“L’orto fascista” Romanzo / 12

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XLVII

Lucia non aveva avuto tempo per pensare quale seguito dare alla sua avventura bresciana e quali decisioni prendere, distratta, come tutti in paese, da quanto successo. Aveva, di sfuggita, ipotizzato di parlarne con il marito cercando di trovare le parole giuste per descrivere una situazione che avrebbe lasciato perplesso chiunque. Ma un dubbio l’aveva assalita da subito e un po’ terrorizzata.
E se, per non sovraccaricarsi di problemi, il marito si fosse dimostrato indifferente alla gravità della cosa?
Da tempo aveva capito quanto lui si fosse staccato da lei e, addirittura a volte, la considerasse persino un peso. Di sicuro non mostrava alcun affetto nei suoi confronti. L’aveva dimostrato anche con la mancanza di preoccupa- zione la sera del suo rientro da Brescia a notte fatta. Sapendo dove si era recata avrebbe potuto telefonare all’Ovra per avere notizie e non lo aveva fatto. Al suo ritorno non le aveva neppure chiesto se stesse bene, o se avesse avuto qualche contrattempo. No, solo un bacio frettoloso sulla porta di casa ed un arrivederci al giorno dopo. Tutto questo colpiva enormemente il suo orgoglio, l’orgoglio di una donna che si sapeva intelligente, sicura- mente più colta del marito e molto desiderata dagli uomini. Se avesse appurato l’indifferenza del coniuge gliela avrebbe fatta pagare. Sapeva a chi rivolgere le sue attenzioni andando a colpo sicuro e, questa volta, per appaga-re sé stessa e non le smanie di carriera del marito.
In fin dei conti quel farmacista che si era fatto avanti tempo prima non era sicuramente un uomo da buttar via. Forse era stata troppo drastica nel respingerlo. D’al- tra parte rivolgere pubblicamente lo sdegno che nutriva nei riguardi di quel lurido Parroco poteva essere pericoloso e rivoltarsi contro di lei. Dopo il suo intervento all’arresto dei suoi paesani da parte delle SS, il prete era diventato, agli occhi di tutti, fascisti e non, quasi un eroe. Non sarebbe riuscita a rendersi credibile. Inoltre avrebbe dovuto giustificare la sua presenza negli uffici dell’Ovra in un momento assai delicato per il Regime. Avrebbe avuto bisogno dell’appoggio delle autorità fasci- ste, ma quale sarebbe stato il prezzo che avrebbe dovuto pagare per ottenerlo? Qualche dubbio sul modo di agire dei fascisti e dei tedeschi cominciava a insidiarla.

Il pomeriggio del giorno dopo la brutta avventura si era incontrata con l’amica Annetta. Questa, ancora sotto shock, le aveva raccontato quanto si era verificato in sua presenza nella casa-prigione. La descrizione particolareggiata delle sevizie alle quali era stato sottoposto il Fausto Domeneghini l’aveva sconvolta ed il fatto che il marito avesse in qualche modo tacitamente approvata l’azione dei tedeschi le dava il voltastomaco. Desiderò cancellare il ricordo degli ultimi avvenimenti. Si sentiva sola, triste e priva di quelle sicurezze che da anni la sostenevano.
Fu così che decise di non compiere alcun atto contro il Parroco: in fin dei conti, ammise, non era stata violentata
– se non moralmente, ma forse dava un po’ troppa importanza al fatto. L’unico, orribile, contatto con il corpo del prete era stato quando lui aveva insinuato le mani tra l sue cosce. L’unico, almeno, che lei ricordasse. Ma in fin dei conti poteva essere lo scotto da pagare, la giusta punizione alla indegna disponibilità che aveva preso di soddisfare voglie di altri uomini per avvantaggiare la carriera del marito. Giunta a questa decisione si sentì immediatamente meglio. Forse avrebbe fatto un salto in farmacia a comprare qualche cachet se le fosse tornato il mal di testa, ma in effetti per farsi vedere dal farmacista e chissà… Il Temperini aveva ripreso la sua vita abituale. Ora che il pericolo che si verificassero altre conseguenze all’attenta- to, sembrava passato, aveva una gran voglia di racconta- re a tutti la parte – Eroica, ragazzi. Mica da ridere porta- re a spasso della dinamite. E se non ci fossi stato io chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? – avuta nell’atto di ribellione ai tedeschi. Più di una volta al bar si era morsicato la lingua per evita- re di lasciarsi andare ad un racconto, romanzato, di quan- to aveva fatto. Ma non poteva assolutamente coinvolgere i suoi soci in eventuali conseguenze e non era, comunque, il caso di rischiare. Ormai i partigiani al nord e gli anglo- americani che stavano risalendo l’Italia stavano dando un colpo mortale alla resistenza fascista e ai tedeschi.
La Liberazione stava avvicinandosi. Bisognava avere pa- zienza, aspettare, ma dopo quanto avrebbe avuto da rac- contare! E intanto ci ricamava su col pensiero, aggiungen- do ai fatti realmente accaduti particolari inventati per ren- dere la descrizione più gustosa e affascinante.
“Signora Lucia, vederLa è sempre un gran piacere per gli occhi. Grazie per la visita. Cosa posso fare per Lei?” dis- se, col più bello dei sorrisi possibili, alla maestra quando entrò in farmacia.

