Dalle vetrine di Torino a Caravaggio: breve storia della Pasqua

Coniglietti, pulcini e chiocce stanno facendo capolino nelle vetrine, i dolciumi sono ancora più colorati e zuccherini e il bel tempo risplende nelle esposizioni delle vie del centro. Torino si agghinda a festa in questi brevi e fuggevoli giorni di Pasqua, un po’ di turismo brulica tra i bar, qualcuno ne approfitterà per andare a passeggiare lungo il Po, altri invece si rintaneranno nell’aria condizionata dei musei, altri ancora invece fuggiranno fuori città, in cerca di un po’ di sollievo dal “tran-tran” quotidiano.

Cari lettori, non so voi, ma io necessitavo proprio di questi (pochi) giorni di pausa.
La primavera sembra essere arrivata sul serio, il sole caldo ci ha costretto al cambio stagionale degli armadi e il polline aleggia impetuoso nell’aria.
Diciamoci la verità, ormai quasi del tutto miscredenti e sempre sull’orlo del “burnout”, di tali giorni di festa ci basta sapere che gozzoviglieremo con amici e parenti, magari per una volta ci addormenteremo felici sul divano, certo stanchi, con qualche traccia di cioccolato sulle labbra e un po’ puzzolenti di griglia, ma felici.
È importante ritagliarsi un po’ di tempo per noi, dovremmo imporcelo ogni tanto, dovremmo ribellarci a questa società che ci vuole schiavi lobotomizzati e silenziosi, sempre con la testa china, impauriti dal non fare abbastanza, perennemente spaventati dal poter perdere quel che abbiamo per un misero “passo falso” o una richiesta inopportuna.
Come fare, cari signori? Non lo so. Questi sono solo i pensieri di una precaria qualsiasi, assillata dai comuni timori e sempre un po’ più disillusa.
Un buon metodo che ho trovato per districarmi “dal logorio della vita moderna” è scrivere per voi distinti lettori, e parlarvi degli argomenti più disparati, della nostra bella Torino, della scuola, di personalità importanti, di ricorrenze e di feste. Ecco allora l’opportunità di alleggerirmi, discorrendo in vostra compagnia proprio di questo giorno di Pasqua, di una delle tante feste commercializzate, vittime di un Consumismo sfrenato che volutamente scrivo con la maiuscola; vorrei far cenno alle origini di tale ricorrenza e ai suoi significati profondi, ma avrei piacere di farlo non solo attraverso nozioni storico-culturali, ma soprattutto ricorrendo al linguaggio che preferisco, ossia quello dell’arte. Principale festività del Cristianesimo, la Pasqua, o Domenica della Resurrezione, è la commemorazione della resurrezione di Gesù, secondo quanto riportato nel Nuovo Testamento; la celebrazione è preceduta dalla Quaresima, ossia Quaranta giorni di digiuno, preghiera e penitenza.

La settimana precedente al grande giorno viene detta Settimana Santa, periodo che comprende il “Triduo pasquale”, incluso il giovedì Santo, che commemora la “lavanda dei piedi” e “l’ultima cena”, e il venerdì Santo, volto invece alla rimembranza della crocifissione e della morte di Gesù.
Il tempo pasquale inizia la domenica di Pasqua e si prolunga per sette settimane, al termine delle quali si celebra la Pentecoste, dal greco “πεντηκοστή [ἡμέρα]”, “pentecosté [hēméra]”, “cinquantesimo (giorno)”, occasione dedicata alla celebrazione dell’effusione dello Spirito Santo, dono di Gesù. Anche nella cristianità orientale tale periodo termina con la Pentecoste, ma il commiato della Festa cade il trentanovesimo giorno – non il cinquantesimo – esattamente il dì precedente alla festa dell’Ascensione.
La Pasqua fa parte delle “feste mobili”, non cadenti a data fissa: la data è calcolata sulla base del calendario luni-solare, similare a quello ebraico, il giorno dedicato alla celebrazione varia di anno in anno, secondo i cicli lunari, esso cade la domenica successiva al primo plenilunio della stagione primaverile e determina la cadenza delle altre festività quali la Quaresima e la Pentecoste.
Le “usanze pasquali” sono tante e diversificate, vi sono le veglie di mezzanotte, i saluti, le particolari decorazioni, “la rottura delle uova di Pasqua” – simbologia legata al sepolcro vuoto di Gesù -, il giglio, simbolo di resurrezione, vi sono ancora le sfilate, i cibi tradizionali come la colomba e le mille immagini di pulcini e conigli nei cestini. Ogni regione ha la sua peculiarità e tradizione, ma in generale il clima pasquale è colorato e festoso: i parchi iniziano a popolarsi, le scuse per fare allegre passeggiate si trovano più facilmente, i supermercati sono presi d’assalto e il profumo di primavera ci “rincitrullisce” un po’ tutti. Una prima importante constatazione riguarda i legami e le significative differenze tra la Pasqua cristina e quella ebraica.
“Pesach” è la parola ebraica per Pasqua, dall’aramaico “pascha”, termine con cui si celebra la liberazione degli Ebrei dall’Egitto grazie a Mosé: tale occasione riunisce i rituali dell’immolazione dell’agnello e il pane azzimo. La parola significa “passare oltre” e deriva proprio dalla narrazione della Decima Piaga, nella quale il Signore comanda al popolo eletto di segnare con il sangue dell’agnello le porte delle case di Israele, cosicché lo spirito Sterminatore “passasse oltre” le loro abitazioni, colpendo invece le case degli egizi (Esodo, 12,21-34).
Secondo la tradizione, gli ebrei ortodossi devono astenersi, in tale periodo dell’anno, dal consumare pane lievitato e devono sostituirlo con il pane azzimo, il medesimo che consumò il popolo ebraico durante la fuga dall’Egitto.

