L'orto fascista

“L’orto fascista” Romanzo / 12

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XLVII

Lucia non aveva avuto tempo per pensare quale seguito dare alla sua avventura bresciana e quali decisioni prendere, distratta, come tutti in paese, da quanto successo. Aveva, di sfuggita, ipotizzato di parlarne con il marito cercando di trovare le parole giuste per descrivere una situazione che avrebbe lasciato perplesso chiunque. Ma un dubbio l’aveva assalita da subito e un po’ terrorizzata.
E se, per non sovraccaricarsi di problemi, il marito si fosse dimostrato indifferente alla gravità della cosa?
Da tempo aveva capito quanto lui si fosse staccato da lei e, addirittura a volte, la considerasse persino un peso. Di sicuro non mostrava alcun affetto nei suoi confronti. L’aveva dimostrato anche con la mancanza di preoccupa- zione la sera del suo rientro da Brescia a notte fatta. Sapendo dove si era recata avrebbe potuto telefonare all’Ovra per avere notizie e non lo aveva fatto. Al suo ritorno non le aveva neppure chiesto se stesse bene, o se avesse avuto qualche contrattempo. No, solo un bacio frettoloso sulla porta di casa ed un arrivederci al giorno dopo. Tutto questo colpiva enormemente il suo orgoglio, l’orgoglio di una donna che si sapeva intelligente, sicura- mente più colta del marito e molto desiderata dagli uomini. Se avesse appurato l’indifferenza del coniuge gliela avrebbe fatta pagare. Sapeva a chi rivolgere le sue attenzioni andando a colpo sicuro e, questa volta, per appaga-re sé stessa e non le smanie di carriera del marito.
In fin dei conti quel farmacista che si era fatto avanti tempo prima non era sicuramente un uomo da buttar via. Forse era stata troppo drastica nel respingerlo. D’al- tra parte rivolgere pubblicamente lo sdegno che nutriva nei riguardi di quel lurido Parroco poteva essere pericoloso e rivoltarsi contro di lei. Dopo il suo intervento all’arresto dei suoi paesani da parte delle SS, il prete era diventato, agli occhi di tutti, fascisti e non, quasi un eroe. Non sarebbe riuscita a rendersi credibile. Inoltre avrebbe dovuto giustificare la sua presenza negli uffici dell’Ovra in un momento assai delicato per il Regime. Avrebbe avuto bisogno dell’appoggio delle autorità fasci- ste, ma quale sarebbe stato il prezzo che avrebbe dovuto pagare per ottenerlo? Qualche dubbio sul modo di agire dei fascisti e dei tedeschi cominciava a insidiarla.

Il pomeriggio del giorno dopo la brutta avventura si era incontrata con l’amica Annetta. Questa, ancora sotto shock, le aveva raccontato quanto si era verificato in sua presenza nella casa-prigione. La descrizione particolareggiata delle sevizie alle quali era stato sottoposto il Fausto Domeneghini l’aveva sconvolta ed il fatto che il marito avesse in qualche modo tacitamente approvata l’azione dei tedeschi le dava il voltastomaco. Desiderò cancellare il ricordo degli ultimi avvenimenti. Si sentiva sola, triste e priva di quelle sicurezze che da anni la sostenevano.
Fu così che decise di non compiere alcun atto contro il Parroco: in fin dei conti, ammise, non era stata violentata
– se non moralmente, ma forse dava un po’ troppa importanza al fatto. L’unico, orribile, contatto con il corpo del prete era stato quando lui aveva insinuato le mani tra l sue cosce. L’unico, almeno, che lei ricordasse. Ma in fin dei conti poteva essere lo scotto da pagare, la giusta punizione alla indegna disponibilità che aveva preso di soddisfare voglie di altri uomini per avvantaggiare la carriera del marito. Giunta a questa decisione si sentì immediatamente meglio. Forse avrebbe fatto un salto in farmacia a comprare qualche cachet se le fosse tornato il mal di testa, ma in effetti per farsi vedere dal farmacista e chissà… Il Temperini aveva ripreso la sua vita abituale. Ora che il pericolo che si verificassero altre conseguenze all’attenta- to, sembrava passato, aveva una gran voglia di racconta- re a tutti la parte – Eroica, ragazzi. Mica da ridere porta- re a spasso della dinamite. E se non ci fossi stato io chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? – avuta nell’atto di ribellione ai tedeschi. Più di una volta al bar si era morsicato la lingua per evita- re di lasciarsi andare ad un racconto, romanzato, di quan- to aveva fatto. Ma non poteva assolutamente coinvolgere i suoi soci in eventuali conseguenze e non era, comunque, il caso di rischiare. Ormai i partigiani al nord e gli anglo- americani che stavano risalendo l’Italia stavano dando un colpo mortale alla resistenza fascista e ai tedeschi.
La Liberazione stava avvicinandosi. Bisognava avere pa- zienza, aspettare, ma dopo quanto avrebbe avuto da rac- contare! E intanto ci ricamava su col pensiero, aggiungen- do ai fatti realmente accaduti particolari inventati per ren- dere la descrizione più gustosa e affascinante.
“Signora Lucia, vederLa è sempre un gran piacere per gli occhi. Grazie per la visita. Cosa posso fare per Lei?” dis- se, col più bello dei sorrisi possibili, alla maestra quando entrò in farmacia.

 

 

XLVIII

Lo chiamavano tutti Cantamessa da così tanto tempo che nessuno ricordava più il suo vero nome. Il soprannome era dovuto al fatto che passava tutta la giornata, qualsiasi lavoro facesse, cantando inni sacri, la messa solenne in un approssimativo latino – che nessuno comunque sapeva correggere – a volte avventurandosi in qualche Canto Gregoriano. Aveva una discreta voce baritonale che contrastava con il suo fisico minuto, che però era provvisto di una gabbia toracica davvero abnorme. Diceva di aver imparato tutta quella roba di chiesa quando faceva il giardiniere presso il seminario di Bergamo dove aveva studiato don Pompeo. Del Parroco però, inspiegabilmente, non voleva parlare, lasciando capire di aver ricevuto dal
giovane seminarista qualche ingiustizia. Viveva poveramente traendo qualche frutto da un orto nel quale curava una serra. Lì coltivava poche piante da fiore che vendeva, più che altro in occasione delle festività. Lavorava anche a giornata presso alcuni possidenti quando era il periodo della potatura delle viti e degli alberi da frutta.
In questo era molto bravo e quindi ricercato. Ma vigne- ti e broli non erano così tanti da procuragli soldi sufficienti a una esistenza decente. Arrotondava con la raccolta delle castagne, dei funghi e con la vendemmia. Un giorno che stava camminando verso casa, incontrò Ernesto, lo fermò e gli chiese: “Sei tu il responsabile dell’orto dei bambini?” Avutane risposta positiva continuò: “Quest’anno non piove e non ha voglia di nevicare. Il grano è spuntato ma se non lo bagnate finisce che secca e muore”.
Era uno che se ne intendeva, lo riconoscevano tutti e il bambino, che ne aveva sentito parlare dagli adulti, tenne in grande considerazione il consiglio. Sorrise al vecchio, ringraziandolo, e la mattina successiva chiese alla maestra il permesso di recarsi, insieme al fido amico Bertolasi, a bagnare l’Orto Fascista. Gli era stato consigliato dal Cantamessa e quindi era sicuramente cosa da fare. Entrambi i ragazzi avevano una preparazione superiore alla media della classe: nulla in contrario, da parte della maestra, se saltavano qualche ora di lezione.
Fu così che i due bambini uscirono da scuola. Avevano bisogno di un innaffiatoio e Ernesto sapeva dove trovarlo. Tornò a casa e raggiunse il fondaco ove la vecchia zia Erminia, sorella del nonno e vedova da anni, teneva i suoi attrezzi. L’Erminia aveva tre grandi amori: il Padreterno, che onorava assistendo ogni giorno alla Santa Messa con Comunione, i suoi sette gatti per i quali si sarebbe sottratta, se necessario, il cibo di bocca, e i suoi gerani. Questi erano, tutti gli anni, i più belli del paese e lei ne riempi- va i davanzali delle finestre e le ringhiere dell’ampio ter- razzo che dava sulla piazza Mercato. Si diceva che riuscisse ad ottenere foglie verdissime e fiori dai colori brillanti bagnandoli con acqua mista alla sua urina.
Chi però, in paese, aveva provato questa forma di “concimazione” ne aveva ottenuto risultati opposti. Le pian- te avevano, in breve tempo, perso le foglie e i fiori appassivano. Forse sbagliavano il dosaggio o forse la loro urina non aveva la qualità di quella dell’Erminia.

Lei era gelosissima dei suoi attrezzi e quindi bisognava prendere quello che ai ragazzi serviva senza farsi vedere. Chiedere il permesso sarebbe stato inutile. La vecchia zia avrebbe trovato di sicuro una scusa per non affidare qualcosa a Ernesto del quale, data la sua giovane età, non si fidava. Vi erano diversi tipi di innaffiatoi e i ragazzi ne scelsero uno, non troppo grande da essere per loro troppo pesante né troppo piccolo che obbligasse loro a fare, troppo spesso, avanti indietro tra l’orto e la fontana. Sgusciarono fuori dal cortile tenendosi rasenti al muro di casa per non farsi vedere; fecero mezzo giro della piazza per allontanarsi dalla vista dell’Erminia, si accostarono alla fontana e riempirono il contenitore. Dopo due ore di duro lavoro i ragazzi, nonostante la giornata fredda dei primi di dicembre, erano sudati e stanchi morti. Decisero di interrompere il lavoro per riprenderlo, se avessero avuto il permesso della maestra, l’indomani.
Pensarono di non riportare l’innaffiatoio a casa: correva- no il rischio di essere scoperti o subito o l’indomani mattina quando lo avrebbero dovuto nuovamente prelevare. Che si scoprisse l’ammanco era praticamente impossibile, non era tempo di gerani e la vecchia zia non aveva alcuna ragione di andare nel fondaco a controllare.
Avrebbero ricoverato l’innaffiatoio nel gabbiotto degli attrezzi. Chi avrebbe potuto rubarlo?

 

Il Mario andò dal bidello della scuola per farsi dare la chiave del lucchetto. Al suo ritorno aprirono il portoncino e Ernesto cercò, spostando gli attrezzi che erano al- l’interno, di fare spazio. Muovendo il sacchetto di se- menti avanzate alla semina autunnale, nel semibuio del piccolo locale, improvvisamente gli apparve una cosa strana: una specie di candela grigia con una corda che usciva da uno dei capi. Allungò una mano e la prese portandola all’esterno. Sia lui che il Bertolasi esclamarono all’unisono “Ma questo è un candelotto di dinamite!” Cosa farne? Portarlo ai Carabinieri o nasconderlo in qualche posto? Entrambi capirono che doveva far parte dell’esplosivo che era stato usato per far saltare in alto la vettura e uccidere il soldato tedesco. Era qualcosa che scottava. Ernesto era il responsabile dell’orto. Non è che potessero incolparlo di qualche cosa?
“Facciamolo sparire, dai! Poi ci penseremo” concordarono. Vuotarono il sacchetto delle sementi, ci misero il candelotto e chiusero il gabbiotto.

 

XLIX

Per tutti i bambini della bergamasca e del bresciano il giorno più felice dell’anno è il 13 di Dicembre. Nel giorno in cui si festeggia Santa Lucia non vi è bambino, anche se di famiglia poverissima, che non riceva qualche dono. Santa Lucia, di origine siracusana, protettrice dei ciechi, è ricordata anche perché elargì il suo immenso patrimonio ai poveri. Da tempo immemorabile in quelle zone ha preso il posto di Gesù Bambino e di Babbo Natale. E’ giorno feriale ma le scuole rimangono chiuse per per- mettere, a chi li riceve, di giocare con i regali portati
dalla Santa. Anche in tempo di guerra, quando la povertà dilagava, quasi nessun bambino rimaneva senza un regalo, anche solo una fionda, fatta da un ramo biforcuto di nocciolo con due pezzi di camera d’aria di bicicletta, o una palla di pezza. Quell’anno Ernesto quando si alzò, dopo una notte quasi insonne per l’attesa, trovò un regalo magnifico che lo fece impazzire di gioia. Un pallone di vero cuoio! Una cosa difficilmente trovabile in un periodo di autarchia, frutto, forse, di una ricerca fatta da suo padre.
Il pallone mandava un profumo del quale Ernesto si riempì i polmoni. Gridando “Grazie, grazie, grazie!” scese precipitosamente le scale in cerca degli amici con i quali voleva condividere la sua gioia. Li trovò tutti con in mano il loro regalo che presto dimenticarono attratti da quella splendida sfera di cuoio che prometteva, final- mente, di giocare veramente “al calcio” e non, come erano abituati, con delle palle di stracci.
Si riunirono subito in piazza Mercato, fissarono dei segni per stabilire i margini delle porte e poi cominciarono a formare le squadre.
Grandi discussioni: coppie che avevano giocato per tanto tempo insieme che non si volevano dividere ma che erano costrette a farlo per equilibrare le forze in campo; nessuno che voleva fare il portiere che è sempre destina- to a toccare pochi palloni e che, se si deve “tuffare” per parare, nel caso specifico lo doveva fare su un terreno ricoperto di sassi; il solito primo della classe che voleva essere l’arbitro e giudice unico per punire, a suo piaci- mento, i ragazzi che gli stavano antipatici; nessuno che voleva in squadra il Bertolasi che era considerato un veneziano perché non passava mai la palla; ecc. ecc.

Finalmente fu tutto stabilito. Si stava per dare inizio alla partita quando, rombante, arrivò il sidecar dei tedeschi. Il pilota andò a posizionarlo a dieci metri dall’albergo Fumo, quasi al centro del campo ove si sarebbe giocata la partita. I ragazzi protestarono rumorosamente ma il tedesco non capì cosa volessero o, molto più probabil- mente, fece finta di non capire ed entrò nell’albergo.
Ci fu un veloce conciliabolo ma la frenesia nei ragazzi era tanta e la partita ebbe inizio.
Quando la squadra di Ernesto vinceva per 2 a 0, ed il nervosismo già dilagava nella formazione avversaria, il Giacomino, terrore di tutti i portieri per le “staffilate” che riusciva a far partire da due piedoni sistemati al termine di gambe possenti, si accinse a tirare una punizione. L’intervento dell’arbitro e la punizione contro la squadra di Ernesto era stata lungamente contestata ma, alla fine, correttamente accettata. Il Giacomino intende- va tirare direttamente nella porta che distava almeno 30 metri, prese una lunga rincorsa e fece partire un tiro vio- lento. Il pallone, colpito con troppa foga e non con la punta della scarpa, non seguì la traiettoria sperata ma andò a colpire violentemente il fanale anteriore del motociclo tedesco, facendolo andare in mille pezzi.
Il silenzio che cadde in piazza fu interrotto dalle urla del pilota del mezzo che, avendo assistito all’accaduto dalla finestra della sua stanza al secondo piano, si era precipitato giù dalle scale. Appena uscito il militare si fermò, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere il disastro che si presentava ai suoi occhi. Si avvicinò lentamente al motociclo, lo guardò con nello sguardo la stessa apprensione con la quale un padre può guardare un figlio gravemente ammalato. Fu uno sguardo lungo, profondo, doloroso.
“Ciapal nel cul” disse sottovoce il Bettino che non perde- va occasione per mettere in luce le sue doti di scurrilità. Poi il tedesco si abbassò, prese il pallone che era rimasto incastrato, non si sa come, tra la ruota anteriore ed il telaio del sidecar. Con il braccio quasi lo circondò tenendolo all’altezza della vita. Lentamente tolse il pugnale dal fodero che aveva legato alla cintura. Alzò il braccio e fece calare con violenza il pugnale sul pallone mentre un coro di “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO” si
levava dai bambini.

Buttò il pallone, squarciato e ormai inservibile, per terra e guardò con aria di sfida i ragazzi che erano rimasti impietriti. Ernesto si fece avanti mentre i suoi amici lo guardavano con amicizia e compassione. Arrivato all’altezza del tede- sco raccolse il pallone, o meglio quello che era rimasto del pallone. Non disse neppure una parola ma lasciò an- dare un violento calcio alla gamba dell’uomo che, però, non subì alcun danno essendo riparata dai pesanti stiva- li. Anzi, la cosa divertì molto il militare che se ne andò ridendo scompostamente mentre il bambino, che regge- va il pallone tra le braccia quasi fosse un essere vivente, raggiunse il cancello della casa dei nonni e singhiozzan-do si lasciò cadere a sedere per terra.
“Questa me la paga, giuro che me la paga”.

 

L

“Ci vediamo questo pomeriggio alle due al covo” aveva detto l’Ernesto prima di raccogliere quello che era stato un pallone e tornarsene, tristemente, a casa. Adesso erano lì tutti in quel piccolo locale in pietra semi- diroccato, sulla stradina che portava al Castello. Era abbandonato da anni e nessuno più ricordava chi fosse il proprietario e perché fosse stato costruito. Conservava ancora una porta che si apriva con difficoltà ostacolata dal terriccio che si andava accumulando all’interno del locale. Le due finestrelle erano prive di una qualsiasi chiusura. Per i ragazzi era comunque il “covo”, il posto ideale, cari- co di mistero, dove amavano trovarsi per organizzare qualche avventura. Erano tutti eccitati perché, di sicuro, come aveva preannunciato Ernesto si sarebbe presa una decisione per vendicarsi del danno subito. Il pallone, an- che se aveva, o meglio aveva avuto, un unico proprieta- rio era come se fosse, o fosse stato, un po’ di tutti.
Fu eseguito il solito rito di introduzione. Tutti giurarono solennemente, incrociando gli indici più volte sulle lab- bra, che quanto detto o ascoltato non sarebbe stato riferito, mai e per nessuna ragione, ad alcuno. Tutti sputarono al centro del cerchio che avevano formato con i loro corpi: era ritenuto un gesto scaramantico.
Poi iniziò la discussione. C’era chi suggeriva di fare una dimostrazione sotto le finestre delle camere dei tedeschi con cartelli pieni di offese; chi voleva pisciare all’interno del vano del sidecar dove si ospita il passeggero; chi ne voleva bucare le ruote; chi, ancora, molto più semplicemente, voleva scrivere una lettera al Comando Tedesco di Brescia chiedendo un nuovo pallone. Il Bettino, che desiderava sempre esibirsi in volgarità, pro- pose che sulla carrozzeria del sidecar venisse scritto: “Chi guida è una testa di cazzo”.
Alla fine prese la parola, nel silenzio generale, Ernesto. Fu lapidario:
“Il sidecar? Glielo facciamo saltare in aria!”.

Tutti pensarono a una battuta. Tutti tranne il Mario che capì subito che l’amico si riferiva all’impiego del candelotto di dinamite trovato nel gabbiotto dell’Orto Fascista. Ernesto, troppo emozionato dalla decisione presa, disse al Mario di raccontare a tutti come poteva essere fatta la cosa.
Un brivido di eccitazione corse nelle vene dei ragazzi. Si stava affrontando una storia vera, una storia che sarebbe passata ai posteri per la sua importanza. Fu deciso di attendere che il motociclo venisse riparato. Poi, di notte, lo avrebbero fatto saltare in aria.
Si accettavano volontari per compiere la vendetta. E’ inutile dire che tutti si candidarono, ma dovevano essere al massimo tre o quattro i ragazzi coinvolti per non dare troppo nell’occhio.
Il piano fu proposto da Ernesto. Ci aveva pensato e aveva deciso che sarebbe stato il più semplice possibile: da por- tarsi a termine nel giro di pochi minuti per non correre il rischio di essere scoperti. Venne scartato il Mario che abitava molto lontano e avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere, dopo il fatto, casa sua. Ernesto aveva pensato di usare la collaborazione attiva del Giacomino, che abitava nella parte ovest della vecchia villa dove anche lui abitava, e del Giovanni Pivetti. Questo, anche se chiamato Cagasotto, per non aver mai dimostrato molto coraggio quando c’era da compiere qualcosa di pericoloso, era una ragazzo sveglio, preciso e affidabile.
Per non demoralizzare nessuno Ernesto distribuì un in- carico, che lui definiva “speciale” a quasi tutti, in modo che tutti si sentissero veramente partecipi al grande evento.
Lui e il Giacomino, verso le ventitré del giorno stabilito, avrebbero raggiunto il motociclo e messo sotto il telaio il candelotto di dinamite. Accesa la miccia, se la sarebbero data a gambe per il vicolo dei Broli, quello che passa dietro l’albergo Fumo. All’altezza del muro del cortile del Giacomino, il Pivetti avrebbe fatto trovare una scala già posizionata per poter raggiungere la cima del muro e calarsi dall’altra parte. Dopo essere stata usata, la scala sarebbe stata riportata nel fienile dei Pivetti e rimessa al suo posto. Raggiunto il cortile, Giacomino sarebbe rientrato a casa attraverso una finestra, lasciata appositamente aperta, mentre Ernesto avrebbe raggiunto l’orto dei nonni, scavalcando il muretto di divisione, e quindi an- che lui rientrato in casa sua.
Lo scoppio, che sicuramente sarebbe stato sentito da tut- ti gli abitanti della piazza, avrebbe creato molta confusione e paura e la presenza in giro dei bambini sarebbe rimasta inosservata.