 

 

XLVIII

Lo chiamavano tutti Cantamessa da così tanto tempo che nessuno ricordava più il suo vero nome. Il soprannome era dovuto al fatto che passava tutta la giornata, qualsiasi lavoro facesse, cantando inni sacri, la messa solenne in un approssimativo latino – che nessuno comunque sapeva correggere – a volte avventurandosi in qualche Canto Gregoriano. Aveva una discreta voce baritonale che contrastava con il suo fisico minuto, che però era provvisto di una gabbia toracica davvero abnorme. Diceva di aver imparato tutta quella roba di chiesa quando faceva il giardiniere presso il seminario di Bergamo dove aveva studiato don Pompeo. Del Parroco però, inspiegabilmente, non voleva parlare, lasciando capire di aver ricevuto dal
giovane seminarista qualche ingiustizia. Viveva poveramente traendo qualche frutto da un orto nel quale curava una serra. Lì coltivava poche piante da fiore che vendeva, più che altro in occasione delle festività. Lavorava anche a giornata presso alcuni possidenti quando era il periodo della potatura delle viti e degli alberi da frutta.
In questo era molto bravo e quindi ricercato. Ma vigne- ti e broli non erano così tanti da procuragli soldi sufficienti a una esistenza decente. Arrotondava con la raccolta delle castagne, dei funghi e con la vendemmia. Un giorno che stava camminando verso casa, incontrò Ernesto, lo fermò e gli chiese: “Sei tu il responsabile dell’orto dei bambini?” Avutane risposta positiva continuò: “Quest’anno non piove e non ha voglia di nevicare. Il grano è spuntato ma se non lo bagnate finisce che secca e muore”.
Era uno che se ne intendeva, lo riconoscevano tutti e il bambino, che ne aveva sentito parlare dagli adulti, tenne in grande considerazione il consiglio. Sorrise al vecchio, ringraziandolo, e la mattina successiva chiese alla maestra il permesso di recarsi, insieme al fido amico Bertolasi, a bagnare l’Orto Fascista. Gli era stato consigliato dal Cantamessa e quindi era sicuramente cosa da fare. Entrambi i ragazzi avevano una preparazione superiore alla media della classe: nulla in contrario, da parte della maestra, se saltavano qualche ora di lezione.
Fu così che i due bambini uscirono da scuola. Avevano bisogno di un innaffiatoio e Ernesto sapeva dove trovarlo. Tornò a casa e raggiunse il fondaco ove la vecchia zia Erminia, sorella del nonno e vedova da anni, teneva i suoi attrezzi. L’Erminia aveva tre grandi amori: il Padreterno, che onorava assistendo ogni giorno alla Santa Messa con Comunione, i suoi sette gatti per i quali si sarebbe sottratta, se necessario, il cibo di bocca, e i suoi gerani. Questi erano, tutti gli anni, i più belli del paese e lei ne riempi- va i davanzali delle finestre e le ringhiere dell’ampio ter- razzo che dava sulla piazza Mercato. Si diceva che riuscisse ad ottenere foglie verdissime e fiori dai colori brillanti bagnandoli con acqua mista alla sua urina.
Chi però, in paese, aveva provato questa forma di “concimazione” ne aveva ottenuto risultati opposti. Le pian- te avevano, in breve tempo, perso le foglie e i fiori appassivano. Forse sbagliavano il dosaggio o forse la loro urina non aveva la qualità di quella dell’Erminia.

Lei era gelosissima dei suoi attrezzi e quindi bisognava prendere quello che ai ragazzi serviva senza farsi vedere. Chiedere il permesso sarebbe stato inutile. La vecchia zia avrebbe trovato di sicuro una scusa per non affidare qualcosa a Ernesto del quale, data la sua giovane età, non si fidava. Vi erano diversi tipi di innaffiatoi e i ragazzi ne scelsero uno, non troppo grande da essere per loro troppo pesante né troppo piccolo che obbligasse loro a fare, troppo spesso, avanti indietro tra l’orto e la fontana. Sgusciarono fuori dal cortile tenendosi rasenti al muro di casa per non farsi vedere; fecero mezzo giro della piazza per allontanarsi dalla vista dell’Erminia, si accostarono alla fontana e riempirono il contenitore. Dopo due ore di duro lavoro i ragazzi, nonostante la giornata fredda dei primi di dicembre, erano sudati e stanchi morti. Decisero di interrompere il lavoro per riprenderlo, se avessero avuto il permesso della maestra, l’indomani.
Pensarono di non riportare l’innaffiatoio a casa: correva- no il rischio di essere scoperti o subito o l’indomani mattina quando lo avrebbero dovuto nuovamente prelevare. Che si scoprisse l’ammanco era praticamente impossibile, non era tempo di gerani e la vecchia zia non aveva alcuna ragione di andare nel fondaco a controllare.
Avrebbero ricoverato l’innaffiatoio nel gabbiotto degli attrezzi. Chi avrebbe potuto rubarlo?

