STORIA- Pagina 2

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)

La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
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Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
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Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 9. La linea che veglia su chi è stato: il Cimitero Monumentale

Il Liberty al Cimitero Monumentale
Il Cimitero Monumentale, un tempo chiamato Cimitero Generale, si trova a Nord della città, in una zona non lontana dalla Dora Riparia, nell’area del Regio Parco. Nel 1827 la città di Torino ne deliberò l’edificazione decidendo di situarlo lontano dal centro abitato, in sostituzione del piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli, nel quartiere Aurora. L’opera si poté attuare grazie alla donazione di 300 mila lire piemontesi del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Aperto nel 1828, su progetto dell’architetto Gaetano Lombardi, con disegno a pianta quadrata dagli angoli smussati, il Monumentale fu presto ingrandito con una parte aggiunta a cura dell’architetto Carlo Sada Bellagio, collaboratore di Pelagio Palagi e vincitore del concorso per la realizzazione della chiesa dedicata al primo vescovo torinese, San Massimo. Seguirono poi necessari ampliamenti, e negli anni tra Ottocento e Novecento l’alta società borghese di Torino affidò a celebri scultori il mandato per la costruzione di imponenti edicole funerarie, a solenne affermazione del prestigio raggiunto dalle singole famiglie. Proprio l’estetica Liberty, sintesi raffinata di natura, tecnica e arte, riuscì ad interpretare il compianto pietoso verso il defunto, delineando il triste tema della morte attraverso pure ed efficaci metafore di una grande arte funeraria.

Tra le opere che possiamo visionare in rigoroso e rispettoso silenzio vi è il Monumento Porcheddu, dedicato al grande ingegnere Giovanni Antonio Porcheddu, che ha introdotto in Italia la tecnica delle costruzioni in cemento armato. Figura essenziale per l’imprenditoria torinese, alla sua impresa si devono imponenti opere, quali l’immenso Stadium del 1911 (demolito nel 1946), il progetto dello stabilimento Fiat Lingotto del 1922, il Ponte Risorgimento a Roma. Il monumento, realizzato dallo scultore Edoardo Rubino e dal decoratore Giulio Casanova, è composto da un semplice sacello marmoreo su cui è posto un corpo femminile, lievemente ricoperto da un lenzuolo che ne lascia scoperto il volto e che scivola appena oltre i bordi del sepolcro. Da una parte e dall’altra di questo, quattro figure femminili, due per ciascun lato, vegliano il feretro: quelle che stanno dal lato del capo porgono su questo le mani un poco rialzate come in segno di protezione, dall’altro lato una delle due donne veglia sul corpo con il capo reclino e l’altra alza il braccio sorreggendo una lampada. La compostezza delle figure lascia trasparire una sobrietà di sapore classico, nei gesti, nei panneggi, nella postura, mentre un delicato senso di pietas avvolge con intensità l’intera struttura compositiva. Sullo sfondo compare una particolare croce con tralci stilizzati di rose nella parte verticale e motivi dorati nel lato orizzontale. Al centro della croce una corona di rose bianche è posta intorno all’inquadratura dorata con la scritta “IHS” (sigla intesa come “Gesù salvatore degli uomini”, ma in realtà è la trascrizione latina abbreviata del nome greco di Gesù). Sulla volta del portico che accoglie il gruppo scultoreo, un cielo stellato d’oro mosaicato su fondo blu inquadra una grande croce.

Un’altra opera che richiama la mia attenzione in questo luogo di assordante silenzio è il Monumento Kuster, realizzato da Pietro Canonica nel 1921. Esso mostra una figura femminile con abito succinto che, inarcando la schiena, si solleva con il busto in posa quasi teatrale, ed emerge da un giaciglio posto di fronte ad una croce. I suoi lunghi capelli sono scompigliati dal vento che gonfia anche un drappo posto sulla croce e agita le foglie morbidamente rappresentate sulla bronzea stele verticale. Tra le note di tristezza e di intenso pathos, vi aleggia in primo piano la spettacolarità della scena, la figura si pone come la “divina” del cinema muto, la nuova arte che nei primi anni del Novecento andava affermandosi in città.La protagonista del Monumento Roggeri è una fanciulla inginocchiata e piegata dal dolore, le mani le coprono il volto, e i capelli fluenti e raccolti dietro il capo le scendono fin oltre la schiena. Il lungo abito, movimentato dal panneggio di morbide linee, scende e si posa sul basamento in travertino e in parte lo ricopre. La nota di un patire intenso e irrefrenabile è il messaggio che viene dalla donna che, inginocchiata e chiusa al mondo, sembra pregare, tormentata da un affanno senza fine. Su di un lato, si intravvede appena la firma di O.Tabacchi, allievo di Vincenzo Vela, al quale succederà nella cattedra di scultura presso l’Accademia Albertina di Torino.

