Nelle sale di Palazzo Chiablese, sino al 15 settembre
Più di cento opere, tra disegni e oli, provenienti da oltre trenta importanti musei e collezioni – ad iniziare da quell’”Autoritratto” introduttivo, un uomo di quarant’anni fiero di (rap)presentarsi elegante nel proprio abbigliamento che sottolinea il prestigioso status sociale, esempio raro lontano dal seguire la produzione senza posa, un po’ troppo spavalda, di un Rembrandt ad esempio, ricavato dalla Schoeppler Collection londinese: e poi dai Musei di Cento, la città natale, Genova con i Musei di Strada Nuova e Firenze con Uffizi e Pitti, dai Musei Reali di Torino, che per l’artista hanno un vero e proprio culto, e Modena e Bologna, dalla Galleria Borghese di Roma al Monastero di San Lorenzo all’Escorial di Madrid alla Fondazione Cavallini Sgarbi di Ferrara – per ospitare nelle sale torinesi di palazzo Chiablese sino al prossimo 28 luglio la vita e il percorso artistico e il successo di uno degli artisti tra i più acclamati dell’arte seicentesca, Giovanni Francesco Barbieri (1591 – 1666) detto il Guercino, per via di quell’imprudenza che qualcuno fece vicino alla sua culla: “ci fu chi vicino a lui proruppe d’improvviso in grido così smoderato e strano che il fanciullo, svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi per siffatta guisa che la pupilla dell’occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare”, come tramanda il biografo.
Curata da Annamaria Bava dei Musei Reali di Torino e da Gelsomina Spione dell’Università degli Studi di Torino – Dipartimento Studi Storici, la mostra “Guercino. Il mestiere del pittore” è suddivisa in dieci Sezioni – i fondali di un rosso e di un blu intensi lasciano emergere con grande importanza ogni opera: magari con qualche mancanza di luce in alcune parti più laterali o inferiori, magari con qualche testo esplicativo posizionato troppo in basso rispetto alla tela dentro cui cade comodamente l’occhio del visitatore -, la mostra guarda non soltanto ad una produzione che non può fare a meno della presenza dei maestri e dei colleghi coevi (Annibale e Ludovico Carracci, Scarsellino, Agostino Tassi, Domenichino, Guido Reni, Cesare Gennari) ma pone al centro dell’esposizione, in un cammino ben concatenato, il mestiere del pittore nel Seicento: i sistemi di produzione, l’organizzazione della bottega, le dinamiche del mercato e delle committenze, i soggetti più richiesti. Come non può fare a meno della figura di Paolo Antonio Barbieri, fratello dell’artista e pittore egli stesso, specializzato nelle nature morte, collaboratore nell’arte (“L’ortolana”, da una collezione privata, esempio di collaborazione, il personaggio del Guercino a contare l’incasso dell’uno, pronto l’altro a predisporre la bilancia e gli asparagi, i grappoli d’uva e i fichi, i funghi e le prugne) e nell’andamento della vita di ogni giorno, grazie al Libro dei conti arrivato sino a noi (è custodito a Bologna presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio), avviato nel 1629, in cui sono scrupolosamente registrati il titolo onorifico e il nome dei committenti, la provenienza, i soggetti dei dipinti e la spesa totale convertita da ducatoni in scudi, riassumendo ad ogni fine anno il conteggio del denaro riscosso per i quadri, le spese per la casa e il mantenimento della famiglia.
Il libro ci catapulta felicemente – e la mostra ne offre piena e godibilissima testimonianza – in un’epoca lontana, nelle stanze del lavoro, nelle necessità, nelle tariffe di questo e di quell’artista, legate alla celebrità e al successo, in quelle committenze che più o meno annualmente numerose arrivavano dai privati e dal mondo religioso, dai borghesi e dai nobili, dai pontefici: “Dal Libro emerge l’ampiezza della produzione dell’atelier e il suo sistema per definire il prezzo delle opere con il ricorso a un tariffario fisso: una figura intera costava 100 ducatoni, una mezza figura 50 e una testa 25, utilizzando una programmatica impostazione economica che poteva però subire degli adattamenti in base ai committenti e agli intermediari e che varia notevolmente nel corso della carriera artistica del Guercino. Incideva sul prezzo delle opere anche il materiale e la scelta dei colori utilizzati, alcuni dei quali particolarmente costosi e prestigiosi come le lacche e il blu di lapislazzuli”, illustrano le curatrici.
