Da giovedì 18 gennaio, sul palcoscenico del teatro Alfieri
Il film, in primo luogo, del 1980, una ricca stagione cinematografica dentro cui ritagliarono i propri spazi titoli prestigiosi, il luciferino “Shining” e “Toro scatenato”, il tormentato “Cancelli del cielo”, in cui Redford volava verso gli Oscar con la sua opera prima “Gente comune” e Fellini consegnava un’imperfetta “Città delle donne”, “Il grande uno rosso” di Samuel Fuller e Truffaut con “L’ultimo metrò”, in cui esordiva Almodovar e Richard Gere squadernava le voglie delle signore bene di Los Angeles con “American Gigolo”; e ancora David Lynch, Scola, Woody Allen, Verdone. E parecchi altri. Epoca di successi, di capolavori e di botteghini e produttori soddisfatti, nella quale un record economico non spingeva ad aprire dibattiti e intonare alleluja di ringraziamento. Nell’area dei successi s’inseriva a ragione, acclamato e seguitissimo, “Fame”, dilatato da noi con “Saranno famosi”, alla regia un ispirato Alan Parker – regista pronto a passare dalla tragedia del giovane Billy Hayes rinchiuso nelle carceri turche in “Fuga di mezzanotte” a “Birdy” e i traumi che la guerra in Vietnam ha lasciato in certi ragazzi, dall’odio razziale nel profondo Sud di “Mississipi Burning” al musical “Evita” con Madonna – ad impaginare le audizioni e i sogni e le grandi aspirazioni, i dolori e gli amori e i fallimenti di un gruppo di ragazzi, ballerini cantanti e attori, ritratti nei quattro anni di percorso nelle aule della prestigiosa High School of Performing Arts di Manhattan, a mostrare la grinta e la fatica di ogni giorno, a descrivere anche tra le aule della scuola quanto di “american dream” c’era in quei ragazzi che con ogni mezzo aspiravano ad un futuro. Una formidabile colonna sonora di Michael Gore e una canzone cardine, “Fame” appunto, cantata da Irene Cara, che abbracciarono due statuette agli Oscar (sei le nomination, tra cui quella per un’altra canzone, “Out Here on My Own”). Era difficile non portarsi a casa i sentimenti di Leroy Johnson, infanzia difficile e solitaria e rapporti disastrosi con gli insegnanti, di Coco Hernandez vero esempio di caparbietà, di Bruno Martelli e della sua voglia di esibirsi al pianoforte, dell’aspirante attrice insicura, Doris, e del talentuoso Montgomery. I ritmi nella sala prove e la musica che si riversa nelle strade, il saggio di fine corso che prende le mosse dal precedente “A Chorus Line”.
Quell’immenso successo spinse i produttori a dar vita alla serie che avrebbe occupato le tivù per 136 episodi, lunga sei stagioni tra il 1982 e l’87 (da noi, sull’antica Rai 2, tra il gennaio 1983 e il gennaio 1989, inizialmente la domenica sera, poi in estate, nella fascia del dopo pranzo), qualcuno dei ragazzi a mantenere il proprio ruolo (Lee Curreri fu ancora Martelli, Gene Anthony Ray ancora Leroy) e altri a dire basta, come Irene Cara che cercò altre strade, come il cinema o i concerti, o una soap opera lunga cinque anni, che era più o meno lo specchio della sua vita, come il successo mondiale del brano “Flashdance… What a Feeling” che nel 1984 la portò ancora all’Oscar per la miglior canzone. Nuove facce, nuove voci, nuove problematiche in un mondo che stava cambiando tremendamente in fretta, nuovi successi cercati: anche una certa Louise Veronica Ciccone si presentò un giorno per entrare a far parte della serie e fu scartata. Curreri non ha mai smesso di creare note, qualcuno si perse, la rabbia di Gene Anthony Ray (Leroy) si riversò nella droga, nell’incostanza, nella ribellione, nei falsi progetti, nonostante un rifugio e l’interessamento di molti trovati in Italia.