È ancora un’altra fanciulla ad essere al centro della composizione funebre del Monumento Maganza, posta tra colonnine in marmo verde Roja, una giovane dal volto delicato, da cui traspare una espressione affranta; una sottile tunica le avvolge lieve il corpo esile, ha un’acconciatura alla moda, con i capelli corti, il volto, appena piegato e reclinato sulla mano sinistra, sembra voler trasmettere un messaggio di triste rimpianto. Alle spalle, marmorei tralci di fiori e, dietro, la croce. Soffermiamoci ancora sull’opera che si trova sulla sinistra, entrando dall’ingresso principale del Cimitero. Si tratta di un gruppo statuario che comprende una figura velata da un ampio panneggio, rappresentata mentre sta per avvolgere in un abbraccio simbolico una giovane figura femminile in piedi, con le braccia abbandonate lungo il corpo e il capo reclinato su una spalla. Dal basamento crescono steli e boccioli di rosa che paiono voler avvolgere i corpi sovrastanti: si tratta di una sintesi di decorazione Art Nouveau, completata dalla dedica dei committenti. L’opera fu eseguita da Cesare Redduzzi, scultore affermato e insegnante di scultura presso l’Accademia Albertina, più noto ai Torinesi come l’autore dei gruppi scultorei allegorici: l’arte, il lavoro, e l’industria, collocati nel 1909 a coronare le testate verso corso Moncalieri del ponte dedicato a Umberto I.
Moltissimi sono i monumenti funebri di squisito gusto Liberty davanti ai quali sarebbe opportuno soffermarsi, e numerose le figure femminili modellate con l’estetica della Nuova Arte, o che, con il loro atteggiamento da “dive” affrante del cinema muto, sorvegliano le anime di chi non c’è più e accompagnano silenziose gli sguardi di chi le va a trovare.

Alessia Cagnotto

L’”invenzione” del Sax, per creare musica e atmosfere

Accadde oggi

Passando per il centro di Torino verso Piazza Bodoni capita quotidianamente di ascoltare musica proveniente dalle sale studio del Conservatorio Giuseppe Verdi con tanti strumenti differenti che ingentiliscono l’aria creando un clima di bellezza nella bellezza tra palazzi, piazze, antichi portoni, monumenti che fanno del centro di Torino un luogo di storia e di fascino unico.Tra i tanti strumenti musicali che rendono possibile l’espressione dell’armonia, ben 540, interessante è dare uno sguardo alla carta che li contiene tutti e tra gli aerofoni ad ancia semplice incontriamo il sassofono o sax, di cui oggi ricorre la data della sua invenzione avvenuta ben 174 anni fa per opera di un geniale musicista inventore artigiano belga, Adolphe Sax,(1814 – 1894 ) nel suo studio parigino ! Presso il Conservatorio torinese esiste un corso biennale per chi vuole suonare il sax, con attenti studi che lo valorizzano creando professionisti qualificati. Si può ben pensare che l’essere umano e la musica stiano tra loro come il giorno sta alla luce, tanto sono inscindibili e correlati nel tempo e nella storia.

I tanti strumenti musicali, con la loro unicità, per dar forma e colore alle emozioni di note e di armonie, sono la dimostrazione tangibile che l’uomo ha sempre voluto creare nuovi mezzi per esprimere la musica pienamente in tutti i suoi tanti toni e colori ! Così quel 28 Giugno 1846 Monsieur Sax brevettò il nuovo strumento che porta il suo nome e che ebbe grande fortuna in tutta Europa, tanto che venne ampiamente perseguitato e vessato dagli altri costruttori di strumenti musicali. Fu lui ovviamente il primo insegnante della sua creatura presso il Conservatorio Superiore di Parigi mentre in Italia fu il grande Rossini a suggerirne l’acquisto al Conservatorio di Bologna e fu così che il primo sax fece la sua comparsa in Italia. Ma il grandissimo seguito di questo nuovo strumento avvenne in America con il genere jazz e blues ma anche nel pop e rock oltrechè nel genere bandistico, ormai impensabili senza questo strumento lucido e sinuoso, che ricorda il clarinetto ed il flauto, con la sua campana da cui esce il suono, ampia e generosa che ricorda la corolla di un fiore. Quanti musicisti hanno fatto di questo strumento la loro massima espressione ! Uno fra tutti : Charlie Parker ma anche Stan Getz, Benny Carter e tanti altri sublimi sassofonisti, esecutori e amanti di questo strumento espressivo e duttile che nelle loro mani dette il meglio di sè.

