“L’orto fascista” Romanzo / 9

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXXIV

Il Commissario l’aveva accompagnata sino alla porta continuando a ripetere: “Mi tenga a sua completa disposizione. Mi faccia sapere. Io qui sono ai suoi ordini. Mi faccia sapere, per favore. E ossequi al signor Podestà. I miei rispetti a lei a al suo signor marito. E buon viaggio, buon ritorno a casa. E tu, Giovanni” disse rivolgendosi all’autista, “fa’ tutto quello che ti chiede la signora, la porti dove vuole andare. E non andare veloce, sii prudente, che non possiamo far correre alcun pericolo alla signora. Hai capito? Hai capi- to? E allora rispondi, perdio! Hai salutato la signora? Sei sempre il solito villano. Insomma signora ricordi sempre: al suo servizio e rispetti al signor Podestà.”
Aprì la porta della Fiat 1500. Aiutò Lucia a sistemarsi sul sedile posteriore sostenendola per un braccio e, dopo un rapido saluto fascista, chiuse la porta e fece cenno all’autista di partire.
Finalmente Lucia poteva rilassarsi ed iniziare a pensare quale comportamento tenere con il marito e con il Parroco.
Il Commissario sicuramente avrebbe mantenuto il segreto. Ne aveva tutto l’interesse. Il Parroco ancora più del commissario.
Tuttavia, mentre con il primo non avrebbe più avuto contatti, se non cercandoli, con il secondo le occasioni di un incontro sarebbero state continue. Che dire al marito? Dargli una preoccupazione in più, ora che ne aveva già tante dopo la morte del tedesco? E poi, in fin dei conti, quello che era successo era stato sgradevole, sgradevolissimo ma privo di conseguenze. Lei era stata violentata moralmente, ma fisicamente non le era successo nulla.

E il marito cosa avrebbe potuto fare? Chiedere il trasferimento del commissario e forse anche quello del prete? Con il rischio di dover mettere tutto in piazza, perdendo prestigio lui e onore lei.
Quello che più desiderava era arrivare a casa. Si sentiva sporca dentro e fuori. Fare un bel bagno l’avrebbe aiutata a pulirsi solo esternamente, ma era già qualcosa.
Si lasciò cullare dall’andatura della comoda auto che, lentamente e con estrema prudenza, affrontava le nume- rose curve della strada che correva lungo le sponde del lago d’Iseo.
Giunta a Pisogne, ricordò l’avventura con il Manucelli, il Segretario Provinciale che sperava di farla sua ma che si era rimediato solo una notte di febbre e di brividi. Ricordò tutti i particolari, tutti i preparativi predisposti dal Manucelli e vanificati dai sintomi di quella strana malattia che lo perseguitava. E se tutto fosse andato, in- vece, come predisposto? Adesso lei come si sentirebbe? Non volle darsi una risposta anche perché non riusciva, tra quei ricordi, a togliersi dagli occhi lo strano sguardo di quello che avrebbe potuto diventare il suo amante mentre lei lo accudiva. Lo sguardo non del fiero combattente fascista, ma piuttosto quello di un cucciolo d’uomo bisognoso di affetto ed assistenza. “Da donna di pia- cere a crocerossina” pensò e le venne da sorridere. Finalmente, superata la salita che portava al paese, la Fiat 1500 giunse a Breno. La donna indicò all’autista il per- corso per raggiungere la sua abitazione e finalmente il viaggio ebbe termine.
Lucia ringraziò Giovanni, si complimentò per la guida e lo pregò di non scendere dall’auto per non dare sospetti. Aperta la portiera se ne andò.
Usò le chiavi per entrare e quasi si scontrò col marito che stava uscendo per andare ad una delle ormai giornaliere sedute comunali.
I saluti furono frettolosi. Lucia disse di essere stanchissima e con un gran mal di testa. Il Podestà non si dichiarò in pensiero per il suo ritardo, ed essendo atteso a una riunione che sarebbe stata importantissima, le diede un breve bacio sulla guancia ed un arrivederci a domani.
Dopo un lungo bagno, Lucia si scaldò una grossa tazza di latte, sperando che le propiziasse il sonno.
Si mise a letto. Domani sarebbe stato, dopo una buona notte di riposo, il giorno per prendere le giuste decisioni.