 

Il Mario andò dal bidello della scuola per farsi dare la chiave del lucchetto. Al suo ritorno aprirono il portoncino e Ernesto cercò, spostando gli attrezzi che erano al- l’interno, di fare spazio. Muovendo il sacchetto di se- menti avanzate alla semina autunnale, nel semibuio del piccolo locale, improvvisamente gli apparve una cosa strana: una specie di candela grigia con una corda che usciva da uno dei capi. Allungò una mano e la prese portandola all’esterno. Sia lui che il Bertolasi esclamarono all’unisono “Ma questo è un candelotto di dinamite!” Cosa farne? Portarlo ai Carabinieri o nasconderlo in qualche posto? Entrambi capirono che doveva far parte dell’esplosivo che era stato usato per far saltare in alto la vettura e uccidere il soldato tedesco. Era qualcosa che scottava. Ernesto era il responsabile dell’orto. Non è che potessero incolparlo di qualche cosa?
“Facciamolo sparire, dai! Poi ci penseremo” concordarono. Vuotarono il sacchetto delle sementi, ci misero il candelotto e chiusero il gabbiotto.

 

XLIX

Per tutti i bambini della bergamasca e del bresciano il giorno più felice dell’anno è il 13 di Dicembre. Nel giorno in cui si festeggia Santa Lucia non vi è bambino, anche se di famiglia poverissima, che non riceva qualche dono. Santa Lucia, di origine siracusana, protettrice dei ciechi, è ricordata anche perché elargì il suo immenso patrimonio ai poveri. Da tempo immemorabile in quelle zone ha preso il posto di Gesù Bambino e di Babbo Natale. E’ giorno feriale ma le scuole rimangono chiuse per per- mettere, a chi li riceve, di giocare con i regali portati
dalla Santa. Anche in tempo di guerra, quando la povertà dilagava, quasi nessun bambino rimaneva senza un regalo, anche solo una fionda, fatta da un ramo biforcuto di nocciolo con due pezzi di camera d’aria di bicicletta, o una palla di pezza. Quell’anno Ernesto quando si alzò, dopo una notte quasi insonne per l’attesa, trovò un regalo magnifico che lo fece impazzire di gioia. Un pallone di vero cuoio! Una cosa difficilmente trovabile in un periodo di autarchia, frutto, forse, di una ricerca fatta da suo padre.
Il pallone mandava un profumo del quale Ernesto si riempì i polmoni. Gridando “Grazie, grazie, grazie!” scese precipitosamente le scale in cerca degli amici con i quali voleva condividere la sua gioia. Li trovò tutti con in mano il loro regalo che presto dimenticarono attratti da quella splendida sfera di cuoio che prometteva, final- mente, di giocare veramente “al calcio” e non, come erano abituati, con delle palle di stracci.
Si riunirono subito in piazza Mercato, fissarono dei segni per stabilire i margini delle porte e poi cominciarono a formare le squadre.
Grandi discussioni: coppie che avevano giocato per tanto tempo insieme che non si volevano dividere ma che erano costrette a farlo per equilibrare le forze in campo; nessuno che voleva fare il portiere che è sempre destina- to a toccare pochi palloni e che, se si deve “tuffare” per parare, nel caso specifico lo doveva fare su un terreno ricoperto di sassi; il solito primo della classe che voleva essere l’arbitro e giudice unico per punire, a suo piaci- mento, i ragazzi che gli stavano antipatici; nessuno che voleva in squadra il Bertolasi che era considerato un veneziano perché non passava mai la palla; ecc. ecc.