 

 

LI

Passò una lunga settimana prima che i pezzi di ricambio giungessero, probabilmente dalla Germania, maalla fine il nuovo fanale del motomezzo fu montato. “Dobbiamo farlo questa sera” sussurrò Ernesto, che era arrivato tardi a scuola e non ne aveva potuto parlare prima con il Mario. “Passa parola, poi ti spiego. Tutti al covo alle due”.
In breve tutti i ragazzi coinvolti furono avvisati e presi da una grande euforia giustificabile dall’incoscienza della giovane età. All’ora prestabilita erano presenti tutti. Furono ripassate le parti ed apparve, tra l’emozione di tutti, il famoso candelotto. Ernesto spiegò che non vi era più tempo, perché sua mamma sperava che il papà potesse venire a Breno per passare con loro, in occasione del Natale, qualche gior- no di riposo. Lui, con in giro suo padre, non se la sentiva di agire.
Purtroppo nessuno ancora possedeva un orologio da polso e quindi ci si doveva attenere agli orari dettati dal campanile.
Ernesto e Giacomino si erano organizzati per incontrar- si, sempre nascostamente, la sera e tenersi compagnia ma soprattutto tenersi svegli. Ma del Pivetti ci si poteva fida- re? Suo padre faceva il turno di notte presso la Ferriera e usciva di casa alle 21. La madre, dopo una giornata di lavoro, che iniziava alle cinque e mezza come addetta alle pulizie nel locale ospedale, alla sera alle otto crollava per la stanchezza e se ne andava a dormire. Addormentata la mamma ed uscito il padre, il Pivetti avrebbe raggiunto Ernesto e Giacomino, e insieme avrebbero atteso l’ora per agire. E così si fece.

All’albergo Fumo l’Hauptmann Reserve Franz non riusciva a dormire. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del Natale, aveva sempre più nostalgia della sua famiglia e soprattutto della moglie. Sarebbe stato il secondo Natale consecutivo che passava lontano da casa per combattere una guerra che riteneva sempre più ingiusta e ormai definitivamente persa. Non ce la faceva più a sopportare quegli sguardi di odio che gli giungevano dagli italiani quando girava per Breno o nei paesi vicini.
Superato il trauma per la morte di Berndt e per l’arrivo dello Sturmbannführer, si era anche rammaricato di aver trattato, la sera dell’attentato, in quel modo violento la povera Benedetta che, sicuramente, non poteva aver partecipato all’organizzazione dell’attentato. Con il suo modo di fare aveva perso anche lei. Poter fare all’amore con una donna che tanto gli ricordava sua moglie sarebbe stato sicuramente un palliativo per la sua solitudine, ma, comunque, un bel palliativo. Almeno dieci volte aveva avuto la tentazione di avvicinarla e di scusarsi, ma il suo “onore” di soldato aveva avuto sempre il sopravvento e glielo aveva impedito. Continuò a rigirarsi nel letto sino a quando gli venne voglia di mangiare un po’ di cioccolata.
– Allora è vero – pensò – che la cioccolata è un aiuto alla mancanza di affetto. Sono veramente messo male, alla mia età. –
Si alzò, prese una delle tavolette che ogni tanto gli arrivavano dal Comando di Brescia e si mise a mangiarla avvicinandosi alla finestra.
Era una triste nottata, come tante altre con le luci spente ed il silenzio assoluto del paese che dormiva.
Da tempo non pioveva, quell’anno non aveva neppure nevicato e le strade del paese erano sporche, le case gri- gie. Nel buio sembravano ancora più scure. Ah che bello il suo paese in mezzo alle montagne della Baviera quando la neve scendendo rendeva tutto candido e pulito. – Che desiderio ho, che grande desiderio di pace! – pensò. Quando il campanile cominciò a suonare gli undici colpi, dal cancello di casa Ronchi uscirono tre bambini. Due proseguirono tagliando diagonalmente la piazza in direzione dell’Albergo; il terzo si diresse a destra raggiungendo il vicolo dei Broli.
Franz, fermo davanti alla finestra, vide qualcosa muoversi in piazza ma, al momento non vi fece caso, così perso nei suoi nostalgici pensieri. Poi vide chiaramente due bambini che si avvicinavano, con qualche cautela, al sidecar.

– Due bambini? A quest’ora? Cosa ci fanno in giro due bambini? Qualcosa di veramente strano. – Cercò di capire se e come doveva agire. Probabilmente i ragazzi volevano fare solo uno scherzo: magari sgonfiare una delle ruote del motociclo. Ciò avrebbe mandato su tutte le furie, la mattina dopo Sebastian, il conducente. Se avesse aperto la finestra e si fosse messo ad urlare, o, peggio ancora, avesse esploso un colpo di pistola in aria, i ragazzi avrebbero desistito dal loro intento e sarebbero scappati. Ma alle sue urla, o al colpo di pistola, tutta la piazza si sarebbe svegliata, i ragazzi sarebbe nel frattempo spariti, e lui alla vista dei brenesi sarebbe apparso co- me un pazzo urlante, o peggio come un pazzo armato, alla finestra davanti ad una piazza deserta.
Aprì comunque la finestra ma decise di attendere. I ragazzi erano ormai arrivati al sidecar. Improvvisamente vide una fiammella, poi sentì lo sfrigolio caratteristico di una miccia che brucia.
E allora capì, ma era troppo tardi. Quando la deflagra- zione avvenne, lui era fermo, impalato davanti alla finestra, incapace di muoversi.
Lo scoppio, pochi secondi di silenzio e poi il rumore dei pezzi del motociclo che, dopo essere stati proiettati in aria, ricadevano sull’acciottolato.
Fu questo rumore che lo richiamò alla realtà. Alla triste realtà. L’Hauptmann Reserve Franz si sentiva svuotato dall’onore di soldato che lo aveva sostenuto per tanto tempo nelle avversità. Il suo onore era stato disintegrato insieme al sidecar.
Cadde in ginocchio davanti alla finestra e si mise a piangere, a piangere per quanto aveva perduto; per la guerra che odiava e che non avrebbe mai voluto combattere; per quel pazzo del Führer che voleva continuarla; per quello che sarebbe stato il suo futuro, ora che per incapacità non aveva saputo evitare l’attentato compiuto nientemeno che da due bambini; per la prima linea, al fronte, alla quale sarebbe stato inviato per punizione; per i grandi e sodi seni di sua moglie che chissà per quanto tempo ancora non avrebbe potuto baciare; per i biondi capelli dei sui figli, che non vedeva da tanto, troppo tempo, e che aveva tanto desiderio di accarezzare; per il suo bel paese che gli man- cava immensamente e che in quei giorni si apprestava a festeggiare un Natale forse imbiancato dalla neve. Un tri- ste Natale, ma comunque sempre un giorno che è festa solo in presenza di bambini e persone care.
Allungò una mano e prese da sopra il cassettone la pistola di ordinanza. Pensò intensamente ai propri genitori morti da poco, ai figli tanto amati, alla sua dolce moglie. Poi ebbe una visione: sua mamma gli si avvicinava, gli scompigliava affettuosamente i capelli come faceva spesso quando lui era bambino, lo prendeva per mano e lo portava con sé.
Ma questo avvenne prima o dopo che ebbe tirato il gri letto?

 

 

LII

Icinque militari tedeschi, svegliati dall’esplosione, si precipitarono fuori dall’albergo e rimasero in silenzio,
scioccati dallo spettacolo che era davanti ai loro occhi. Il terreno stava ancora fumando e piccoli pezzi di quello che era stato un sidecar erano sparsi dappertutto.
Nessun rumore proveniva dal paese; nessuna persiana si era aperta anche se, sicuramente, gli abitanti della piazza guardavano tra una stecca e l’altra il teatro dell’attentato. Il pilota del sidecar si era chinato a raccogliere la sella del posto di guida che era rimasta stranamente intatta. La stringeva a sé guardandola intensamente, come se tra le mani reggesse un figlio.
Dopo qualche minuto i militari si accorsero che in piazza non vi era il loro comandante. Il soldato che aveva preso il posto di Bernd come aiutante dell’Hauptmann Reserve, si precipitò su per le scale per raggiungere la sua stanza. La trovò chiusa a chiave. Bussò violentemente senza ricevere alcuna risposta. Allora si precipitò alla finestra del corridoio chiamando i suoi commilitoni che lo raggiunsero di corsa. Il più gros- so dei cinque si buttò, di peso, contro la porta che si staccò dai cardini cadendo rumorosamente a terra.
Sul pavimento giaceva il grosso corpo del loro comandante, con il cranio sfondato dal colpo della pistola che era ancora nella sua mano. Gli uomini rimasero come paralizzati, mentre il senso di rabbia che si era scatenato dopo quanto visto nella piazza lasciava ora il posto allo sgomento e alla paura.
Sollevarono il corpo dell’Hauptmann Reserve e lo trasportarono adagiandolo sul letto. Su quello che rimaneva del viso appoggiarono il suo cappello per impedirne la vista. Avvisarono di quanto era avvenuto nella stanza di Franz il proprietario dell’albergo che, ancora in pigiama, si trovava come inebetito sulla porta che dava sulla piazza sen- za riuscire a pensare cosa sarebbe stato più logico fare. Tramite la radio da campo informarono il comando di Brescia dell’attentato e del suicidio del loro comandante. Poi, in attesa di ordini, sempre più impauriti, si chiuse- ro in una stanza con le armi pronte a sparare. Verso l’alba cominciò a nevicare. Ai radi fiocchi iniziali fece seguito quasi una tempesta di neve che imbiancò in breve tempo le strade, i grigi tetti di beole e i balconi delle case. Con un passa parola, sempre a persiane chiuse, tutto il paese venne informato di quanto accaduto in piazza Mercato e del suicidio dell’ufficiale.
Nessuno aveva il coraggio di uscire di casa temendo una violenta reazione dei tedeschi.
Solo i bambini che, essendo le scuole chiuse si erano tro- vati un insperato giorno di vacanza, cercavano di convincere i genitori a lasciarli uscire, pregustando veloci discese con lo scargiulì, la caratteristica povera slitta della Val- camonica, sfruttando la prima neve dell’anno.
Dei soldati tedeschi nulla si sapeva. Rientrati in albergo, dopo il sopralluogo in piazza, erano spariti e non si conosceva quale decisione avessero preso.

 

 

In una calma apparente, verso le dieci il Podestà, accompagnato dal comandante della Muti, si era recato all’albergo Fumo per incontrare i tedeschi e mettersi a loro disposizione. Ma non erano stati ricevuti. Solo più tardi si decisero ad accettare la presenza del Par- roco che, dimostrando ancora una volta grande coraggio, aveva raggiunto l’albergo per amministrare una tardiva estrema unzione al morto. Don Cappelletti si era fermato a lungo raccolto in pre- ghiera ai piedi del letto dove giaceva Franz.
Si riteneva in parte colpevole per l’accaduto, pensando che l’espediente che aveva usato per evitare ritorsioni dei tedeschi dopo il primo attentato avesse spianato la via al secondo gesto dinamitardo. Tutti in paese si domandavano chi avesse avuto il corag- gio di compiere questo atto, ben sapendo quali potesse- ro essere le reazioni degli occupanti sulla popolazione.
La neve continuava a cadere abbondante quando, verso mezzogiorno, arrivò a Breno un autocarro Opel Blitz 6700 mandato da Brescia, con notevoli sforzi non essendo attrezzato a percorrere strade innevate. Il Comando tedesco di Brescia aveva infatti deciso di recuperare il corpo dell’ufficiale e di far rientrare i solda- ti rimasti, eliminando il presidio di Breno.
L’autocarro entrò nel cortile interno dell’albergo nel più assoluto silenzio e con la piazza completamente deserta. Il corpo di Franz fu sistemato in una bara inviata da Brescia sul camion e sui sedili, ai lati del cassone, prese- ro posto i soldati con i loro zaini e i loro armamenti.
Quando l’autocarro ritornò sulla piazza, l’autista la trovò occupata da centinaia di persone. Uomini e donne di tutte le età, immobili, in silenzio.
Non erano venuti ad assistere alla partenza del nemico sconfitto, ma per un atto di pietà verso il suicida. Rispetto che forse solo gli italiani hanno verso la morte, chiunque essa abbia colpito.
Il camion sparì agli occhi dei presenti nel turbinio di neve, portandosi via i resti di un’avventura crudele, drammatica. Ma solo un atto di quella tragedia più complessa che è la guerra.

 

LIII

E ra quasi l’ora dei Vespri. Don Arlocchi stava leggendo il breviario seduto in cucina, davanti al camino della povera casa dove abitava. La legna si era completamente
consumata e le braci mandavano sempre meno calore. Comunque il vecchio prete godeva ancora di quel tiepido che rimaneva nella piccola cucina. Fra poco sarebbe andato a pregare nella chiesa parrocchiale al gelo di quella sera di dicembre. Probabilmente sarebbe stato solo con il sagrestano: le vecchiette non si sarebbero fidate ad uscire nelle buie strade innevate e sdrucciolevoli.
– Potrei recitarli qui, i Vespri, magari invitando il Sile- strini – ma sapeva che non era possibile.
Il freddo gli acuiva i dolori alle giunture e gli complica- va la già precaria respirazione. Ma il sant’uomo offriva tutte le sue sofferenze al buon Dio, con la speranza di poter un giorno essere ammesso in Paradiso. Tutta l’eternità in Paradiso! Nella più completa beatitudine.
A volte questo pensiero lo spaventava. La sua era stata una vita di sofferenze, anche se per rispetto al Creatore non voleva ammetterlo. Non era preparato alla gioia, al benessere, alla beatitudine, appunto. E se Dio si fosse indignato con lui nell’accorgersi che non riusciva ad apprezzare appieno il dono che gli veni- va offerto?

 

Quasi quasi mi converrebbe un passaggio dal Purgatorio – aveva qualche volta pensato. Un modo per pregustare quanto avrebbe raggiunto e per allenarsi a goderne appieno.
Si alzò dalla sedia e stava per portarsi alle spalle il pesante tabarro che lo avrebbe riparato nel tragitto sino alla chiesa, quando sentì bussare.
Speriamo non sia un seccatore, se no finisce che arrivo tardi in chiesa – pensò. Aperta la porta si trovò davanti tre bambini che parve riconoscere.
“Cosa volete bambini? E cosa fate in giro a quest’ora al buio? Dunque, vediamo se ricordo bene. Tu sei l’Ernesto, il nipote del Generale, tu… aspetta, aspetta, sei il Giacomino e tu il figlio del Pivetti. Ma non mi ricordo il nome.” “Sia lodato Gesù Cristo, padre. Sì sono il Giovanni Pivetti.”
“Cosa volete da me? Ditemi in fretta che devo andare in chiesa a recitare i Vespri e magari qualcuno mi aspetta. Mi sa che non ci sarà nessuno ma ci devo andare lo stes- so. Forza, chi parla per primo?” I tre si guardarono brevemente tra loro e poi, come d’accordo, fu l’Ernesto a parlare.
“Don Arlocchi, volevamo sapere se è peccato far saltare in aria un sidecar. Soprattutto se è un peccato mortale.” Il prete rivide davanti ai suoi occhi la scena dell’incontro con il Russì e con il farmacista e la loro confessione.

Ma questi sono tre bambini! Cosa si stavano inventando? Saranno mica stati loro a provocare lo sconquasso della notte precedente? Probabilmente vogliono coprire il vero colpevole. Ma perché queste cose sempre a me capitano? Quando succedono fatti strani e violenti sempre da me vengono. Oltre al dolore alle giunture, al freddo della casa, alle strade innevate, che a percorrerle ho sempre il terrore di cadere, adesso mi arriva tra capo e collo anche questa grana – questi pensieri gli affollarono la mente mentre si sentiva venir meno.
– Cosa rispondere a questi bambini? Sì, certo, far “salta- re in aria” un sidecar, come loro avevano detto, non era certo un’opera buona. Era sicuramente far del male al prossimo perché il sidecar un proprietario ce lo aveva di sicuro. Quindi c’era di mezzo il secondo comandamento dei cristiani. Ama il prossimo tuo e quindi non fargli del male. Oppure il settimo. Non rubare! Distruggere una cosa d’altri è un po’come rubargliela. Ma… come affrontare l’argomento? Con dei bambini, poi. – “Sentite ragazzi, questa è una cosa un po’ complicata. Una cosa da grandi. Mica si può risolverla così sui due piedi. Chi ha fatto qualcosa di male venga a confessarsi. A tempo debito e nel posto giusto. Io non ho capito be- ne cosa avete tentato di dirmi. Comunque, a scanso di equivoci, pregate, pregate la Madonna che fa sempre be- ne. E adesso scusatemi ma io devo andare. Filate a casa che i vostri genitori vi staranno aspettando e magari sono in pensiero. Sia lodato Gesù Cristo” e chiuse la porta. I ragazzi corsero giù dalle scale e, appena in strada, si fermarono. La neve continuava a cadere e ormai aveva superato i trenta centimetri.
Rimasero un attimo in silenzio e poi il Giacomino disse: “Ve l’avevo detto io che non avevamo fatto nessun peccato. Se no il don Arlocchi ce lo avrebbe detto e avrebbe preteso che ci confessassimo subito. Ciao ragazzi, ci vediamo domani!” e se ne andò correndo. “Penso proprio che abbia ragione lui. Ciao” disse Gio- vanni e anche lui si allontanò di corsa.
Meno male! – si disse l’Ernesto e, rinfrancato, si avviò verso casa.

FINE

“L’orto fascista” Romanzo / 11

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

XLIII

Alle undici meno un quarto uno sbraitante Sturmbannführer entrò nella casa – prigione, accolto dalle due SS che erano di guardia. Le sue urla svegliarono anche gli altri quattro militari che stavano dormendo al piano superiore e che, dopo qualche minuto, giunsero, rivestiti in qualche modo, davanti al loro Comandante. Questi continuava, urlando, ad impartire ordini. La porta della cantina fu spalancata e tutte le sei SS si precipitarono, urlando a loro volta, nello scantinato. I poveri prigionieri furono fatti alzare, spintonati su per le scale e, quindi, fuori dalla porta che dava sulla strada: terrorizzati e certi di essere condotti al luogo ove sarebbero stati fucilati.
Ma la porta si chiuse alle loro spalle senza che nessuna delle SS fosse uscita. Dopo qualche momento di intontimento capirono di essere in strada tremanti, al freddo, affamati, assetati, ma liberi. Quando furono sicuri che le SS non avrebbero sparato su di loro, si diressero verso il centro del paese. I più giovani si misero a correre, urlando, lungo il corso principale. Le prime finestre si aprirono, nelle stanze le luci si accesero e, pian piano, tutto il paese si accorse della loro liberazione.
Solo don Pompeo, che si era avviato con gli altri, ritornò sui suoi passi ed andò a battere, con violenza, al portoncino della casa. Gli aprì lo Sturmbannfürher in persona, con occhi spiritati mentre un filo di bava gli scendeva dalle labbra. Il Parroco, in modo concitato ma comprensibile, spiegò che il Fausto, rimasto nella cantina, doveva essere prelevato e portato in ospedale. Quattro SS scesero e ritornarono trasportandolo a braccia. Stavano per adagiarlo sul piano della strada quando il Parroco si avvicinò alla vettura, con la quale era giunto lo Sturmbannfürher, aprì la portiera posteriore ed indicò il sedile sul quale il ferito, che continuava a lamentarsi ed a piagnucolare, venne disteso. Salì anche don Pompeo e, rivoltosi all’ufficiale tedesco, gli urlò: “Ospedale. Subito!”
L’autista si rivolse al suo Comandante e, avuta tacita approvazione, si mise al volante e partì alla volta del- l’ospedale.
Il Silestrini, il sagrestano, stava facendo all’amore con la moglie, come tutti i sabati sera con la data dispari. Un tacito accordo che andava bene a lei perché non la impegnava troppo di frequente, ma che serviva ad alimentar- le ancora la speranza di conoscere cosa potesse essere un orgasmo – “una cosa meravigliosa” le aveva detto la sua migliore amica con la quale era in confidenza – che non aveva mai raggiunto. Bene per lui che, a 62 anni, desiderava, per piacere e per curiosità questa pratica. La curi sità di verificare le sue capacità sessuali bimensilmente: era per lui come timbrare il cartellino.Incuriosito dalle urla che arrivavano dal Crusal sino a casa sua, interruppe il rapporto. Si rivestì velocemente, raggiunse il luogo da dove provenivano gli schiamazzi e, avuta la buona notizia, si precipitò al campanile della chiesa ove iniziò un vero concerto di campane.

 

Intanto quasi tutte le case si erano svuotate; uomini, donne e bambini correvano vociando da una parte all’al- tra attorno ai liberati. Nella piazzetta davanti al municipio fu acceso un grande falò. Il Ducoli aprì il bar, offrendo a chi entrava nel locale bicchierini di grappa, versandone abbondantemente anche per sé. Le sedie del bar furono portate intorno al fuoco ed offerte agli ex detenuti.
Persino il Podestà, dopo aver mandato a verificare che non vi fossero in giro tedeschi e militi della Muti, venne a congratularsi per lo scampato pericolo. Qualcuno portò bottiglie e bicchieri, pane e salame che vennero offerti agli affamati. Ristorati, questi cominciarono a raccontare quanto avevano sopportato in quasi 24 ore di prigionia, soffermandosi, con particolari agghiaccianti, su quanto era toccato al Fausto, solo dopo che i genitori del loro collega di sofferenze avevano lasciato i festeggia- menti per correre in ospedale.
Arrivato al nosocomio il Parroco aveva chiamato due infermieri che erano corsi con una barella dove avevano adagiato il povero Fausto portandolo in infermeria. Il giovane medico di turno, che mai aveva visto nulla di così raccapricciante, non sapeva bene cosa fare. Fausto perdeva ancora sangue dalle ferite al viso ed alle gambe e sembra- va privo di conoscenza. Don Pompeo ordinò che venisse immediatamente chiamato il professor Parola, il primario chirurgo dell’ospedale che abitava in una bella villa vicina. Nel frattempo medico e infermieri avevano denudato il corpo del ferito tagliando a pezzi i vestiti che indossava, onde evitare pericolose torsioni a gambe e braccia. Il Fausto aveva, per fortuna solo nella parte anteriore del corpo, lesioni ed ecchimosi che interessavano praticamente tutta la superficie della pelle. Il volto, alla luce delle lampade, apparve a don Pompeo ancora più deva- stato di quanto sembrasse nella penombra dello scanti- nato ove erano stati tenuti. Le ossa e le cartilagini delle ginocchia sembravano distrutte ed i tendini strappati. Il professore, arrivato in pochi minuti, si chinò sul povero corpo e lo esaminò a lungo e con scrupolo. Non mosse gli arti inferiori in attesa di una radiografia, auscultò cuore e polmoni e si assicurò che non vi fossero fratture al cranio. Con aria grave si avvicinò al prete e ai genitori di Fausto e, con quella sua voce calda e col tono rassicurante che per tanti malati valeva più di una medicina, disse: “Intervenire chirurgicamente ora è impossibile. Secondo me il paziente non potrebbe sopportare un’anestesia. Rischiamo di farcelo morire sotto i ferri. Ha perso molto sangue ed è in un gravissimo stato di shock. Procediamo con delle trasfusioni e rimandiamo l’intervento a doma- ni. Cerchiamo di tenerlo sedato. Ce la farà!” Poi, rivolto ai soli genitori continuò: “Vi sconsiglio di vederlo questa sera. Non è un bello spettacolo: con il viso così gonfio e con le ferite che sanguinano sembra molto più grave di quello che in effetti è. Fatevi coraggio e pazientate sino a domani mattina.”