 

XXXV

Pompeo era stato ordinato sacerdote a 24 anni. Tutti passati nella menzogna. Aveva iniziato il “mestiere” di prete come quello di un qualsiasi impiegato, senza una vera fede e senza seguire i buoni insegnamenti che gli erano stati impartiti. Il Vangelo era solo una guida da seguire per convenienza e per non creare problemi con i suoi superiori ai quali si rivolgeva sempre con falsa e viscida deferenza, pronto, in ogni occasione, a rispettare i loro desideri.
Aveva trovato apprezzamento presso il Vescovo che gli aveva permesso dapprima un breve periodo passato come coadiutore in uno piccolo paese della bassa bresciana, ad aiutare un vecchio Parroco un po’ rimbambito, poi, dopo la trasferta in Spagna – che aveva sollecitato come una missione pericolosa contro gli atei comunisti – di diventare Parroco.
Prima in una parrocchia di Cremona, ove aveva trascorso 10 anni, e poi, con sollievo dei propri parrocchiani che certo non lo amavano, era arrivato a Breno.
Ora, a 40 anni, cercava disperatamente di non fare un esame di coscienza per non sentirsi quello che in effetti era: un povero disgraziato. Ma gli ultimi accadimenti ave- vano sgretolato questo muro che aveva da tempo costruito tra lui e la sua coscienza. E fu così che quella notte dovette prendere atto di quanto aveva peccato. Di non aver mai amato il proprio prossimo, di non essere stato un pastore per le pecorelle che gli erano state affidate, di aver pensato solamente ai suoi egoismi e ai suoi vizi.

Si girava e rigirava nel letto che era diventato troppo duro e, gli pareva, pieno di spine. La testa in fiamme; un sudo- re, a volte caldo e a volte ghiacciato, gli bagnava tutto il corpo. Dapprima pensò che tutto dipendesse da un improvviso attacco cardiaco ma poi capì che era il rimorso ad agitare la sua mente e a provocargli queste reazioni. Pensò a Cristo, là sulla croce a pagare per i peccati degli altri, soprattutto per i suoi. Troppi! Aveva bisogno di una riconciliazione, aveva bisogno, finalmente, di aprire all’amore quel suo cuore così mala- to di presunzione, egoismo, falsità. Passò in rassegna i comandamenti e ammise di averli disubbiditi tutti, dal primo all’ultimo, più volte. Ebbe, improvvisamente, un sincero desiderio di redenzione, quasi fosse stato vera- mente fulminato da Dio che gli aveva impresso nella mente, tutte insieme e contemporaneamente, le malefatte che aveva compiuto.
Senza accorgersene si trovò inginocchiato a lato del letto a pregare. Non tanto per chiedere perdono a Dio, ma per domandare la grazia che lo rinsavisse, che gli facesse inizia- re una nuova vita. In remissione dei peccati, certo, ma soprattutto per poter dare agli altri, a tutti gli altri, l’amo- re che, come fratelli, meritavano. Mettersi al loro servizio. Passò tutta la notte a pregare e meditare, bagnando le coperte del letto, ove aveva appoggiato la testa, con le lacrime della vergogna prima, e con quelle della speranza poi. Era talmente rapito dai suoi pensieri, da questo nuovo stato di grazia che non aveva mai conosciuto, che si accorse solo dopo qualche minuto del bussare insistente alla porta della camera.
“Chi è?” chiese con amarezza dovendo abbandonare quella nuova gradita situazione.

