STORIA

Carlo Felice Trossi, un eroe incompiuto

E’ in corso la mostra Carlo Felice Trossi – Eroe incompiuto al Mauto, Museo Nazionale dell’Automobile. Aperta sino al 28 settembre 2025, la mostra permette di scoprire una figura di spicco del mondo del design automobilistico, navale e aeronautico. Tra le chicche, il Cinemobile, uno dei pochi esemplari al mondo di cinema ambulante degli anni ‘20.

Quando il re e Cavour inaugurarono il Conte Verde

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, davanti al Comune, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia

Situato al centro di piazza Palazzo di Città, dove risiede il Palazzo Civico sede dell’amministrazione locale, il monumento rappresenta Amedeo VI di Savoia detto il Conte Verde, durante la guerra contro i Turchi, mentre trionfante ha la meglio su due nemici riversi al suolo. La riproduzione dei costumi mostra grande attenzione ai particolari secondo i canoni “troubadour” e neogotico, stili in voga nell`Ottocento, ispirati al medioevo e al mondo cortese-cavalleresco.

 

Figlio di Aimone, detto il Pacifico e di Iolanda di Monferrato, Amedeo VI nacque a Chambery il 4 gennaio del 1334. Giovane, scaltro ed intraprendente, Amedeo VI in gioventù partecipò a numerosi tornei, nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde, tanto che venne appunto soprannominato Il Conte Verde: anche quando salì al trono, continuò a vestirsi con quel colore. Il monumento a lui dedicato non venne però realizzato subito dopo la sua morte ma bensì nel 1842, quando il Consiglio Comunale, in occasione delle nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide arciduchessa d`Austria, decise di erigere il monumento al “Conte Verde”. Il modello in gesso della statua, ideata da Giuseppe Boglioni, rimase nel cortile del Palazzo di Città finché re Carlo Alberto decise di donare la statua alla città. La realizzazione del monumento, che doveva sostituire la statua del Bogliani, venne però commissionata all’artista Pelagio Palagi. I lavori iniziarono nel 1844 e terminarono nel 1847, ma la statua rimase nei locali della Fonderia Fratelli Colla fino all’inaugurazione del 1853. Il gruppo statuario rappresenta Amedeo VI di Savoia in un episodio durante la guerra contro i Turchi alla quale partecipò come alleato dell’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo. Ma qui subentra una piccola diatriba scatenata dall’ “Almanacco Nazionale” che vedrebbe come protagonista del monumento non Amedeo VI ma bensì suo figlio Amedeo VII detto invece il “Conte Rosso”, durante l’assedio alla città di Bourbourg nella guerra contro gli Inglesi. Il 7 maggio 1853 re Vittorio Emanuele II inaugurò il monumento dedicato al “Conte Verde” alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour. All’inizio la statua venne circondata da una staccionata probabilmente in legno, sostituita poi da catene poggianti su pilastrini in pietra e quindi da una cancellata.Nel 1900 il Comune decise di rimuovere la cancellata “formando un piccolo scalino in fregio al marciapiede”; una nuova cancellata, realizzata su disegno del Settore Arredo e Immagine Urbana, venne collocata intorno al monumento in seguito ai lavori di restauro effettuati nel 1993. Per dare anche qualche informazione di stampo urbanistico, va ricordato che la piazza in cui si erge fiero il monumento del “Conte Verde” ha subito negli anni numerose trasformazioni.Piazza Palazzo di Città è sita nel cuore di Torino, in corrispondenza della parte centrale dell’antica città romana. L’area urbana su cui sorge l’attuale piazza aveva infatti, già in epoca romana, una certa importanza in quanto si ritiene che la sua pianta rettangolare coincida con le dimensioni del forum dell’antica Julia Augusta Taurinorum, comprendendo anche la vicina piazza Corpus DominiPrima della sistemazione avvenuta tra il 1756 e il 1758 ad opera di Benedetto Alfieri, la piazza aveva un’ampiezza dimezzata rispetto all’attuale. All’inizio del XVII secolo, Carlo Emanuele I, avviò una politica urbanistica volta a nobilitare il volto della città che essendo divenuta capitale dello Stato Sabaudo doveva svolgere nuove funzioni amministrative e militari; piazza Palazzo di Città con annesso il “suo” Palazzo di Città (noto anche come Palazzo Civico), ne sono un esempio lampante. Nel 1995, sotto il controllo della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, sono stati avviati i lavori di riqualificazione della piazza; la totale pedonalizzazione, la rimozione dei binari tranviari che collegavano Via Milano a piazza Castello e la realizzazione di una nuova pavimentazione, hanno restituito ai cittadini una nuova piazza molto più elegante e raffinata. Da ricordare come piccola curiosità, il fatto che per tutti i torinesi piazza Palazzo di Città sia conosciuta con il nome di “Piazza delle Erbe”, probabilmente a causa di un importante mercato di ortaggi che, nell’antichità, aveva sede proprio in questa piazza. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Emma Strada, la prima donna ingegnere in Italia si laureò a Torino

Era il 5 settembre 1908 quando una torinese, Emma Strada di 24 anni con il numero di matricola n.36, divento la prima ingegnera d’Italia.