Con l’avvento del Cristianesimo la Pasqua assume un nuovo significato e indica il passaggio da morte a vita di Gusù e la conseguente vita nuova per i cristiani, purificati dal peccato grazie al sacrificio sulla croce del Cristo.
Come per le altre ricorrenze, anche quella della Pasqua affonda le sue origini nel paganesimo. In questo caso è il termine inglese che ci aiuta a svelarne le antiche radici: “easter” richiama il nome di una delle antiche dee della fertilità Eastre, da cui deriva il tedesco Oster. L’etimologia del nome è dubbia, ma secondo alcuni studiosi esso è collegato ad “aus” o “aes”, ossia “est”. Tale versione è accreditata da Beda il Venerabile nel suo “ De Temporum Ratione”, testo risalente al secolo VIII d.C. e dedicato al “De mensis Anglorum”, cioè al nome che gli inglesi davano ai mesi e al perché dell’utilizzo delle varie terminologie. Secondo lo studioso, gli Angli denominano questa periodizzazione “Eoster monath”, “mese di Eostre”, momento in cui si celebra Eostre, divinità della nascita e della fertilità. Lo stesso appellativo della dea si rifà a “Eoster-Monath” (successivamente “Ostara”), espressione utilizzata dai Celti per indicare l’equinozio di Primavera.
L’importanza attribuita alla Pasqua è comprovata da diverse opere d’arte, testimonianze indiscutibili del passato e delle tradizioni che costituiscono parte integrante della nostra storia.
Tantissimi autori si confrontano sul tema, ognuno a proprio modo e con lo stile personale e inconfondibile tipico dei grandi della Storia dell’Arte.
Giotto di Bondone, (1267-1337), pittore e architetto italiano, padre della prospettiva intuitiva, autore di alcuni tra i più celebri cicli di affreschi italiani e nome essenziale della storia della pittura e dell’architettura, raffigura all’interno della Cappella degli Scrovegni l’episodio denominato “Resurrezione” e “Noli me tangere” (1303-1305 circa). L’episodio si trova nel registro inferiore, guardando l’altare, sulla parete sinistra e fa parte delle “Storie della Passione di Gesù”.