Finalmente fu tutto stabilito. Si stava per dare inizio alla partita quando, rombante, arrivò il sidecar dei tedeschi. Il pilota andò a posizionarlo a dieci metri dall’albergo Fumo, quasi al centro del campo ove si sarebbe giocata la partita. I ragazzi protestarono rumorosamente ma il tedesco non capì cosa volessero o, molto più probabil- mente, fece finta di non capire ed entrò nell’albergo.
Ci fu un veloce conciliabolo ma la frenesia nei ragazzi era tanta e la partita ebbe inizio.
Quando la squadra di Ernesto vinceva per 2 a 0, ed il nervosismo già dilagava nella formazione avversaria, il Giacomino, terrore di tutti i portieri per le “staffilate” che riusciva a far partire da due piedoni sistemati al termine di gambe possenti, si accinse a tirare una punizione. L’intervento dell’arbitro e la punizione contro la squadra di Ernesto era stata lungamente contestata ma, alla fine, correttamente accettata. Il Giacomino intende- va tirare direttamente nella porta che distava almeno 30 metri, prese una lunga rincorsa e fece partire un tiro vio- lento. Il pallone, colpito con troppa foga e non con la punta della scarpa, non seguì la traiettoria sperata ma andò a colpire violentemente il fanale anteriore del motociclo tedesco, facendolo andare in mille pezzi.
Il silenzio che cadde in piazza fu interrotto dalle urla del pilota del mezzo che, avendo assistito all’accaduto dalla finestra della sua stanza al secondo piano, si era precipitato giù dalle scale. Appena uscito il militare si fermò, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere il disastro che si presentava ai suoi occhi. Si avvicinò lentamente al motociclo, lo guardò con nello sguardo la stessa apprensione con la quale un padre può guardare un figlio gravemente ammalato. Fu uno sguardo lungo, profondo, doloroso.
“Ciapal nel cul” disse sottovoce il Bettino che non perde- va occasione per mettere in luce le sue doti di scurrilità. Poi il tedesco si abbassò, prese il pallone che era rimasto incastrato, non si sa come, tra la ruota anteriore ed il telaio del sidecar. Con il braccio quasi lo circondò tenendolo all’altezza della vita. Lentamente tolse il pugnale dal fodero che aveva legato alla cintura. Alzò il braccio e fece calare con violenza il pugnale sul pallone mentre un coro di “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO” si
levava dai bambini.

Buttò il pallone, squarciato e ormai inservibile, per terra e guardò con aria di sfida i ragazzi che erano rimasti impietriti. Ernesto si fece avanti mentre i suoi amici lo guardavano con amicizia e compassione. Arrivato all’altezza del tede- sco raccolse il pallone, o meglio quello che era rimasto del pallone. Non disse neppure una parola ma lasciò an- dare un violento calcio alla gamba dell’uomo che, però, non subì alcun danno essendo riparata dai pesanti stiva- li. Anzi, la cosa divertì molto il militare che se ne andò ridendo scompostamente mentre il bambino, che regge- va il pallone tra le braccia quasi fosse un essere vivente, raggiunse il cancello della casa dei nonni e singhiozzan-do si lasciò cadere a sedere per terra.
“Questa me la paga, giuro che me la paga”.

 

L

“Ci vediamo questo pomeriggio alle due al covo” aveva detto l’Ernesto prima di raccogliere quello che era stato un pallone e tornarsene, tristemente, a casa. Adesso erano lì tutti in quel piccolo locale in pietra semi- diroccato, sulla stradina che portava al Castello. Era abbandonato da anni e nessuno più ricordava chi fosse il proprietario e perché fosse stato costruito. Conservava ancora una porta che si apriva con difficoltà ostacolata dal terriccio che si andava accumulando all’interno del locale. Le due finestrelle erano prive di una qualsiasi chiusura. Per i ragazzi era comunque il “covo”, il posto ideale, cari- co di mistero, dove amavano trovarsi per organizzare qualche avventura. Erano tutti eccitati perché, di sicuro, come aveva preannunciato Ernesto si sarebbe presa una decisione per vendicarsi del danno subito. Il pallone, an- che se aveva, o meglio aveva avuto, un unico proprieta- rio era come se fosse, o fosse stato, un po’ di tutti.
Fu eseguito il solito rito di introduzione. Tutti giurarono solennemente, incrociando gli indici più volte sulle lab- bra, che quanto detto o ascoltato non sarebbe stato riferito, mai e per nessuna ragione, ad alcuno. Tutti sputarono al centro del cerchio che avevano formato con i loro corpi: era ritenuto un gesto scaramantico.
Poi iniziò la discussione. C’era chi suggeriva di fare una dimostrazione sotto le finestre delle camere dei tedeschi con cartelli pieni di offese; chi voleva pisciare all’interno del vano del sidecar dove si ospita il passeggero; chi ne voleva bucare le ruote; chi, ancora, molto più semplicemente, voleva scrivere una lettera al Comando Tedesco di Brescia chiedendo un nuovo pallone. Il Bettino, che desiderava sempre esibirsi in volgarità, pro- pose che sulla carrozzeria del sidecar venisse scritto: “Chi guida è una testa di cazzo”.
Alla fine prese la parola, nel silenzio generale, Ernesto. Fu lapidario:
“Il sidecar? Glielo facciamo saltare in aria!”.