Patrizia Foresto

La pace derisa

La pace derisa, ultima silloge poetica di Maria Grazia Minotti Beretta, è interamente ispirata dalla sua storia personale e dalla sensibilità con la quale guarda agli aspetti più intensi dell’esistenza. Un’autrice che, giunta al suo quindicesimo volume di poesie, ripensa e propone le sue liriche con voce limpida. Dopo un breve periodo di silenzio e riflessione, Minotti Beretta ritorna così alla poesia con un libro che viene da lontano, frutto di un dialogo intenso con la tradizione. Dopo le iniziali evocazioni familiari (l’autrice è nata a Milano in piena guerra, sotto i bombardamenti, perdendo il padre Ettore, partigiano, ucciso dai nazisti il 7 aprile 1945, e poco più tardi la madre) la raccolta, segnata da una profonda riflessione sul senso del tempo, si apre con la poesia “a mio padre adottivo” dove la poetessa intende recuperare la potenza nominante delle parole, dentro uno spazio rigoroso, secondo una precisa misura: “Era un burbero benefico, che ho amato come padre”. L’autrice è ormai distante dalle esperienze poetiche degli inizi e la parola è diventata custode del tempo, capace di riportare in superficie qualcosa di nascosto che è in noi. Le parole, dunque, non si disperdono diventando rivelatrici di senso per questo il libro che assume la forma di un luogo protetto, evocativo e dialogante. I temi della poesia ci sono tutti: i ricordi della guerra e del dopoguerra, la malinconia e la solitudine, l’interrogazione sull’essere e sul morire, la fragilità e l’attesa, il desiderio che sconfina nella delusione, la trepidazione del sentire, l’amore e l’amicizia come beni che perdurano all’ansia e alla pena, l’urgenza di chiudere in una frase il senso di una possibile risposta. La poesia della Minotti nelle centoventitré  liriche propone anche riflessioni sulla realtà drammatica di un mondo dove ogni giorno la pace viene derisa, vilipesa, sopraffatta da chi vuole imporre il suo credo, forza, potere e la collega nella spoglia interiorità dei versi  alla semplicità severa di antichi valori e sentimenti che meriterebbero di non essere mai dimenticati. In questo senso La pace derisa conferma come la poesia resta ancora oggi la sua compagna fedele, la nicchia dove custodire i ricordi e lo specchio sincero della sua anima.

Marco Travaglini

Il Tesoro di Marengo

Lucio Vero, Settimio Severo o Marco Aurelio? Quale imperatore fu trovato nei pressi di Marengo? Si è infatti molto discusso tra gli studiosi per dare un nome a quel busto di epoca romana e oggi l’ipotesi più probabile è che sia quello di Lucio Vero (161-169 d.C.). Ma che bella storia. Da una cascina, nell’alessandrino, saltò fuori un giorno, all’improvviso, il busto a grandezza naturale dell’imperatore Lucio Vero e, insieme all’illustre personaggio, un tesoro di oggetti d’argento d’età romana risalenti al II-III secolo dopo Cristo.
Un ritrovamento eccezionale. È noto come il Tesoro di Marengo conservato nel Museo di Antichità di Torino, ai Musei Reali, dal 1936. Venne trovato in modo del tutto casuale, da un giorno all’altro, in una cascina alle porte di Alessandria nel 1928 durante alcuni lavori agricoli presso un casolare lungo la strada Alessandria-Tortona, nei pressi di Marengo, sul terreno dove la cavalleria di Napoleone sconfisse gli austriaci il 14 giugno 1800, uno dei suoi più famosi trionfi militari. È un vero e proprio tesoro di età romana imperiale, nascosto nel casale dopo il furto compiuto in un tempietto privato o in un santuario. Sono 31 i reperti che lo compongono, alcuni dorati, altri decorati a sbalzo. Non si tratta di semplice vasellame da tavola ma un’insieme di argenterie antiche che fanno riferimento a simboli del potere imperiale e militare. Oltre al busto dell’imperatore Lucio Vero, che regnò insieme al fratello d’adozione Marco Aurelio dal 161 fino alla sua morte nel 169 dopo Cristo, sono state trovate fasce decorative con simboli del potere imperiale e soprattutto gli argenti e altri oggetti decorati in lamina d’argento, taluni con resti di doratura, tra cui una tabella con dedica alla dea della fortuna Melior, un calice a forma di capitello, una fascia con spighe di grano, una lamina con Eracle e Apollo, una testa femminile di divinità, un piccolo capolavoro in argento con un’acconciatura stile antica Grecia e un medaglione con busto femminile.
Il pezzo più importante è però il busto di un giovane eroico Lucio Vero, che secondo le fonti storiche, accentuava il biondo dei suoi folti capelli con pagliuzze d’oro. Quasi tutti i pezzi erano un po’ schiacciati e deformati e, in qualche caso, bruciati. Sottoposto a due restauri, negli anni Trenta e Ottanta, il Tesoro di Marengo è oggi conservato nel Museo di Antichità di Torino. Tra i numerosi pezzi esposti si ammirano anche una corazza ornata da una testa di Medusa stilizzata e vari esempi di decorazioni vegetali come un elegante vaso a forma di capitello corinzio decorato da foglie di acanto e di loto, un frammento di coppa con foglie di quercia e di ghiande e una ghirlanda di spighe ornata di nastri.     Filippo Re

Via Padova 5, l’inizio di tutto in Barriera di Milano tra fuliggine e profumo di biscotti

Sono nato in via Padova 5, alloggio in affitto.