Sullo sfondo le rocce declinano a sinistra e conducono lo sguardo dello spettatore verso il nucleo centrale della scena, gli alberi sono secchi a sinistra e rigogliosi a destra; tutta la scena è caratterizzata da un’atmosfera rarefatta e sospesa, quasi di “metafisica astrazione”, dato che anticipa la pittura di Piero della Francesca. Giotto è uno dei primi a dipingere una “Resurrezione”, tematica quasi per nulla considerata nel corso del Duecento, quando i soggetti più diffusi sono le “Maestà”, il “Christus Patiens” e i “Giudizi Universali”. Un altro elemento che verrà poi ripreso da Piero della Francesca, nel “Cristo Risorto di Sansepolcro” è il sarcofago di marmo, elemento centrale nella composizione giottesca, la cui colorazione è risultante dalla particolare luce dell’aurora, su di esso si appoggiano assopiti i quattro soldati posti a guardia del sepolcro; nessuno degli individui si accorgerà di quanto accaduto, sono dormienti distratti, appesantiti da un “sonno ignaro” in netto e voluto contrasto con la veglia della Sposa del Cantico dei Cantici: “Io dormo, ma il mio cuore veglia” (“Cantico dei Cantici”, 5,2).
Più avanti nel tempo, Raffaello, una delle figure più note del Rinascimento, riprende lo stesso argomento nell’opera giovanile “Resurrezione” (1501-1502). L’opera, ora al MASP Museu De Arte De São Paulo, Brasile, presenta i crismi del primo periodo dell’artista, sono infatti evidenti le influenze del Perugino e del Pinturicchio. L’atmosfera è serena e armoniosa, le posture dei corpi e dei gesti contribuiscono a dare equilibrio alla composizione e suggeriscono una profonda ricerca di perfezione formale. Raffaello utilizza tonalità fredde per lo sfondo, in piacevole contrasto con i protagonisti del dipinto, definiti da colori caldi. Nel complesso la scena è affollata, in primo piano i personaggi occupano la totalità della larghezza del dipinto, mentre in secondo piano, sulla sinistra un gruppo di donne procede su una stradina, sulla destra invece troneggia un airone. La profondità è data dall’uso puntuale e preciso della prospettiva, la grandezza delle figure diminuisce progressivamente e la disposizione degli astanti contribuisce al raggiungimento dell’intento illusionistico, così come la variazione dei colori secondo la lezione leonardesca della prospettiva aerea. L’inquadratura si sviluppa in verticale, la struttura compositiva, centrale e simmetrica, presenta due scene armoniosamente sovrapposte: quella terrena dove si trovano i soldati e quella divina. In corrispondenza della verticale centrale sono disposti il sarcofago e la figura di Cristo, mentre in posizione speculare si trovano i due angeli e i soldati.
Ancora una “Resurrezione” nell’opera di Andrea Mantegna, cognato di Bellini e “artista prediletto” dalla Famiglia Gonzaga; si tratta di una tavola “tempera su tavola” datata 1457-1459, nominata appunto “Resurrezione”; tutta la scena si svolge su uno sfondo segnato dall’enorme apertura della grotta del sepolcro, quasi un arco a tutto sesto, all’interno della montagna si vede la tomba aperta, mentre la figura del Cristo si erge centrale, in piedi, egli è dentro una luminosa mandorla incorniciata da cherubini, in basso invece si trovano i soldati intenti a fuggire, sconvolti e atterriti dall’apparizione. Mantegna ricrea con precisione ogni dettaglio, sia l’ambientazione sia gli abiti dei personaggi, e concretizza con approccio organico un’opera che travalica la semplice citazione erudita ma decontestualizzata riconoscibile nell’operato del suo maestro, lo Squarcione.


Tra il 1578 e il 1581 è Tintoretto, abilissimo allievo di Tiziano, a confrontarsi con la tematica, nel dipinto la “Resurrezione di Cristo”, conservato nella Scuola Grande di San Rocco a Venezia. L’artista costruisce la composizione incentrandola sulla resurrezione che vince la morte, Cristo è in posizione trasversale, avvolto da uno splendore miracoloso, mentre si eleva dal sepolcro aperto da quattro angeli alati. Nell’ombra scura si scorgono le guardie che dormono avvolte da un sonno che simboleggia le tenebre.
Si distingue – come sempre d’altronde – il grande artista del Seicento: Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, tra il 1601 e il 1602 dipinge, olio su tela, “Incredulità di San Tommaso”. L’episodio trattato è ripreso dai Vangeli degli Apostoli, e riguarda Tommaso che, incredulo dell’identità del Salvatore, è spronato a “mettere il dito nella piaga” del Cristo, provocata dai dolori della crocifissione. I protagonisti dell’opera sono quattro, emergono dal nero dello sfondo illuminati dalla luce fredda e teatrale tipica dei lavori dell’autore bergamasco. La composizione può essere divisa in due parti: a destra si trovano San Tommaso e due apostoli, dall’altra invece si contrappone la figura di Cristo. L’attenzione ricade proprio dove l’artista vuole che posiamo lo sguardo, laddove la luce ci spinge ad osservare, proprio sul particolare più crudo e cruento: la pelle che si divarica affinché l’indice dell’incredulo si possa intrufolare all’interno delle carni. Altro dettaglio da notare: la posizione delle nuche degli astanti forma una croce, particolare che dovrebbe rendere ancora più sacro il quadro, che però non riscuote grande successo, anzi – come diverse altre tele dell’autore – viene ritenuto scandaloso, proprio per quello stesso dettaglio per cui noi oggi lo consideriamo un capolavoro ineguagliabile.
Ancora molti altri sarebbero da nominare, ma l’elenco risulterebbe eccessivamente lungo e rischierei davvero di annoiarvi.
Che dire, cari lettori, credo sia il momento di salutarci, spero di avervi piacevolmente intrattenuti e magari di avervi raccontato se non qualcosa di nuovo, almeno qualcosa a cui non pensavate da un po’. Arrivederci allora, buona Pasqua e buona Pasquetta e soprattutto buon riposo! (Se ve lo concedono).

Alessia Cagnotto

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