Classe 1884, figlia d’arte, suo padre fu ingegnere civile con un suo studio in citta’, si iscrisse al Regio Politecnico, che una volta aveva la sede al Valentino, dopo aver conseguito il diploma di liceo classico presso la scuola Massimo D’Azeglio.

In Italia le donne furono ammesse all’universita’ solo nel 1874 e la prima donna in assoluto a laurearsi, in medicina, fu Ernestina Paper a cui ne seguirono altre alle facolta’ di Lettere o Giurisprudenza, ma fino a quel momento nessuna si era avventurata nel mondo maschile dell’ ingegneria.

L’ardimentosa Emma si classifico terza su 62 studenti (61 uomini) ottenendo il massimo dei voti e, dopo la discussione della tesi, la camera di consiglio ci mise piu’ di un ora per decidere se il titolo dovesse essere “ingegnere” o ingegneressa”.

Si interessarono a lei anche i media di allora come La Stampa che scrisse orgogliosamente: “Emma Strada, sabato scorso, al nostro Istituto Superiore Politecnico ha conseguito a pieni voti la laurea in ingegneria civile. La signorina Strada è così la prima donna-ingegnere che si conti in Italia e ha appena altre due o tre colleghe all’estero”.

Emma lavoro’ come assistente all’Universita’ fino alla morte del padre e successivamente esercito’ nello studio dello defunto genitore insieme al fratello (anche lui ingegnere), e si occupo’ della realizzazione di acquedotti, gallerie, miniere; non poteva firmare i documenti perche’ non era iscritta all’Albo, ma si recava regolarmente e di buon grado presso i cantieri.

Il primo progetto dell’ing. Emma Strada fu la realizzazione di una galleria di accesso ad una miniera di Ollomont in Val d’Aosta, si occupò, inoltre, della progettazione dell´automotofunicolare di Catanzaro e della costruzione del ramo calabrese dell’acquedotto pugliese. Per promuovere il lavoro delle donne nel campo della scienza e della tecnologia, fondò con altre colleghe, nel 1957, l’Associazione Italiana Donne Ingegnere e Architetti (AIDIA), di cui diventò la prima presidente.

Emma Strada fu una fervente monarchica e per molti anni trascorse le mattine nella sede dell’Associazione Monarchica Torinese come organizzatrice e animatrice. Era molto legata al Re Umberto II, in quel periodo in esilio, che a sua volta la apprezzava e stimava e la insignini’ di importanti onorificenze sabaude.

Fu l’artefice del suo sogno e delle sue ambizioni, ma anche una donna coraggiosa che demoli’ lo stereotipo secondo cui le donne non potevano accedere ai molti mondi allora dedicati solo agli uomini, come l’ingegneria appunto. Grazie anche a lei e alla sua determinazione, al giorno d’ oggi essere una donna ingegnere non fa piu’ notizia.

MARIA LA BARBERA

La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini

Monastero Bormida, dall’abbazia alla fortezza

Visto dal ponte romanico sul Bormida sembra che tutto si sia fermato a mille anni fa, sia il castello che il paese. A Monastero Bormida, provincia di Asti, verso l’alessandrino e la Liguria, è una domenica come tante altre, splende il sole tra qualche nube, domina il silenzio, tutto pare sospeso, qualche Templare osserva il fiume, alcuni fedeli sono diretti in chiesa per la Messa, poco più in là Teutonici e Giovanniti, i futuri cavalieri di Malta, i grandi Ordini della cavalleria medioevale, parlottano tra loro sottovoce, in modo quasi misterioso e si godono la bella giornata primaverile, pur appesantiti nei loro abiti tradizionali. A poca distanza, al centro del piccolo paese di 828 abitanti, svetta il Castello di Monastero Bormida che in origine, nel XI secolo, era un monastero dedicato a Santa Giulia, con una chiesa e una torre campanaria alta quasi 30 metri. Il convento fu fondato da un gruppo di monaci benedettini che verso il 1050 giunsero dall’abbazia di Fruttuaria di San Benigno Canavese chiamati da Aleramo, marchese del Monferrato, per ripulire e rendere fertili le terre devastate dalle invasioni dei Saraceni.
È a questo punto che entrano in scena i cavalieri medioevali. Gli arabi provenienti dalla Provenza scesero in Piemonte attraverso le Alpi e dopo aver incendiato chiese e monasteri, paesi e villaggi, giunsero sotto le mura di Acqui e qui vennero sconfitti dagli abitanti del luogo aiutati dai monaci-guerrieri. L’attuale castello corrisponde proprio al sito dell’antico monastero di cui restano solo la torre e alcuni tratti murari. Tra la fine del Trecento e l’inizio del XV secolo tutto cambiò. Arrivarono i marchesi Del Carretto che decisero di fortificare il paese e il monastero fu trasformato in una vera e propria fortezza che nei secoli successivi fu ampliata e ristrutturata con rifacimenti rinascimentali e barocchi. Oggi il castello ha una facciata seicentesca e mantiene sul retro la loggia del Cinquecento. L’interno, visitabile in estate in occasione della rassegna “Castelli aperti”, comprende ampie camere, trasformate nel Seicento, con pavimenti a mosaico e soffitti a vela e a crociera di cui alcuni affrescati con motivi floreali e geometrici o con figure femminili, talvolta mitologiche.
Di particolare importanza architettonica è la torre. Giunta fino a noi in ottime condizioni, alta 27 metri, presenta su tutti i lati fregi e archetti pensili, in mattoni i due inferiori e in pietra quelli superiori. A metà Ottocento l’edificio divenne una residenza elegante abitata dalla famiglia Della Rovere a cui seguirono i Polleri di Genova che in seguito la vendettero al Comune di Monastero, attuale proprietario. Il biglietto di ingresso per visitare il castello costa 3 euro. Per le date di apertura vedere il sito web www.castelliaperti.it
Filippo Re