Si iniziò a disinfettare le ferite ed a lavare il sangue coagulato. La pulizia rivelò altre macchie bluastre dove i violenti colpi non erano riusciti a lacerare la pelle. Sem- brava che nessuna parte del corpo fosse stata risparmiata da un’azione di precisa e sistematica violenza. Chi l’ave- va eseguita era sicuramente un allenato professionista.
In paese erano arrivati anche molti abitanti delle frazioni vicine attirati dal suono festante delle campane e dalla luce del falò che illuminava l’oscurità della notte. Qua cuno, che non era a conoscenza dell’arresto dei 18, pensava che fosse finita la guerra ed i tedeschi se ne fosse- ro andati. Altri che fosse scoppiata la rivoluzione e che la popolazione avesse avuto la meglio sui crucchi. Tutti, comunque, furono felici per lo scampato pericolo ed approfittarono dell’assenza dei tedeschi, che erano rimasti chiusi o nell’albergo Fumo o nella casa del Salvetti, intonarono chi “Bandiera Rossa”, chi il “Va’ pensiero”, chi, chissà perché, il “Garibaldi fu ferito”. La gran festa finì solo all’alba con il Ducoli che contava 18 bottiglie di grappa vuote, decine di bottiglie di vino, altrettanto vuote, agli angoli delle strade e almeno cin- quanta ubriachi che dormivano, russando beatamente, appoggiati ai muri delle case.
Alle sette del mattino successivo il prof. Parola entrando in ospedale fu bloccato dalla Cia “Pastera”.

La Cia era una donna di poco più di quarant’anni, magra scheletrica che viveva con due sorelle minori, una delle quali afflitta da un grosso gozzo – cosa abituale in quei tempi e in quelle zone ove l’alimentazione era priva di sufficienti valori nutrizionali – nella vecchia casa di fami- glia. Il soprannome derivava dal fatto che i suoi genitori, dopo una breve parentesi passata da emigranti in America, ove avevano fatto una discreta fortuna, rientra- ti in paese avevano aperto un piccolo laboratorio ove producevano pasta fresca e, soprattutto, dei “casunsei” che erano conosciuti in tutta la valle per la loro bontà. Una specie di ravioli il cui contenuto è fatto da un elaborato miscuglio di erbe alpine e carne di maiale. Veramente si sussurrava che la carne usata per i ripieni fosse quella dei gatti che loro allevavano in grande quantità o che catturavano, con spiccata abilità, tra quelli dei vicini.
Era una donna dal carattere di ferro. Come si diceva allo- ra: una donna con gli attributi. Dopo aver frequentato le prime tre classi elementari era stata mandata dai genito- ri, che non avevano tempo e voglia di occuparsi di lei, presso le suore del paese ove la bambina era stata avvia- ta, con grandi risultati, all’arte del ricamo. A diciotto anni era riuscita, nonostante la giovane età e la totale inesperienza, a lavorare presso un ospedale da campo nelle retrovie del fronte della Grande Guerra.
Rifiutata dai medici per la giovane età li aveva, dopo lunghe insistenze, convinti dicendo che se al fronte andava- no i “ragazzi del 99”, lei, che aveva la stessa età, poteva essere impiegata ad assisterli. Senza preamboli disse al Parola: “So che il Fausto Domeneghini ha riportato delle brutte ferite che potrebbero lasciargli il viso devastato. La prego, signor professore, lasci che sia io a ricucirlo per tentare di salvare il salvabile.” Il professore rimase basito a tale proposta.
Conosceva la Cia per fama sapendo che la moglie le aveva affidato il restauro di vecchi arazzi che, dopo il suo intervento, erano ritornati come nuovi. Sapeva anche della sua esperienza fatta nell’ospedale militare, ma come pensare che la donna potesse entrare, come un normale medico o un infermiere specializzato, in sala operatoria? D’altra par- te, il suo staff di chirurghi era limato all’osso e l’interven- to al viso, per non prolungare troppo l’anestesia al Do- meneghini, avrebbe dovuto essere compiuto mentre lui operava i ginocchi. Si consigliò con i suoi colleghi, chiese l’autorizzazione ai genitori di Fabio e, dopo lunga medita- zione, diede l’autorizzazione all’intervento di Cia. Quando le ferite furono rimarginate e il gonfiore spari- to, il Parola si compiacque con sé stesso per aver accetta- to la collaborazione della donna. Il risultato era inimmaginabile tanto che il Fausto, quando ritornò guarito a casa, fu battezzato “Il merletto”.

 

XLIV

La giornata successiva fu ricca di avvenimenti significativi. L’operazione alle ginocchia di Fausto, che dopo le nume- rose trasfusioni praticategli aveva dato segni di una notevole ripresa, era stata più semplice del previsto. I lega- menti non erano stati offesi in modo serio. Rimosso un menisco ridotto a pezzettini e ricostruita la parte molle, l’intervento era terminato in modo soddisfacente.
Tutta l’equipe medica aveva avuto agio di seguire il la- voro della Cia. Con una pazienza da certosino e con una perizia incredibile aveva preso con una pinzetta le parti di carne lacerate, le aveva rimesse nella primitiva posizione e quindi le aveva cucite l’una all’altra con microscopica precisione. Mai un tentennamento, mai una necessità di rivedere l’operato. Ma soprattutto mai un momento di nervosismo e di repulsione verso la terribile visione del viso di Fausto.
Don Mandelli era giunto a Breno con il treno delle 8,20. Si era recato direttamente alla casa del Parroco ed aveva trovato don Pompeo che si era alzato da poco, dopo la interminabile nottata, e stava facendo colazione. Il Parroco aveva intenzione di recarsi in ospedale ma l’ar- rivo del Segretario del Vescovo lo bloccò. Incaricò l’Elvira di andare a raccogliere notizie, pregandola di fargliele avere al più presto: “Che siano buone, mi raccomando!”

 

Versò una tazza di quello che ci si ostinava a chiamare caffè al collega di Brescia e, il più sbrigativamente possibile, gli raccontò quanto era avvenuto la sera precedente. Non accennò al suo intervento né a quanto aveva raccontato ai tedeschi: lo avrebbe fatto direttamente al Vescovo. Intanto don Arlocchi aveva organizzato tutto perché la messa delle 10 fosse solenne, con la presenza del coro e delle associazioni cattoliche. Don Pompeo offrì al Mandelli di celebrarla quale rappresentante del Vescovo, ma il sacerdote rifiutò dicendosi comunque felice se avesse potuto concelebrarla. La chiesa era stracolma. In prima fila i 17 prigionieri con le loro famiglie e, circondati affettuosamente da tutti, i genitori del Fausto finalmente sorridenti dopo le buone notizie che il Parola aveva loro comunicato personalmente. Giunti all’omelia, don Pompeo salì sul pulpito e guardò il suo gregge, visibilmente commosso.
“Il nostro primo atto doveroso” iniziò, “è di rivolgere a Dio una preghiera di ringraziamento. Diciotto di noi erano in pericolo di vita e lui li ha salvati. Diciotto innocenti che non avevano commesso alcun atto riprovevole stavano per essere puniti duramente. Dio, che sempre dall’alto sorveglia il suo popolo non lo ha permesso. Sia gloria a Dio! Lui ha guidato la mente di qualcuno che, indegnamente, ha portato la sua parola a chi aveva in mano la sorte dei nostri compaesani e li ha fatti ragiona- re. Solo il nostro caro Fausto ha conosciuto la durezza degli aguzzini. Preghiamo perché possa rimettersi al più presto. Ai suoi genitori, che sono un poco più sereni dopo le buone notizie che giungono dall’ospedale, l’ab- braccio di tutta la comunità ed il mio personale. Voglio pubblicamente ringraziare il nostro caro coadiutore don Arlocchi che, con presenza di spirito e con la grande fede che è in lui, ha immediatamente reagito al mio arresto compiendo l’atto che doveva essere compiuto. Informare immediatamente il nostro amato Vescovo che oggi ha voluto partecipare alla nostra gioia inviandoci il suo Segretario particolare. Ed a lui, perché lo porti a sua Eminenza, il nostro grazie. Grazie don Mandelli!
Abbiamo un grande Vescovo. Un uomo che non ha esitato a mettersi in gioco, con grande coraggio e abnega- zione, per salvare le sue pecorelle. Il coraggio di affronta- re il Comando tedesco esigendo grazia per chi era stato derubato della propria libertà e della propria dignità di uomo. Fra pochi giorni festeggeremo Santa Lucia. Preghiamola perché possa aprire gli occhi a tutti i governanti del mondo, affinché cessino le guerre, le lotte tra un popolo e l’altro, tra un gruppo di uomini e un altro che magari parlano la stessa lingua.
Ed ora lasciatemi ringraziare personalmente Dio. In que- ste ultime terribili ore mi sono accorto di non essere sta- to un buon pastore per voi. Ho trascurato di lenire le vostre sofferenze, le vostre solitudini. Di ascoltare, come dovrebbe fare un padre, le vostre parole, le vostre richie- ste. Rispondere ai vostri dubbi con l’esempio che, sempre, un buon pastore dovrebbe dare. Non ne ero capace. Non ne avevo la forza. Ve ne chiedo perdono. Ma vi assi- curo che quanto ho vissuto mi ha rafforzato. Nonostante quello a cui sono stato costretto ad assistere ho riscoperto, al di là del male, l’umanità degli uomini, la gioia del perdono che è l’unica strada che ci può condurre a Dio. Vi prego di aiutarmi e di sorreggermi nel cammino che sto per intraprendere. Avrò bisogno del vostro aiuto e della vostra comprensione perché anch’io sono solo un pover’uomo. Sia lodato Gesù Cristo”.Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi, forse per la prima volta in una chiesa, scoppiò un lungo e caloroso applauso.

 

 

XLV

L o Sturmbannführer, più imbestialito che mai, era partito, insieme al suo autista, per Brescia. Le sei SS, che
si era portato a Breno, vennero sistemate su uno di quei carrelli usati per le verifiche delle rotaie. Agganciato a un treno merci, che portava materiale delle ferriere Tassara, il carrello con il suo carico erano partiti per Brescia. Giunto nei pressi di Costa Volpino il capotreno, che si era segretamente accordato con un gruppo di partigiani, fermò il convoglio simulando un guasto.
Presi alla sprovvista, i militi vennero disarmati dai parti- giani che li avevano accerchiati. Sei mitra, sei machine- pistole, due mitragliatrici leggere ed una valanga di proiettili cambiarono proprietario. Fu identificata la SS che aveva torturato Fausto e che aveva ancora nella tasca dei pantaloni il tirapugni sporco del suo sangue, che l’uomo conservava quasi come un trofeo. Fu fatto spogliare rimanendo in mutande e maglietta. Gli fu legata una corda in vita e l’altro capo agganciato al carrello. Il treno fu rifatto partire ad andatura lenta e l’SS fu costretta a correre, a piedi scalzi, sulle appuntite pietre della massicciata. Quando i piedi diventarono delle masse informi e sanguinolente e l’uomo stava per svenire, il treno si fermò, permettendo ai suoi compagni di riprenderlo a bordo. Lo Sturmbannführer, giunto a Brescia, si recò direttamente al suo comando ove gli fu comunicata la revoca di tutti gli incarichi che gli erano stati affidati e l’ordine di prepararsi a partire per la sua nuova destinazione: il fronte nord-occidentale.“Uomini indegni come Lei” furono le ultime parole che udì dal suo superiore diretto, “sono il grande problema per l’invincibile Armata tedesca! Spero che al fronte si potrà riscattare con una morte onorevole”. Il superiore non fu buon profeta. Un’ora dopo lo Sturmbannführer fu trovato nella sua stanza impiccato.

 

XLVI

Fausto si svegliò dall’anestesia nel tardo pomeriggio. Aveva una forte nausea e si sentiva a pezzi. Le facce sorridenti dei suoi genitori e di don Pompeo gli portarono un po’ di sollievo. Con la bocca ancora impastata e con la pelle del viso che gli tirava tutta, farfugliò un “Salve” chiedendo poi cosa gli fosse capitato. Evidentemente, e per fortuna, lo shock gli aveva cancellato, almeno momentaneamente, i ricordi. Don Pompeo fu poco preciso per non disturbare il feri- to. Gli parlò dell’arresto, di qualche pugno che gli era stato somministrato e, soprattutto, della liberazione e dello smacco che i tedeschi avevano subito. Gli racco- mandò di stare calmo e di riposare. “Ci sarà tutto il tempo per raccontarci nei particolari quello che è successo” disse – e qualcuno dovrà anche parlarti della tua faccia – pensò.

(continua…)

 

“L’orto fascista” Romanzo / 10

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XL

Quando il prete apparve in cima alla scala, tra i 18 imprigionati serpeggiò la paura. Se avevano man-
dato un prete per confortarli e, eventualmente, somministrare i sacramenti, era perché il loro destino era stato deciso e la loro esecuzione vicina.
Don Pompeo capì al volo la situazione e, con un sorriso non troppo ampio dato il momento tragico, disse ad alta voce perché tutti lo sentissero:
“Allegri, sono qui non per darvi l’estrema unzione o per ascoltare i peccatacci che avete sicuramente commesso. Sono qui perché hanno pensato che anche un prete possa essere loro nemico e che è bene quindi tenerlo al fresco.” Continuò quindi raccontando l’incontro avuto con lo Sturmbannführer, guardandosi bene dal far capire che era tutta una bufala: tra i 18 ci poteva essere anche una spia dei tedeschi. Meglio essere assolutamente cauti.
Gli imprigionati non erano sicuramente in buone condizioni dopo tante ore di detenzione, ma si sentirono un po’ più sereni quando ascoltarono il racconto del prete. Se i tedeschi avessero scartato l’ipotesi politica, la loro reazione, forse, sarebbe stata meno violenta.
Non era stato dato loro né un goccio d’acqua né, tanto meno, da mangiare. Per i loro bisogni avevano usato un tubo di cemento rotto che spuntava a livello del pavimento in terra battuta e non si sapeva dove finisse. Purtroppo non avendo una sufficiente inclinazione gli escrementi ristagnavano e nell’ambiente aleggiava un’orribile puzza di urina.
Lo scantinato era diviso in tre locali senza porte: solo due ricevevano una scarsa illuminazione da una finestrella vicina al soffitto. Poiché lo scantinato era quasi completamente interrato, le finestrelle dovevano essere all’altezza del giardino che circondava la casa. A quell’ora la luce cominciava a scarseggiare e gli ambienti erano pratica- mente al buio.
“Non voglio sfruttare la mia posizione di prete” disse don Pompeo cercando di mantenere un tono il più scherzoso possibile, “e non voglio fare neppure il rompi- balle” continuò. “Ma, data la situazione nella quale ci troviamo, pregare un po’ il nostro Dio, sperando che ci dia una mano, non farà sicuramente male a nessuno. Io inizio a recitare il rosario, chi ha piacere risponda. Gli altri sono solo pregati di non disturbare”. Ma tutti, credenti e no, questi ultimi dapprima stentatamente, rispo- sero alla preghiera.
Alle diciassette la porta fu violentemente aperta. Una SS scese rumorosamente la scala e, preso per un braccio don Pompeo, lo spinse verso il piano superiore pronunciando in tedesco parole incomprensibili, ma che suonarono a tutti minacciose. Ritornando poi nello scantinato si guardò intorno ed indicato uno dei presenti, scelto a caso, lo invitò con un gesto a dirigersi verso la porta che aveva lasciato aperta.

Fausto Domeneghini, il figlio del pasticcere del paese, un uomo di circa 40 anni timido e introverso, che sicura- mente non aveva mai fatto male a nessuno, si trovò così a essere la prima vittima del furore tedesco. Insieme al sacerdote fu portato, da due SS grandi e gros- se, in una piccola stanza del primo piano. Una stanza desolatamente vuota ad eccezione di due sedie, una sistemata in un angolo e l’altra al centro della stanza. Sulla prima fu fatto sedere don Pompeo, al quale furono legate le mani dietro la schiena e le caviglie alle gambe della sedia. Sulla seconda il Domeneghini, al quale fu riservato lo stesso trattamento. Quando i due furono sistemati, la porta si aprì ed entrò lo Sturmbannführer, seguito da una pallida e tremante Annetta.
Questa, evidentemente sollecitata dall’ufficiale tedesco, chiese ancora al Parroco se intendeva o meno rivelare i nomi dei due assassini. Don Pompeo, pur preso da un attacco di panico, negò ancora la sua disponibilità. Annetta tradusse la nuova lunga frase che il Comandante le aveva detto, con voce quasi piangente
“Voi, don Pompeo, non sarete toccato, nessuno vuol prendersi la responsabilità di farvi del male. Ma il Fausto sarà picchiato sino a quando non cambierete parere. Ci pensi, per favore” soggiunse con fervore. Uno dei militi della SS si tolse la giacca, indossò un gros- so grembiule che chissà dove aveva trovato e che lo rendeva ancora più minaccioso, strinse nella mano destra un tirapugni in metallo, che si era tolto da una tasca dei pantaloni, e cominciò a colpire il Domeneghini che, tenuto dall’altra SS per i capelli, era costretto a mantenere il capo eretto.
Pugni violenti al viso, allo stomaco, alle spalle, alle gi- nocchia. Uno dietro l’altro, senza un disegno preordinato ma che erano mirati a fare più male possibile. L’uomo iniziò a urlare, mentre il viso diveniva una maschera di sangue perché il ferro del tirapugni lacerava i tessuti. Annetta, sempre più pallida, dopo poco si precipitò fuori della stanza e vomitò rumorosamente.
Don Pompeo più che impaurito era incredulo allo spettacolo che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Urlò anche lui, pregò che smettessero, li maledisse ma non ottenne nulla.
Allora si mise a pregare Dio, lo chiamò in causa perché intervenisse a fermare un simile obbrobrio. Quando la SS si fermò pensò di essere stato ascoltato. Ma quando questa, ripreso fiato, ricominciò nella sua azione distruttiva rimase muto, incapace di fare nulla.

Per fortuna il Domeneghini, non sopportando ulterior- mente il dolore, perse i sensi. Se non fosse stato trattenuto, sempre per i capelli, sarebbe caduto in avanti procurandosi altre lesioni. Il viso si stava gonfiando, l’occhio sinistro era scomparso sotto uno strato di sangue e neppure si vedeva se esistesse ancora. Ferite sulla fronte e sulle guance. Pure le ginocchia, colpite più volte, si vedevano sanguinare attraverso i buchi e gli strappi dei pantaloni. I due vennero liberati dalle sedie alle quali erano stati legati e trascinati nuovamente in cantina. Nessuno dei due si reggeva in piedi. Non il Domeneghini che non aveva ancora ripreso i sensi, ma che comunque non avrebbe potuto camminare soprattutto per i pugni ricevuti alle ginocchia; non il Pompeo che, come paralizzato dallo shock, non riusciva a muovere né le braccia né le gambe. Quando arrivarono in cantina e furono buttati sul pavimento, il terrore invase la mente di tutti i presenti. Erano talmente impressionati dalle condizioni del Do- meneghini che nessuno, per minuti, riuscì a muoversi per dargli aiuto. Un aiuto difficile da fornire, essendo to- talmente privi di acqua o di qualsiasi liquido per pulire e medicare le ferite.

 

XLI

Il fatto che il Parroco non avesse partecipato ai Vespri senza averlo avvertito preoccupò molto don Arlocchi. Infatti tutte le volte che don Pompeo non aveva potuto intervenire a una cerimonia per una qualsiasi ragione, si era sempre premurato di avvisare il suo coadiutore. Finita la recita del rosario aveva affidato la chiusura della chiesa al Silestrini, il sacrista, e si era diretto alla casa par- rocchiale per avere notizie del suo superiore. Probabil- mente non stava ancora bene: alla mattina quando lo aveva incontrato, anche se pieno di verve, era pallido e visibilmente stanco.
Quando arrivò in parrocchia gli aprì l’Elvira. Neppure lei aveva notizie di don Pompeo ed era preoccupata an- che perché era la prima volta che il Parroco non le aveva dato le solite precise istruzioni per la cena. “Fammi sapere, per favore, quando torna e come sta. La cosa è strana e sono veramente preoccupato. Chissà che cosa gli è successo?”
Si diresse verso la sua povera casa cercando, tra sé e sé, di trovare una spiegazione plausibile, ma non gli veniva in mente nulla di accettabile. Entrato nel portico si trovò improvvisamente davanti a una persona che, al momento, non riconobbe. Era una donna che, tenendosi stretta al corpo una pelliccia, tremava visibilmente.
Capì infine che era l’Annetta, la bella figlia dell’avvocato Duchi. “Cosa ci fai qui sulle scale? Cosa è successo?” le chiese calmo perché stava iniziando ad abituarsi alle visite strane in ore altrettanto strane. La donna si alzò in piedi e gli si buttò tra le braccia piangendo. “Ma cosa è successo, benedetta ragazza? Calma, calma vieni di sopra e raccontami tutto” e presala per un braccio la guidò verso il suo appartamento. In cucina la fece sedere, riempì un bicchiere d’acqua e glielo porse. Si tolse il tabarro, la sciarpa di lana ruvida che gli aveva fatto la sua perpetua ed una specie di papa- lina che portava sempre all’aperto, estate e inverno. “Bevi un sorso d’acqua. Se vuoi ti scaldo un caffè. Ma calmati, benedetta ragazza, che mi metti in confusione. Ci mancava anche questo, con tutti i pensieri che ho già per la mente”. “Li ammazzano tutti di botte, li ammazzano don Arlocchi. Oggi hanno picchiato a sangue il Faustino, il figlio del pasticcere, lo conosce, vero? Forse è morto” balbettò tra i singhiozzi la donna. “Ma chi, ma cosa? Io non capisco. Oh povero me, Signore Gesù, Madonna santa, aiutatemi, io non ce la faccio più. Calmati, prendi fiato e raccontami tutto se vuoi che capisca” e anche lui si lasciò cadere su una seggiola.

