Un’opportunità formativa per diventare membri di una “categoria a parte”
Sono diversi dagli altri. Parlano raramente. Si esprimono prevalentemente per mezzo di gesti ufficiali riconosciuti in tutto il mondo, una sorta di linguaggio universale. Imparano a prevedere il punto d’impatto di palloni che ad alti livelli viaggiano a velocità considerevoli, nell’ordine dei 100 km/h, e vivono a modo loro la passione per lo sport, alla ricerca continua, quasi ossessiva, della verità. Osservano gli altri giocare, in solitudine, ma da una posizione esclusiva e, per certi versi, privilegiata. Hanno sempre il posto in prima fila assicurato, ma non pagano alcun biglietto. Quando tutti sono arrabbiati, loro devono conservare il proprio autocontrollo e trasmettere fiducia, serenità e tranquillità ai contendenti. La loro squadra non ha tifosi.
Sono gli arbitri di pallavolo. Una categoria a parte.
Non nascono “imparati”. Frequentano un corso di formazione. Il Comitato Regionale del Piemonte ne sta organizzando uno proprio in questi giorni. Per informazioni è possibile scrivere un’e-mail all’indirizzo arbitri@torino.federvolley.it oppure compilare il form disponibile al link https://bit.ly/3yquyiC
Studiano le Regole di Gioco. S’informano. Si confrontano con i colleghi più esperti. Guardano video didattici.
Loro non giudicano. Valutano. E poi decidono.
“Io non perdo mai,” disse Nelson Mandela “o vinco o imparo!”.
Anche gli arbitri non perdono mai. E non vincono neanche. Ma imparano sempre, da ogni esperienza.
Indossano una divisa, un’uniforme. Insomma, una divisa che deve essere uniforme; li deve distinguere dagli altri ma li deve uniformare all’interno del loro gruppo. In bocca tengono un fischietto che talvolta mordicchiano per scaricare la tensione. In tasca custodiscono i cartellini, quello giallo e quello rosso, e la moneta che utilizzano prima dell’inizio della partita per fare il sorteggio alla presenza dei capitani delle squadre. Sul petto portano l’immancabile distintivo, il logo della Federazione Italiana Pallavolo che rappresentano con orgoglio. I più scaramantici entrano in campo con un portafortuna nascosto da qualche parte.
Gioiscono quando, al termine della partita, si rendono conto che nessuno li ha notati più di tanto, perché questo può significare che non hanno commesso errori marchiani, o che sono stati bravi a farli accettare alle squadre. Non sono arrivisti, ma sono ambiziosi, molto ambiziosi: ambiscono a ricoprire il ruolo di comparsa. Sanno che gli attori, i protagonisti, sono gli altri. Quelli alti, sudati, con le braghette corte. Oppure quelle con i capelli legati e gli shorts.
Spesso appaiono freddi, impermeabili, inespressivi. In realtà vivono le loro emozioni, al pari degli altri. Esultano, in silenzio, quando sanno di aver preso una decisione giusta in un contesto difficile. S’infuriano con sé stessi quando realizzano che l’ultima decisione presa non è, verosimilmente, quella corretta. Ma nel loro caso la gioia o il disappunto devono rimanere soffocati nel perimetro di un comportamento formale e votato all’autodisciplina. Ci sarà tempo, dopo la partita, per raccontare le proprie sensazioni al collega di turno, durante la cena. O magari in auto, durante il viaggio di ritorno.
Arrivati a casa svuotano il trolley.
Domani è un altro giorno.
Domani potrebbe arrivare la designazione per una gara importante, decisiva. La gara più attesa, quella che ogni arbitro vorrebbe dirigere.
Lo lascio di là, tanto a quest’ora non mi cerca più nessuno.
Anzi, lo porto in camera e attivo la modalità aereo.
No, dai, inserisco il vibra-call; magari il designatore mi scrive di notte o domattina all’alba.
Già… ma se non lo sento? Che senso ha?
Sai che c’è?
Lascio la suoneria attiva e alzo un po’ il volume.
Non si sa mai…
Paolo Michieletto
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