Il trono del Palazzo Reale di Napoli esposto alla Reggia di Venaria

Dal 13 maggio all’autunno 2025

L’esposizione temporanea alla Reggia di Venaria del prezioso trono del Palazzo Reale di Napoli è frutto della collaborazione tra il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, il Palazzo Reale di Napoli e il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale che ne ha realizzato il restauro.

L’intera operazione, resa possibile dal contributo di Intesa Sanpaolo, costituisce un ulteriore tassello del metaforico viaggio nelle regalità italiane intrapreso da tempo dalla stessa Reggia con numerose mostre, convegni e pubblicazioni.

Gli interventi di restauro e approfondite ricerche sull’opera hanno comportato importanti conoscenze inedite come la scoperta che si tratti di un trono sabaudo e non borbonico (come a lungo erroneamente creduto), aggiungendo così un ulteriore senso alla presenza del trono nelle auliche sale di parata della Reggia. Un rapporto – quello fra Torino e Napoli – in linea col ruolo delle due antiche capitali e delle strette relazioni culturali che esse ebbero. Rapporti rinnovati oggi dalle collaborazioni fra i palazzi di Venaria e Napoli, entrambi membri dell’Associazione delle Residenze Reali Europee.

La presentazione del restauro alla Reggia di Venaria costituisce una significativa preview della XX edizione di Restituzioni, una delle più importanti iniziative del Progetto Cultura di Intesa Sanpaolo a sostegno della tutela e della valorizzazione del patrimonio artistico italiano, che si terrà a Roma il prossimo autunno presso il Palazzo delle Esposizioni.

Il restauro

Il restauro del trono, eseguito dal Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, ha permesso, sulla base dei risultati emersi da specifiche analisi scientifiche, di riconsegnare lo straordinario arredo completamente restaurato nella struttura lignea scolpita e dorata e rinnovato per quanto riguarda la parte tessile e la passamaneria.

Buona parte della pulitura superficiale è stata condotta con l’utilizzo del laser, che ha consentito alla sottile lamina metallica dorata di ritrovare una perduta e inaspettata luminosità; a ciò è seguito un lungo intervento di consolidamento delle aree decoese e un’attenta riequilibratura cromatica, a garanzia di una piena godibilità estetica.

Dove

Arte e sacro, la chiesa di San Dalmazzo a Torino

In centro citta’ un gioiello molto antico

Dopo un lungo periodo di chiusura, e’ di nuovo possibile visitare la chiesa di San Dalmazzo, situata tra via Garibaldi, una volta via Dora Grossa, e via delle Orfane.

Costruita nel lontano 1271 e destinata all’assistenza dei pellegrini e alla cura degli infermi, nel tempo la sua struttura subi’ un consistente deterioramento e fu cosi’ che nel 1573, periodo in cui fu affidata ai frati Barnabiti, si decise per una riedificazione. Qualche anno dopo per volere del cardinale Gerolamo della Rovere fu nuovamente restaurata e decorata, anche grazie alle numerose donazioni dei Savoia mentre alla fine dell’800 furono ripresi ulteriormente i lavori che la riportarono al suo stile originario. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu bombardata riportando seri danni al tetto e agli infissi, il suo ultimo restauro risale al 1959.

L’esterno e’ l’unica parte rimasta in stile Barocco con i suoi pilastri di ordine corinzio, i finestroni da cui entra la luce e un timpano semicircolare che avvolge un prezioso affresco. La chiesa, di medie dimensioni, trova la sua bellezza, oltre che nei suoi sorprendenti interni in stile neogotico che catturano subito l’occhio del visitatore, ma anche nella superficie proporzionata che la rende accogliente e affascinante.

Al suo interno lo sfondo e’ quello tipico dello stile gotico caratterizzato dallo slancio verticale, da vetrate colorate, da stucchi, dipinti neo-bizantini di Enrico Reffo e dorature. L’elemento che attira legittimamente l’attenzione e’ la fonte battesimale originale ereditata dalla vecchia chiesa di San Dalmazzo Martire. La struttura e’ a tre navate decorate da edicole, il bellissimo pulpito incorniciato da mosaici e il ciborio a baldacchino.