Annetta si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e, dopo aver tirato un paio di lunghi sospiri, raccontò tutto quello che era successo in sua presenza. Ogni tanto veniva interrotta, per chiarire qualche particolare, da un don Arlocchi sempre più agitato e che aveva iniziato a sudare abbondantemente. Quando Annetta arrivò a raccontare che il Parroco aveva riferito ai tedeschi di aver confessato due uomini di un paese vicino che si attribuivano la responsabilità di aver ucciso il soldato tedesco, don Arlocchi fece un salto sulla seggiola rimanendo con la bocca spa- lancata. Alla fine del lungo racconto il povero prete non sapeva più a che santo votarsi. Com’era il fatto che due persone avevano confessato al Parroco di aver ucciso il soldato tedesco se a lui lo avevano raccontato due perso- ne diverse? Ma quanti erano quelli che avevano fatto l’at- tentato? E perché avevano arrestato il suo Parroco se que- sti non aveva agito diversamente da quanto avrebbe fatto un altro sacerdote?
Le idee in testa si ingarbugliavano e lui cominciò a pas- seggiare avanti e indietro per la piccola stanza, bronto- lando tra sé e sé e cercando di mettere in ordine i fatti. – Un padre, un fratello, il Russì, il farmacista Temperini. Ma non è che Annetta aveva capito male? Il Russì e il far- macista non avevano sorelle ma, se per questo, non ave- vano neppure più un padre. E se uno dei due fosse anda- to a confessarsi anche da don Pompeo? Ma con quale scopo? Lui non aveva negato l’assoluzione, l’aveva solo rimandata. E poi di quelle cose così delicate meno gente ne sapeva meglio era. Ma se anche fosse andata così, il padre da dove spuntava? Oh Signore, io ti ringrazio per avermi fatto arrivare alla mia età senza dover affrontare grossi problemi. Ma negli ultimi tempi non è che stai un po’ esagerando? A me, un povero prete di campagna, non è possibile dare tutte queste responsabilità. Io non ce l’ho l’esperienza. A ognuno la sua croce, va bene. Io se devo portarla la porto, ma per dare aiuto agli altri in certe situazioni si deve avere o la predisposizione o l’e- sperienza. E io non ho né l’una né l’altra. Oh Signore e adesso io cosa faccio? Guidami tu, ti prego. Diciotto parrocchiani in carcere che rischiano di essere uccisi e con loro il mio Parroco. No, scusami Signore, ma è troppo. Madonnina, anche tu, dai, non negarmi il tuo aiuto. – “Annetta, vai cara, adesso tu vai a casa. Io mi metto a pregare e qualche soluzione la trovo, vedrai. Se è possibile te lo faccio sapere. Non dire niente a nessuno, per ora. Un segreto tra noi due. Se lo sanno in paese chissà cosa può succedere. Prendiamo tempo sino a domani mattina. E se puoi datti malata e non frequentare più quelle belve. Va’, va’ adesso. E prega anche tu per me che ne ho bisogno”. Così dicendo l’accompagnò alla porta che poi chiuse a chiave. La prima idea sensata che venne a don Arlocchi fu quel- la di avvisare il Vescovo di Brescia. Era un atto dovuto che permetteva anche di diminuire tutte le sue responsabilità. Mettersi nelle mani di un superiore, ascoltare i consigli, eventualmente eseguire gli ordini era la cosa migliore. E poi del Vescovo si diceva un gran bene. Era ostile ai tedeschi ma era riuscito a farsi rispettare e, in alcune occasioni, anche a farsi ascoltare. Dicevano avesse salvato molte persone da morte certa. Ma queste noti- zie si bisbigliavano solo tra amici perché non si poteva dire liberamente che i tedeschi uccidessero gli italiani.
Aveva ancora davanti mezz’ora prima della chiusura del centralino. Doveva fare in fretta, perché alle 20 le linee venivano interrotte d’ufficio e le comunicazioni cessavano. Si rivestì velocemente, prese quei pochi soldi che aveva dal cassetto della scrivania e corse verso l’ufficio postale, all’interno del quale vi era un piccolo spazio con il tavolo per la centralinista e due cabine telefoniche insonorizzate alla bell’e meglio. La centralinista, che era occupata a quell’ora a soddisfare, con le poche linee esistenti, le tante richieste di utenti che volevano telefonare, per un buon cinque minuti non diede retta al prete. Poi, senza neppure salutarlo, rispose alla sua richiesta di chiamare l’Arcivescovado di Brescia dicendo che se lui non aveva il numero neppure lei lo conosceva.
“E’ una cosa estremamente urgente, cara signorina” disse con un tono di voce e un cipiglio anche a lui sconosciuto “O lo cerca lei sull’elenco o mi dà l’elenco e lo cerco io. Tutto questo con estrema sollecitudine, per favore”. La donna, che conosceva il prete come una persona timi- da e introversa, fu colpita dal suo modo di fare e capì quanto la cosa fosse grave. Dopo pochi minuti disse: “L’arcivescovado di Brescia è in linea sulla due” riferendosi alla cabina numero due. Don Arlocchi, preso sempre più dai propri pensieri, ai quali si aggiungeva il disagio di dover parlare direttamente con il suo Vescovo, non capiva. Allora la centralinista gli fece cenno con la mano e il prete entrò nella cabina.
“Scusate il disturbo. Mi spiace tanto disturbare, davvero. Ho bisogno con urgenza di conferire con sua Eccellenza il Vescovo. E’ una cosa così importante, sa? Deve proprio passarmelo”.
“Le passo il Segretario. Aspetti!” rispose una voce sgarbata ed asettica. Dopo un tempo che a don Arlocchi sembrò lunghissimo, una voce da bambino malato chiese: “Chi vuol parlare con Sua Eminenza a quest’ora? Soprattutto per quale motivo?” e ribadì “A quest’ora”. Co- me per dire: ma dovete proprio disturbare in questo momento quando stiamo andando a cena?
“Sono un prete, sa, il coadiutore del Parroco di Breno, signor Segretario mi dispiace, sa, ma devo proprio parlare con Sua Eminenza. E’ una cosa grave e riservata”.

Il Segretario, probabilmente offeso dal fatto che lo si volesse saltare per una “cosa grave e riservata” – lui che del Vescovo godeva grande fiducia – avendo anche saputo degli arresti avvenuti a Breno, perdonò il suo interlocutore. “Vedo di fare quello che posso sperando di rintracciare Sua Eminenza” come se non sapesse che il prelato si era appena accomodato a cena nella grande sala da pranzo del palazzo vescovile. “Sono il Vescovo” arrivò alle orecchie di un tremebondo don Arlocchi il suono caldo e suadente del prelato “Sia lodato Gesù Cristo. Cosa posso fare per voi, figliuolo?” A questo punto, trovandosi in comunicazione con un personaggio così importante che lui aveva solo visto, e ammirato, a distanza, e con il quale non era mai riuscito a parlare né l’unica volta che era stato in Arcivescovado, né durante le visite pastorali a Breno per la somministra- zione delle cresime – tenuto sempre a debita distanza dal Parroco che voleva, solo lui, apparire al Vescovo – il cervello del povero prete andò, letteralmente, in acqua. “Sia lodato anche Lei Santità, no, scusate, Sua Eminenza. Mi prostro e bacio l’anello a Sua Eccellenza. Mi deve tanto scusare se la disturbo. Ma sono… in ambasce, sì, credo si dica così. Insomma non so proprio come dire. Ma qui a Breno stanno succedendo cose enormi, incredibili. Sì, proprio un’Apocalisse. Il Parroco è stato arrestato dai tedeschi perché ha detto che in confessione un padre ed un figlio hanno ucciso un soldato tedesco. Non so se sa. L’attentato lo chiamano. Ma io non so, perché io so che l’attentato lo hanno fatto altri due che hanno confessato a me, e la donna… non si sapeva nulla di una donna messa incinta, con rispetto parlando, Sua Eminenza. Sa io di queste cose non so, non capisco nulla. E adesso li vogliono ammazzare, tutti e 19, perché sono 18 più il Parroco. Vogliono ammazzare a bastonate i tedeschi. Ma no, cosa dico, oh Signur aiutami tu! Sono i tedeschi che vogliono ammazzare a bastonate i 18 che sono poi 19 perché c’è anche il Parroco don Pompeo Cappelletti, che Lei Eminenza sicuramente conosce. Io non so cosa fare. Mi aiuti Sua Eccellenza, mi aiuti, la prego”.
Il Vescovo che aveva cercato più volte di fermare lo sproloquio di don Arlocchi senza riuscirvi, in un momento di pausa, che il coadiutore si era preso per tirare il fiato, riuscì a intervenire. Con un tono fermo ma dolce, come se parlasse ad un bambino, riuscì a dire:
“Si fermi, figliuolo. Glielo ordina il suo Vescovo. Non parli e mi ascolti. Io non ho capito nulla di quanto ha cercato di dirmi. Ora io le farò delle domande ben precise e lei mi risponderà con calma e con precisione. I fatti, solamente i fatti e nulla di più. Ha capito?”
“Oh Sua Eccellenza, sì, ho capito, credo di aver capito. Sa io sono un povero prete ignorante di campagna e mi confondo quando parlo con Sua Eminenza. Che poi non è che ci sono abituato, che è la prima volta. Comunque mi domandi, per favore ed io, prostrato davanti a Sua Eccellenza, cercherò di rispondere nel modo migliore”. Il Vescovo iniziò a fare semplici domande precise e a ricevere risposte semplici e coerenti. Dopo dieci minuti era riuscito a rendersi conto della situazione e, non lasciando trasparire la rabbia che lo aveva assalito per il comportamento dello Sturmbannführer, cercò, prima di sa- lutare l’Arlocchi, di rassicurarlo promettendogli che non sarebbe stato lasciato solo. Non prendesse nessuna iniziativa prima che il suo Segretario, che avrebbe raggiunto Breno con il primo treno dell’indomani mattina, non si fosse messo con lui in contatto.
Solo dopo il termine della telefonata il Vescovo si rese conto di non aver neppure chiesto il nome al suo inter- locutore.

 

XLII

“Quel don Cappelletti, devo dire, non mi è mai piaciuto. Sempre sfuggente, un po’ viscido, mai un sorriso, con quel suo tono di voce monocorde…” stava dicendo al suo Segretario, dopo una parca cena consumata velocemente. “Ma, devo ammettere, una persona decisamente furba. Ha messo in scacco i tedeschi. O quanto racconta è vero e allora non possono né costringerlo a parlare, né possono uccidere degli uomini per pura vendetta e non quale ritorsione, trattandosi di un comune delitto, o si è inventato una grossa menzogna. Ma anche qui i tedeschi non possono fare nulla contro la popolazione. Si verrebbero a conoscere le parole del Parroco, i tedeschi sarebbero anche accusati di stupro e, dal punto di vista strettamente politico subirebbero una grande debacle. Sicuramente anche i fascisti non sarebbero d’accordo e la frattura già esistente tra loro e gli alleati tedeschi si amplierebbe a dismisura”.
“Don Mandelli, desidero che lei vada domani mattina a Breno, prima possibile. Non in auto perché apparirebbe una visita ufficiale. Può prendere il primo treno. La dispenso, data la gravità del fatto, di dire messa. Arrivato lassù contatti quel buon uomo del coadiutore”. “Si chiama don Arlocchi, Eminenza” lo interruppe il Segretario.
“Ecco, bene contatti don Arlocchi e poi, con le sue riconosciute abituali cautele, si informi presso la popolazio- ne. Quali sono state le reazioni agli arresti, quali i pensieri su don Cappelletti… beh, lei sa bene come fare in questi casi. Più si sa e meglio è. Rimanga a Breno tutte le ore necessarie, ma se ritiene vi sia qualcosa che devo sapere mi telefoni immediatamente. Mi pare io non ab- bia impegni fuori dall’Arcivescovado domani. Controlli, per favore. Anzi, mi lasci la lista delle cose che devo fare e delle persone che devo incontrare. A meno che la situa- zione di Breno si aggravi e allora saltino tutti i programmi. Un’ultima cosa, amico mio. Io intendo incontrare questa sera stessa il Comandante della Gendarmeria tedesca per riuscire a capire se e quali decisioni hanno preso. Lei mi accompagnerebbe? So che è molto stanco e che domani mattina dovrà alzarsi all’alba, ma abbiamo dedicato la vita a Dio e, quando è necessario, non possiamo risparmiarci”.
“Sempre a Sua disposizione, Eminenza. E’ solo un gran- de piacere poter collaborare con Lei e soddisfare i suoi desideri”.
“Ecco, bravo, troppo buono. Chiami i tedeschi, chieda del Colonnello Von Prisch e, se glielo passano, gli dica che voglio, meglio desidero, incontrarlo. Se è così gentile, olio, mi raccomando olio, di accettare ci andiamo subito e lei viene con me. Voglio un testimone… anzi, prenda appunti di quello che dirò. Potrebbe sempre servire a rinfrescarmi la memoria in caso di necessità”.
Quando la telefonata giunse al Comando tedesco, il Colonnello Von Prisch era in una concitatissima riunione iniziata alle 18 quando era giunta da Breno, portata da un motociclista, la dettagliata relazione dello Sturmbannführer. Von Prisch si era reso subito conto della gravità della situazione e aveva convocato nel suo ufficio il capo locale delle SS, il responsabile della polizia politica e i suoi collaboratori diretti.

La situazione in Italia era sempre più complicata. Il nu- mero dei partigiani aumentava di giorno in giorno, la popolazione italiana era sempre più ostile e gli alleati an- glo-americani, anche se bloccati temporaneamente all’al- tezza di Cassino, non erano sicuramente intenzionati a diminuire i loro sforzi di raggiungere velocemente il nord. Von Prisch, come tanti degli ufficiali tedeschi, aveva capito che la guerra per loro era persa e che bisognava pensare al dopo, evitando di creare nuovi motivi di rea- zione da parte della popolazione italiana.
Mettersi apertamente contro il Vaticano, poi, pretendendo da un sacerdote di tradire il suo mandato in un momento così delicato, sarebbe stato un nuovo passo falso. Chiaramente le SS, tanto invaghite del loro Führer da non capire che ormai erano pura follia le sue azioni asse- tate di sangue, pretendevano che venisse compiuta un’a- zione punitiva nei confronti degli arrestati. Anche senza una prova della loro colpevolezza. Per fortuna il peso del pensiero delle SS nei comandi militari diminuiva conti- nuamente. Venivano considerati dei rompiballe, anche se dei temibili rompiballe. All’arrivo del Vescovo il colonnello fece uscire tutti dal suo ufficio. Spalancò le due finestre per liberare la stanza dal fumo dei sigari e delle troppe sigarette che i mili- tari avevano nervosamente fumato nel corso delle 3 ore di riunione. Fece accomodare il prelato su una delle due comode poltrone Frau che si era portato con sé nel corso dei numerosi spostamenti e alle quali non voleva rinunciare per nessuna ragione. Quando vi si sedeva a riposa- re – e la cosa avveniva sempre più raramente – si sentiva un po’ a casa sua. Gli erano state, infatti, regalate da frau Angela, la sua adorata moglie che non vedeva ormai da oltre un anno, per arredare il suo vero primo ufficio a Karlsruhe quando, promosso al grado di Haupmann, era stato mandato a comandare quel distretto.Prese posto nell’altra lasciando che il Segretario usasse una sedia alle spalle del Vescovo.

Dopo i primi convenevoli, il colonnello si alzò, prese una scatola di sigari – conosceva l’unica debolezza del Ve- scovo – la porse all’ospite che, con un ampio sorriso, di- mostrò la sua riconoscenza. Ignorando poi il Segretario, ne scelse a sua volta uno e si rimise a sedere.Sembrava un normale incontro tra amici. Mancava solo un bicchiere di un buon vino d’annata o un sorso di brandy per renderlo più piacevole. Ma il colonnello era diventato drasticamente astemio dopo che il padre, alcoolizzato, era morto di cirrosi epatica. Due uomini di azione, come erano i nostri, non potevano perdersi in lunghi convenevoli. Il primo a introdurre lo scontato argomento fu il Vescovo.Con parole durissime condannò il modo di agire di questi giovani ufficiali.“Non dico solo tedeschi sa, caro colonnello. I giovani d’oggi sono tutti cresciuti nutrendosi di materialismo e la parte spirituale dell’esistenza, che dovrebbe essere la predominante, è misconosciuta, dimenticata e calpestata”. Tornando ai fatti specifici, dichiarò inaccettabile che un sacerdote fosse stato incarcerato unicamente perché si rifiutava, secondo le regole canoniche, di infrangere il segreto della confessione.
“Non ho ancora riferito nulla alla Santa Sede ma sarò costretto a farlo se niente avverrà entro 24 ore. Non vuo- le essere un ricatto, caro colonnello, ma anch’io ho dei superiori ai quali sono tenuto a riferire”. Con grande meraviglia del Vescovo e del suo Segretario la risposta di Von Prisch fu pronta e chiara. Riteneva il giudi- zio del Vescovo sui giovani un po’ troppo severo ma condivideva la preoccupazione che le nuove generazioni non crescessero più con quei principi e quella cultura che erano sempre stati il vanto di nazioni come l’Italia e la Germania. “Mala tempora currunt” continuò il colonnello, “e quando è in pericolo la sopravvivenza, la parte spirituale della vita, inevitabilmente, passa in secondo piano”. Al colonnello, che parlava un italiano fluente, piaceva mettere in evidenza la sua cultura e, quando aveva avuto occasione di incontrare il Vescovo, gli aveva confessato, un po’ vantandosene, un po’, da uomo di preparazione militare, vergognandosene, di aver effettuato profondi studi di filosofia all’università di Bamberg.“Ma veniamo ai fatti di oggi” proseguì il Colonnello. “Io sono d’accordo con Lei che la cosa è stata mal gestita, lo stavo proprio sostenendo poco fa con i miei aiutanti. Sono lieto della sua visita perché ho l’occasione per chiederLe di collaborare perché tutto venga messo a tacere. Noi rilasceremo gli uomini arrestati e il suo sacerdote. Il suo sacerdote non comunicherà a nessuno quanto ha saputo in confessione. Lei quindi non ha saputo nulla e tanto meno il Vaticano. Affossiamo tutto”.
“Mi sembra un accordo ragionevole, signor colonnello” rispose il Vescovo che non aveva sperato tanto e cercava di nascondere la gioia che lo aveva invaso.
“E come faccio ad essere sicuro che verrà rispettato?” “Promissio boni viri est obbligatio, ammesso che Lei mi ritenga un uomo onesto”.
“Certo, lo penso. Anzi ne sono sicuro” rispose il Vescovo. “Abbia la compiacenza di attendermi un attimo. Ho un motociclista che deve rientrare a Breno e devo comunicargli le nostre decisioni. Poi finiremo, in santa pace – mi passerà questo termine signor Vescovo – i nostri sigari”. “Sa, quasi quasi gli chiedevo se il motociclista non potesse dare a lei un passaggio sino a Breno. Poi mi è sembra- to sconveniente, non per lei, ma per il colonnello” disse il Vescovo, che era preso da un’incontrollabile allegria dopo la tensione di tutte le ore precedenti, mentre lui e il suo Segretario rientravano in arcivescovado. Il Segretario non capì lo scherzo e rimase in silenzio a testa bassa. “Domani mattina però, la prego, vada ugualmente a Breno. Magari non con il primo treno, ma presto comunque, per controllare che tutto si risolva, effettiva- mente, nel migliore dei modi. Mi spiace di non poter avvisare io il povero don… come si chiama, ah sì, Arlocchi, ma se il motociclista arriva per tempo e l’ordine viene eseguito subito, in paese si farà sicuramente festa e anche lui vi parteciperà”.

(continua…)

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 9

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXXIV

Il Commissario l’aveva accompagnata sino alla porta continuando a ripetere: “Mi tenga a sua completa disposizione. Mi faccia sapere. Io qui sono ai suoi ordini. Mi faccia sapere, per favore. E ossequi al signor Podestà. I miei rispetti a lei a al suo signor marito. E buon viaggio, buon ritorno a casa. E tu, Giovanni” disse rivolgendosi all’autista, “fa’ tutto quello che ti chiede la signora, la porti dove vuole andare. E non andare veloce, sii prudente, che non possiamo far correre alcun pericolo alla signora. Hai capito? Hai capi- to? E allora rispondi, perdio! Hai salutato la signora? Sei sempre il solito villano. Insomma signora ricordi sempre: al suo servizio e rispetti al signor Podestà.”
Aprì la porta della Fiat 1500. Aiutò Lucia a sistemarsi sul sedile posteriore sostenendola per un braccio e, dopo un rapido saluto fascista, chiuse la porta e fece cenno all’autista di partire.
Finalmente Lucia poteva rilassarsi ed iniziare a pensare quale comportamento tenere con il marito e con il Parroco.
Il Commissario sicuramente avrebbe mantenuto il segreto. Ne aveva tutto l’interesse. Il Parroco ancora più del commissario.
Tuttavia, mentre con il primo non avrebbe più avuto contatti, se non cercandoli, con il secondo le occasioni di un incontro sarebbero state continue. Che dire al marito? Dargli una preoccupazione in più, ora che ne aveva già tante dopo la morte del tedesco? E poi, in fin dei conti, quello che era successo era stato sgradevole, sgradevolissimo ma privo di conseguenze. Lei era stata violentata moralmente, ma fisicamente non le era successo nulla.