Tutti pensarono a una battuta. Tutti tranne il Mario che capì subito che l’amico si riferiva all’impiego del candelotto di dinamite trovato nel gabbiotto dell’Orto Fascista. Ernesto, troppo emozionato dalla decisione presa, disse al Mario di raccontare a tutti come poteva essere fatta la cosa.
Un brivido di eccitazione corse nelle vene dei ragazzi. Si stava affrontando una storia vera, una storia che sarebbe passata ai posteri per la sua importanza. Fu deciso di attendere che il motociclo venisse riparato. Poi, di notte, lo avrebbero fatto saltare in aria.
Si accettavano volontari per compiere la vendetta. E’ inutile dire che tutti si candidarono, ma dovevano essere al massimo tre o quattro i ragazzi coinvolti per non dare troppo nell’occhio.
Il piano fu proposto da Ernesto. Ci aveva pensato e aveva deciso che sarebbe stato il più semplice possibile: da por- tarsi a termine nel giro di pochi minuti per non correre il rischio di essere scoperti. Venne scartato il Mario che abitava molto lontano e avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere, dopo il fatto, casa sua. Ernesto aveva pensato di usare la collaborazione attiva del Giacomino, che abitava nella parte ovest della vecchia villa dove anche lui abitava, e del Giovanni Pivetti. Questo, anche se chiamato Cagasotto, per non aver mai dimostrato molto coraggio quando c’era da compiere qualcosa di pericoloso, era una ragazzo sveglio, preciso e affidabile.
Per non demoralizzare nessuno Ernesto distribuì un in- carico, che lui definiva “speciale” a quasi tutti, in modo che tutti si sentissero veramente partecipi al grande evento.
Lui e il Giacomino, verso le ventitré del giorno stabilito, avrebbero raggiunto il motociclo e messo sotto il telaio il candelotto di dinamite. Accesa la miccia, se la sarebbero data a gambe per il vicolo dei Broli, quello che passa dietro l’albergo Fumo. All’altezza del muro del cortile del Giacomino, il Pivetti avrebbe fatto trovare una scala già posizionata per poter raggiungere la cima del muro e calarsi dall’altra parte. Dopo essere stata usata, la scala sarebbe stata riportata nel fienile dei Pivetti e rimessa al suo posto. Raggiunto il cortile, Giacomino sarebbe rientrato a casa attraverso una finestra, lasciata appositamente aperta, mentre Ernesto avrebbe raggiunto l’orto dei nonni, scavalcando il muretto di divisione, e quindi an- che lui rientrato in casa sua.
Lo scoppio, che sicuramente sarebbe stato sentito da tut- ti gli abitanti della piazza, avrebbe creato molta confusione e paura e la presenza in giro dei bambini sarebbe rimasta inosservata.

 

 

LI

Passò una lunga settimana prima che i pezzi di ricambio giungessero, probabilmente dalla Germania, maalla fine il nuovo fanale del motomezzo fu montato. “Dobbiamo farlo questa sera” sussurrò Ernesto, che era arrivato tardi a scuola e non ne aveva potuto parlare prima con il Mario. “Passa parola, poi ti spiego. Tutti al covo alle due”.
In breve tutti i ragazzi coinvolti furono avvisati e presi da una grande euforia giustificabile dall’incoscienza della giovane età. All’ora prestabilita erano presenti tutti. Furono ripassate le parti ed apparve, tra l’emozione di tutti, il famoso candelotto. Ernesto spiegò che non vi era più tempo, perché sua mamma sperava che il papà potesse venire a Breno per passare con loro, in occasione del Natale, qualche gior- no di riposo. Lui, con in giro suo padre, non se la sentiva di agire.
Purtroppo nessuno ancora possedeva un orologio da polso e quindi ci si doveva attenere agli orari dettati dal campanile.
Ernesto e Giacomino si erano organizzati per incontrar- si, sempre nascostamente, la sera e tenersi compagnia ma soprattutto tenersi svegli. Ma del Pivetti ci si poteva fida- re? Suo padre faceva il turno di notte presso la Ferriera e usciva di casa alle 21. La madre, dopo una giornata di lavoro, che iniziava alle cinque e mezza come addetta alle pulizie nel locale ospedale, alla sera alle otto crollava per la stanchezza e se ne andava a dormire. Addormentata la mamma ed uscito il padre, il Pivetti avrebbe raggiunto Ernesto e Giacomino, e insieme avrebbero atteso l’ora per agire. E così si fece.

All’albergo Fumo l’Hauptmann Reserve Franz non riusciva a dormire. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del Natale, aveva sempre più nostalgia della sua famiglia e soprattutto della moglie. Sarebbe stato il secondo Natale consecutivo che passava lontano da casa per combattere una guerra che riteneva sempre più ingiusta e ormai definitivamente persa. Non ce la faceva più a sopportare quegli sguardi di odio che gli giungevano dagli italiani quando girava per Breno o nei paesi vicini.
Superato il trauma per la morte di Berndt e per l’arrivo dello Sturmbannführer, si era anche rammaricato di aver trattato, la sera dell’attentato, in quel modo violento la povera Benedetta che, sicuramente, non poteva aver partecipato all’organizzazione dell’attentato. Con il suo modo di fare aveva perso anche lei. Poter fare all’amore con una donna che tanto gli ricordava sua moglie sarebbe stato sicuramente un palliativo per la sua solitudine, ma, comunque, un bel palliativo. Almeno dieci volte aveva avuto la tentazione di avvicinarla e di scusarsi, ma il suo “onore” di soldato aveva avuto sempre il sopravvento e glielo aveva impedito. Continuò a rigirarsi nel letto sino a quando gli venne voglia di mangiare un po’ di cioccolata.
– Allora è vero – pensò – che la cioccolata è un aiuto alla mancanza di affetto. Sono veramente messo male, alla mia età. –
Si alzò, prese una delle tavolette che ogni tanto gli arrivavano dal Comando di Brescia e si mise a mangiarla avvicinandosi alla finestra.
Era una triste nottata, come tante altre con le luci spente ed il silenzio assoluto del paese che dormiva.
Da tempo non pioveva, quell’anno non aveva neppure nevicato e le strade del paese erano sporche, le case gri- gie. Nel buio sembravano ancora più scure. Ah che bello il suo paese in mezzo alle montagne della Baviera quando la neve scendendo rendeva tutto candido e pulito. – Che desiderio ho, che grande desiderio di pace! – pensò. Quando il campanile cominciò a suonare gli undici colpi, dal cancello di casa Ronchi uscirono tre bambini. Due proseguirono tagliando diagonalmente la piazza in direzione dell’Albergo; il terzo si diresse a destra raggiungendo il vicolo dei Broli.
Franz, fermo davanti alla finestra, vide qualcosa muoversi in piazza ma, al momento non vi fece caso, così perso nei suoi nostalgici pensieri. Poi vide chiaramente due bambini che si avvicinavano, con qualche cautela, al sidecar.