Spesso la chiesa di San Dalmazzo si fa scenario di concerti di musica, dal gospel alla musica da camera, il prossimo appuntamento? Domenica 15 Dicembre 2024 ore 17:00 TORINO CHAMBER MUSIC FESTIVAL, vibrazioni all’interno di un contesto suggestivo e incantevole.

Per informazioni sugli eventi

www.diocesi.torino.it

Maria La Barbera

Il partigiano Johnny nel Monferrato

Si e’ svolto a Vignale Monferrato, nell’aula Cavour, il 3 maggio scorso, il convegno ispirato dall’iniziativa tra gli altri di Andrea Ferraris: “Il gallo canta ancora”.

Promosso dalla “Lista Civica Vignale Futura”.
Hanno partecipato i relatori: l’avvocato Sergio Favretto e Bianca Roagna direttrice del Centro studi Beppe Fenoglio.
Moderatrice la scrittrice Patrizia Monzeglio.
Occasione: l’ottantesimo anniversario della Liberazione.
Presentazione del Sindaco: Ernesta Corona.
Introduzone di Massimo Birago.
Filo conduttore della conferenza e sottotitolo: “Il partigiano Johnny nel Monferrato”.

Il contributo  generoso e autorevole dei relatori, è ruotato in gran parte attorno alla tematica meno conosciuta e approfondita, del passaggio di Giuseppe Fenoglio, dalle Langhe al Monferrato, durante la sua militanza nella Guerra di Liberazione. Al suo stile letterario, ai suoi contenuti di testo. Stimolo intellettuale per rievocare storiograficamente la figura dello scrittore albese nel suo insieme, come testimone e combattente.
Bianca Roagna e l’avvocato Sergio Favretto ci hanno raccontato e descritto in polifonia, la complessa personalità dello scrittore piemontese. Sul piano identitario, su quello letterario, su quello dell’azione bellica militare e su quello biografico. E’ risultato in parola, una una sorta di “figura sciamanica”, la dove lo stesso Johnny-Fenoglio, ufficiale di collegamento con gli Alti Comandi Alleati, è nel testo elemento inscindibile del flusso di coscienza narrativo. Un po’ come lo sciamano Don Juan lo è stato per lo stesso Carlos Castaneda. Erano due o uno? Erano due in uno. Johnny, alter ego di Fenoglio, si esprime in un inglese ‘slang’ a volte onomatopeico e cinematografico. La lingua inglese era la più amata dallo scrittore.
Un suo cable con gli alleati, ritrovato dal fumettista Andrea Ferraris, in un archivio storico, mostra come in località Conzano, i partigiani langaioli stessero decidendo di confluire nel basso Monferrato. Mezzo utilizzato: Radio Londra. Frase in codice: “Il gallo canta ancora”.
Iniziano quindi movimenti di drappelli e brigate, lanci di armamenti e vettovaglie da parte alleata.Nella zona di Vignale ( e in forma più estesa in tutto il Monferrato) molto attive erano formazioni di gap garibaldini, ma anche truppe monarchiche e cattoliche  e gruppi di Giustizia e Libertà. Le bande Lenti e Tom. Scontri a fuoco e guerriglia, che si allargarono a macchia d’olio in guerra vera e propria dopo l’Armistizio dell’ 8 settembre 1943, deciso dal Generale Pietro Badoglio, su un territorio tanto aspro quanto frammentato.
O si sceglieva la militanza nella Rsi o si entrava nella Resistenza. L’attendismo restava sullo sfondo, sostanzialmente ininfluente.
Tutto ciò portò in fasi successive e decisive,  dalla guerra armata contro i nazifascisti alla loro resa e alla liberazione dell’intero territorio italiano. Successivamente alla Costituente del 1945-47 e alla stesura della Costituzione.
Fino alla democrazia ricostituita e necessariamente senza aggettivi, dei nostri giorni tumultuosi, bui e inquieti. Come possiamo con amarezza constatare dalle cronache politiche odierne. Fatti ancora difficilmente storicizzati e normalizzati in uno spirito di concordia nazionale. Ferite ancora aperte. Una piaga molto italiana.
Giuseppe Fenoglio rimane l’unica personalità letteraria di spicco internazionale sulla questione resistenziale, l’unico antropologo della Liberazione, lui monarchico, precoce giovane antifascista, morto a quaranta anni a Torino, per una patologia polmonare.
Non importa quanto si vive, ma nel poco, come. Rischiando in prima persona, nella società lacerata e divisa di quegli anni, diventa adulto rapidamente bruciando gli anni della fanciullezza, attraverso rinunce e sacrifici, verso una società libera e democratica, cui allora si poteva solo anelare e prefigurare. Se nel profondo si era spiriti liberi.
L’ anticonformismo della personalità dello scrittore albese, la sua forza emancipativa, ne fanno un autore di formazione a vocazione civile.
La vis narrativa di Fenoglio, è scuola di libertà e laicità, attualissima e sempre più necessaria. Il passaggio non solo testuale, ma fisico e geografico, tramite il comando alleato, lo spinge ad affrontare l’ignoto, sempre sul campo.
Il Monferrato si stava mobilitando, sotto lo sguardo prima scettico, poi vigile e infine consensuale degli Alleati. Questa missione ricalcava il suo carattere, schivo e  combattivo. In fondo, mi dico, la curiosità è il motore della conoscenza fenogliana e di tutti noi.
Stop.
Buio in sala.
Scorrono diapositive sui giorni della Liberazione a Vignale Monferrato. Si riaccende la luce. Saluto alcune persone incontrate, volti conosciuti di vecchia data, altri anonimi.
Esco dall’aula Cavour. Raggiungendo l’automobile immagino un uomo che con uno sguardo pensoso, mi guarda bonariamente. La sua eterna sigaretta in bocca. Sembra salutarmi, alla luce del tramonto di primavera. Adesso, con una lacrima negli occhi, mi sento più leggero.
Più libero.
Grazie, Beppe.
Grazie sul serio