Correva l’ anno 1957. Mia madre raccontava che era talmente piccola che incinta all’ottavo mese non riuscì più a rialzarsi perché incastrata tra il letto e l‘armadio. Stava facendo le pulizie. Non si perse d’animo e piano piano si rialzò. Abituata nel cavarsela da sola. A 10 anni andò a lavorare alla Marus che sarebbe diventata Facis in corso Emilia a due passi da Porta Palazzo.  Orfana. Mio nonno per soli tre mesi non aveva compiuto 40 anni. Non arrivo’ mai al fronte perché morì prima di pleurite. Faceva il decoratore. Raccontatomi da tutti come uomo mite. Vivevano in via Bra ed erano nati in via Cuneo.

Precisamente non  in piena barriera di Milano. Ma tant’è che , almeno in quegli anni  faceva un tutt’uno oltre piazza Crispi ed il Dazio.  Metà case e metà officine meccaniche ed artigianali.  Grandi Motori da un lato e Ceat gomme dall’ altra parte. La Wamar il corso Mortara. Sicuramente il ricordo è anche il misto d’odore tra fuliggine , colate di gomma ed il profumo dolciastro dei biscotti. Il mio primo ricordo in assoluto è all’eta di tre anni. Ci eravamo trasferiti in via Cherubini 64. Avevo un febbrone da cavallo e chiedevo ai miei di comprare il televisore. Lo fecero gli zii paterni. Ero unico erede della famiglia. Scuola materna in via Monterosa e elementari alla Gabelli. Li’ organizzai un esercizio. Proprio così. Facevo la colletta per contrattare tutta la farinata di Giacu che si presentava sempre alle 12, 30. In questo modo anche chi non aveva soldi poteva mangiare. Egualitarismo  ante-litteram. Poi qualcuno fece la spia e cazziatone prima della maestra e poi dei genitori.  Un mese senza televisione. Poi le medie alla Baretti. Tre anni di puro divertimento e di pochissimo studio. Nonostante ciò uscii con ottimo. Erano  ancora i tempi in cui bastava stare attento alle lezioni. In quegli anni il mio incontro con lo sport.

Ginnastica artistica alla Palestra Sempione e pallacanestro all’oratorio Michele Rua. Poi un po’ di atletica, che non guasta mai. Dove  trovassi le risorse è ancora un mistero. Mi sono sempre piaciuti gli inizi.  Debbo confessare : deboluccio sulla lunga distanza.  Del resto non si puo’ avere tutto dalla vita. Sono gli anni in cui la frase più ricorrente era: non abbiamo dubbi sull’intelligenza di suo figlio, ma non si applica.

Destino cinico e baro. Addirittura mia madre mi portò all’Onmi.  Istituita dal fascismo e non abrogata dalla Repubblica. Una specie di consultorio famigliare vecchia maniera. Tecnicamente ragazzino difficile. Test attitudinali con relativa diagnosi: instabile psicomotorio con evoluzione intellettiva di un anno avanti rispetto alla media. In altre parole birichino ma intelligente. Tutto ma proprio tutto in Barriera. Ero decisamente sbordante anche perché decisamente grosso. Alle medie ebbi la prima cotta.  Ricordo ancora il nome: Lucia.  Fatale la festicciola di fine anno. Il classico scantinato con il classico mangia dischi e patatine e popcorn e Coca- Cola.

Non l’avrei più rivista ma quelle ore restano  indelebili nella memoria. Gli ardori sessuali rinviati al Liceo scientifico Albert Einstein.  Via Pacini, ovviamente in Barriera.  Forse tra i primi licei in Barriera e due diverse compagnie di amici.

I  giardini di via Mercadante e il basket dell’oratorio Michele Rua alias Auxilium Basket Monterosa. Devo al gioco della Pallacanestro le prime incursioni fuori Barriera.  Domenica si giocava. Una partita in casa ed una partita fuori casa . Oratorio San Luigi in via Ormea o al Martinetto al fondo di via San Donato. Fino all’altra parte della città, all’Oratorio Giovanni Agnelli,  il tempio del Basket.  Impossibile non ricordare la Crocetta in via Piazzi.  All’Agnelli ci giocai per tre anni. Praticamente tutti i giorni sul tram 10 tra allenamenti e partite.