– Due bambini? A quest’ora? Cosa ci fanno in giro due bambini? Qualcosa di veramente strano. – Cercò di capire se e come doveva agire. Probabilmente i ragazzi volevano fare solo uno scherzo: magari sgonfiare una delle ruote del motociclo. Ciò avrebbe mandato su tutte le furie, la mattina dopo Sebastian, il conducente. Se avesse aperto la finestra e si fosse messo ad urlare, o, peggio ancora, avesse esploso un colpo di pistola in aria, i ragazzi avrebbero desistito dal loro intento e sarebbero scappati. Ma alle sue urla, o al colpo di pistola, tutta la piazza si sarebbe svegliata, i ragazzi sarebbe nel frattempo spariti, e lui alla vista dei brenesi sarebbe apparso co- me un pazzo urlante, o peggio come un pazzo armato, alla finestra davanti ad una piazza deserta.
Aprì comunque la finestra ma decise di attendere. I ragazzi erano ormai arrivati al sidecar. Improvvisamente vide una fiammella, poi sentì lo sfrigolio caratteristico di una miccia che brucia.
E allora capì, ma era troppo tardi. Quando la deflagra- zione avvenne, lui era fermo, impalato davanti alla finestra, incapace di muoversi.
Lo scoppio, pochi secondi di silenzio e poi il rumore dei pezzi del motociclo che, dopo essere stati proiettati in aria, ricadevano sull’acciottolato.
Fu questo rumore che lo richiamò alla realtà. Alla triste realtà. L’Hauptmann Reserve Franz si sentiva svuotato dall’onore di soldato che lo aveva sostenuto per tanto tempo nelle avversità. Il suo onore era stato disintegrato insieme al sidecar.
Cadde in ginocchio davanti alla finestra e si mise a piangere, a piangere per quanto aveva perduto; per la guerra che odiava e che non avrebbe mai voluto combattere; per quel pazzo del Führer che voleva continuarla; per quello che sarebbe stato il suo futuro, ora che per incapacità non aveva saputo evitare l’attentato compiuto nientemeno che da due bambini; per la prima linea, al fronte, alla quale sarebbe stato inviato per punizione; per i grandi e sodi seni di sua moglie che chissà per quanto tempo ancora non avrebbe potuto baciare; per i biondi capelli dei sui figli, che non vedeva da tanto, troppo tempo, e che aveva tanto desiderio di accarezzare; per il suo bel paese che gli man- cava immensamente e che in quei giorni si apprestava a festeggiare un Natale forse imbiancato dalla neve. Un tri- ste Natale, ma comunque sempre un giorno che è festa solo in presenza di bambini e persone care.
Allungò una mano e prese da sopra il cassettone la pistola di ordinanza. Pensò intensamente ai propri genitori morti da poco, ai figli tanto amati, alla sua dolce moglie. Poi ebbe una visione: sua mamma gli si avvicinava, gli scompigliava affettuosamente i capelli come faceva spesso quando lui era bambino, lo prendeva per mano e lo portava con sé.
Ma questo avvenne prima o dopo che ebbe tirato il gri letto?