Aldo Colonna

Nella foto di copertina: partigiani a Vignale Monferrato

Un Figaro rossiniano

È doveroso accostarsi alla famosa cavatina del Barbiere di Siviglia, opera lirica composta inizialmente da Paisiello e successivamente oscurata dal successo mondiale di Gioachino Rossini per raccontare la storia originale di Gennaro Fardello, il coiffeur operativo a Casale Monferrato. L’entrata di Figaro nella seconda scena del primo atto dell’opera rossiniana rappresenta il factotum fortunato della città che vantava la propria popolarità del tuttofare di un tempo che non solo esercitava le proprie mansioni di barbiere ma acconciava parrucche, distribuiva consigli medici e speziali, eseguiva trattamenti odontoiatrici, ricercava giocatori di football per le squadre locali e favoriva incontri galanti tramite messaggi privati.
Tra i baritoni che hanno interpretato Figaro, tratto dalla commedia omonima francese del 1775, spicca il torinese Giuseppe Valdengo richiesto al Metropolitan di New York dal grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini. La fortuna del coiffeur, proveniente dalla scuola napoletana, ebbe inizio nel 1981 quando il maresciallo dell’Esercito e cognato Antonio Fardello lo contattò per sostituire il barbiere delle reclute ormai prossimo alla pensione. Giunto a Casale, Fardello fu alloggiato nel “casermone” Nino Bixio del XI battaglione di fanteria, il più antico della storia italiana fondato nel XVII secolo dal Ducato di Savoia come reggimento del Monferrato. Dal 1958 era sede del CAR, il centro addestramento reclute che ospitava annualmente circa 12000 militari.

Le affilate forbici di Fardello conobbero il pugile italo-malese Nino La Rocca classe 1959, arruolato nell’Esercito Italiano dopo ostacoli e lentezze giudiziarie risolte tramite l’interessamento del presidente Pertini che gli concesse la cittadinanza italiana nel 1983. Degli 80 incontri disputati il pugile vinse 74 volte, di cui 54 per KO con sole sei sconfitte, perdendo il titolo mondiale nel 1984 contro il texano Curry detto “il cobra”. Anche se non possedeva il pugno proibito, La Rocca  finalmente diventò campione europeo dei pesi welter nel 1989, definito il Cassius Clay italiano per la mobilità sul ring e per le doti di pugile innovativo. Fece scalpore il matrimonio di Nino La Rocca con la pornostar toscana Manuela Falorni, detta la “venere bianca”, separato da lei dopo una lunga battaglia giudiziaria. Incredibile la protesta del pugile che si incatenò davanti a Palazzo Chigi e al Quirinale, invocando un lavoro nel settore per essere stato respinto all’esame di insegnante federale. Nel 2014 gli fu concesso un vitalizio dallo Stato Italiano che gli permise di allenare giovani pugili.

Nella struttura militare soggiornarono Adriano Celentano, Gianni Morandi, Ivano Fossati e l’attuale ministro Matteo Salvini per svolgere il periodo di addestramento. Durante le festività natalizie venivano organizzati concerti per le reclute con alcuni cantanti in voga. Tra gli invitati, il Figaro casalese ricorda lo stile ironico e dissacrante di Donatella Rettore con i suoi 30 milioni di dischi venduti e Dino, pseudonimo di Eugenio Zambelli, scoperto da Teddy Reno e famoso per il suo disco “Te lo leggo negli occhi” del 1964. L’appalto ventennale del coiffeur Gennaro Fardello si concluse nel 1999 con la chiusura definitiva della caserma casalese, seguita nel 2004 dall’abolizione totale della leva militare obbligatoria in Italia. Da uno studio del Politecnico di Torino del 2008 e da una recente proposta parlamentare emerge la concreta possibilità di realizzare un nuovo carcere per la provincia di Alessandria nel contesto di ristrutturazione e valorizzazione della struttura abbandonata.
Armano Luigi Gozzano 