E il marito cosa avrebbe potuto fare? Chiedere il trasferimento del commissario e forse anche quello del prete? Con il rischio di dover mettere tutto in piazza, perdendo prestigio lui e onore lei.
Quello che più desiderava era arrivare a casa. Si sentiva sporca dentro e fuori. Fare un bel bagno l’avrebbe aiutata a pulirsi solo esternamente, ma era già qualcosa.
Si lasciò cullare dall’andatura della comoda auto che, lentamente e con estrema prudenza, affrontava le nume- rose curve della strada che correva lungo le sponde del lago d’Iseo.
Giunta a Pisogne, ricordò l’avventura con il Manucelli, il Segretario Provinciale che sperava di farla sua ma che si era rimediato solo una notte di febbre e di brividi. Ricordò tutti i particolari, tutti i preparativi predisposti dal Manucelli e vanificati dai sintomi di quella strana malattia che lo perseguitava. E se tutto fosse andato, in- vece, come predisposto? Adesso lei come si sentirebbe? Non volle darsi una risposta anche perché non riusciva, tra quei ricordi, a togliersi dagli occhi lo strano sguardo di quello che avrebbe potuto diventare il suo amante mentre lei lo accudiva. Lo sguardo non del fiero combattente fascista, ma piuttosto quello di un cucciolo d’uomo bisognoso di affetto ed assistenza. “Da donna di pia- cere a crocerossina” pensò e le venne da sorridere. Finalmente, superata la salita che portava al paese, la Fiat 1500 giunse a Breno. La donna indicò all’autista il per- corso per raggiungere la sua abitazione e finalmente il viaggio ebbe termine.
Lucia ringraziò Giovanni, si complimentò per la guida e lo pregò di non scendere dall’auto per non dare sospetti. Aperta la portiera se ne andò.
Usò le chiavi per entrare e quasi si scontrò col marito che stava uscendo per andare ad una delle ormai giornaliere sedute comunali.
I saluti furono frettolosi. Lucia disse di essere stanchissima e con un gran mal di testa. Il Podestà non si dichiarò in pensiero per il suo ritardo, ed essendo atteso a una riunione che sarebbe stata importantissima, le diede un breve bacio sulla guancia ed un arrivederci a domani.
Dopo un lungo bagno, Lucia si scaldò una grossa tazza di latte, sperando che le propiziasse il sonno.
Si mise a letto. Domani sarebbe stato, dopo una buona notte di riposo, il giorno per prendere le giuste decisioni.

 

XXXV

Pompeo era stato ordinato sacerdote a 24 anni. Tutti passati nella menzogna. Aveva iniziato il “mestiere” di prete come quello di un qualsiasi impiegato, senza una vera fede e senza seguire i buoni insegnamenti che gli erano stati impartiti. Il Vangelo era solo una guida da seguire per convenienza e per non creare problemi con i suoi superiori ai quali si rivolgeva sempre con falsa e viscida deferenza, pronto, in ogni occasione, a rispettare i loro desideri.
Aveva trovato apprezzamento presso il Vescovo che gli aveva permesso dapprima un breve periodo passato come coadiutore in uno piccolo paese della bassa bresciana, ad aiutare un vecchio Parroco un po’ rimbambito, poi, dopo la trasferta in Spagna – che aveva sollecitato come una missione pericolosa contro gli atei comunisti – di diventare Parroco.
Prima in una parrocchia di Cremona, ove aveva trascorso 10 anni, e poi, con sollievo dei propri parrocchiani che certo non lo amavano, era arrivato a Breno.
Ora, a 40 anni, cercava disperatamente di non fare un esame di coscienza per non sentirsi quello che in effetti era: un povero disgraziato. Ma gli ultimi accadimenti ave- vano sgretolato questo muro che aveva da tempo costruito tra lui e la sua coscienza. E fu così che quella notte dovette prendere atto di quanto aveva peccato. Di non aver mai amato il proprio prossimo, di non essere stato un pastore per le pecorelle che gli erano state affidate, di aver pensato solamente ai suoi egoismi e ai suoi vizi.

Si girava e rigirava nel letto che era diventato troppo duro e, gli pareva, pieno di spine. La testa in fiamme; un sudo- re, a volte caldo e a volte ghiacciato, gli bagnava tutto il corpo. Dapprima pensò che tutto dipendesse da un improvviso attacco cardiaco ma poi capì che era il rimorso ad agitare la sua mente e a provocargli queste reazioni. Pensò a Cristo, là sulla croce a pagare per i peccati degli altri, soprattutto per i suoi. Troppi! Aveva bisogno di una riconciliazione, aveva bisogno, finalmente, di aprire all’amore quel suo cuore così mala- to di presunzione, egoismo, falsità. Passò in rassegna i comandamenti e ammise di averli disubbiditi tutti, dal primo all’ultimo, più volte. Ebbe, improvvisamente, un sincero desiderio di redenzione, quasi fosse stato vera- mente fulminato da Dio che gli aveva impresso nella mente, tutte insieme e contemporaneamente, le malefatte che aveva compiuto.
Senza accorgersene si trovò inginocchiato a lato del letto a pregare. Non tanto per chiedere perdono a Dio, ma per domandare la grazia che lo rinsavisse, che gli facesse inizia- re una nuova vita. In remissione dei peccati, certo, ma soprattutto per poter dare agli altri, a tutti gli altri, l’amo- re che, come fratelli, meritavano. Mettersi al loro servizio. Passò tutta la notte a pregare e meditare, bagnando le coperte del letto, ove aveva appoggiato la testa, con le lacrime della vergogna prima, e con quelle della speranza poi. Era talmente rapito dai suoi pensieri, da questo nuovo stato di grazia che non aveva mai conosciuto, che si accorse solo dopo qualche minuto del bussare insistente alla porta della camera.
“Chi è?” chiese con amarezza dovendo abbandonare quella nuova gradita situazione.

“Sono l’Elvira, signor Parroco. Devo parlarle con urgenza. E’ successa una cosa gravissima. Devo dircela, per favore”. “Preparami un caffè, per piacere, che mi vesto e vengo subito”.
– Per piacere?- pensò l’Elvira che aveva sempre solo ricevuto ordini sgarbati dal suo Parroco. – Deve stare vera- mente male o ha perso la testa – e corse in cucina a preparare il caffè.
Don Pompeo arrivò dopo qualche minuto, spettinato, mezzo vestito e senza neppure le ciabatte.
“Oh, signor Parroco” iniziò la donna. “Mi fa piacere che stia meglio perché c’è bisogno di lei in paese. E’ successa una cosa terribile! Quelli della Muti e i todeschi questa notte hanno arrestato almeno 25 tra uomini e donne. Li hanno portati tutti nella casa del Salvetti, sa quella che c’è sulla strada per Bienno. Li hanno messi giù in cantina e li mazzano tutti se non viene fuori il colpevole della morte del todesco. In paese sono tutti terrorizzati. Anche il Podestà, mi ha detto il don Arlocchi, che tra l’altro ci vorrebbe parlare, non sa come comportarsi. Tutti spetta- no lei che quelli della Muti la rispettano e, come prete, mi scusi sacerdote, la devono stare a sentire”.
“Va bene, va bene” rispose il Parroco. “Un po’ di calma, mica si prendono 25 persone e le si ammazzano subito. Daranno un po’ di tempo… Per favore, vai dal don Ar- locchi e digli se può venire. Ma adesso che ore sono? Le sei e mezza. Vai quando finisce la messa, non disturbarlo prima che se no si spaventa ancora di più”.
Andando verso il bagno, per lavarsi, un’idea lo colpì. Dio, nella sua immensa bontà, aveva creato subito una situazione nella quale lui avrebbe potuto agire iniziando una nuova esistenza.
– Grazie, Padreterno. Te ne sono grato ma per favore gui- dami tu. Come tu sai io non ho molta esperienza nel fare le cose buone! – E, forse per la prima volta, da anni, gli venne da sorridere.

 

XXXVI

In paese era arrivato uno Sturmbannführer delle SS con 6 militi. Avevano requisito l’albergo Fumo, buttando fuori anche due vecchietti che da tempo vivevano a pensione.
A riceverli era stata una Benedetta tremante che aspetta- va, ancora e con grande terrore, di conoscere la sua sorte. Nella grande camera da pranzo avevano spostato i tavoli, lasciando una gran parte dello spazio per una scrivania con poltrona riservata al Comandante. Questi era un trentenne magro magro, con due baffetti alla Führer sotto un grande naso. Pochi ciuffi di capelli e occhiali con spesse lenti. Non ricordava affatto la tanta decantata razza ariana se non per la durezza dei modi, evidenziata da un frustino da cavallerizzo che teneva sempre in mano e che usava, nei momenti di maggior tensione, colpendosi il palmo aperto della mano sinistra. Stivali lucidissimi, la divisa nera sempre impeccabile e il cappello con il teschio completavano la sua immagine spietata e lugubre. Appena installatosi nell’albergo aveva fatto cercare un interprete. La scelta era caduta sulla figlia del miglior avvocato di Breno, tale Annetta Duchi che, avendo studiato per anni in Svizzera, conosceva il tedesco abbastanza bene. Era una giovane bella donna: alta, bionda con due luminosi occhi azzurri. Lei sì, l’immagine della “sacra” razza ariana. La donna, di sicura fede fascista, aveva accettato con entusiasmo quello che, più che un invito, era stato un vero e proprio reclutamento.
Attraverso Annetta aveva contattato il Comandante della locale Brigata Muti, ponendo subito in chiaro che a comandare, nella ricerca del o dei colpevoli della morte del militare tedesco, sarebbe stato lui. Volle un resoconto dettagliato di quanto era stato fatto sino ad allora e, dimostrandosi assai insoddisfatto, aveva accusato l’italiano di assoluta inefficienza, inettitudine e, quasi, di connivenza con il nemico. Chiese chi potesse essere considerato avversario del Regime sia in paese che nei dintorni.
“Voglio al più presto una lista dei sospetti: nomi, cogno- mi e indirizzi” tradusse Annetta. “Al più presto” aggiunse la donna, “vuol dire entro 5 ore”, facendo quindi se- gno al Tenente della Muti che poteva andarsene.
Convocò quindi il Maresciallo dei Carabinieri al quale contestò l’inefficienza sua e dei suoi militari che non avevano impedito a dei delinquenti comuni di essere in circolazione.
“Voi siete esonerato dall’inchiesta. Non mi fido delle vostre capacità e di quelle dei vostri uomini. Tenetevi, comunque, a mia disposizione” tradusse ancora Annetta che cominciava a prendere gusto alla posizione che rico- priva, quasi che i maltrattamenti e gli ordini li impartisse veramente lei.
Anche il Maresciallo dei Carabinieri era sistemato. Avrebbe anche convocato il Podestà facendo quindi sapere a tutti che il comando affidatogli non aveva limi- ti e che poteva agire prendendo qualsiasi decisione.

 

Da tutti pretendeva rispetto e ubbidienza assoluta: che questo fosse chiaro sia a Breno che in tutta la valle. Dopo qualche ora, con in mano i nominativi dei sospetti e con l’aiuto della Muti, organizzò una retata che avrebbe avuto luogo nel corso della notte successiva con la cattura di 18 uomini, che facevano parte della lista dei sospetti sovversivi, e la loro carcerazione.
Ritenendo che le carceri del paese fossero insicure e trop- po vicine al centro del paese – non adatte a coprire le urla di chi aveva programmato di interrogare sotto tortura – su indicazione del Comandante della Muti provvide alla requisizione di una vecchia casa, isolata e lontana dal paese qualche centinaio di metri, sulla strada che conduce a Bienno. La costruzione, alta due piani, presentava quattro locali per piano e delle ampie cantine ove sarebbero stati ospitati i prigionieri. Il proprietario, tale Bettino Salvetti, terrorizzato, aveva, a richiesta, consegnato immediata- mente le chiavi, mostrandosi quasi felice gli fosse data occasione di collaborare con le forze di occupazione. – Se vinceranno loro – pensò – si ricorderanno della mia collaborazione. Se vinceranno gli altri, potrò sempre dire di essere stato costretto con la forza a consegnare le chia- vi e, forse, potrò anche ricevere un piccolo rimborso per il danno subito! –
Nel corso della notte sei squadre, composte da un solda- to del gruppo comandato da Franz, da una SS e da un’appartenente alle Brigate Muti, percorsero il paese nel massimo silenzio e, al termine di un’azione, assoluta- mente ben congegnata, all’alba avevano catturato i 18 abitanti del paese presumibili collaboratori nell’uccisione del soldato tedesco e li avevano portati, imbavagliati e incappucciati, nelle cantine della casa del Salvetti. A guardia dell’improvvisata prigione due militari al piano terra e due SS munite di mitragliatore alle finestre del- l’abbaino, con l’ordine di sparare su qualsiasi persona si avvicinasse con fare sospetto o minaccioso.
L’interprete fu convocata per le 16 di quella giornata per presenziare e collaborare agli interrogatori.

 

XXXVII

Don Arlocchi arrivò in parrocchia tutto trafelato. Non era neppure passato dalla propria abitazione per bere il suo amato caffellatte e questo lo innervosiva un po’. Ma era preoccupato per il Parroco, che sapeva essere rientrato la sera prima da Brescia in precarie con- dizioni fisiche e, soprattutto, per quanto era avvenuto nel corso della notte.
– Diciotto persone, mamma mia! – non aveva smesso di pensare neppure celebrando la messa. – Diciotto persone, molti padri di famiglia. Li conosco tutti, tutte brave persone. Quelli giovani, a pensare, o li ho battezzati io o insieme al Parroco. Tutti bravi ragazzi. Potranno mica ucciderli. Oh Signur, oh Signur! Pensaci Tu con la tua immensa bontà. Mica lascerai che si distruggano 18 famiglie. Non è possibile, non è possibile. E poi il sangue ne chiamerebbe altro. Guarda te: da quella bravata che è costata la vita del soldato tedesco adesso si parla di 18 possibili vittime. Dove andremo a finire? Se da 1 a 18, poi quanti, quanti altri: 180, 200… no, no, Signore! Prendi me piuttosto, che sono vecchio e stanco e non ho quasi più forze per adorar- ti e servirti. Ma non lasciare che si distruggano tutte queste famiglie. Ti prego, ti prego…” “Signor Parroco, signor Parroco, ha sentito cosa è successo. Oh beato il Signore! Ma potevamo aspettarci una cosa simile? Questa è una maledizione. Non doveva mica succedere. A proposito… lei come sta, che mi hanno detto che è tornato da Brescia indisposto? Non c’ha mica una bella cera se è per quello. Cosa si è preso, una infreddatura che ha gli occhi lucidi. Se posso fare qualche cosa, me lo dica. Ma torniamo a noi. Ha sentito 18, e dicono in giro che li vogliono ammazzare tutti. Dicono per rappresaglia. Cosa possiamo fare, signor Parroco? Perché fare dobbiamo fare di sicuro qualche cosa e subito. Vero signor Parroco?” “Don Arlocchi, un po’ di calma” disse don Pompeo con il tono di voce più rassicurante possibile. “Cerchiamo di ragionare sui fatti. Per quello che so io, sono andati a prelevare dei parrocchiani scelti, probabilmente su informazione della Muti, tra quelli che ritengono i loro peg- giori nemici. Sono andati a prendere quelli che avrebbe- ro potuto o hanno partecipato all’uccisione del tedesco. Vogliono trovare notizie per prendere i colpevoli. Ci saranno, prima di arrivare ad una decisione, degli inter- rogatori, forse delle torture. Ma secondo me per ora di fucilazioni non se ne è ancora parlato. Dobbiamo trova- re una soluzione per salvarli tutti, dobbiamo cercare di ingannarli e forse… forse… una certa idea io ce l’ho. Va- da, don Arlocchi, vada e cerchi di stare più sereno possi- bile. Si fidi di me, e mi tenga informato di qualsiasi novi- tà.” Poi, quasi fosse impegnato mentalmente in altri argomenti, con un tono di voce assente continuò: “Fratello, la prego, faccia come se io fossi ancora malato. Le affido la messa delle 8 e le confessioni di tutta la giorna- ta. E preghi, preghi per me, soprattutto perché Dio mi illumini e mi faccia ragionare nel migliore dei modi. Vada, vada che, io so, c’è ancora il suo caffellatte che la aspetta. Sa… le nostre perpetue sono delle pettegole e si raccontano tutte le nostre piccole stranezze. E grazie, don Arlocchi, grazie per quello che so ha sempre fatto per me, che farà per me e per questa nostra parrocchia” e lo abbracciò, lasciandolo trasecolato.
– Quasi un testamento spirituale, mi è sembrato quasi un testamento spirituale! E poi quel “fratello”: mica gli ho mai sentito usare una parola come quella e… non vorrei sbagliarmi, l’ha pronunciata con affetto, quasi commosso. Ma cosa mi sta succedendo? Da un po’ di tempo tutte cose nuove e così strane. Oh Signur, oh Signur aiutami tu! Tutti mettono un fardello sulle mie povere spalle, ma io mica so se riuscirò a reggerlo. Anche tu Madonnina dammi una mano! E così sia. –

 

 

XXXVIII

Don Pompeo rientrò nel suo studio e si inginocchiò davanti al crocefisso. Si sentiva veramente un’altra persona. Stava vivendo quelle ore, così complicate sia per la sua situazione personale che per quella della sua comunità, con una serenità che non aveva mai conosciuto
e che non si immaginava neppure potesse esistere. Pregò a lungo, quindi uscì e si recò al centralino telefonico. Fece chiamare il numero riservato dell’Ovra che non appariva, per ovvie ragioni, sull’elenco. Chiese del commissario e, senza nessun preambolo, lo avvisò che avrebbe cercato un appuntamento con le SS per impor- tanti comunicazioni e che sarebbe stato lieto se anche lui potesse presenziare all’incontro. Lo pregava di tenersi li- bero per il pomeriggio e che più tardi gli avrebbe comunicato l’orario che avrebbe convenuto con i tedeschi.
Si recò all’albergo Fumo e, non avendo trovato alcun tede- sco, si portò al comando della locale brigata Muti. Trovò il Passera, il Comandante, e lo incaricò di far sapere urgentemente allo Sturmbannführer che voleva incontrarlo, possibilmente alle ore 14, per importanti comunicazioni. Il Passera, che si rendeva conto di aver ricevuto un incarico importante ma sapeva altrettanto bene di non capi- re una sola parola di tedesco, ritenne giusto passare dalla casa di Annetta, caricarla in macchina ed andare a cerca- re il tedesco presso la nuova casa requisita. Aveva paura dello Sturmbannführer ed evitava, se possi- bile, di incontrarlo. Giunto alla casa del Salvetti, scaricò Annetta e rimase in macchina ad attendere la risposta. Aspettò quasi un’ora e quando Annetta riapparve la trovò sconvolta ma non ebbe il coraggio di chiederne la ragione. La donna, nervosamente, gli comunicò che il te- desco aveva accettato e aspettava il Parroco alle 14 all’albergo Fumo. Quando la vettura si fermò davanti alla pro- pria abitazione, Annetta fu presa da una crisi di pianto, scese precipitosamente senza neppure salutare e si infilò di corsa nel portone.
Don Pompeo, avuta dal Passera la conferma dell’ora del- l’appuntamento, richiamò l’Ovra di Brescia e decise con il commissario di incontrarsi qualche minuto prima delle quattordici davanti all’albergo. No, non gli avrebbe dato nessuna anticipazione su quanto voleva comunica- re all’ufficiale tedesco, disse al commissario prima di interrompere la comunicazione.
Ora che aveva preso la decisione e fissato l’appuntamento con il tedesco, non poteva più tornare indietro e gli era venuta una gran fame. Si ricordò che non mangiava dalla mattina precedente e decise di far ritorno in parrocchia. Era quasi mezzogiorno e sperava che l’Elvira avesse preparato qualcosa per pranzo. Rimase deluso non trovando la donna. Aprì la credenza, si versò un bicchiere di vino, tagliò un pezzo di mascherpa, una fetta di pane e si sedette a tavola. Finì il povero pranzo con una pera che proveniva dal brolo dell’avvocato Duchi. Più che il sapore, tutte le volte che ne mangiava una, lo sorprendeva il profumo. Scrisse su un biglietto, che lasciò al centro del tavolo per l’Elvira: “Vado a riposare, svegliami alla una. Grazie”.Lasciò in bella evidenza le poche stoviglie sporche perché la cameriera capisse che aveva già mangiato e se ne andò in camera. Era proprio stanco, si stese vestito sul letto e si addormentò immediatamente.

 

XXXIX

Alle 13,50 il Parroco era davanti all’albergo Fumo dove era parcheggiata la Fiat 1500 dell’Ovra di Brescia. Il commissario gli fece cenno di salire e don Pompeo si accomodò sul sedile anteriore. Nessuno dei due ebbe il coraggio, dopo un frettoloso saluto, di fare riferimento agli accadimenti del giorno precedente.
Don Pompeo, che guardava davanti a sé verso il muro dell’albergo temendo di incontrare lo sguardo dell’altro, disse solamente: “Vi ringrazio di essere venuto. Ho deciso di parlare con lo Sturmbannführer perché so chi ha commesso l’attentato alla loro macchina e voglio chiudere la faccenda. Vi prego, ora andiamo, prima che io perda il coraggio.” Ciò detto scese dalla vettura, e, seguito da un commissario sempre più perplesso, attraversò il breve tratto di piazza che li separava dall’ingresso dell’albergo e vi entrò. Nella vecchia sala da pranzo trovarono l’ufficiale tedesco, l’Hauptmann Reserve Franz, due SS e, con grande mera- viglia di Pompeo, Annetta.Le presentazioni furono veloci. Lo Sturmbannführer guardò male il commissario ma non avanzò alcuna obiezione per la sua presenza. Vi fu un minuto di imbarazza- to silenzio e poi il prete prese la parola.“Scusi se mi permetto, ma voi siete cristiano?”“Certo” si affrettò a tradurre la risposta Annetta. “Pro-fondamente cristiano, al contrario di tanti italiani che usano il cristianesimo solo per salvaguardare i propri interessi”.
– Cominciamo bene – pensò il prete ma fece finta di non aver capito l’offesa.“Ieri sera” riprese don Pompeo, “mentre ero in confessionale ho ricevuto la visita di due uomini, padre e figlio pro- venienti da un paese qui vicino. Si sono dichiarati colpe- voli dell’attentato e della morte del vostro soldato. Hanno affermato che questi aveva messo incinta la loro figlia e sorella ma non era disposto ad ammetterlo. La sera dell’attentato il vostro soldato aveva dato appuntamento alla ragazza sull’auto, perché voleva appagare, ancora una volta, i suoi turpi desideri sessuali. I due uomini avevano per- so il lume della ragione e, usando dei candelotti di dina- mite, avevano fatto saltare in aria l’auto ed ammazzato l’odiato seduttore della ragazza. Questo è tutto quello che posso raccontare. Mi è sembrato giusto mettervi al corrente dell’accaduto perché l’uccisione non è stata un delitto politico, ma solo l’opera di un padre e di un fratello offe- si nella loro dignità. Una cosa terribile e obbrobriosa ma, comunque, un fatto strettamente personale. Ho inviato uno scritto, riportando quanto vi ho raccontato, ai miei superiori, ritenendo doveroso sapessero di questa mia azione e decidessero se e quanto ho sbagliato. Sono pronto a subirne le conseguenze”.