Importante, nel 1616, mutando le raffinatezze legate alla rappresentazione del paesaggio (un esempio per tutti, il “Concerto campestre”, un olio su rame dalla pregevole composizione, la brigata di giovani musicanti e le presenze femminili da un lato e la natura a essere protagonista dall’altro, tra il fiabesco e il realistico), fu l’apertura dell’”Accademia del nudo” da parte del Guercino, divenuta presto punto di riferimento per molti giovani artisti: capolavoro di quegli anni (1619) è il “San Sebastiano curato da Irene”, proveniente dalla Pinacoteca di Bologna, commissionato da Jacopo Serra, cardinale legato di Ferrara e raffinato mecenate del pittore, promotore di varie opere (capace di “relegare” il pittore nella propria casa, per cui questi si sentì obbligato a rivolgersi in alto nella speranza di poter proseguire verso la corte di Mantova), opera eccelsa di “straordinaria potenza anatomica e scenica”, dove tra luci e ombre dal gruppo di personaggi fuoriesce potente il corpo ferito del santo.
Come importantissimo – in una Cento che in quegli anni è un vivace centro, economicamente e culturalmente, altresì forte della sua posizione strategica tra Bologna e Ferrara – fu l’incontro con padre Antonio Mirandola, arrivato nella piccola città nel 1612 e ponte indiscutibile tra il pittore e i notabili che avevano iniziato a conoscerlo e ad apprezzarlo affidandogli numerosi incarichi. Fu grazie alla mediazione del Mirandola se Guercino entrò in stretto contatto con la prestigiosa famiglia dei Ludovisi: tra il 1617 e il 1618 il pittore eseguirà per il cardinale Alessandro, già nunzio apostolico presso la corte di Torino ed eletto pontefice tre anni dopo con il nome di Gregorio XV, quattro grandi tele, riunite insieme oggi per la prima volta in una delle sale del Chiablese dopo quattrocento anni: “Lot e le figlie” proveniente da San Lorenzo a El Escorial, “Susanna e i vecchioni” prestata dal Prado, la “Resurrezione di Tabita” dalle Gallerie degli Uffizi-Palazzo Pitti e “Il ritorno del figliol prodigo”, di casa nei nostri Musei Reali. Opere da cui appieno emerge il talento dell’artista, la sua padronanza delle forme e del colore, la sua grande teatralità, opere alle quali Ludovico Carracci, chiamato a giudicarle e a valutarle, “attribuirà una valutazione molto alta, degna di un pittore esperto”. Opere, e non soltanto quelle, che porteranno Guercino a Roma, sempre più sotto l’ala protettrice del nuovo pontefice, per occasioni di incarichi importanti presso la corte papale e l’intera nobiltà della capitale.
Da Torino, dalla chiesa di San Domenico, proviene uno dei capolavori della mostra, la “Madonna del Rosario” realizzata nel 1637, omaggio del Ludovisi a Carlo Emanuele I di Savoia, da circa sessant’anni non più spostata dalla sua sede abituale e con emozione posta in extremis nel percorso della mostra. In un perfetto gioco di diagonali, con la Vergine al centro, e un gioco di santi e di angeli e di popolo, la “Madonna” torinese è uno degli esempi più significativi della potenza scenografica e di quell’incanto barocco che hanno contraddistinto gran parte dell’attività artistica del pittore. Come non si dovrà che ammirare, sul finire dell’esposizione, meravigliosamente posta nel medesimo discorso della costruzione scenografica, della pomposa incisività, della maestria nel predisporre e nel “descrivere” i vari personaggi chiamati a popolare l’ambiente, la tela “Damone e Pizia” (1632), proveniente dalla collezione Rospigliosi di Roma, un racconto di congiure e di clemenza sotto la tirannia di Dionisio siracusano che pare esserci trasmesso dall’occhio colloquiante con noi del soldato posto nella parte inferiore della scena, in una suggestivamente cromatica bellezza di abiti e di copricapi e di armature che riportano lo spettatore di oggi all’epoca del Guercino. Quasi un esercito di figure, un esercito d’arte che lascia il visitatore “maravigliato”, autentici colpi d’occhio che fanno parte del secolo della “maraviglia”: allineandoci a quanto scrisse Carlo Malvasia, nel suo “Felsina Pittrice” del 1678: “Sono anche mostruose, e formidabili le falangi de disegni che schierandosi più de gli altri ne più adorni gabinetti, sfidano coraggiosamente qual siasi mai stat’altra leggiadra penna (…), essendo anch’essi que’ del Sig. Gio. Francesco così spiritosi guizzanti, bizzarri, e galanti, che ben danno a conoscere quanto più di qualsiasi altro fosse nato Pittore, e fatto dalla Natura.”
Elio Rabbione
Nelle immagini: Guercino, “Autoritratto”, 1630-32, olio su tela, Londra, Schoppler Collection; “San Sebastiano curato da Irene”, 1619, olio su tela, Bologna, Pinacoteca Nazionale; “Il ritorno del Figliol prodigo”, 1617, olio su tela, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda; “Damone e Pizia”, 1632, Roma, coll. Rospigliosi; “Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina da Siena”, 1637, olio su tela, Torino, San Domenico (proprietà del Fondo Edifici di Culto gestito dal Ministero dell’Interno).
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