Breve storia dei Savoia, signori torinesi

Breve storia di Torino


1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi

Sono ormai alla metà del mio percorso riguardante  la ricostruzione degli avvenimenti storici che segnano le vicissitudini di Torino dagli albori fino alla contemporaneità.
Ed è appunto arrivato il momento di approfondire il fatto che più di ogni altro ha segnato il destino dellurbe pedemontana: il dominio sabaudo.
Prima di entrare nel merito della questione e di focalizzarci sulle imprese dei Principi di Savoia, è bene soffermarci sul contesto storico.
Anno 1250: muore Federico II. Nuovi drammatici eventi scuotono il territorio italiano da Sud a Nord: il papa Innocenzo IV investe limperatore Carlo dAngiò, il quale nel 1266 uccide in battaglia Manfredi, re di Sicilia e, due anni più tardi, il nipote di Federico II, Corradino. La dinastia degli Hohenstaufen viene eliminata e i guelfi trionfano su tutta la penisola.
Tali fatti producono immediate ripercussioni sul Piemonte e su Torino.
Tommaso II di Savoia occupa la città pedemontana, forte delle concessioni che proprio Federico II gli aveva accordato; egli tuttavia trova difficoltà nella gestione delle terre, così, dopo diversi accordi altalenanti con i comuni limitrofi e gli altri signori locali, decide di schierarsi a favore di Innocenzo IV; a questo punto il Papa, per assicurarsi un sostegno duraturo da parte di Tommaso, emana una carta in cui riconferma la signoria sabauda su Torino.

La cittadinanza però non accetta linsediarsi di Tommaso, né èconcorde a proposito dellalleanza papale, tant’è che nel 1252 viene a crearsi una lega tra le città di Asti, di Chieri e di Torino, per opporsi ai piani del Principe. Nel 1255 i Torinesi catturano Tommaso e lo costringono a rinunciare alla pretesa di regnare sulla città e sui territori circostanti. Dal canto suo Tommaso si appella ai regnanti di Francia e dInghilterra, forte dei legami famigliari che i Savoia si erano creati nel tempo. Dopo un acceso dibattito i Torinesi lasciano libero il nobile prigioniero: è ormai evidente limportanza che la famiglia sabauda ha acquisito a livello internazionale.
Un nuovo pericolo però si affaccia allorizzonte: lavanzata di Carlo dAngiò. La nuova situazione preoccupa molti signori e diversi comuni e la necessità di fermare linvasore comporta la costituzione di una nuova lega ghibellina capeggiata dalla città di Asti. Torino stessa fa parte di tale di alleanza, ma solo fino al 1270, momento in cui il vescovo Goffredo di Montanaro, guelfo ed oppositore dei Savoia, fa espellere il podestà e si instaura allinterno delle mura cittadine.
Gli scontri intanto proseguono, e ormai il regno angioino è destinato alla disfatta.
Trascorrono circa ottantanni, durante i quali Torino cambia ben sette passaggi di potere: un tempo decisamente lungo e travagliato, che trova conclusione nel longevo periodo della dominazione sabauda.
La famiglia dei Savoia approfitta della confusione politica dovuta ai continui scontri tra signori locali per appropriarsi di alcune cittadine, apparentemente di minor importanza e indebolite dalla guerra. Tra queste si pensi a Susa, Pinerolo, Rivoli e Avigliana, ma è con lacquisizione di Torino che i Principi  consolidano la propria supremazia sul territorio piemontese.
Eccoli infine i due fattori che, a partire dallepoca bassomedievale, determinano le future vicende torinesi: lascesa al potere della famiglia sabauda e la devastante diffusione della peste nera del 1348.
Con lo stabilirsi della nuova autorità, lamministrazione cittadina viene relegata ad un ruolo marginale, le decisioni politiche e legislative sono nelle mani del nuovo signore, così come le famiglie dell’élite urbana. C’è da dire che i Savoia seppero ben compensare questa perdita di autonomia, rendendo la città il fiore allocchiello del Piemonte: nel corso del Quattrocento infatti Torino diviene residenza di governo e della corte, anche per le visite ufficiali, nonché sede di una nuova università.
Mentre i Savoia si instaurano definitamente al comando della città, per le strade il morbo bubbonico si diffonde a macchia dolio, la pestilenza decima la popolazione, sia nel centro abitato che nelle campagne, di conseguenza la produzione agricola cala drasticamente  anche a causa dei numerosi abbandoni dei terreni. Ci vorrà quasi un secolo per recuperare le perdite economiche e demografiche causate dallepidemia.
Mentre la malattia affligge la cittadinanza, i Savoia continuano ad estendere il proprio controllo sullItalia nordoccidentale. Tra il 1313 e il 1314 ottengono Ivrea e Fossano, nel 1416 ricevono il titolo di duchi del Sacro Romano Impero, nel 1320 è la volta della conquista di Savigliano, seguita da quella di Chieri e Biella, i Principi si espandono fino a Cuneo (1382), Mondovì (1418) e infine Vercelli (1427).  
Il notevole ingrandimento del regno sabaudo rende Torino ancora piùimportante, fino a conferire allurbe il nuovo status di capitale regionale, titolo che stimola la crescita economica e demografica della città.
Questo periodo di grande fermento comporta una diversificazione nella popolazione e una nuova struttura sociale, mentre si assiste ad un generale innalzamento del livello culturale, esplicita fonte di impulso economico. La societas si arricchisce di professionisti e burocrati introdotti dallattuale governo, in più una ulteriore corrente migratoria porta limmissione di nuovi mestieri, nuovi introiti commerciali.
Nel 1536 i Francesi occupano Torino, fermando momentaneamente la ripresa della città; i nemici però non hanno vita lunga: nel 1559 loccupazione termina e Torino ne esce ancora più dominante.
Gli anni tra il 1334 e il 1418 vedono affiancarsi i due rami piùimportanti della famiglia, i Savoia e gli Acaia. È proprio Giacomo dAcaia a governare il Piemonte durante gli anni trenta del Trecento, seppur allombra dellimportante cugino, il Conte Verde Amedeo VI di Savoia. Laccesa disputa tra i due termina intorno al 1360, quando Amedeo assume definitivamente il controllo della città di Torino e confina il cugino al di là delle Alpi.