“Sono l’Elvira, signor Parroco. Devo parlarle con urgenza. E’ successa una cosa gravissima. Devo dircela, per favore”. “Preparami un caffè, per piacere, che mi vesto e vengo subito”.
– Per piacere?- pensò l’Elvira che aveva sempre solo ricevuto ordini sgarbati dal suo Parroco. – Deve stare vera- mente male o ha perso la testa – e corse in cucina a preparare il caffè.
Don Pompeo arrivò dopo qualche minuto, spettinato, mezzo vestito e senza neppure le ciabatte.
“Oh, signor Parroco” iniziò la donna. “Mi fa piacere che stia meglio perché c’è bisogno di lei in paese. E’ successa una cosa terribile! Quelli della Muti e i todeschi questa notte hanno arrestato almeno 25 tra uomini e donne. Li hanno portati tutti nella casa del Salvetti, sa quella che c’è sulla strada per Bienno. Li hanno messi giù in cantina e li mazzano tutti se non viene fuori il colpevole della morte del todesco. In paese sono tutti terrorizzati. Anche il Podestà, mi ha detto il don Arlocchi, che tra l’altro ci vorrebbe parlare, non sa come comportarsi. Tutti spetta- no lei che quelli della Muti la rispettano e, come prete, mi scusi sacerdote, la devono stare a sentire”.
“Va bene, va bene” rispose il Parroco. “Un po’ di calma, mica si prendono 25 persone e le si ammazzano subito. Daranno un po’ di tempo… Per favore, vai dal don Ar- locchi e digli se può venire. Ma adesso che ore sono? Le sei e mezza. Vai quando finisce la messa, non disturbarlo prima che se no si spaventa ancora di più”.
Andando verso il bagno, per lavarsi, un’idea lo colpì. Dio, nella sua immensa bontà, aveva creato subito una situazione nella quale lui avrebbe potuto agire iniziando una nuova esistenza.
– Grazie, Padreterno. Te ne sono grato ma per favore gui- dami tu. Come tu sai io non ho molta esperienza nel fare le cose buone! – E, forse per la prima volta, da anni, gli venne da sorridere.

 

XXXVI

In paese era arrivato uno Sturmbannführer delle SS con 6 militi. Avevano requisito l’albergo Fumo, buttando fuori anche due vecchietti che da tempo vivevano a pensione.
A riceverli era stata una Benedetta tremante che aspetta- va, ancora e con grande terrore, di conoscere la sua sorte. Nella grande camera da pranzo avevano spostato i tavoli, lasciando una gran parte dello spazio per una scrivania con poltrona riservata al Comandante. Questi era un trentenne magro magro, con due baffetti alla Führer sotto un grande naso. Pochi ciuffi di capelli e occhiali con spesse lenti. Non ricordava affatto la tanta decantata razza ariana se non per la durezza dei modi, evidenziata da un frustino da cavallerizzo che teneva sempre in mano e che usava, nei momenti di maggior tensione, colpendosi il palmo aperto della mano sinistra. Stivali lucidissimi, la divisa nera sempre impeccabile e il cappello con il teschio completavano la sua immagine spietata e lugubre. Appena installatosi nell’albergo aveva fatto cercare un interprete. La scelta era caduta sulla figlia del miglior avvocato di Breno, tale Annetta Duchi che, avendo studiato per anni in Svizzera, conosceva il tedesco abbastanza bene. Era una giovane bella donna: alta, bionda con due luminosi occhi azzurri. Lei sì, l’immagine della “sacra” razza ariana. La donna, di sicura fede fascista, aveva accettato con entusiasmo quello che, più che un invito, era stato un vero e proprio reclutamento.
Attraverso Annetta aveva contattato il Comandante della locale Brigata Muti, ponendo subito in chiaro che a comandare, nella ricerca del o dei colpevoli della morte del militare tedesco, sarebbe stato lui. Volle un resoconto dettagliato di quanto era stato fatto sino ad allora e, dimostrandosi assai insoddisfatto, aveva accusato l’italiano di assoluta inefficienza, inettitudine e, quasi, di connivenza con il nemico. Chiese chi potesse essere considerato avversario del Regime sia in paese che nei dintorni.
“Voglio al più presto una lista dei sospetti: nomi, cogno- mi e indirizzi” tradusse Annetta. “Al più presto” aggiunse la donna, “vuol dire entro 5 ore”, facendo quindi se- gno al Tenente della Muti che poteva andarsene.
Convocò quindi il Maresciallo dei Carabinieri al quale contestò l’inefficienza sua e dei suoi militari che non avevano impedito a dei delinquenti comuni di essere in circolazione.
“Voi siete esonerato dall’inchiesta. Non mi fido delle vostre capacità e di quelle dei vostri uomini. Tenetevi, comunque, a mia disposizione” tradusse ancora Annetta che cominciava a prendere gusto alla posizione che rico- priva, quasi che i maltrattamenti e gli ordini li impartisse veramente lei.
Anche il Maresciallo dei Carabinieri era sistemato. Avrebbe anche convocato il Podestà facendo quindi sapere a tutti che il comando affidatogli non aveva limi- ti e che poteva agire prendendo qualsiasi decisione.