Anche qui mi vennero d‘aiuto gli zii regalandomi il vespino 5o. Brigavo in giro cercando di rimorchiare.  Faceva la differenza. Poi si bighellonava nelle panchine dei giardini o sulla scalinata della chiesa. Giusto per turar tardi per la cena. Si studiava anche, vi assicuro.  Chi più chi meno. Qualcosa però si studiava. Magari non eravamo secchioni ma sì, qualcosa si studiava. La summa erano i campionati studenteschi. Addirittura andai a Roma per le finali dei giochi della Gioventù. Potremmo dire : dalla Barriera con furore, sfiorando la felicità e la spensieratezza.  Quel profumo di libertà che oggi non sento più. Libertà di conquistare quello a cui si ambiva. Sicuramente non era tutto facile. Ma era tutto possibile. Possibile ciò che era lecito. Piccoli valori e piccole morali che si trasmettevano nei reciproci comportamenti.

Piccole felicità nel fare quel canestro vincendo la partita  e piccole felicità  con quella ragazzina che  al cinema appoggiava la resta sulla tua spalla facendoti sembrare adulto. Tutto questo crescendo, tutto questo in Barriera di Milano.

Patrizio Tosetto

San Giovanni e la Famija turineisa che compie cent’anni

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La festa di San Giovanni venne ripristinata nel 1973 dalla Famija turineisa, il sodalizio fondato cent’anni fa da un gruppo di torinesi che ebbe a capo il giornalista  Gigi Michelotti  e l’avv. Giulio Colombini. Era il 1925, l’anno dopo il delitto Matteotti, Torino non era stata ancora fascistizzata interamente. La Famija nacque come un’associazione apolitica e tale ha saputo rimanere. Il suo giornale “Caval ‘d brons“ uscì allora e continua oggi  con una costanza ammirevole. In pochi anni i suoi soci diventarono cinquemila. E’ questo uno dei motivi che portò  nel 1932 il regime allo scioglimento del sodalizio, malgrado l’appoggio e la stima manifestata dal Principe ereditario Umberto di Savoia. Nel 1945 fu nuovamente l’avvocato Colombini a far rinascere l’associazione.  La sua sede storica in via Po resta un luogo ideale anche per il Carnevale che si teneva in piazza Vittorio ed aveva un Gianduja espresso dalla Famija turineisa . Poi Andrea Flamini creò la sua Associasiun piemonteisa fortemente sostenuta dalla Regione Piemonte che vide in lui l’alfiere della cultura piemontese all’estero con l’organizzazione di tanti spettacoli folcloristici in cui Flamini divenne il Gianduja più conosciuto. Egli era anche l’anima della festa di San Giovanni con il suo “farò“. Ma quest’anno per la festa di San Giovanni va  soprattutto citata la Famija che compie cent’anni sotto la guida sagace dell’editrice Daniela Piazza e di Giancarlo Bonzo. Da giovane la frequentai e ne fui anche socio, poi gli impegni mi impedirono una partecipazione che ritengo importante perché mi ha dato la fierezza di essere e di sentirmi torinese. Senza campanilismi fuori luogo, ma consapevole della storia di Torino che fu promotrice del Risorgimento e prima capitale d’Italia. Valdo Fusi, autore di “Torino un po’”, amava molto la Famija che mi invitò a ricordarlo insieme al Presidente Torretta e a Luigi Firpo.

L’omaggio di Torino a Giuseppe Mazzini

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo

 

Collocato in via Andrea Doria, angolo via Dei Mille, precisamente sullo spiazzo di confluenza tra le due vie, Giuseppe Mazzini viene raffigurato in una scultura bronzea, seduto in atteggiamento pensoso, avente una mano poggiata a sostenere il capo e l’altra su un pastrano adagiato sulle gambe. Il piedistallo lapideo è ornato da simboli della classicità rappresentati superiormente da due tripodi, collocati ai lati della statua e inferiormente, da pannelli bronzei disposti in sequenza. Nel pannello centrale è rappresentata la lupa capitolina nell’atto di allattare i gemelli, in riferimento alla Repubblica Romana, mentre sui restanti prospetti figurano corone di lauro che circondano i nomi dei principali sostenitori di Mazzini. Il sottostante basamento presenta, anteriormente, dei gradini simmetrici in ascesa verso la scultura. Nato a Genova il 22 giugno 1805 (quando Genova era ancora parte della Repubblica Ligure annessa al Primo Impero Francese), Mazzini è stato un patriota, uomo politico, filosofo e giurista italiano. Costituì a Marsiglia nel 1831 la Giovine Italia, fondata sui principi di “Dio e popolo” e “pensieri e azioni” volti a promuovere l’indipendenza della penisola dagli stati stranieri e la costituzione dell’Italia fondata sui principi della repubblica. Anche se osteggiato dal protrarsi dell’esilio forzato e dai contrasti in patria con la ragione di stato (promossa da Camillo Benso Conte di Cavour e da Giuseppe Garibaldi), Mazzini perpetuò il suo impegno politico che contribuì in maniera decisiva alla nascita dello Stato Unitario Italiano.