Per affermare la propria posizione e nel contempo per ingraziarsi loligarchia urbana, il Conte ordina che vengano emendati i codici cittadini, costituiti da 331 capitoli eterogenei che compendiavano le varie leggi varate in passato dal comune e gli statuti emanati nel 1280 da Tommaso III. Tale codice regolamenterà i diritti e doveri del cittadino e degli altri funzionari fino allOttocento. Esiste ancora una copia del testo, gelosamente custodita presso gli archivi torinesi, conosciuto come Codice della Catena,  perché anticamente era messo a disposizione per la libera consultazione della cittadinanza in municipio, ma ben legato con una catena. Gli statuti del 1360 fanno sì che il Principe sia lautoritàlegislativa suprema e definiscono i poteri delle varie cariche municipali; il testo riporta inoltre nel dettaglio i poteri legislativi del Consiglio e le le differenti funzioni amministrative a cui doveva assolvere, tra cui la manutenzione della cinta muraria, dei ponti, del palazzo del municipio, lorganizzazione del servizio di guardia presso le porte, la nomina del cerusico, del maestro della scuola il doctor grammaticae–  e degli altri funzionari civili minori.
Il Consiglio si distingue in due ambiti differenti che rispecchiano la divisione interna della classe dominante: da una parte le dinastie nobili che avevano retto la città fino a quel momento, dallaltra le famiglie arricchitesi in tempi recenti. La vecchia aristocrazia va assottigliandosi e nel contempo aumenta il risentimento popolare nei confronti dell’élite cittadina; in questo clima di turbolenza e instabilitài Savoia-Acaia approfittano delle tensioni sociali per consolidare la propria posizione. Ripristinano la Società di San Giovanni Battista, organizzazione di stampo popolare, che vietava laccesso ai membri delle famiglie nobili, che però approva il nuovo statuto nel 1389. La Società è unassociazione armata il cui scopo è mantenere lordine pubblico e proteggere il popolo dalle ingiustizie dellaristocrazia.
Ad Amedeo succede Ludovico Acaia (1404), il quale a sua volta èdeciso a rendere Torino un centro sempre più importante. Egli istituisce uno Studium generale, autorizzato dal papa Bonifacio IX e dallimperatore Sigismondo. Il nuovo Ateneo diventa un punto di forza delluniversità e richiama studenti anche dalle cittadine vicine. Ben presto lUniversità di Torino diviene fucina di professionisti destinati ad occupare importanti cariche ufficiali.
Con la morte di Ludovico (1418) si estingue la linea degli Acaia e i vari possedimenti ritornano al ramo principale della famiglia. A Ludovico succede Amedeo VIII di Savoia, che si affretta a chiedere e ottenere giuramento di lealtà da parte di tutte le città e i vassalli piemontesi prima fedeli ai dAcaia. Amedeo porta avanti una politica espansionistica, prediligendo però larte della diplomazia a quella militare; egli si adopera per dare unità politica ai territori, promulgando nel 1430 gli Statuta Sabaudiae, un vero e proprio codice generale vigente su tutti i domini.
Amedeo abdica e gli succede il fratello, Ludovico. Il nuovo re promulga un nuovo statuto, con il quale riorganizza il Consiglio di Torino, dividendolo in tre classi: nobiles, mediocres, populares, con il chiaro intento di dare un maggiore peso ai cittadini per contrastare l’élite urbana. La riforma non ha di fatto successo e le famiglie continuano incontrastate ad esercitare il loro potere.
Con lestinzione del ramo dAcaia, anche Pinerolo perde dimportanza, a favore di Torino, che accelera il proprio processo di diversificazione del tessuto urbano, con lintroduzione di una nuova classe di cittadini influenti che esercita il potere accanto ai nobili.
La corte ducale e lUniversità danno forte impulso culturale alla città, con il fatto che i Savoia sono sempre stati grandi mecenati.  La famiglia sabauda aveva commissionato opere darte e decori per le residenze di Chambéry e Annecy, ora annettono al gruppo degli artisti il torinese Giovanni Jaquerio, autore tra laltro, tra il 1426 e il 1430, di una serie di affreschi per il monastero di SantAntonio di Ranverso, nei pressi di Torino.
Per quel che riguarda lUniversità, il polo culturale rimane uno dei piùimportanti e rinomati del territorio, anche se profondamente e forse eccessivamente- legato alla tradizione. Lo stesso Erasmo da Rotterdam, che consegue proprio a Torino il dottorato in Teologia nel 1506, critica piuttosto aspramente lAteneo, giudicandolo estraneo alle nuove correnti rinascimentali.
Nel corso del Quattrocento i Savoia ordinano una serie di interventi volti ad abbellire Torino, tra questi il più celebre è sicuramenteledificazione del Duomo, voluto dal cardinale Domenico della Rovere; il prelato incarica per la costruzione delle sue pietre viventilarchitetto toscano Bartolomeo di Francesco da Settignano, noto come Meo del Caprina, probabilmente conosciuto a Roma.
Vengono inoltre portate avanti varie regolamentazioni in materia di igiene pubblica, sostenute soprattutto dalla duchessa Bianca.
Mentre lurbanistica della città viene messa a lucido, il Consiglio cittadino lavora incessantemente per portare avanti i compiti di ordinaria amministrazione.
Torino è nel turbine del rilancio economico, cause esterne contribuiscono allincremento del commercio del pellame e del cuoio, mentre nel 1474 due artigiani di Langres si stabiliscono in città e aprono la prima bottega di stampa; per dieci anni contribuiscono alla diffusione di diversi testi religiosi e giuridici.
Le cose stanno cambiando, il fermento culturale ed economico non basta a sedare né le tensioni sociali, né le ostilità tra i Savoia e le famiglie aristocratiche. Il governo dei Savoia è per Torino fonte ambivalente, da una parte causa di successo ed estensione, dallaltra motivo di disordini e turbamenti. Lurbe è al centro delle lottedinastiche, linstabilità politica incide in negativo sul tenore di vita dei cittadini, lordine pubblico è continuamente minacciato, eppure la vita culturale e religiosa pare svolgersi normalmente, come testimoniano le attività degli artisti Martino Spanzotti, Marino dAlba e soprattutto Defendente Ferrari, allievo di Spanzotti e principale punto di riferimento per le successive generazioni di artisti piemontesi. Si diffondono nuovi culti, tra cui quello per la Vergine della Consolata, particolarmente sostenuto dalla duchessa Iolanda di Savoia, la devozione per il per il Divino Sacramento o Corpus Domini. Nel 1515 papa Leone X eleva la diocesi di Torino ad arcivescovado, separandola dalla sede milanese; nel 1517 viene nominato arcivescovo Claude Seyssel, un illustre prelato, prima insegnante di diritto presso lUniversità di Torino.