 

Da tutti pretendeva rispetto e ubbidienza assoluta: che questo fosse chiaro sia a Breno che in tutta la valle. Dopo qualche ora, con in mano i nominativi dei sospetti e con l’aiuto della Muti, organizzò una retata che avrebbe avuto luogo nel corso della notte successiva con la cattura di 18 uomini, che facevano parte della lista dei sospetti sovversivi, e la loro carcerazione.
Ritenendo che le carceri del paese fossero insicure e trop- po vicine al centro del paese – non adatte a coprire le urla di chi aveva programmato di interrogare sotto tortura – su indicazione del Comandante della Muti provvide alla requisizione di una vecchia casa, isolata e lontana dal paese qualche centinaio di metri, sulla strada che conduce a Bienno. La costruzione, alta due piani, presentava quattro locali per piano e delle ampie cantine ove sarebbero stati ospitati i prigionieri. Il proprietario, tale Bettino Salvetti, terrorizzato, aveva, a richiesta, consegnato immediata- mente le chiavi, mostrandosi quasi felice gli fosse data occasione di collaborare con le forze di occupazione. – Se vinceranno loro – pensò – si ricorderanno della mia collaborazione. Se vinceranno gli altri, potrò sempre dire di essere stato costretto con la forza a consegnare le chia- vi e, forse, potrò anche ricevere un piccolo rimborso per il danno subito! –
Nel corso della notte sei squadre, composte da un solda- to del gruppo comandato da Franz, da una SS e da un’appartenente alle Brigate Muti, percorsero il paese nel massimo silenzio e, al termine di un’azione, assoluta- mente ben congegnata, all’alba avevano catturato i 18 abitanti del paese presumibili collaboratori nell’uccisione del soldato tedesco e li avevano portati, imbavagliati e incappucciati, nelle cantine della casa del Salvetti. A guardia dell’improvvisata prigione due militari al piano terra e due SS munite di mitragliatore alle finestre del- l’abbaino, con l’ordine di sparare su qualsiasi persona si avvicinasse con fare sospetto o minaccioso.
L’interprete fu convocata per le 16 di quella giornata per presenziare e collaborare agli interrogatori.

 