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Nello stato riunificato risiedette nell’ultimo decennio della sua vita come “esule di patria”, sotto falso nome; morì a Pisa il 10 marzo del 1872. In Torino come in altre numerose città della nazione, quale atto di riconoscimento al suo impegno, fu eseguito postumo il monumento in suo onore. Per quanto riguarda la città di Torino, nell’intenso programma delle manifestazioni svolte nella città per il giubileo dell’Unità d’Italia, nel 1911, venne istituito un apposito Comitato per erigere un monumento in memoria di Giuseppe Mazzini, distintosi come uno dei principali rappresentanti del Risorgimento italiano. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Repubblicana Torinese, sorse in concomitanza alla ricorrenza del quarantesimo anniversario dal decesso del patriota genovese, di cui erano in corso i preparativi per le celebrazioni. Il Comitato sottopose all’Amministrazione comunale la domanda di aderire all’iniziativa ma la proposta venne osteggiata in quanto, si affermava, fosse avanzata da un gruppo partitico; per non pregiudicare l’esito della richiesta venne costituito un nuovo Comitato dichiarante l’estraneità ad ogni questione politica. Nel 1913 l’istanza di questo nuovo Comitato venne favorevolmente accolta dal Consiglio Comunale. Assunse l’incarico per l’ideazione del complesso scultoreo, Luigi Belli, docente presso la regia Accademia Albertina di Belle Arti ed esecutore di significative opere nella città. Belli accettò l’incarico senza richiedere alcun compenso per la sua attività (consapevole forse che sarebbe anche stata la sua ultima opera data l’avanzata età) ma domandò unicamente il rimborso per le spese sostenute nella realizzazione della proposta.

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Nonostante la rinuncia dell’artista, il bozzetto dell’opera venne approvato stimando un importo considerevolmente superiore a quello stabilito per l’esecuzione del monumento, quindi per arginare i limiti economici incorsi, l’Amministrazione concesse una agevolazione per il pagamento del dazio sui materiali, contrattò con il Ministro della Guerra in Roma per l’acquisizione del bronzo necessario ad un prezzo agevolato, mentre il Comitato promosse una pubblica sottoscrizione presso municipi, istituti civili e militari nazionali. Successivamente i modelli in creta a scala reale della statua e di un altorilievo, furono inviati alla fonderia scelta dal Belli, con sede presso Milano, per eseguirne la fusione in bronzo; la statua bronzea ed il relativo modello in gesso, vennero recapitati a Torino, su un carro ferroviario atto al trasporto speciale, l’11 maggio 1917. Il complesso scultoreo fu posto in opera, nonostante fosse privo dell’altorilievo rappresentante la “Libertà” (non consegnata forse a causa di un compenso non corrisposto dal Comitato), figurando ugualmente come un altare alla repubblicana libertà. L’inaugurazione della scultura commemorativa dedicata a Mazzini si svolse il 22 luglio 1917. La cerimonia del monumento si celebrò in presenza di autorità nazionali e cittadine, in una città dall’atmosfera poco festosa a causa della popolazione mobilitata sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo.

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(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

