Si lavora il sabato?

La disoccupazione non è un problema degli ultimi; più recente la difficoltà da parte di molti imprenditori nel reperire maestranze idonee alle mansioni richieste, problema che sta assumendo ledimensioni di una tragedia.

Il reddito di cittadinanza che ha assopito la voglia di cercare un lavoro preferendone, al limite, uno in nero con cui integrare il reddito, la pretesa di decidere in quali orari e con che modalità prestare lavoro ed una grassa ignoranza da parte dei candidati stanno portando all’esasperazione gli imprenditori che sarebbero disposti ad assumere essere umani, non capre.

Per scrivere questo articolo ho contattato alcuni conoscenti che si occupano di colloqui di assunzione e di gestione delle risorse umane e ne è venuto fuori un quadro drammatico.

La prima domanda che pongono è “Quanto guadagnerò?”, spesso formulata in modo meno nobile, seguita in ordine di occorrenza da “Si lavora il sabato?”, “C’è la mensa?”, per arrivare al “Ogni quanto posso fare pausa per fumare?” e, dulcis in fundo “Le ferie posso prenderle quando voglio io?”.

E’ evidente che qualsiasi gestore delle risorse umane degno di quel nome accompagnerà il candidato alla porta dicendogli “Aspetti nostre notizie” (non dice per quanto tempo).

L’unica cosa che consola è che almeno sotto questo aspetto si è raggiunta la parità di diritto tra maschi e femmine: gli ignoranti appartengono ad entrambi i sessi in uguale misura.

L’intelligenza, che non posseggono, vorrebbe che le domande vertessero su “Part time o full time?”, “Tempo determinato?”, “Orario di lavoro?”, “Dovrò seguire dei corsi?” fino a domande più specifiche tipo “Dovrò viaggiare?“ oppure “Fate dei corsi di aggiornamento periodici?” anche se l’educazione che non hanno ricevuto, perché impegnati a criticare gli insegnanti, vorrebbe che le domande venissero da loro poste alla fine del monologo dell’intervistatore.

E’ incredibile come i giovani riescano a reperire sul web le informazioni più rare, magari com’erano fatti i virus nel pleistocene, ma non si informano su nulla inerente il lavoro per il quale stanno per affrontare il colloquio (software usati in sanità, utensili a controllo numerico, legge sulla privacy piuttosto che elementari nozioni di marketing che, tirate fuori al momento opportuno, farebbero salire loro uno scalino verso l’Olimpo dell’assunzione).

Molti esercizi pubblici hanno seri problemi di servizio perché il personale è insufficiente a coprire i due o tre turni della cena rischiando che, a metà serata, il cameriere (o la cameriera) si licenzino per i motivi più futili.

In un corso di comunicazione per addetti dei pubblici esercizi che sto producendo, metto particolarmente in risalto come alcuni punti fermi di quella professione abbiano la prevalenza sui tuoi diritti o interessi: non puoi fumare durante il servizio perché l’odore può infastidire i clienti, niente profumi/dopobarba per la stessa ragione, abiti sempre puliti anche se presti servizio da “Gino il zozzone”, pochi tatuaggi e non in vista, ed altro. Nessuno ti obbliga a lavorare come cameriere di sala ma se accetti le condizioni non le detti tu, le accetti.

E’ evidente che la colpa di questa strage neuronale non sia unicamente dei giovani ma anche, e soprattutto, di chi non li ha responsabilizzati, di chi non ha permesso che i figli imparassero ad adottare decisioni, assumessero responsabilità imparando, inevitabilmente, dagli errori.

Nel mio libro “Ventiquattro sfumature di vita” parlo dell’importanza di camminare con le proprie gambe anziché farsi condurre da qualcuno che, normalmente, sceglierà anche il percorso; quanti dei nostri giovani fanno i mercatini per racimolare un piccolo gruzzolo col quale pagarsi le vacanze, o fanno piccoli lavoretti quali tinteggiare un alloggio, svuotare cantine e simili per rendersi, almeno in parte, indipendenti dai genitori? Genitori che temono che i figli possano morire di fatica iniziando a lavorare prima dei 30 anni di età.

Quando, e succede spessissimo, qualche genitore mi dice che manda il figlio dallo psicologo perché non se la cava da solo, perché non ha ancora una fidanzata (non importa di che genere) o perché è insicuro penso che forse lo psicologo avrebbe molto più da fare con i genitori che hanno allevato un figlio nel peggiore dei modi, non avendo i requisiti per diventare genitori, ed ora sperano che, pagando, lo psicologo possa rimediare ai loro errori.

Naturalmente di dialogo aperto fra genitori e figli non se ne parla.

Sergio Motta

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