“Fame” continuava ad essere un fenomeno leggendario, un monumento, un’eccellente macchina dello spettacolo, un esempio da seguire per i molti che intraprendevano quella strada. Ecco che, nel 1988, a Miami, quello che già era stato il produttore del film, David De Silva, pensò di portare la propria creatura in palcoscenico: ne avrebbe decretato il successo in tutto il mondo e per sempre. Ultima tappa di un così lungo percorso artistico, ecco che, oggi, una grande produzione debutta a Torino, al teatro Alfieri – confermandosi in tal modo le promesse fatte da Fabrizio De Biase ad inizio stagione, di portare a Torino le eccellenze e le migliori produzioni, “Cabaret” d’inizio stagione non era stato che il biglietto da visita – da giovedì 18 gennaio (sino a domenica 28, per intraprendere poi una lunga tournée in giro per tutta l’Italia, da Milano a Cosenza a Trieste, da Trento a Napoli a Bari, da Bologna a Firenze a Roma, numerose alzate di sipario sino al maggio prossimo), “Fame” nella versione firmata da Luciano Cannito, che riunisce la lunga esperienza di regista e coreografo (lo affianca Fabrizio Prolli) internazionale, uno spettacolo dove in un ritmo travolgente, capace di coinvolgere con qualche minimo aggiornamento ogni generazione (quelli che con intensità si lasceranno nella memoria accompagnare dalle immagini conosciute un tempo sullo schermo, come quelli che per la prima volta non potranno non essere toccati dalla storia e dal suo ritmo indiavolato), in una colonna sonora arricchita di nuovi brani, si alterneranno canto, danza, recitazione, musica.
Le scene sono firmate da Italo Grassi e i costumi vedono la firma di Veronica Iozzi, la direzione musicale è di Giovanni Maria Lori (una lunghissima carriera di direttore e supervisore musicale, direttore d’orchestra, autore interno Mediaset e insegnante di canto ad “Amici” di Maria De Filippi, arrangia tra gli altri per Francesco Sarcina e i Maneskin, nel 2017 ha arrangiato il medley cantato da Robbie Williams per “XFactor”), gli arrangiamenti musicali sono di Raffaele Minale, Franco Poggiali, Angelo Nigro e Maurizio Sansone, tutte figure di spicco nell’universo del musical, del teatro e degli show pop internazionali. Le liriche sono di Jacques Lévy e le musiche di Steve Margoshes, la canzone dell’Oscar la si deve al duo Dean Pitchford e Michael Gore. Ad incanalare come insegnanti i ragazzi nelle varie discipline, sul palcoscenico ecco gli apprezzatissimi Barbara Cola (Miss Sherman), Lorenza Mario (Miss Bell), Stefano Bontempi (Mr. Sheinkopf) e Garrison Rochelle (Mr. Myers), uomo di spettacolo a tutti noto che trasporta con grande simpatia il proprio ruolo dalla televisione al palcoscenico. E poi ci sono i ragazzi, quelli che sera dopo sera esploderanno in quella bravura che è nella speranza di tutti possa manifestarsi in questo come in cento altri spettacoli che dovranno affrontare: c’è Alice Borghetti (Carmen), Flavio Gismondi (Nick), Ginevra Da Soller (Serena), Alfredo Simeone (Joe), Michelle Perera (Mabel), Raymond Ogbogbo (Tyrone), Giuseppe Menozzi (Shlomo), Greta Arditi (Iris), Arianna Massobrio (Grace) e Claudio Carlucci (Goody). Ognuno a percorrere, tappa dopo tappa, la strada verso un beneaugurante “saranno famosi”. E per chi voglia applaudirli al di fuori del teatro, è in programma ancora un flash mob, entusiasmante come il precedente in piazza Castello, sabato 20 gennaio, tra le 15,30 e le 16, presso il Centro Commerciale Lingotto. Buon (assicurato) divertimento!
Elio Rabbione
Nelle immagini: il manifesto dello spettacolo, momenti del film di Alan Parker e “gli insegnanti” della “High School Performing Arts di Manhattan” (da sinistra, Stefano Bontempi, Barbara Cola, Garrison Rochelle e Lorenza Mario, con al centro Luciano Cannito).
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