Il Mago Povero. Teatro di altri tempi

Il malessere socio-culturale emerso nel periodo della contestazione sindacale e studentesca del ’68, nato sull’onda della protesta giovanile americana, creò l’esigenza di diffondere una cultura a livello popolare al di fuori dei teatri stabili pubblici. Cercare un nuovo pubblico bisognoso di teatro nelle piazze, strade, cortili e tra gli emarginati fu l’intento del Collettivo Gramsci. Il gruppo amatoriale astigiano, nato nel 1971, fu ispirato dalle esperienze del teorico musicale e pioniere degli happening John Cage, unendo musica e poesia alle arti visive e dal teorico anarchico Julian Beck del Living Theatre, l’attore di Pasolini in Edipo re  influenzato da Artaud, il regista teatrale della crudeltà. La diffusione del teatro-documento  ottenne un notevole successo al Palasport di Torino nel 1972, momento storico denso di grandi scioperi per le riforme in piena strategia della tensione. Il linguaggio provocatorio, satirico e grottesco sui temi della salute e del lavoro in fabbrica rappresentò una prima evoluzione del Collettivo, dimostrando che questo strumento era più efficace del tipico comizio di propaganda. L’impegno sociale assunto nel 1973 dal Teatro del Mago Povero, nuova identificazione meno ideologica del precedente Collettivo, vide un allontanamento progressivo dalla cultura operaia utilizzando un linguaggio poetico ed estetico affidato al travestimento dell’attore, magia del mago e scienza del povero.
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L’animazione teatrale, utilizzata come nuova forma culturale in collaborazione con il comune di Asti, suscitò interesse nello spettacolo d’avanguardia allestito dal Mago Povero. Il Collettivo ospitò il Living Theatre,  teatro nomade andato in scena anche al Salone Tartara di Casale Monferrato, il Corpo di ballo delle Folies Bergéres, il Coro dell’Armata Rossa, Dario Fo con la giullarata del Mistero Buffo e l’onorevole Enrico Berlinguer. Spettacoli ed happening  andarono in scena al Théâtre du Chêne noir e nelle strade di Avignone, alla Comune di Milano, nella piazza Maggiore di Bologna, ad Aosta, Brera, Chieri, Moncalieri, al teatro Gobetti di Torino, ad Asti Teatro che annovera Gassman e Sgarbi tra i direttori artistici, in un tour mensile in Sardegna, nel teatro di Alba e nell’ospedale psichiatrico di Volterra, dove un ricoverato partecipò alla recita. Nel 1978 il Mago Povero diventò professionista, il gruppo di base autogestito assunse il nome di Collettivo Teatro Musica e dopo anni di rappresentazioni drammaturgiche interne il gruppo si avvicinò ad autori contemporanei. Importante la collaborazione musicale di Paolo Conte, Gianni Basso al sax tenore e Pierangelo Bertoli, gli artisti astigiani Silvio Ciuccetti pittore e Valerio Miroglio, scultore e pittore, gli attori Alessandro Haber, Felice Andreasi e Athina Cenci, vincitrice di due David di Donatello e co-fondatrice del trio comico toscano Giancattivi con Alessandro Benvenuti e Francesco Nuti, sostituito da  Antonio Catalano del Mago Povero, ospite al Maurizio Costanzo Show.

Diversi gruppi musicali entrarono nella grande famiglia del Collettivo, il gruppo rock Viaggio di Alice, Canzoniere Cecilia per sole voci femminili con un collage di varie epoche, Musica Dulce con canti polifonici rinascimentali, barocchi e contemporanei diretto dalla maestra Rosalba Gentile. Dopo lo spettacolo d’esordio ‘Off Limits’ sulla guerra in Vietnam, fu portato in scena ‘Prendete una donna e bruciatela come strega’, il processo dell’uomo inquisitore impermeabile ai sentimenti e all’emancipazione femminile. Seguì ‘Vivo in gabbia e mi nutro di incubi’, provocazione ripetitiva gestuale, visiva e sonora sull’emarginazione che compiange il dolore della condizione umana. ‘Che fine farà la Donna Cannone?’, spettacolo clownesco di attualità politica su pista da circo con grande partecipazione di pubblico. ‘Sotto la pelle del principe’, tratto da Shakespeare e Machiavelli, fu dedicato al 40° della morte di Gramsci analizzando il rapporto tra potere e Stato con un dinamico gioco delle parti ricco di ironia. ‘Mounsù Travet’ di Bersezio, il classico impiegato modello del teatro piemontese fine ‘800 deriso da tutti. ‘Il signor Mockimpott’, incarcerato senza motivo di Peter Weiss e ‘Il re nudo’, fiaba comica sul vestito dell’imperatore tratta dal testo di Schwarz e dalla favola di Andersen, sono alcuni dei 68 spettacoli allestiti da entrambi i gruppi con una frequenza annuale di 100 rappresentazioni, comprese alcune fiabe per ragazzi.