 

 

LII

Icinque militari tedeschi, svegliati dall’esplosione, si precipitarono fuori dall’albergo e rimasero in silenzio,
scioccati dallo spettacolo che era davanti ai loro occhi. Il terreno stava ancora fumando e piccoli pezzi di quello che era stato un sidecar erano sparsi dappertutto.
Nessun rumore proveniva dal paese; nessuna persiana si era aperta anche se, sicuramente, gli abitanti della piazza guardavano tra una stecca e l’altra il teatro dell’attentato. Il pilota del sidecar si era chinato a raccogliere la sella del posto di guida che era rimasta stranamente intatta. La stringeva a sé guardandola intensamente, come se tra le mani reggesse un figlio.
Dopo qualche minuto i militari si accorsero che in piazza non vi era il loro comandante. Il soldato che aveva preso il posto di Bernd come aiutante dell’Hauptmann Reserve, si precipitò su per le scale per raggiungere la sua stanza. La trovò chiusa a chiave. Bussò violentemente senza ricevere alcuna risposta. Allora si precipitò alla finestra del corridoio chiamando i suoi commilitoni che lo raggiunsero di corsa. Il più gros- so dei cinque si buttò, di peso, contro la porta che si staccò dai cardini cadendo rumorosamente a terra.
Sul pavimento giaceva il grosso corpo del loro comandante, con il cranio sfondato dal colpo della pistola che era ancora nella sua mano. Gli uomini rimasero come paralizzati, mentre il senso di rabbia che si era scatenato dopo quanto visto nella piazza lasciava ora il posto allo sgomento e alla paura.
Sollevarono il corpo dell’Hauptmann Reserve e lo trasportarono adagiandolo sul letto. Su quello che rimaneva del viso appoggiarono il suo cappello per impedirne la vista. Avvisarono di quanto era avvenuto nella stanza di Franz il proprietario dell’albergo che, ancora in pigiama, si trovava come inebetito sulla porta che dava sulla piazza sen- za riuscire a pensare cosa sarebbe stato più logico fare. Tramite la radio da campo informarono il comando di Brescia dell’attentato e del suicidio del loro comandante. Poi, in attesa di ordini, sempre più impauriti, si chiuse- ro in una stanza con le armi pronte a sparare. Verso l’alba cominciò a nevicare. Ai radi fiocchi iniziali fece seguito quasi una tempesta di neve che imbiancò in breve tempo le strade, i grigi tetti di beole e i balconi delle case. Con un passa parola, sempre a persiane chiuse, tutto il paese venne informato di quanto accaduto in piazza Mercato e del suicidio dell’ufficiale.
Nessuno aveva il coraggio di uscire di casa temendo una violenta reazione dei tedeschi.
Solo i bambini che, essendo le scuole chiuse si erano tro- vati un insperato giorno di vacanza, cercavano di convincere i genitori a lasciarli uscire, pregustando veloci discese con lo scargiulì, la caratteristica povera slitta della Val- camonica, sfruttando la prima neve dell’anno.
Dei soldati tedeschi nulla si sapeva. Rientrati in albergo, dopo il sopralluogo in piazza, erano spariti e non si conosceva quale decisione avessero preso.

 

 

In una calma apparente, verso le dieci il Podestà, accompagnato dal comandante della Muti, si era recato all’albergo Fumo per incontrare i tedeschi e mettersi a loro disposizione. Ma non erano stati ricevuti. Solo più tardi si decisero ad accettare la presenza del Par- roco che, dimostrando ancora una volta grande coraggio, aveva raggiunto l’albergo per amministrare una tardiva estrema unzione al morto. Don Cappelletti si era fermato a lungo raccolto in pre- ghiera ai piedi del letto dove giaceva Franz.
Si riteneva in parte colpevole per l’accaduto, pensando che l’espediente che aveva usato per evitare ritorsioni dei tedeschi dopo il primo attentato avesse spianato la via al secondo gesto dinamitardo. Tutti in paese si domandavano chi avesse avuto il corag- gio di compiere questo atto, ben sapendo quali potesse- ro essere le reazioni degli occupanti sulla popolazione.
La neve continuava a cadere abbondante quando, verso mezzogiorno, arrivò a Breno un autocarro Opel Blitz 6700 mandato da Brescia, con notevoli sforzi non essendo attrezzato a percorrere strade innevate. Il Comando tedesco di Brescia aveva infatti deciso di recuperare il corpo dell’ufficiale e di far rientrare i solda- ti rimasti, eliminando il presidio di Breno.
L’autocarro entrò nel cortile interno dell’albergo nel più assoluto silenzio e con la piazza completamente deserta. Il corpo di Franz fu sistemato in una bara inviata da Brescia sul camion e sui sedili, ai lati del cassone, prese- ro posto i soldati con i loro zaini e i loro armamenti.
Quando l’autocarro ritornò sulla piazza, l’autista la trovò occupata da centinaia di persone. Uomini e donne di tutte le età, immobili, in silenzio.
Non erano venuti ad assistere alla partenza del nemico sconfitto, ma per un atto di pietà verso il suicida. Rispetto che forse solo gli italiani hanno verso la morte, chiunque essa abbia colpito.
Il camion sparì agli occhi dei presenti nel turbinio di neve, portandosi via i resti di un’avventura crudele, drammatica. Ma solo un atto di quella tragedia più complessa che è la guerra.

