste Dalla Porta, intrigante ad ogni inquadratura, capace di sopportarla benissimo, di fronteggiare l’obiettivo con sicurezza, di porsi vestita dei gioielli del Tesoro o in striminzito bikini con la stessa padronanza di autentica attrice, sempre credibile nella costruzione del personaggio, che è ricco di ogni sfumatura e di una tangibile crescita. E allora, come Parthenope, in un rimando continuo, Sorrentino ci suggerisce Napoli bella e per molti impossibile, illusoria, frutto del caos, accogliente o da respingere: forse anche il cinema di Sorrentino è così. Però esci dal cinema e cominci a discuterne. Anche questo è il bello, l’amore convincente del Cinema.
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