Nella stanza cadde un profondo silenzio, interrotto solo dall’ansimante respiro dello Sturmbannführer che cresceva sia per rumorosità che per velocità.
Franz non credeva una parola della versione data dal prete ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che non avrebbe dovuto dare spiegazioni quando, prima o poi, gli avrebbero chiesto come mai il suo compagno di stanza fosse andato, munito di coperta, a passa- re la notte nell’auto.
Anche il commissario non credeva una parola della versione data dal prete, ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che l’attentato, da strettamente politico, si stesse sgonfiando finendo, all’italiana, in una questione di sesso.
La stessa Annetta non credeva una parola della versione data dal prete – chi voleva fare sesso in valle, dove di sesso se ne intendevano, essendo uno dei pochi svaghi possibili, non era sicuramente costretto a farlo in macchina potendo sempre trovare ospitalità da amici o amiche consenzienti – ma si sentì improvvisamente coinvolta in una storia così drammatica ma così romantica.
L’ufficiale delle SS, che a causa della respirazione forzata cominciava ad avere le labbra imbiancate di saliva schiumosa, riuscì a riprendere un poco di calma. Con voce anonima disse:
“I nomi dei due! Voglio i nomi dei due. Adesso, subito!” Terminò la frase urlando e alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduto. Nell’alzarsi perse il frustino che aveva in grembo e, raccoltolo, iniziò a frustarsi violentemente il palmo della mano sinistra.
“Voi avete detto di essere cristiano, signor Sturmbann- führer, e quindi sapete che un sacerdote non può dire a nessuno il nome della persona che, in confessionale, gli ha rivelato un’azione peccaminosa compiuta” rispose il sacerdote che, dopo il suo, sperava credibile racconto, aveva riacquistato una serena calma. “Si dice il peccato ma non il peccatore. Come si suol dire” continuò con tono quasi scherzoso. Il commissario che aveva raccolto notizie dal prete sui comportamenti dei suoi concittadini con nome, cogno- me ed indirizzo di chi li aveva compiuti, quasi scoppiò a ridere, ma riuscì a trattenersi. – Se il tedesco ci crede, per me va benissimo – pensò.
“Questo lo dite ora, prete. Ma troveremo, e come lo troveremo, il sistema per farvi parlare. Per ora vi dichiaro in arresto e poi vedremo”. Si rivolse quindi, con un ringhio, alle due SS presenti che si avventarono sul povero don Pompeo e, presolo per le braccia, lo trascinarono fuori dal- l’albergo. Caricatolo in macchina lo trasportarono d’urgenza nella casa ove erano stati imprigionati i 18 cittadini. “Non voglio che si sappia nulla di quanto abbiamo sentito in questa stanza, traducete!” si rivolse ad Annetta. Quindi, sempre infierendo sul palmo della sua mano sinistra abbandonò, a lunghi passi, la stanza.

 

(continua…)

 

“L’orto fascista” Romanzo / 8

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXIX

Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal vigile del comune che era andato a casa loro a consegna-
re la convocazione. Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pen-sato di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei conti si era in guerra e la morte di un soldato era, pur- troppo, cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso. Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente portata nella camera mortuaria dell’ospedale. Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato, ma che il Comandante potesse avere frasi di violento rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero pro- clamati tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era con- vinto che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio, con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò il proprio personale dissenso. Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura, era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie di sangue, miste all’olio del motore, erano state rico- perte da un alto strato di segatura. La buca, provocata dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre del- le case che davano sulla piazza si stava lavorando per sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.
L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da parte dei tedeschi.
Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo, circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente, dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso. Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa che non c’era.
Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e, non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se ne andarono.

 

XXX

Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupa- zione. Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri, abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia di persone prelevate in vari paesi della penisola dove era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani. A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si era verificato, lasciavano tutti perplessi. La sparizione del Russì era passata inosservata anche per- ché l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni precedenti all’attentato. Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spa- riva dalla circolazione per settimane intere, da solo o con qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino a Bazena o verso il Passo del Maniva. L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti era stato invitato a Brescia. Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente, con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie, Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero e qualche frase compromettente avrebbero potuto lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe potuto portare qualche frutto. Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’in- saputa l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra. Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto più modestamente, era partita per la città con il “Gamba de legn”. Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica, quando dovevano andare in città per qualche acquisto importante o per qualche visita medica specialistica, si recavano a Bergamo, città più facilmente e più velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletri- co cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indi- rizzo al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di por- tarla in piazza Brusati.

Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare di non perdere l’abituale ricompensa. “Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete, soggiunse “e buon divertimento!” Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul letto, cominciò a spogliarsi. Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno, augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana espressione di meraviglia. “Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si rivolgesse col tu. – Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza, per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo ad un buio corridoio.“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi verso l’ingresso. Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa luce a causa delle persiane chiuse. “Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che giungeva da un posto imprecisato della stanza. Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna. – Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato. Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza. Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e la biancheria intima mano a mano che se la toglieva. Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità, non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla, ma quando il suo viso e quello del suo violentatore si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima si mise ad urlare. “Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh Signore, cosa sto facendo!” In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata. “Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.

Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare. “Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava: – Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi svenire! – A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che erano fermi sulla porta: “Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla stanza. Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse: “Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza. Prendi i tuoi vestiti e vattene.” Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di usci- re si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe. Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei pol- moni e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.

 

XXXI

Le due donne rimasero sole nella stanza. La prostituta si avvicinò a Lucia che continuava a singhiozzare mentre il corpo si rannicchiava su sé stesso in posizione fetale. La donna si sedette sulla sponda del letto e incominciò ad accarezzare il viso della maestra con affetto materno, mentre dalle sue labbra usciva un suono leggero e musicale, una cantilena rassicurante, come quando
le mamme cullano i loro piccoli. A poco a poco i singhiozzi si diradarono, il corpo sembrò distendersi e quando il respiro divenne regolare, Lucia, prostrata, si addormentò.
La donna continuò ad accarezzarla, le prese delicatamente il viso, se lo pose in grembo e cominciò a cullarla. Quando fu certa che Lucia dormisse profondamente, uscì dalla stanza e chiese di parlare con il funzionario. Questi, dopo aver somministrato una strigliata e, forse, qualche calcio nel sedere al poliziotto che aveva aperto la porta a Lucia, si era rintanato nel proprio ufficio cercando di decifrare l’accaduto: quali conseguenze avrebbe potuto avere su di lui e cosa fare della moglie del Podestà di Breno. Sapeva che questi era molto ben ammanicato con camerati in alto luogo. Per colpa di quel deficiente di un sottoposto, avrebbe potuto avere la carriera stroncata o, ancor peggio, ritrovarsi con l’ordine di un temutissimo trasferimento in Sardegna.
Quando gli comunicarono che la prostituta voleva con- ferire con lui, la fece immediatamente accomodare nel suo ufficio e la ascoltò con atteggiamento deferente. Fu assolutamente d’accordo che poteva rimanere accanto a Lucia sino al suo risveglio e ordinò a un suo collaborato- re di recarsi al vicino casino per giustificarne il ritardo.

 

XXXII

Nel frattempo don Cappelletti, rivestitosi frettolosa- mente, aveva raggiunto l’uscita e se ne era andato sbattendo la porta. In strada si era messo a correre in direzione della stazione ferroviaria. La sua mente sconvolta nemmeno si accorgeva della curiosità che suscitava nelle persone che incontrava e che, qualche volta, nella foga della corsa, urtava. Giunto in stazione ebbe la fortuna di trovare il treno in partenza, vi salì, cercò uno scompartimento vuoto, si se- dette nel posto vicino al finestrino e si abbassò il cappello sugli occhi fingendo di dormire. Ebbe la fortuna che sul treno ci fossero pochi passeggeri e che nessuno andasse a sedersi vicino a lui. Anche il controllore, pensando dor- misse, passò oltre. E fu davvero una fortuna perché il prete, nella fretta, non si era neppure lontanamente preoccupato di acquistare il biglietto. Cercava di ricostruire quanto era avvenuto, ma non riusciva a mettere insieme neppure due minuti delle ulti- me ore. Continuava a pensare alla maestra, non capiva cosa ci facesse a Brescia, in quel triste posto, in quel letto ove era entrata, sembrava, consenziente. Che avesse una doppia vita? Che, malata di masochismo, accettasse come sofferenza di prostituirsi più o meno a pagamento? Cosa sarebbe successo adesso, quando in qualche modo la cosa si sarebbe risaputa? O da una parte o dall’altra qualcuno avrebbe parlato. Come avrebbe potuto giustificare il suo comportamento sessuale e, soprattutto, il suo coinvolgimento con la poli- zia politica? Sentiva un gran freddo e un tremore interno come quando si è aggrediti da una febbre violenta. Rimase fermo, rannicchiato al suo posto sino a quando il treno non giunse – in un periodo brevissimo, almeno gli sembrò – a Breno.
Scese velocemente e, senza rispondere ai saluti che qual- che parrocchiano gli rivolgeva, quasi di corsa si diresse verso la casa parrocchiale. Entrato si rivolse bruscamente alla sua perpetua: “Elvira, una tazza di vino caldo! Portamela in camera. Sto male, anzi, sto malissimo. Sono ammalato, molto ammalato. Lasciami il vino sul comodino e poi non di- sturbarmi più. Starò malissimo anche domani. Quindi, dopo, vai dal don Arlocchi e digli che mi deve sostituire questa sera ai Vespri e domani mattina alla messa delle otto. E di non prendere impegni per i prossimi giorni perché io non so quando starò meglio”. “Le devo chiamare il medico, signor curato?” chiese, premurosa, l’Elvira.

“Allora non mi stai a sentire!” rispose strillando il prete. “Ho detto che non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno. Insomma! Dillo anche al coadiutore. Che non gli venga in mente di venirmi a trovare!” Tracannò il bicchiere di vino caldo, si infilò la camicia da notte ed entrò nel letto. Mise la testa sotto il cuscino e cercò di calmarsi. Doveva ragionare, assolutamente. O forse era meglio che cercasse di dormire, di annegare i pensieri nel sonno per qualche ora e tentare di riprender- si sia mentalmente che fisicamente? Però non riusciva né ad addormentarsi né a calmarsi. Si ritrovò a pensare a quando era bambino e viveva con i genitori in una piccola casa insieme ai tre fratelli minori.
A otto anni era già stufo di quella vita. Il padre alla sera era perennemente ubriaco; la madre, stravolta dalla fatica, per cena non riusciva quasi mai a trovare il necessario per sfamare lui ed i tre fratellini. Nonostante l’età, era un bambino molto sveglio, intelligente ed acuto. Sapeva ragionare come un adulto ed era, soprattutto, furbissimo. Gli sarebbe piaciuto diventare maestro, forse perché desi- derava apprendere, forse anche perché il suo subcosciente gli suggeriva che quella del maestro non era una gran professione ma dava comunque uno stipendio sicuro e la possibilità di vivere rispettosamente. Tuttavia la sua fami- glia non avrebbe mai trovato i soldi per farlo studiare.
L’unica alternativa era quella di tentare di farsi prete. Ci pensò a lungo e poi, per studiata convenienza e senza sentire alcuna vocazione, espresse alla mamma il desiderio di entrare in seminario.
Lei, entusiasta, sia perché, almeno a quei tempi, un figlio in seminario dava sempre lustro, e soprattutto perché si eliminava una bocca da sfamare, era andata con lui a parlarne col Parroco.
Da quel giorno don Pompeo aveva iniziato a mentire con sé stesso e con tutti quelli che lo circondavano. Al Parroco fece credere di essere veramente attratto dalla vita religiosa e che sentiva che Gesù lo voleva con lui. Inventò anche uno strano sogno che raccontò al Parroco ed alla mamma. Si trovava in mezzo a una folla di gente miserabile. Nello zainetto aveva una mela e un panino con il formaggio. Aveva molta fame ma, impietosito da chi stava sicuramente peggio di lui, aveva donato la mela a una donna incinta e poi, preso il panino, ne aveva strappato dei piccoli bocconi che aveva cominciato a distribui- re. Più ne distribuiva più il panino si ingrossava ed era così riuscito a sfamare tutti. Alla fine, dalla folla gli veni- va incontro un bambino, scalzo e vestito miseramente. Gli sorrideva, lo prendeva per mano e lo conduceva in un bellissimo giardino pieno di fiori e di frutti. Fu allora che egli aveva riconosciuto in lui Gesù Bambino. Da quella notte, continuò a raccontare Pompeo, il suo più grande desiderio fu di mettersi al servizio degli altri. Il Parroco rimase impressionato da quelle parole e assicu rò la mamma che ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Direttore del vicino seminario. L’ingresso al seminario avvenne un triste giorno di novembre. Cadeva una fine pioggerellina gelata che inzuppava la povera giacchetta ed il cappellino che Pompeo indossava. Il Parroco, che lo stava accompagnando a quel- la che sarebbe stata per lungo tempo la sua nuova dimo- ra, era munito di un grosso e largo ombrello di colore verde, ma non si era preoccupato di riparare il suo gio- vane parrocchiano che gli trotterellava alle spalle cercando di tenere il suo passo spedito.
In quella stagione il seminario sembrava ancora più te- tro. All’interno regnava un silenzio che rimbombava contro le alte volte dei larghi corridoi. Raramente da un’aula giungeva la voce di un docente infervoratosi su qualche argomento o intento a sgridare un allievo di- stratto o ignorante.

 

Pompeo ebbe la tentazione di girarsi, abbandonare Parroco e seminario e, correndo, ritornare a casa maledicendo quanto si era inventato. Ma non ne ebbe il tempo. Erano arrivati davanti alla porta dell’ufficio del Rettore e il Parroco, presolo per un braccio, lo spinse all’interno facendolo inginocchiare da- vanti al vecchio prete che dirigeva con polso, anche tro po rigido, docenti e scolari.“E dunque tu vorresti servire Dio abbandonando i piaceri del mondo?” Il Rettore si rivolse a Pompeo quasi continuando un discorso iniziato prima dell’ingresso del bambi- no. Non ricevendo alcuna risposta, anche perché il ragazzo stava pensando a quali potessero essere i piaceri del mondo che desiderava abbandonare, avendo sino ad allora conosciuto solo povertà e solitudine, il vecchio prete riprese: “Qui avrai tempo per studiare e meditare sulla tua scelta, per rafforzare la tua fede e per capire se effettivamente sei destinato ad essere un ministro di Dio, a seguire il Vangelo ed a predicare la Buona Novella. Vedremo, vedremo.” Poi, rivoltosi al Parroco: “Parroco, vi faremo sa- pere. Ci auguriamo che il ragazzo abbia le giuste qualità e una vera vocazione. Sarebbe triste dovervi richiamare per venire a riprendere la vostra pecorella.” Si alzò dall’imponente poltrona sulla quale era seduto, porse la mano al Parroco che, fatto un cenno di saluto al bambino, si girò e lasciò la stanza. Il Rettore si infilò la stola, prese per le spalle Pompeo guidandolo verso un inginocchiatoio. Si sedette sulla poltrona accanto e invitò il bambino a confessarsi. Non aveva molti peccati da ammettere un bambino di otto anni che aveva vissuto in una povera casa. Non aveva commesso peccati di gola, non potendo trovare in casa dolci o preli- batezze sconosciute; era troppo giovane per praticare quel- li della carne; nessun motivo di invidia verso gli altri ragazzi poveri come lui; bestemmie nemmeno a pensarlo, tanto erano orribili quelle che il padre lanciava dal baratro delle sue sbronze. Eppure la confessione durò oltre un’ora. Il vecchio prete, appigliandosi ad ogni occasione che il bambino gli dava, fosse una insicurezza o un dubbio, scavava nell’animo del nuovo seminarista per conoscerne la vera natura. Alla fine non era riuscito a capire molto della sua indole ed era, comunque, alquanto perplesso. Tutte le risposte del bambino sembravano studiate non per apparire migliore ma per ingraziarsi l’affetto e la considerazione di chi lo stava esaminando.
Infatti il piccolo Pompeo aveva capito subito che quella non era una vera confessione, ma un esame che doveva assolutamente superare se voleva rimanere in seminario. E sapeva che la prima impressione sarebbe rimasta a lungo nella mente del Rettore e avrebbe potuto condizionare la sua vita nei prossimi anni.
Vi erano solo due altri bambini in seminario: uno suo coetaneo ed uno di un anno più grande. Studiava con loro anche se Pompeo era molto meno preparato. Il maestro però lo aveva preso in simpatia e cercava di aiutarlo in tutti i modi con estrema pazienza. La vita del seminario gli apparve subito gradevole. La sveglia alle sei non lo disturbava, essendo la stessa ora alla quale si svegliava a casa; al freddo della camerata e dei bagni era abituato. Lo disturbava un poco la comodità del letto: il materasso di lana era troppo morbido per lui, che a casa dormiva su un saccone ripieno di foglie secche di granoturco. Finita la messa, tutti si recavano in refettorio dove, in vere tazzine, veniva servito del latte caldo e pane in abbondanza.

Il primo giorno Pompeo ritenne che quello fosse l’unico pasto sino alla cena. Si riempì di pane e di latte. Scolò anche le tazze di qualche vicino che, ormai sazio, non aveva finito di bere il latte freddato. Non essendo il suo stomaco abituato a tali scorpacciate dovette correre, nel corso della giornata, molte volte alla latrina in preda ad una violenta dissenteria.
A parte le lunghe ore trascorse a pregare in cappella, dove si annoiava mortalmente, e quelle passate ad ascoltare la vita dei santi, il resto della giornata era piacevole. Ap- prendere era un suo grande desiderio; il mangiare, anche se il cuoco sembrava mettercela tutta per rovinare qualsiasi pietanza, era abbondante; i momenti di svago brevi ma abbastanza divertenti.
Pompeo era sempre vigile nell’eseguire gli ordini del Prefetto e di tutti i maestri e professori: voleva suscitare la migliore impressione possibile ed evitare punizioni a volte dolorose, come quando si era costretti a rimanere inginocchiati, per lunghi periodi, sul pavimento cosparso di lenticchie secche.
Approfittando del fatto che aveva destato tra i convittori simpatia, riusciva spesso a intrufolarsi nei pensieri re- conditi anche dei ragazzi maggiori di lui e a riceverne confessioni indiscrete. Dopo averle ricevute, Pompeo, lasciato passare un certo periodo di tempo per non scoprirsi, trovava la scusa per riportarle agli insegnanti. Non sfacciatamente, da spia, ma da amico preoccupato di chi gli aveva fatto le confidenze. Questi gradivano le notizie che potevano permettere un più approfondito controllo sui ragazzi ed il più delle volte lo incitavano a continua- re ad informarli. Pompeo, in cambio di questo metodo che usava tradendo gli amici, ebbe, se non riconoscimenti, almeno la benevolenza dei superiori. Continuò per anni questo modo di fare, affinandolo. Riusciva sempre meglio ad entrare nelle confidenze degli altri seminaristi e a riportare maggiori dettagli della loro vita interiore. Tanti ragazzi furono puniti o costretti a lasciare il semi- nario in conseguenza delle confidenze fatte a Pompeo. La cosa era particolarmente importante soprattutto quando si parlava di un argomento vietatissimo: il sesso. Tale argomento era, allora molto più di oggi, l’ossessio- ne di tutti gli insegnanti di tutti i seminari. L’opera più malefica del diavolo! E per questo di grande attrattiva. Almeno a parole. E di parole sull’argomento se ne spen- devano molte anche tra i compagni di Pompeo che, ad ascoltare quei discorsi, traeva un certo piacere. Un’anticipazione di quello che avrebbe provato più avanti nella sua vita di confessore.