 

LIII

E ra quasi l’ora dei Vespri. Don Arlocchi stava leggendo il breviario seduto in cucina, davanti al camino della povera casa dove abitava. La legna si era completamente
consumata e le braci mandavano sempre meno calore. Comunque il vecchio prete godeva ancora di quel tiepido che rimaneva nella piccola cucina. Fra poco sarebbe andato a pregare nella chiesa parrocchiale al gelo di quella sera di dicembre. Probabilmente sarebbe stato solo con il sagrestano: le vecchiette non si sarebbero fidate ad uscire nelle buie strade innevate e sdrucciolevoli.
– Potrei recitarli qui, i Vespri, magari invitando il Sile- strini – ma sapeva che non era possibile.
Il freddo gli acuiva i dolori alle giunture e gli complica- va la già precaria respirazione. Ma il sant’uomo offriva tutte le sue sofferenze al buon Dio, con la speranza di poter un giorno essere ammesso in Paradiso. Tutta l’eternità in Paradiso! Nella più completa beatitudine.
A volte questo pensiero lo spaventava. La sua era stata una vita di sofferenze, anche se per rispetto al Creatore non voleva ammetterlo. Non era preparato alla gioia, al benessere, alla beatitudine, appunto. E se Dio si fosse indignato con lui nell’accorgersi che non riusciva ad apprezzare appieno il dono che gli veni- va offerto?

 

Quasi quasi mi converrebbe un passaggio dal Purgatorio – aveva qualche volta pensato. Un modo per pregustare quanto avrebbe raggiunto e per allenarsi a goderne appieno.
Si alzò dalla sedia e stava per portarsi alle spalle il pesante tabarro che lo avrebbe riparato nel tragitto sino alla chiesa, quando sentì bussare.
Speriamo non sia un seccatore, se no finisce che arrivo tardi in chiesa – pensò. Aperta la porta si trovò davanti tre bambini che parve riconoscere.
“Cosa volete bambini? E cosa fate in giro a quest’ora al buio? Dunque, vediamo se ricordo bene. Tu sei l’Ernesto, il nipote del Generale, tu… aspetta, aspetta, sei il Giacomino e tu il figlio del Pivetti. Ma non mi ricordo il nome.” “Sia lodato Gesù Cristo, padre. Sì sono il Giovanni Pivetti.”
“Cosa volete da me? Ditemi in fretta che devo andare in chiesa a recitare i Vespri e magari qualcuno mi aspetta. Mi sa che non ci sarà nessuno ma ci devo andare lo stes- so. Forza, chi parla per primo?” I tre si guardarono brevemente tra loro e poi, come d’accordo, fu l’Ernesto a parlare.
“Don Arlocchi, volevamo sapere se è peccato far saltare in aria un sidecar. Soprattutto se è un peccato mortale.” Il prete rivide davanti ai suoi occhi la scena dell’incontro con il Russì e con il farmacista e la loro confessione.

Ma questi sono tre bambini! Cosa si stavano inventando? Saranno mica stati loro a provocare lo sconquasso della notte precedente? Probabilmente vogliono coprire il vero colpevole. Ma perché queste cose sempre a me capitano? Quando succedono fatti strani e violenti sempre da me vengono. Oltre al dolore alle giunture, al freddo della casa, alle strade innevate, che a percorrerle ho sempre il terrore di cadere, adesso mi arriva tra capo e collo anche questa grana – questi pensieri gli affollarono la mente mentre si sentiva venir meno.
– Cosa rispondere a questi bambini? Sì, certo, far “salta- re in aria” un sidecar, come loro avevano detto, non era certo un’opera buona. Era sicuramente far del male al prossimo perché il sidecar un proprietario ce lo aveva di sicuro. Quindi c’era di mezzo il secondo comandamento dei cristiani. Ama il prossimo tuo e quindi non fargli del male. Oppure il settimo. Non rubare! Distruggere una cosa d’altri è un po’come rubargliela. Ma… come affrontare l’argomento? Con dei bambini, poi. – “Sentite ragazzi, questa è una cosa un po’ complicata. Una cosa da grandi. Mica si può risolverla così sui due piedi. Chi ha fatto qualcosa di male venga a confessarsi. A tempo debito e nel posto giusto. Io non ho capito be- ne cosa avete tentato di dirmi. Comunque, a scanso di equivoci, pregate, pregate la Madonna che fa sempre be- ne. E adesso scusatemi ma io devo andare. Filate a casa che i vostri genitori vi staranno aspettando e magari sono in pensiero. Sia lodato Gesù Cristo” e chiuse la porta. I ragazzi corsero giù dalle scale e, appena in strada, si fermarono. La neve continuava a cadere e ormai aveva superato i trenta centimetri.
Rimasero un attimo in silenzio e poi il Giacomino disse: “Ve l’avevo detto io che non avevamo fatto nessun peccato. Se no il don Arlocchi ce lo avrebbe detto e avrebbe preteso che ci confessassimo subito. Ciao ragazzi, ci vediamo domani!” e se ne andò correndo. “Penso proprio che abbia ragione lui. Ciao” disse Gio- vanni e anche lui si allontanò di corsa.
Meno male! – si disse l’Ernesto e, rinfrancato, si avviò verso casa.

FINE

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