XXXVII

Don Arlocchi arrivò in parrocchia tutto trafelato. Non era neppure passato dalla propria abitazione per bere il suo amato caffellatte e questo lo innervosiva un po’. Ma era preoccupato per il Parroco, che sapeva essere rientrato la sera prima da Brescia in precarie con- dizioni fisiche e, soprattutto, per quanto era avvenuto nel corso della notte.
– Diciotto persone, mamma mia! – non aveva smesso di pensare neppure celebrando la messa. – Diciotto persone, molti padri di famiglia. Li conosco tutti, tutte brave persone. Quelli giovani, a pensare, o li ho battezzati io o insieme al Parroco. Tutti bravi ragazzi. Potranno mica ucciderli. Oh Signur, oh Signur! Pensaci Tu con la tua immensa bontà. Mica lascerai che si distruggano 18 famiglie. Non è possibile, non è possibile. E poi il sangue ne chiamerebbe altro. Guarda te: da quella bravata che è costata la vita del soldato tedesco adesso si parla di 18 possibili vittime. Dove andremo a finire? Se da 1 a 18, poi quanti, quanti altri: 180, 200… no, no, Signore! Prendi me piuttosto, che sono vecchio e stanco e non ho quasi più forze per adorar- ti e servirti. Ma non lasciare che si distruggano tutte queste famiglie. Ti prego, ti prego…” “Signor Parroco, signor Parroco, ha sentito cosa è successo. Oh beato il Signore! Ma potevamo aspettarci una cosa simile? Questa è una maledizione. Non doveva mica succedere. A proposito… lei come sta, che mi hanno detto che è tornato da Brescia indisposto? Non c’ha mica una bella cera se è per quello. Cosa si è preso, una infreddatura che ha gli occhi lucidi. Se posso fare qualche cosa, me lo dica. Ma torniamo a noi. Ha sentito 18, e dicono in giro che li vogliono ammazzare tutti. Dicono per rappresaglia. Cosa possiamo fare, signor Parroco? Perché fare dobbiamo fare di sicuro qualche cosa e subito. Vero signor Parroco?” “Don Arlocchi, un po’ di calma” disse don Pompeo con il tono di voce più rassicurante possibile. “Cerchiamo di ragionare sui fatti. Per quello che so io, sono andati a prelevare dei parrocchiani scelti, probabilmente su informazione della Muti, tra quelli che ritengono i loro peg- giori nemici. Sono andati a prendere quelli che avrebbe- ro potuto o hanno partecipato all’uccisione del tedesco. Vogliono trovare notizie per prendere i colpevoli. Ci saranno, prima di arrivare ad una decisione, degli inter- rogatori, forse delle torture. Ma secondo me per ora di fucilazioni non se ne è ancora parlato. Dobbiamo trova- re una soluzione per salvarli tutti, dobbiamo cercare di ingannarli e forse… forse… una certa idea io ce l’ho. Va- da, don Arlocchi, vada e cerchi di stare più sereno possi- bile. Si fidi di me, e mi tenga informato di qualsiasi novi- tà.” Poi, quasi fosse impegnato mentalmente in altri argomenti, con un tono di voce assente continuò: “Fratello, la prego, faccia come se io fossi ancora malato. Le affido la messa delle 8 e le confessioni di tutta la giorna- ta. E preghi, preghi per me, soprattutto perché Dio mi illumini e mi faccia ragionare nel migliore dei modi. Vada, vada che, io so, c’è ancora il suo caffellatte che la aspetta. Sa… le nostre perpetue sono delle pettegole e si raccontano tutte le nostre piccole stranezze. E grazie, don Arlocchi, grazie per quello che so ha sempre fatto per me, che farà per me e per questa nostra parrocchia” e lo abbracciò, lasciandolo trasecolato.
– Quasi un testamento spirituale, mi è sembrato quasi un testamento spirituale! E poi quel “fratello”: mica gli ho mai sentito usare una parola come quella e… non vorrei sbagliarmi, l’ha pronunciata con affetto, quasi commosso. Ma cosa mi sta succedendo? Da un po’ di tempo tutte cose nuove e così strane. Oh Signur, oh Signur aiutami tu! Tutti mettono un fardello sulle mie povere spalle, ma io mica so se riuscirò a reggerlo. Anche tu Madonnina dammi una mano! E così sia. –

 

 