Al nucleo originario fondato da Antonio Catalano, Luciano Nattino, Renzo Fornaca e Lorenzo Nisoli si aggiunsero Maurizio Agostinetto, Silvana Penna, Graziella Borgogno, Giulietta Miroglio, Giancarlo Ferraris, Ornella Boido e altri 94 artisti. La tragedia del 1983 sul Rocciamelone in Val di Susa vide la scomparsa del fondatore Renzo Fornaca, la sua ragazza Franca Ravera e Luisa Steffenino. Lo smarrimento degli increduli colleghi segnò la svolta alla ricerca di percorsi alternativi. Nel 1988 il lento declino degli ideali, splendido miraggio assopito, portò alla sostituzione del nome Mago Povero per identificarsi come Alfieri, segnando una definitiva frattura dal Gramsci iniziale. I nuovi portatori d’insegne, esploratori del rapporto uomo-natura in uno spazio fisico-mentale denso di speranze, ricercarono collaborazioni con attori e nuove compagnie, creando nel 1994 La Cascina degli Alfieri a Castagnole Monferrato, nuova residenza dell’associazione per la promozione culturale-artistica.
L’evoluzione culturale e la trasformazione artistica del Mago Povero rappresentò prima distacco e poi allontanamento da facili entusiasmi estremisti, precursori di atti illegali attribuiti ad altre organizzazioni contestatrici del sistema. L’attività musicale di Lorenzo Nisoli, già tecnico alla Fiat Lingotto e quadro dirigente alla Fiat Mirafiori, prosegue come contrabbassista nella Mandolinistica Paniati e come bassista nella Palmarosa Band, realizzando concerti nell’Italia del nord e in Germania alla rassegna Musiknacht. Amelia Saracco, docente di mandolino con il metodo Suzuki e componente dell’Orchestra Mandolinistica di Torino, musicista di spicco in entrambe le formazioni, faceva parte del celebre Open Quartet, attivo a Casale Monferrato nel 1997 con incisioni di musica etnica in forma cameristica. Oggi la nascita di nuovi gruppi teatrali, ormai distaccati dal sociale, si è interrotta. Lo spirito creativo del Collettivo, finalizzato al raggiungimento degli obbiettivi, fu la vera magia del loro teatro, nobile intento realizzato con passione, sacrificio e povertà dei mezzi.
Armano Luigi Gozzano

“I marmi del Re”, storia del restauro di Palazzo Madama

È stato presentato oggi, presso il Salone d’Onore della Fondazione CRT, il volume “I marmi del Re, dedicato allo straordinario intervento di restauro e consolidamento della facciata juvarriana di Palazzo Madama, simbolo identitario della città e patrimonio UNESCO, promosso dalla Fondazione Torino Musei e interamente sostenuto dalla Fondazione CRT, principale sostenitore privato del bene con 18 milioni di euro complessivamente stanziati.

La pubblicazione – curata dall’architetto Gianfranco Gritella, direttore dei lavori, ed edita da Electa – restituisce, attraverso parole e immagini, l’intero percorso tecnico, artistico e umano di questo complesso e innovativo intervento.

L’opera si concentra sull’intervento di consolidamento e restauro della sezione centrale della facciata realizzata tra il 1718 e il 1721 su progetto di Filippo Juvarra. attraverso un’indagine filologica e storica il volume esplora le vicende e le caratteristiche de i restauri attuati tra Ottocento e Novecento condotti da Alfredo d’Andrade.

Alcuni capitoli indagano l’impiego dei marmi provenienti dalle antiche cave delle Alpi Cozie, riscoperte ed esplorate puntualmente e rilevate con droni e specifiche tecnologie laser di ultima generazione, studiando i luoghi di estrazione, i metodi di lavorazione, trasporto e montaggio dei blocchi

L’indagine archeologica sull’architettura ha permesso, in maniera inedita, di ricostruire le tecnologie e le macchine utilizzate nel cantiere storico con disegni e rilievi che descrivono tutti gli elementi scultorei e lapidei che compongono la facciata.

Il restauro – avviato nel 2022 e concluso nel settembre 2024 – è stato interamente finanziato dalla Fondazione CRT, con un contributo straordinario di 2,9 milioni di euro, e promosso dalla Fondazione Torino Musei con la collaborazione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Torino.

L’intervento ha riguardato il consolidamento strutturale dell’avancorpo centrale con “protesi” reversibili in acciaio, il restauro dei marmi e dei serramenti (11 finestroni barocchi, i più grandi del Piemonte), il recupero dei sotterranei e, in particolare, il delicato restauro delle quattro monumentali statue allegoriche del “Buon Governo” – Giustizia, Liberalità, Magnanimità e Abbondanza – dello scultore carrarese Giovanni Baratta, protagoniste di uno scenografico volo nel cielo di Torino durante la fase di smontaggio.

Si è trattato di una spettacolare, complessa e delicata operazione “chirurgica”, capace di “mixare” antiche tecniche artigianali e metodologie all’avanguardia, recuperando i marmi originali, accanto all’impiego di materiali contemporanei.

Tutto il restauro è stato preceduto da una complessa campagna diagnostica e di rilievi approfondita durante il cantiere con l’impiego di apparecchiature laser, georadar e indagini tomografiche mediante risonanza magnetica al fine di conoscere la consistenza interna dei blocchi lapidei di colonne e pilastri.

Un tratto distintivo del progetto è stato l’approccio partecipativo e inclusivo del cantiere: grazie all’ascensore allestito sul ponteggio e accessibile anche alle persone con disabilità, centinaia di visitatori hanno potuto vivere da vicino il cantiere, ammirando da un punto di vista inedito le architetture torinesi, dalla Mole Antonelliana a Superga. Un’esperienza unica di valorizzazione del patrimonio culturale che ha coinvolto la comunità.

Foto Perottino