Il desiderio di “riparare il mondo”

 

Viviamo in un’epoca difficile, colma di preoccupazioni, paure e tensioni. Da molto tempo guerre e conflitti, problemi sociali e varie emergenze (non ultime quelle sanitarie) hanno costretto milioni di persone a vivere con il fiato sospeso, a volte rallentando la vita sociale. Nella lunga stagione della pandemia fu una decisione obbligata e necessaria. Fummo costretti a modificare i ritmi quotidiani, le abitudini, il modo di lavorare, sperimentando lo smart working e il distanziamento sociale. Alcuni subirono dolorosi lutti, soffrendo in solitudine. Anche i gesti più semplici, quelli che davamo per scontati, erano diventati un tabù, rientrando nella categoria dei comportamenti a rischio. Ci si salutava da lontano, evitando strette di mano, abbracci, gesti affettuosi. Ci si rese conto di come le telefonate e i messaggi, le email e le comunicazioni sui social non potranno mai sostituire un sorriso, uno sguardo che faccia capire se una persona sta bene o meno, se ha gli occhi tristi o si intravvede sul volto un bagliore di felicità. Questa esperienza inedita di tempo sospeso avrebbe dovuto insegnare almeno tre cose. In primo luogo l’importanza, l’imprescindibilità delle relazioni umane in una società dove emozioni, affetti, rancori, presente e futuro parevano destinati a vivere solo sui social media. Il calore di una stretta di mano o di un abbraccio, quando si tratta di gesti sinceri e non relegati ai convenevoli, sono qualcosa di insostituibile. La seconda lezione è che i confini, di fronte alla diffusione pandemica del virus o al pericoloso allargarsi dei conflitti si dissolvono, diventano astratti, rappresentano poco o nulla, non possono fermare i contagi, non mettono al riparo nessuna comunità o nazione da eventuali escalation militari. Lo stesso accadde con la nuvola radioattiva di Chernobyl del 26 aprile 1986. In un mondo globale e interconnesso l’inquinamento, i virus, le crisi economiche e finanziarie, i venti di guerra valicano le barriere daziarie e quelle convenzionali e devono essere affrontati con impegni congiunti, insieme.

E’ così per la pace, per le materie prime e la finanza, e dal punto di vista ecologico, sanitario, economico e sociale. Chiudersi a riccio, alzare muri e barriere in nome di una presunta sovranità nazionale, illudersi di poter fare da soli o srotolare centinaia di chilometri di filo spinato non solo è inutile, ma è senz’altro dannoso. Serve uno sforzo vero per risolvere i conflitti in corso e trovare i giusti equilibri che evitino il ricorso alla violenza. Servono investimenti nella ricerca per individuare e produrre i vaccini per tutti, collaborando. Servono politiche solidali su scala internazionale e aiuti economici per chi ha meno, si trova in difficoltà e soffre di più. Servirebbe un nuovo modello di sviluppo che tenesse conto dell’equilibrio tra lo sfruttamento delle risorse, il bilancio ecologico e quello economico. Servono, per quanto ci riguarda e per dove siamo collocati nello scacchiere del mondo, risposte celeri e concrete a livello europeo, assegnando maggior peso e un ruolo più incisivo all’Europa anche se dalle urne è emersa una volontà in parte diversa che rende più traballante e incerta questa prospettiva. La terza cosa è forse la più necessaria e al tempo stesso la più difficile. “Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer. Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer sembrano davvero profeti inascoltati. Il problema è che “riparare il mondo” non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo. E qui la sfida diventa immensa. Tra dodici mesi saranno trenta gli anni che ci separano da quel 3 luglio 1995 quando Alexander Langer lasciò un ultimo biglietto prima di scegliere di allontanarsi volontariamente dalla vita. Poche, dolorosissime parole: “I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Così me ne vado più disperato che mai; non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. Aveva 49 anni ed era nato a Sterzing, Vipiteno, in Alto Adige.

Uomo di frontiera e senza frontiere, senza patria e con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, costruiva ponti, univa popoli, faceva politica da persona che con molta della politica di quel tempo aveva poco a che spartire, come, sicuramente, non avrebbe nulla in comune con la politica di oggi. Al Pian de’ Giullari, nei pressi di Firenze, scelse un albero di albicocco in un uliveto, si tolse le scarpe e ci lasciò al nostro “grande freddo”, come disse Daniel Cohn Bendit. Lasciò tutti orfani di migliaia di appunti, riflessioni, parole, strette di mano, viaggi. Lasciò molti scritti e l’eredità difficile da gestire di un uomo ostinato e fragile, curioso, intelligente. Venticinque anni di assenza sono tanti per chi gli ha voluto bene e chi cercava nelle sue parole una risposta o l’illusione di averla. Non credo gli sarebbe piaciuta quest’Europa sempre più cinica, lontana da quella che lui aveva intravisto. E’ facile immaginare il giudizio critico su questo mondo in conflitto con la sua idea di conversione ecologica, di uno sviluppo “più lento, profondo, dolce”, rovesciando il motto olimpico del “più veloce, alto, forte”. Le sue idee, i suoi scritti e la sua ostinata voglia di costruire ponti l’ha lasciata in eredità a noi. Nonostante i molti dubbi e le pochissime certezze rimane però la speranza che si debba, comunque e sempre, tentare di “riparare il mondo”. Se capissimo il senso del comune destino, il fatto di condividere in gran parte gli stessi bisogni e ambizioni comprenderemmo di avere anche le medesime vulnerabilità e i difetti che ci rendono umani. Capiremmo così quanto sia necessario prenderci cura l’uno dell’altro, non solo nei momenti di difficoltà, ma anche in quelli di serenità e imparare a non dare nulla per scontato. In quel caso anche il volto triste di Alexander Langer forse di distenderebbe in un sorriso perché avrebbe la speranza, magari tenue, ma certa che staremmo continuando “in ciò che era giusto”.

Marco Travaglini

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