La situazione tuttavia era precipitata già a partire dal 1454, circa una decina danni dopo la Pace di Lodi, quando linvasione dei Francesi aveva scatenato un ciclo di guerre tra Francia e Spagna per il dominio della penisola. Gli scontri perdurarono fino al 1559, quando i possedimenti dei Savoia furono costantemente contesi dalle due potenze. È tuttavia il 1536 lanno critico per la casata dei Savoia. In pochissimo tempo il duca Carlo II assiste impotente allinvasione degli eserciti francese, spagnolo ed elvetico; Francesco I si appresta ad unaltra incursione in Italia per sottrarre Milano al dominio di Carlo V e questa volta Torino viene occupata e espugnata dai Francesi.
Quando viene ordinato alla cittadinanza torinese di costruire nuovi bastioni, il popolo, stremato dalle tasse, si rifiuta di anticipare il denaro per la costruzione delle edificazioni; il 27 marzo Carlo V si congeda dal Consiglio cittadino e si ritira a Vercelli con un piccolo seguito di soldati, cortigiani e funzionari. Il 1 aprile lesercito francese raggiunge i sobborghi torinesi e invia un araldo per chiedere la resa della città. I sindaci trattano con il comandante francese e ottengono la garanzia che le leggi e i privilegi dei cittadini vengano rispettati. La città apre le porte, le truppe francesi avanzano in città e qui si insediano, tra problemi di non facile soluzione, fino al 1559, quando la pace di Cateau-Cambresis restituisce Torino e il Piemonte ai Savoia, grazie a Emanuele Filiberto I (detto Testa di ferro), il duca che più di ogni altro ha influito sulla politica sabauda.  Egli ha reso Torino difendibile costruendo la Cittadella, un sistema di fortificazione ancor oggi osservabile; a lui si deve la creazione di un apparato militare stabile formato non da mercenari ma da  soldati piemontesi appositamente addestrati, a lui si ascrive la riorganizzazione dello Stato, ma di questo e altro, cari lettori,  parleremo la prossima volta.

ALESSIA CAGNOTTO