XXXVIII

Don Pompeo rientrò nel suo studio e si inginocchiò davanti al crocefisso. Si sentiva veramente un’altra persona. Stava vivendo quelle ore, così complicate sia per la sua situazione personale che per quella della sua comunità, con una serenità che non aveva mai conosciuto
e che non si immaginava neppure potesse esistere. Pregò a lungo, quindi uscì e si recò al centralino telefonico. Fece chiamare il numero riservato dell’Ovra che non appariva, per ovvie ragioni, sull’elenco. Chiese del commissario e, senza nessun preambolo, lo avvisò che avrebbe cercato un appuntamento con le SS per impor- tanti comunicazioni e che sarebbe stato lieto se anche lui potesse presenziare all’incontro. Lo pregava di tenersi li- bero per il pomeriggio e che più tardi gli avrebbe comunicato l’orario che avrebbe convenuto con i tedeschi.
Si recò all’albergo Fumo e, non avendo trovato alcun tede- sco, si portò al comando della locale brigata Muti. Trovò il Passera, il Comandante, e lo incaricò di far sapere urgentemente allo Sturmbannführer che voleva incontrarlo, possibilmente alle ore 14, per importanti comunicazioni. Il Passera, che si rendeva conto di aver ricevuto un incarico importante ma sapeva altrettanto bene di non capi- re una sola parola di tedesco, ritenne giusto passare dalla casa di Annetta, caricarla in macchina ed andare a cerca- re il tedesco presso la nuova casa requisita. Aveva paura dello Sturmbannführer ed evitava, se possi- bile, di incontrarlo. Giunto alla casa del Salvetti, scaricò Annetta e rimase in macchina ad attendere la risposta. Aspettò quasi un’ora e quando Annetta riapparve la trovò sconvolta ma non ebbe il coraggio di chiederne la ragione. La donna, nervosamente, gli comunicò che il te- desco aveva accettato e aspettava il Parroco alle 14 all’albergo Fumo. Quando la vettura si fermò davanti alla pro- pria abitazione, Annetta fu presa da una crisi di pianto, scese precipitosamente senza neppure salutare e si infilò di corsa nel portone.
Don Pompeo, avuta dal Passera la conferma dell’ora del- l’appuntamento, richiamò l’Ovra di Brescia e decise con il commissario di incontrarsi qualche minuto prima delle quattordici davanti all’albergo. No, non gli avrebbe dato nessuna anticipazione su quanto voleva comunica- re all’ufficiale tedesco, disse al commissario prima di interrompere la comunicazione.
Ora che aveva preso la decisione e fissato l’appuntamento con il tedesco, non poteva più tornare indietro e gli era venuta una gran fame. Si ricordò che non mangiava dalla mattina precedente e decise di far ritorno in parrocchia. Era quasi mezzogiorno e sperava che l’Elvira avesse preparato qualcosa per pranzo. Rimase deluso non trovando la donna. Aprì la credenza, si versò un bicchiere di vino, tagliò un pezzo di mascherpa, una fetta di pane e si sedette a tavola. Finì il povero pranzo con una pera che proveniva dal brolo dell’avvocato Duchi. Più che il sapore, tutte le volte che ne mangiava una, lo sorprendeva il profumo. Scrisse su un biglietto, che lasciò al centro del tavolo per l’Elvira: “Vado a riposare, svegliami alla una. Grazie”.Lasciò in bella evidenza le poche stoviglie sporche perché la cameriera capisse che aveva già mangiato e se ne andò in camera. Era proprio stanco, si stese vestito sul letto e si addormentò immediatamente.

 

XXXIX

Alle 13,50 il Parroco era davanti all’albergo Fumo dove era parcheggiata la Fiat 1500 dell’Ovra di Brescia. Il commissario gli fece cenno di salire e don Pompeo si accomodò sul sedile anteriore. Nessuno dei due ebbe il coraggio, dopo un frettoloso saluto, di fare riferimento agli accadimenti del giorno precedente.
Don Pompeo, che guardava davanti a sé verso il muro dell’albergo temendo di incontrare lo sguardo dell’altro, disse solamente: “Vi ringrazio di essere venuto. Ho deciso di parlare con lo Sturmbannführer perché so chi ha commesso l’attentato alla loro macchina e voglio chiudere la faccenda. Vi prego, ora andiamo, prima che io perda il coraggio.” Ciò detto scese dalla vettura, e, seguito da un commissario sempre più perplesso, attraversò il breve tratto di piazza che li separava dall’ingresso dell’albergo e vi entrò. Nella vecchia sala da pranzo trovarono l’ufficiale tedesco, l’Hauptmann Reserve Franz, due SS e, con grande mera- viglia di Pompeo, Annetta.Le presentazioni furono veloci. Lo Sturmbannführer guardò male il commissario ma non avanzò alcuna obiezione per la sua presenza. Vi fu un minuto di imbarazza- to silenzio e poi il prete prese la parola.“Scusi se mi permetto, ma voi siete cristiano?”“Certo” si affrettò a tradurre la risposta Annetta. “Pro-fondamente cristiano, al contrario di tanti italiani che usano il cristianesimo solo per salvaguardare i propri interessi”.
– Cominciamo bene – pensò il prete ma fece finta di non aver capito l’offesa.“Ieri sera” riprese don Pompeo, “mentre ero in confessionale ho ricevuto la visita di due uomini, padre e figlio pro- venienti da un paese qui vicino. Si sono dichiarati colpe- voli dell’attentato e della morte del vostro soldato. Hanno affermato che questi aveva messo incinta la loro figlia e sorella ma non era disposto ad ammetterlo. La sera dell’attentato il vostro soldato aveva dato appuntamento alla ragazza sull’auto, perché voleva appagare, ancora una volta, i suoi turpi desideri sessuali. I due uomini avevano per- so il lume della ragione e, usando dei candelotti di dina- mite, avevano fatto saltare in aria l’auto ed ammazzato l’odiato seduttore della ragazza. Questo è tutto quello che posso raccontare. Mi è sembrato giusto mettervi al corrente dell’accaduto perché l’uccisione non è stata un delitto politico, ma solo l’opera di un padre e di un fratello offe- si nella loro dignità. Una cosa terribile e obbrobriosa ma, comunque, un fatto strettamente personale. Ho inviato uno scritto, riportando quanto vi ho raccontato, ai miei superiori, ritenendo doveroso sapessero di questa mia azione e decidessero se e quanto ho sbagliato. Sono pronto a subirne le conseguenze”.