 

 

XXXIII

Lucia si svegliò solo alle quattro del pomeriggio. Le girava leggermente la testa e non riusciva a capacitarsi di dove fosse. Si accorse di essere nuda sotto le lenzuola e questo la sconvolse.
Accanto al letto vi era una sconosciuta che le stava accarezzando, le sembrò con affetto, i capelli e il viso. Improvvisamente ricordò. Il suo arrivo all’ufficio dell’Ovra, la strana accoglienza ricevuta, di essersi spogliata e, nuda, di essersi infilata nel letto già occupato da quel visci- do verme del Parroco, le sue mani sudaticce che la tocca- vano, il viso sopra il suo mentre cercava di violentarla. Ricominciò a tremare mentre la donna continuava ad accarezzarla, a sorriderle. Un dolce suono, forse una nenia, usciva dalle sue labbra. Dove era adesso? Era stata rapita per essere trasportata… dove? Era stata venduta come schiava? Dove era? Doveva assolutamente saperlo ma non riusciva ad articolare un suono, una parola per chiederlo. Finalmente la donna le parlò con un forte accento emiliano. “Stai tranquilla, è finito tutto. Adesso Carla, che sarei io, ti aiuta a rivestirti per tornare alla tua casa. A proposito, hai un marito, dei figli? Dove abiti?” “A Breno” rispose Lucia, grata a quella donna che si stava occupando di lei e sembrava la volesse proteggere. “Sono sposata, sì, ma non ho figli. Non te ne andare, non lasciarmi sola, ti prego!” supplicò quando la donna si alzò diretta verso la porta. Questa si voltò e le sorrise di un sorriso dolcissimo, nonostante i lineamenti tutt’altro che delicati.
“Non ti preoccupare, non ti lascio. Prendo solo i tuoi vestiti dalla seggiola dove li hai lasciati”. Aiutò Lucia a vestirsi, commentando, per metterla a suo agio, la finezza della biancheria intima e l’eleganza del tailleur grigio fumo che dava, così bene, risalto alle sue forme. Finalmente un sorriso apparve sul viso della giovane donna, grata per l’affetto dimostrato nei suoi con- fronti e anche per quel tanto di civetteria, tutta femminile, così sensibile agli apprezzamenti. Quando Lucia si fu rivestita, la prostituta, che per una volta nella sua vita si sentiva importante, padrona di prendere delle decisioni, aprì la porta della camera e, affacciatasi in corridoio, urlò in direzione del piantone: “Ehi tu, pelandrone! Chiama subito il commissario e che si spicci a venire”.
Questi arrivò veramente di corsa, si genuflesse, quasi, davanti alla maestra. Entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle.

Imbarazzatissimo, rosso in viso e leggermente tremante si rivolse a Lucia con un “Non so cosa dire, non so proprio cosa dire. Quale sia il mio imbarazzo ed il mio dolo- re, lei non può credere. Qualsiasi cosa possa fare mi dica e la farò. Qualsiasi, veramente qualsiasi”. Lucia non aveva né voglia né coraggio di guardarlo in faccia, ma doveva farlo. Doveva riuscire a capire che tipo di uomo fosse e se si poteva fidare di lui. “Commissario, io desidero solo che nulla si sappia. Qui oggi non è successo nulla. Lei capirà: io non posso perde- re la mia reputazione per una brutta avventura mal gestita. Io qui sono parte offesa e come tale devo essere trattata con il massimo rispetto. Le farò sapere le mie decisioni e lei, se è un uomo di onore, ad esse si atterrà scrupolosamente. Uno scandalo non gioverebbe neppure a lei né ai suoi diretti superiori. La prego, mi faccia chiamare un carrozza che voglio raggiungere la stazione al più presto”. “Per carità, signora!” rispose il commissario inchinando- si nuovamente. “Ho messo a sua disposizione la nostra macchina di servizio e un autista. Si faccia portare dove vuole e la tenga al suo servizio per tutto il tempo necessario.” Poi, sempre più premuroso: “Posso offrirle, che so, un caffè, un cordiale, qualsiasi cosa, signora?” La prostituta lo stava guardando con un sorrisino malizio- so sulle labbra. La divertiva vedere quell’uomo, considera- to potente, tutto servile e spaventato. Quando il commissario se ne accorse, si rivolse a lei con voce arrogante:
“E tu cosa ci fai ancora qui? Saluta, ringrazia la signora e togliti dai piedi!” Lucia rimase dapprima meravigliata dalla trasformazione del tono di voce del commissario e poi si infuriò per i modi villani e prepotenti. “Non si permetta di usare questo tono arrogante con questa signora!” urlò. “Né io, né lei, soprattutto lei, abbiamo la gentilezza e la bontà d’animo di questa don- na. La rispetti e, per favore, le chieda scusa!” Carla, a quelle parole, stava per mettersi a piangere tanto era la commozione e la gioia. Fu ancora più felice quando, dopo le scuse del commissario, Lucia le si avvicinò, la abbracciò con molto calore e le diede due affettuosi baci sulle guance. “Grazie” le sussurrò all’orecchio mentre gli occhi le tornavano lucidi. Quei momenti, per Carla, furono tra i più belli della sua vita.

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 7

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

XXIII

Quella porta semiaperta era un invito palese. Forte della propria certezza, la aprì completamente e, senza bussare, entrò nella stanza. Franz se ne stava seduto sul bordo del letto con l’ampio torace scoperto, di un biancore mai visto. Portava solo un paio di boxer e, stranamente, un paio di cortissime calze bianche tendenti al rosa, quasi da bambina. Benedetta trovò così strane quelle calzine a ricoprire i due piedoni enormi, abituati a calzare scarponi o stivali, da non riuscire a distoglierne gli occhi. Chiusa la porta, era rimasta ferma in piedi in mezzo alla stanza senza sapere come comportarsi. Franz, dopo aver- le sorriso, si era alzato dal letto e le si era avvicinato. Le aveva preso la mano destra tra le sue e se l’era portata lentamente alle labbra per un breve bacio.
Benedetta ne era rimasta sconvolta. Mai in tutta la sua vita aveva ricevuto un gesto di affetto e di considerazione alla sua persona come quel semplice baciamano. Si era commossa al punto che, per riconoscenza, stava per buttare le braccia al collo dell’uomo. Ma, questi, forse vergognandosi del gesto affettuoso che aveva fatto, si era bruscamente girato ed era ritornato a sedersi sul letto.
Imbambolata Benedetta lo guardò: era uno sguardo di gratitudine ma anche di disagio: cosa doveva fare?
Franz le venne ancora una volta in aiuto. Sorrise nuovamente e le tese le braccia. Benedetta allora si tolse il vesti- to rimanendo nuda. Non sarebbe mai riuscita a spiegarsi come avesse potuto compiere quel gesto, per lei così spregiudicato, con tanta naturalezza. Poi si avvicinò al letto.

 

XXIV

I trenta metri circa che lo separavano dall’obbiettivo gli sembrarono interminabili, quasi dovesse percorrere una distanza superiore a quella del pratone della Concarena con le roccette che portano in vetta. Appaiono sempre a portata di mano ma non ci si arriva mai. Camminava il più velocemente possibile, piegato in due per limitare la sua visibilità. Finalmente arrivò a toccare la parte posteriore dell’auto. Si sdraiò a terra, sistemò i due candelotti con le parti terminali delle micce annodate tra loro. Mentre prima era nervoso ed eccitato, ora erano sopraggiunte calma e tranquillità. Avvicinò l’accendino, con un gesto deciso l’accese e die- de fuoco alle due cordicelle impregnate di resina.

 

XXV

I suoi grossi seni erano giusto all’altezza del viso di Franz. Lui vi affondò la testa, irritando leggermente la pelle delicata con i suoi ispidi baffi. Poi le posò le due mani sulle natiche attirandola a sé. Le baciò il seno, prese in bocca un capezzolo succhiandolo dolcemente. Fece lo stesso con l’altro seno. Le mani intanto scendevano verso il basso ad accarezzare l’interno delle cosce.
Per Benedetta erano tutte sensazioni ed esperienze nuove: mai il suo corpo aveva ricevuto delle attenzioni così delicate, almeno per quanto lei si ricordasse. La mano di lui andò a cercare la mano della donna e la accompagnò verso il suo membro, ormai eretto, tenendola sino a quanto lei non lo avvolse con la sua mano. Poi ritornò ad accarezzarle le cosce e infine le grandi labbra.
Per tutti e due il tempo sembrò fermarsi. Benedetta, che aveva temuto un brutale assalto da parte di Franz, ed il tedesco, che temeva volgarità nel comportamento della donna, si ritrovarono a vivere quel momento magico che solo i ragazzi vivono ai primi approcci al sesso.

 

 

XXVI

Il violento scoppio li richiamò brutalmente alla realtà. Lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione aveva spalancato la finestra della stanza e tutti vetri erano andati in frantumi. Come un colpo di vento aveva scompigliato i capelli a Benedetta e a Franz. Entrambi rimasero per molti secondi immobili, forse rifiutando di vivere una dimensione differente da quella che erano riusciti a creare con la delicatezza, quasi la dolcezza, dei pochi minuti che avevano passato insieme. Poi Franz spostò bruscamente Benedetta e si precipitò alla finestra, imprecando contro una scheggia di vetro che gli era penetrata in un piede. Quando si affacciò sulla piazza rimase in silenzio, rifiutando di accettare quello che stava vedendo. La piccola auto di servizio era stata scoperchiata dalla violenta esplosione e lasciava vedere l’interno dell’abita- colo che era, ad eccezione dei sedili anteriori, completa- mente vuoto. Sopra la portiera destra, che si era staccata dalla carrozzeria ed era caduta a terra, Franz notò qualcosa ricoperto da una stoffa grigio verde che comprese essere la gamba di un uomo. Il resto del corpo, con la testa completamente ricoperta di sangue, quasi staccata dal collo ed in una posizione innaturale, era a qualche metro di distanza da quello che era rimasto della vettura.“BERND!” urlò Franz. “BERND!” ripeté con voce stra- volta. “NEIN! MEIN GOT! NEIN!” Si girò verso Benedetta con occhi iniettati di sangue. “Scheusliche hure du hast das attentat organisiert” – Brutta puttana tu hai organizzato l’attentato – gridò e poi “Brutta puttana, tu attentato, io te fucilare!” Intanto si era infilato i pantaloni della divisa e una ma- glia bianca. Con un piede che gli sanguinava uscì di corsa dalla stanza. “Achtung, achtung, kameraten, kommt, kommt, es ist was fuerchterliches passiert!” – Attenzione, attenzione, camerati, venite, è successo qualcosa di terribile! – urlava intanto il tedesco correndo nel corridoio verso le scale. Benedetta, inebetita, non riusciva a rendersi conto di cosa potesse essere accaduto. Era rimasta ferma appoggiata al muro dove Franz l’aveva spinta quando era corso alla finestra. Lo sguardo stravolto del tedesco l’aveva terrorizzata e nella sua mente continuava a rimuginare le uniche parole che le erano rimaste impresse: “Io te fucilare!”

 

XXVII

Lo spostamento d’aria creato dalla forte deflagrazione lo investì quando ancora non aveva raggiunto l’androne e per poco non lo fece cadere a terra. Continuò la corsa senza voltarsi indietro.
Poco dopo udì i vetri delle finestre che, andati in frantu- mi, cadevano sull’acciottolato e una voce, con l’odiato accento tedesco, che urlava parole incomprensibili.

 

 

XXVIII

Don Arlocchi aveva appena terminato la messa delle sei. Cominciava a far freddo alla mattina presto, e le vecchiette che intervenivano alla celebrazione mattutina erano ormai solo una dozzina. Col passare delle setti- mane, quando il freddo si sarebbe fatto pungente, il numero non avrebbe superato le sei, sette. Le irriducibili, le chiamava il buon prete. Don Pompeo Cappelletti aveva pensato di abolire quella messa nel periodo invernale, ma le vecchiette si erano ribellate a questa ipotesi. Tanto avevano urlato contro il Parroco che lui aveva dovuto rinunciare al suo proposi- to. La pretesa era tanto più assurda perché le donne, quando rientravano a casa verso le sette, passavano il resto della mattina al freddo, senza qualcosa di concreto da combinare se non rigovernare la casa. Erano, per lo più, vedove e convivevano solo con la loro solitudine. Don Arlocchi stava togliendosi i paramenti pregustando il ritorno nella sua povera casa, dove avrebbe però trovato un caffellatte ben caldo, con i biscotti che la sua vecchia perpetua gli preparava freschi ogni due giorni. Era il momento migliore di tutta la giornata e quel piccolo peccato di gola si ripeteva tutte le mattine alle sette, perché lui, da anni, era stato incaricato di officiare la prima messa. Con fastidio il prete si accorse che qualcuno, senza far rumore, si era introdotto in sagrestia. Miope com’era, vedeva solo la sagoma di una persona intabarrata. – Un uomo in chiesa a quest’ora? Chi può essere? – pensò. “Vieni avanti, figliuolo. Chi sei?” disse per sollecitare l’intruso vedendo, con la mente, la tazza di caffellatte che iniziava a raffreddarsi sul tavolo della cucina. L’uomo si avvicinò guardando dalla porta della sagrestia la chiesa per sincerarsi che il Silestrini, che faceva da sacrista ed aveva servito la messa, avesse spento le candele e se ne fosse andato.

“Ah, ma sei il Russì!” esclamò il prete. “Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti ho visto in chiesa? Vediamo, vediamo… forse dal funerale della tua mamma. Una decina di anni fa. Se sei venuto per denunciare i tuoi innumerevoli peccati torna più tardi perché ce ne vorrà di tempo e io adesso ho… un impegno” disse e pensò – col mio caffellatte. –
“Non posso aspettare, padre” rispose il Russì con voce triste e deferente. “Ho ammazzato un uomo”. Don Arlocchi, nonostante la stazza e l’età, a quelle paro- le fece un salto. La stola, che stava piegando, gli cadde a terra e il Russì corse a raccoglierla. “Tu hai cosa? Tu sei impazzito. Io non capisco, o mi prendi in giro o… o… vade retro Satana!” e si fece più volte il segno della croce. Ma dallo sguardo dell’uomo capì che stava dicendo la verità. Poi riprese: “Senti, qui non possiamo stare, neanche in confessionale e poi, poi io non voglio sapere… soprattutto se è un delitto politico. Io, io… come faccio ad entrarci e poi, poi… non posso mica darti subito l’assoluzione. Io devo consultare il diritto canonico, mica si fa così a dare l’assoluzione come se avessi rubato un cucchiaio di marmellata. Io non so, non mi è mai capitato. Devo chiedere lumi. Cominciamo a dire un Pater noster insieme che magari ci schiariamo le idee. In ginocchio, però. In ginocchio. Oh Maria Vergine ora pro nobis! Ma guarda te se alla mia età doveva capitarmi una cosa del genere, a me che non mi è mai capitata. Preghiamo, dai preghiamo”. E cominciò a recitare il Padre nostro. Quando finì la preghiera, il prete era più confuso e inquieto di prima. Prese il Russì per un braccio, lo condusse fuori della sagrestia, chiuse la porta a doppia mandata e si diresse verso casa.
Qui arrivato, fece accomodare l’uomo nel suo piccolo studio e si diresse in cucina. In tre sorsi finì il caffellatte, che era diventato tiepido, sgranocchiò un biscotto e tornò nello studiolo.
“Dunque, vediamo un po’, torniamo da capo, come se ci incontrassimo adesso. Allora tu arrivi da me e mi dici: ‘Mi voglio confessare’. Io allora mi metto la stola, ah già la stola, la stola l’ho lasciata in sagrestia… beh Signore, perdonaci per questa volta, tu che perdoni sempre”. Questa frase gli era scappata, ma sperava che il penitente non la prendesse buona per lui. Gesù avrebbe perdo- nato, ma prima quell’assassino doveva dimostrare di essersi pentito. “Andiamo avanti senza stola, che speriamo vada bene lo stesso. Mi fai fare certe cose tu che mai ho fatto. Allora tu cominci a confessarti. Guarda che non è mica neces- sario che tu mi dica dove, come e quando… che io da queste cose voglio restare fuori. E neanche perché. Tanto tu di giustificazioni non ne hai di sicuro!”
“E invece sì” intervenne il Russì. “Io non avevo nessuna intenzione di uccidere. Io volevo solo dare una lezione ai tedeschi facendo saltare in alto la loro vettura. Mica potevo sapere che all’interno ci dormiva uno di loro”. “Aspetta, aspetta. Tu vuoi dire che non sapevi di uccide- re? Attento non dire falsa testimonianza durante una confessione, che la cosa diventa ancora più grave! Tu devi guardare dentro la tua coscienza e devi dire assolutamente la verità. E poi sei pentito di quello che hai fatto? Pensaci bene prima di rispondere!”

“Se è per quello sono più incazzato che pentito. Certo che mi spiace che quel ragazzo sia finito a pezzi, ma io mica volevo farlo. Come si fa a essere pentiti di una cosa che non si voleva fare e che è capitata per caso? Forse sono pentito di aver fatto saltare l’automobile dei tedeschi. Questo sì lo volevo fare, l’ho fatto e me ne dispiace”. Al prete si ingarbugliavano ancora di più le idee in testa. In effetti il ragionamento del Russì non faceva una piega. Ma non si può liquidare così l’uccisione di una persona. Però lui non sapeva quali argomenti trattare, come si doveva comportare da sacerdote: cosa dire, in definitiva al penitente. Improvvisamente si udì un gran bussare alla porta d’ingresso. – Ma chi può essere a quest’ora che viene a casa mia? Mica saranno i tedeschi che hanno seguito il Russì?- pensò. – Ma tutte oggi devono capitare. Mi fossi sveglia- to malato grave ed impossibilitato a dir messa, sarebbe stato molto meglio. – Si alzò ed andò ad aprire. Al di là della porta trovò il farmacista. “Buongiorno dottore” lo salutò. “Come mai da queste parti ed a quest’ora?” domandò. “Ho una cosa urgente da dirle, anzi da confessarle” rispose il Temperini tentando di farsi strada e di entrare nella casa. “Adesso non posso, sono occupato. Non posso proprio” rispose il prete cercando di difendersi dall’invadenza. “Ma io ho urgenza di parlarle. Di confessarmi, anche se non lo faccio da anni. Ma questa volta è grave. Ho aiutato ad uccidere un uomo”. A don Arlocchi mancarono improvvisamente le forze e, con un sospiro che sembrava un rantolo, si lasciò cadere pesantemente sulla seggiola che, provvidenzialmente, aveva alle spalle. Dalla porta dello studiolo si affacciò il Russì per vedere chi era arrivato. Trovatosi davanti il Temperini fece un passo indietro, quasi per nascondersi. Si sentiva in colpa per averlo coinvolto, anche se incolpevolmente, nell’uccisione del tedesco.
Il farmacista che aveva visto con grandissima meraviglia il Russì, trascurò di portare soccorso al prete ed entrò decisamente nello studio. “Che ci fai qui?” quasi urlò al Russì. “Tu sei matto, matto. Sei sulla lista nera, lo sai. Uno dei primi che vengono a cercare sei tu. Scappa perdio, scappa!” Don Arlocchi, che si era un po’ ripreso anche se non riusciva ad entrare in possesso di tutte le proprie facoltà mentali, intervenne anche lui alzando la voce verso il farmacista. “Qui non si bestemmia, non si deve mai bestemmiare, ma qui è casa di Dio. Farlo è ancora più grave. Diamoci tutti una calmata. Voi sedetevi e vediamo cosa fare.” Si sedette alla sua scrivania, appoggiò il gomito al tavolo e con due dita cominciò a massaggiarsi gli occhi chiusi. Quasi che privandosi della vista potessero anche scompari- re i problemi enormi che lo assillavano. Recitò mentalmen- te una breve preghiera chiedendo aiuto a Dio perché gli facesse comprendere chiaramente quanto stava succedendo e gli desse la forza e la saggezza per gestire la situazione. “Raccontatemi tutto quello che sapete. Tutto! Devo sapere tutto! In effetti è una confessione un po’ fuori del normale, ma Dio capirà: questa è una situazione tutta fuori del normale.”

Poi si rivolse al Russì. “Avanti, parla tu per primo, che mi sembra sia tu quello che ha le maggiori responsabilità.” “Cosa è successo? Quello che è successo non ci voleva, non doveva succedere ed invece è successo” rispose l’in- terpellato al quale oltre che le idee si erano confuse anche le parole. “Quello là cosa ci è andato a fare alle nove di sera nella macchina. Cosa ne sapevo io che lui era lì? Mica ce l’ho mandato, ed adesso ce l’ho io la colpa!” “Ascolta, figliuolo” lo interruppe il buon prete, “lascia stare tutti commenti e spiegami bene quello che è successo. I commenti, se mai, li faremo dopo. Comincia da capo e spiegati bene!” “Io e il farmacista, con altri, dei quali non farò il nome neppure se mi torturano, avevamo deciso di dare una lezione, quasi uno scherzo, a quei crucchi di tedeschi. Volevamo fargli saltare in aria quella stramaledetta mac- china e chi s’è visto s’è visto. Abbiamo preparato tutto per bene. Io ci avevo l’esplosivo, me l’ero procurato, l’avevo messo sotto la macchina, acceso la miccia e poi bum: tutto era saltato in aria ed io ero scappato a nascondermi. E invece quel cretino di un crucco – qui don Arlocchi, sentendo nominare il morto, si fece il segno della croce – era andato, a far cosa? A passare la serata in macchina. Le pare normale? Come si faceva a sapere una cosa del genere? E adesso io sono un assassino e chissà cosa combine- ranno i tedeschi per vendicarsi.” “Mi sa che ha ragione il dottore. Tu è meglio che te ne vada” riprese il prete che non trovava nessun’altra soluzione possibile. Ormai il guaio era fatto e non si poteva certo andare a dire ai tedeschi che era stato un errore. “Vai in montagna. Lascia detto al tuo socio qui presente dove poterti rintracciare se c’è bisogno di te. Io non lo voglio sapere. Non so ancora cosa fare, ma se mi viene in mente qualche soluzione voglio essere libero di agire senza correre il rischio di tradirti. E lei, Temperini, torni alla sua vita quotidiana come se quanto successo non la riguardasse. Per adesso l’unica cosa da fare è questa. Poi vedremo. Il buon Dio non mi lascerà solo, ne sono certo, e mi aiuterà a trovare qualche soluzione. E adesso sparite tutti e due. Tu Russì aspetta un attimo che ti do qualcosa”. Si alzò, andò in cucina e ritornò con un salame che gli avevano appena regalato e che teneva appeso nella fredda cucina in attesa di una occasione speciale per affettarlo.“Tienilo” disse porgendolo al Russì. “Mettilo insieme alle altre cose che riuscirai a trovare. Non puoi mica partire senza nulla da mangiare, soprattutto in questa stagione. Vi farò sapere.” Poi li accompagnò alla porta, rimanendo fermo qualche istante a guardare con preoccupazione i due che si allontanavano e con nostalgia il sala- me che si allontanava con loro.