Nella stanza cadde un profondo silenzio, interrotto solo dall’ansimante respiro dello Sturmbannführer che cresceva sia per rumorosità che per velocità.
Franz non credeva una parola della versione data dal prete ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che non avrebbe dovuto dare spiegazioni quando, prima o poi, gli avrebbero chiesto come mai il suo compagno di stanza fosse andato, munito di coperta, a passa- re la notte nell’auto.
Anche il commissario non credeva una parola della versione data dal prete, ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che l’attentato, da strettamente politico, si stesse sgonfiando finendo, all’italiana, in una questione di sesso.
La stessa Annetta non credeva una parola della versione data dal prete – chi voleva fare sesso in valle, dove di sesso se ne intendevano, essendo uno dei pochi svaghi possibili, non era sicuramente costretto a farlo in macchina potendo sempre trovare ospitalità da amici o amiche consenzienti – ma si sentì improvvisamente coinvolta in una storia così drammatica ma così romantica.
L’ufficiale delle SS, che a causa della respirazione forzata cominciava ad avere le labbra imbiancate di saliva schiumosa, riuscì a riprendere un poco di calma. Con voce anonima disse:
“I nomi dei due! Voglio i nomi dei due. Adesso, subito!” Terminò la frase urlando e alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduto. Nell’alzarsi perse il frustino che aveva in grembo e, raccoltolo, iniziò a frustarsi violentemente il palmo della mano sinistra.
“Voi avete detto di essere cristiano, signor Sturmbann- führer, e quindi sapete che un sacerdote non può dire a nessuno il nome della persona che, in confessionale, gli ha rivelato un’azione peccaminosa compiuta” rispose il sacerdote che, dopo il suo, sperava credibile racconto, aveva riacquistato una serena calma. “Si dice il peccato ma non il peccatore. Come si suol dire” continuò con tono quasi scherzoso. Il commissario che aveva raccolto notizie dal prete sui comportamenti dei suoi concittadini con nome, cogno- me ed indirizzo di chi li aveva compiuti, quasi scoppiò a ridere, ma riuscì a trattenersi. – Se il tedesco ci crede, per me va benissimo – pensò.
“Questo lo dite ora, prete. Ma troveremo, e come lo troveremo, il sistema per farvi parlare. Per ora vi dichiaro in arresto e poi vedremo”. Si rivolse quindi, con un ringhio, alle due SS presenti che si avventarono sul povero don Pompeo e, presolo per le braccia, lo trascinarono fuori dal- l’albergo. Caricatolo in macchina lo trasportarono d’urgenza nella casa ove erano stati imprigionati i 18 cittadini. “Non voglio che si sappia nulla di quanto abbiamo sentito in questa stanza, traducete!” si rivolse ad Annetta. Quindi, sempre infierendo sul palmo della sua mano sinistra abbandonò, a lunghi passi, la stanza.

 

(continua…)

 

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Articolo Precedente

“Ritmika” al PalaExpo di Moncalieri

Articolo Successivo

Cipro, crocevia delle civiltà. Una mostra ai Musei reali

Recenti:

IL METEO E' OFFERTO DA

Auto Crocetta