(continua…)

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 6

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XVIII

Pensò a lungo come affrontare quella che poteva considerare, visto quello che era accaduto, la… “donna dei suoi sogni”. Davanti allo specchio dell’anta dell’armadio in camera, e in assenza di Bernd, mimò una serie di approcci. Ma tutti gli sembrarono puerili e ridicoli. In fin dei conti lui era un uomo d’armi e da duro doveva comportarsi. L’avrebbe affrontata proponendole un incontro nella sua camera e che andasse come andasse. Presa questa decisione uscì baldanzosamente dalla stanza andando quasi a scontrarsi con Benedetta che nella stanza stava per entra- re. Provvidenza divina! Ancora caricato dalla decisione presa, le disse sussurrando, ma con fermezza: “Vuoi fare, come dite, sesso con io?” Lei, tutta rossa, lo guardò meravigliata negli occhi: “Sì” sussurrò, pentendosi subito per l’eccessiva disponibilità dimostrata, lusingata dalla richiesta dell’uomo. “Quando?” disse lui. “Forse domani sera?” chiese lei, appagata dal fatto che le fosse stata data la possibilità di scegliere. “Molto bene” disse lui. “Ore 21 e metà, se per te bene”. Senza attendere risposta Franz girò sui tacchi e si allontanò verso le scale. – E’ fatta – pensò. – Speriamo bene! –

XIX

La mattina seguente Benedetta non andò, come tutti i giovedì, a lavorare in albergo. Un giorno alla settimana la sostituiva Ornella, la figlia minore dei proprietari. Si alzò comunque molto presto, dopo una notte agitata. Aveva sognato, quando era riuscita a prendere sonno, situazioni strane ed allucinanti. – Che sia la mia coscienza che si rivolta per la decisione che ho preso? – pensò e, subito dopo, – Come troverò il corag- gio alla prossima confessione di raccontare le mie colpe? – Ma ciò che le stava capitando era troppo intrigante per lasciarsi invischiare in preoccupazioni e tentennamenti. In fin dei conti aveva sopportato, a volte con vera sofferenza, anni ed anni di castità rifiutando tutte le occasioni che le si erano presentate. – Il buon Dio capirà – concluse. – A suo tempo penserò come affrontare il confessore… – Per prima cosa si lavò i capelli, cercando, mentre lenta- mente si asciugavano, di dare loro una piega passabile. Aveva ancora in casa il vecchio strumento che sua mam- ma usava per arricciarli quando lei era ancora bambina. Una specie di forbice che al posto delle lame aveva due pezzi di ferro tondeggianti. Scaldati sul fuoco, intorno a loro venivano avvolte ciocche di capelli. I ferri venivano poi girati sino a raggiungerne la radice. L’importante era riuscire a raggiungere la giusta temperatura. Se era troppo bassa non serviva a nulla, se troppo alta poteva strinare i capelli cambiandone il colore. Quando fu soddisfatta della piega presa ed aver assestato qualche sforbiciata alle ciocche ribelli, prese dall’armadio i tre vestiti che possedeva e li stese sul letto. Solo uno non presentava i segni dell’età e qualche lisatura. Quindi solo quello avrebbe potuto indossare per l’incontro. Per fortuna l’abito, di un lieve colore celeste, era anche quello che le stava meglio e più si adattava alla sua carnagione rosea. Il grosso problema fu quello della biancheria intima. Era tutta in uno stato pietoso. L’unica soluzione sarebbe stata quella di acquistarne della nuova ma, a parte che in quei giorni era in grosse ristrettezze finanziarie avvicinandosi il giorno del pagamento dell’affitto, andare dalla merciaia per acquistare biancheria intima significava ammettere che ne aveva bisogno per presentarsi ad un uomo. Proprio con quella pettegola dell’Antonietta che l’avrebbe raccontato a mezzo paese, pensò.
– Sotto il vestito non metterò niente – si disse. – Così non ci saranno intralci e i preamboli si consumeranno più velocemente. –
Infatti quello che più temeva era il momento in cui si sarebbe presentata al tedesco, che, magari, la avrebbe attesa con la luce accesa.
Nei dodici anni che aveva passato con l’Angiolino non si era mai fatta vedere, in piena luce, del tutto nuda. Quando il suo sposo, e succedeva spesso, non usciva per andare al bar, voleva dire che aveva voglia di fare all’amore. E allora, senza dire neppure una parola, dopo aver rigovernato la cucina, andava in camera da letto, si metteva sotto le lenzuola in posizione di attesa. L’Angiolino, come quasi tutti gli uomini, d’altra parte, non si preoccupava se e quanto piacere procurasse alla moglie e se questa simulasse o meno un orgasmo. Come un fatto prettamente naturale, scaricava, con un grugnito anima- lesco, il suo desiderio. Un frettoloso bacio della buona notte e si girava dall’altra parte. Dopo pochi minuti si addormentava russando.

Benedetta non aveva mai preteso o cercato qualche soluzione che la appagasse in qualche modo e non la facesse sentire un semplice oggetto. Non ci aveva neanche mai pensato. Le era stato insegnato che le donne esistevano per servire, appagare i mariti e dar loro dei figli. “Rice- vere” il marito e lasciare che soddisfacesse le proprie voglie faceva parte dei suo compiti.
Per tutta la giornata non uscì di casa. Continuava a fare lavoretti inutili mentre il nervosismo le montava addosso. Cercava di non pensare alla sera ma ricadeva sempre sullo stesso pensiero. Forse, anche per rilassarsi avrebbe potuto recitare un rosario. Ma non poteva chiedere alla Madonna che facesse andare bene il compiersi di un peccato. Le sembrava un controsenso. Dopo aver cenato con un pezzo di pane e un po’ di for- maggio – non aveva assolutamente appetito – si sciacquò più volte la bocca. – Mi bacerà? – si chiese pensando anche se non fosse il caso di lavarla con acqua e sapone. Poi decise che, uscendo di casa per andare all’appunta- mento, avrebbe masticato un paio di foglie della pianta di menta che aveva sul davanzale, per essere sicura di avere un alito fresco. Sorrise tra sé: questa era veramente una buona idea. Quando il campanile suonò i rintocchi delle 21 e 15, e stava per iniziare il coprifuoco, uscì di casa avvolgendosi intorno alla testa e alle spalle uno scialle nero, per cercare di nascondersi ad eventuali occhi indiscreti e per ripararsi da una pioggerellina gelida che aveva cominciato a cadere. Non tremava ma non riusciva a governare bene le proprie membra, tanto era il nervosismo che l’aveva presa. Aveva deciso di non passare per la strada principale per raggiungere l’albergo. Aveva preso la stradina che costeggiava il retro della villa De Michelis, poi a sinistra verso il lavatoio. Salì i cinque scalini che portavano alla piazza ma non la attraversò. Girò davanti alla casa dei fratelli Silestrini, passò davanti alla latteria e quindi, raggiunta la casa dei Romelli, sempre costeggiando il lato sud della piazza, dopo pochi passi entrò nel portone che portava al retro dell’albergo Fumo verso i campi da bocce.
Da qui tutto fu più semplice. La strada all’interno del- l’albergo la conosceva a memoria, tante erano le volte che ne aveva percorso scale e corridoi. Il buio non le creava alcun impedimento.
Iniziò a salire le scale quando il campanile suonò la mezza. Giunta al primo pianerottolo fu presa da un at- tacco di panico. Non riusciva quasi più a respirare e sudava abbondantemente. Si sedette sugli scalini cercando di riacquistare la calma. Piano piano ci riuscì, ma ancora non era sicura che le gambe la reggessero. Con lo scialle umido si asciugò il sudore dal viso. Annusò le ascelle per accertarsi che queste non mandassero odore. Si tolse le scarpe per compiere la stessa ispezione. Quindi riprese la salita a piedi nudi. I muscoli delle gambe, sep- pure un po’ contratti, adesso rispondevano bene.

 

XX

Il Russì aveva prelevato due candelotti avvolti nella tela cerata dal gabbiotto degli attrezzi dell’Orto Fascista senza accorgersi della presenza del terzo che era uscito dall’involucro. Li aveva nascosti sotto il tabarro e si era avviato verso la Piazza Mercato con molta circospezione. Improvvisa- mente da una porticina era sbucata una donna con la testa e le spalle avvolte in un lungo scialle. Per non ess re visto si nascose nell’ombra di un portone. – Qualcuna che va a vegliare qualche malato – aveva pensato. La sera era fredda e quella pioggerellina gli dava fastidio e qualche preoccupazione. Temeva che le micce soffrisse- ro l’umidità e potessero non bruciare bene. Continuò verso la piazza e si fermò nella zona d’ombra del lavatoio. Avrebbe atteso che tutte le ante delle fine- stre che davano sulla piazza venissero chiuse. Luce non ne sarebbe filtrata, essendo tutte mascherate per rispettare l’oscuramento.

XXI

Franz occupava l’ultima stanza a destra del corridoio che si affacciava sulla piazza. Il corridoio le sembrò interminabile, ma si accorse che ad ogni passo diventava più sicura di sé, come se camminare la ricaricasse. La porta della stanza era socchiusa e la luce che proveniva, probabilmente dalla abat-jour del comodino, illuminava una striscia del corridoio, quasi fosse un raggio di quel “fanal” nella traduzione di “Lili Marleen”, la struggente canzone d’amore e di guerra che in quel tempo era sulla bocca di tutti. Quel ricordo fece pensare a Benedetta che forse il suo non sarebbe stato un gesto pretta- mente fisico ma quasi un atto di carità verso quell’uomo da tanto, troppo tempo lontano da casa, a una età nella quale gli affetti, la tenerezza e la presenza dei famigliari, e soprattutto di una donna, assumono una grande importanza. Sentì che quello che stava per fare non era del tutto male e che rifiutarsi avrebbe voluto dire negare a Franz conforto ed aiuto.

XXII

Ripassò il piano che si era preparato. Sistemati i due candelotti di dinamite sotto la parte posteriore della vetturetta, avrebbe dato fuoco alle micce e sarebbe corso, il più velocemente possibile, nell’androne che portava al fienile dove l’Isaia, il macellaio, teneva le bestie di notte prima di macellarle all’alba. Nel fienile avrebbe passato la notte in quanto era troppo rischioso cercare di raggiungere la propria baita fuori paese. La mattina avrebbe deciso il da farsi.

(Continua…)

 

“L’orto fascista” Romanzo / 5

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XIV

Aveva parlato ai bambini e loro avevano accettato con entusiasmo. Il gioco e l’avventura li intrigava. Avevano eseguito le indicazioni del farmacista e si erano incontrati con il Russì. Preso il pacchetto di concime, lo avevano appoggiato in fondo al sacco da montagna e lo avevano ricoperto con delle foglie di fico e, sopra, quattro o cinque porcini che avevano raccolto.
Presa la strada per il paese, scesa la via S. Antonio, supera- to il “crusal”, erano giunti in piazza Mercato. Poi, giù verso il fiume, erano arrivati al gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, che era diventato un po’ il sostituto della maestra nella conduzione dei lavori e aveva la chiave del lucchetto, aprì la porticina.
Estrassero il pacchetto di concime dallo zaino e stavano per riporlo nel gabbiotto quando furono bloccati da quattro braccia robuste e ricoperte da una camicia nera. I proprietari delle braccia si impossessarono del pacchetto e tenendo ciascuno con una mano il collo di uno dei ragazzini, li costrinsero a seguirli sino alla Casa del Fa- scio, ove aveva sede il comando della Brigata Muti.
Qui i due ragazzi vennero legati strettamente ciascuno ad una sedia, in attesa che qualcuno cominciasse l’interrogatorio.
Furono preparati pinze per strappare le unghie, ferri da arroventare per marchiare chissà dove i ragazzi, spilloni per poter continuare le torture.
Di fronte a Ernesto e Mario, pure lui legato strettamente ad una sedia, vi era il Temperini, un Temperini tutto tremante ed ansimante.
Era sicuro che i suoi compagni di prigionia, sotto tortura, avrebbero spifferato tutto ai fascisti e lui sarebbe finito in un bel casino. Avrebbero sicuramente iniziato a torturarlo per conoscere il nome dei suoi complici, e lui sapeva di essere un vigliacco e di non sopportare il dolore. Li avrebbe denunciati e sarebbe passato alla storia co- me un traditore. Purtroppo, per chissà quanto tempo, qualcuno avrebbe ricordato la storia di quel fetente di farmacista che aveva, con le sue pretese da rivoluzionario, incasinato il paese e con la sua vigliaccheria mandato al patibolo almeno due dei più onesti e valorosi paesani.

Si guardò ancora in giro per illudersi di avere una possibilità di fuga. Le due finestrelle che illuminavano a sten- to la piccola stanza erano ad almeno tre metri dal pavimento. La porta era in pesante legno con una serratura a quattro mandate. Improvvisamente vi fu un forte rumore, come se qualcuno picchiasse violentemente contro la porta, e il farmacista pensò che stessero arrivando i suoi aguzzini. Il bussare continuò sempre più violento sino a quando, finalmente, il Temperini si svegliò dall’incubo, bagnato completamente di sudore.
Si alzò dal lettino, che era stato messo nel retro della farmacia per le notti di turno, si mise la vestaglia e si diresse verso il portoncino d’ingresso con le gambe che mal lo sostenevano. Aveva la bocca amara e la testa che gli doleva. Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti: quasi fosse reduce da una notte di grandi bevute. Aprì lo spioncino e per poco non gli venne una sincope: al di là della porta un viso arcinoto, quello dell’Hauptmann Reserve Franz. Questi guardò il viso terreo del farmacista con una strana espressione, poi tentò di sorridere e indicò al Temperini il gonfiore che aveva sotto la guancia destra. “Come dite voi? Scesso? Io molto dolore, non dormire. Possibile cachet? Scusare per disturbo. Grazie”. Aveva parlato tutto d’un fiato come se avesse preparato il discorso in anticipo scegliendo con cura tra le poche parole di italiano che conosceva.
Il farmacista non si scostava dalla porta, non riusciva proprio a comandare le gambe. Non sapeva come fare. Poi raccolse tutte le sue forze, fece un mezzo sorriso al tedesco, andò al banco, aprì un cassetto, prese una manciata di cachets e li mise in un sacchettino di carta. Ritornò alla porta e, attraverso lo spioncino, passò il sacchetto al tedesco.
“Gratis” disse con un altro mezzo sorriso, richiuse lo spioncino e andò a sedersi sulla sedia più vicina. Non aveva mai conosciuto il terrore ma adesso sapeva cosa fosse: si sentiva vuoto dentro, senza capacità di ragiona- mento né di difesa, incapace di muovere gambe e braccia mentre una paura angosciante lo avvolgeva tutto e lo faceva tremare e sudare.
Ma come avevano potuto pensare, lui ed il Russì, di coinvolgere in un fatto tanto grave dei bambini! Usarli, mettendoli in pericolo per raggiungere i loro scopi. Di una sola cosa ora era sicuro: mai e poi mai i bambini sarebbero stati coinvolti, anche a costo di abbandonare l’idea o di litigare con il suo amico.

 

XV

Un milite della Muti aveva iniziato a frequentare alla sera il bar Monte Grappa. Abitualmente si sedeva ad un tavolino, ordinava da bere e cercava di attaccare discorso con qualcuno degli avventori. Quasi sempre con scarso successo. I clienti non riuscivano a capire questa assidua presenza in un luogo a lui ostile e temevano che il milite avesse avuto ordine di tenere le orecchie bene aperte e cercare di carpire qualche
notizia compromettente. Una sera, dopo aver bevuto più del solito, e forse per cercare di attirare un po’ di attenzione, chiese al proprietario se tra i clienti fosse presente il Russì. Ricevuta risposta negativa soggiunse: “E fa bene a non farsi vedere troppo in giro. Lo teniamo sotto controllo e se lo becchiamo ad aiutare quegli stronzi di partigiani lo facciamo fuori”.
Il gelo cadde nel locale. Tutti avevano, o avevano avuto, rapporti col Russì. Tutti lo stimavano. Conoscendone il carattere e le idee politiche erano quasi sicuri che lui, se ne avesse avuta occasione, avrebbe aiutato chi stava lottando contro i tedeschi ed il Regime fascista. Il Russì fu immediatamente avvisato e se si spaventò non lo diede a vedere. Pregò chi gli aveva portato la notizia, un amico fidato, di avvisare il farmacista che aveva urgente bisogno di parlargli e di farsi trovare, se poteva, verso le 16 dal tabaccaio. Doveva assolutamente sembrare un incontro occasionale.
Dopo il sogno, il Temperini aveva preteso dal Russì, e questi aveva accettato subito, che i due ragazzi non sarebbero stati coinvolti. In effetti, anche lui ci aveva già pensato ed era giunto alla conclusione che se fosse successo qualche cosa al Mario e all’Ernesto, si sarebbero sentiti dei vermi e sarebbero stati emarginati da tutti gli abitanti del paese.
– Come ho fatto a pensare una cosa così folle? – si era detto. Al farmacista aveva promesso che si sarebbe interessato personalmente del trasporto dell’esplosivo in paese appena avesse trovato un luogo sicuro dove nasconderlo. Quando si incontrarono, anche il Temperini sapeva già quanto era stato detto dal milite.
“Non posso più farlo io” aveva detto il Russì senza preamboli. “Se mi stanno alla calcagna mi beccano subito. Purtroppo, caro amico, ci sono poche alternative. Deve farlo lei. Vedrà che organizzeremo in modo che non ci siano pericoli. Ci pensi e mi faccia sapere se accetta.” E se ne andò.

 

XVI

Il piano sembrava ben pensato. Martin Bascià aveva accettato di diventare uno dei protagonisti nella preparazione dell’attentato. Una mattina, all’alba, aveva raggiunto l’Orto Fascista e, accertatosi che nessuno lo vedesse, si era avvicinato alla piccola costruzione ove erano riposti gli attrezzi e aveva allentato le viti che sostenevano le pia- strine del catenaccio in modo che potessero essere rimosse a mani nude. Attaccato l’asino al carretto, aveva carica- to sul pianale una sedia rotta, una poltrona sfondata e qualche altro oggetto, tanto per far scena. Era quindi partito verso Pescarzo sulla strada che passava davanti alla chiesa di S. Maurizio. Pochi metri prima di trovarsi all’al-ezza della chiesa aveva fermato l’asino e si era chinato vicino alla ruota di sinistra del carretto, come a verificare se vi fossero problemi. In effetti aveva rimosso il forcellone che teneva la ruota ancorata al mozzo. Incitò l’asino e riprese la marcia ma, come aveva previsto, dopo pochi metri la ruota si staccò dal mozzo ed il carretto si inclinò sino a toccare terra con il fondo della sponda sinistra. Martin si mise ad urlare, fu una vera e propria sceneggiata. Imprecava e bestemmiava contro la mala sorte. Alle sue imprecazioni arrivarono di corsa tre uomini che, ben celati dagli alberi del vicino bosco, non aspettavano che quel segnale per fingere di arrivare in luogo solo per caso. Discusse con loro per qualche minuto, si caricò la ruota sulle spalle, prese un martello, salì i tre scalini antistanti il portico della chiesa, appoggiò la ruota sul lastricato e con il martello fece finta di ridare forma al cerchio che ricopriva il telaio in legno. Martellò, si fermò per riposarsi, parlò con i soccorritori che intanto stavano vuotando il pianale del carretto, diede altre due martellate e quindi sparì dietro il muretto del portico, sollevò il piastrellone che gli era stato indicato, si mise tre candelotti di dinamite sotto la giacca – uno in più può sempre servire, ce ne sono tanti! – rimise a posto il piastrellone, diede altri due inutili colpi al cerchio di ferro e scese gli scalini ritornando al mezzo. I tre aiutanti sollevarono la sponda del carretto e Martino rimise a posto la ruota ed il mollettone che la teneva ancorata al mozzo. Si rivolse ai tre uomini che lo avevano aiutato, prese dalla tasca il portafoglio, mimò di volerli pagare e loro rifiutarono; allora prese da un sacchetto che teneva legato ad una delle stanghe tre bottiglie di vino e le diede ai soc- corritori. Grandi sorrisi, ringraziamenti e pacche sulle spalle, i tre se ne andarono. Neppure loro si erano accorti di quello che aveva fatto Martin Bascià sotto il portico della chiesa. Rimasero perplessi e curiosi sulle ragioni della stranissima richiesta ricevuta.
– Quel Martin Bascià è veramente un po’ matto – pensa- rono e forse lo dissero tra loro. Lui, fischiettando, riprese il suo andare. Quando arrivò alle porte del paese si imbatté nel Temperini. Grandi saluti, il farmacista offrì una sigaretta, appese la giacca da cacciatore sul carro, si appoggiarono alla sponda e iniziarono a chiacchierare. Mentre parlavano Martino si aggirava intorno al carro simulando di mettere a posto le cose che trasportava, spostò anche la giacca del farmaci- sta facendola cadere, volutamente, a terra. Si chinò prontamente a raccoglierla. Mentre si trovava piegato mise i tre candelotti nella tasca posteriore della giacca, quella nella quale il cacciatore abitualmente ripone la selvaggina catturata, sfruttando il fatto che metà visuale era coperta dal carro, un quarto dal Temperini e l’altro qua to dalla sua schiena. Si scusò con il farmacista togliendo con leggeri colpi di mano quel poco di polvere che la giacca aveva raccolto dal terreno e quindi la porse al proprietario. Si salutarono con grande effusione e con gran- di sorrisi da parte di Martin che, ovviamente, era molto soddisfatto per come erano andate le cose.

Il farmacista invece aveva la bocca secca ed amarognola, un forte senso di nausea gli saliva dallo stomaco, le gambe, si accorse, non lo sorreggevano bene. Si incamminò verso la farmacia. Ad ogni angolo di strada si guardava in giro con fare circospetto temendo di vedere una coppia di tedeschi o una squadraccia della Muti a sbarrargli la strada. Giunto nei pressi della chiesa, ormai a poche centinaia di metri dalla farmacia, udì il rombo della vetturetta tedesca arrivargli alle spalle. Credette di svenire, ma appoggiandosi al muro che rasentava, riuscì a mantenersi in equilibrio. La vettura lo superò ma dopo qualche metro si fermò bruscamente. Dalla portiera destra scese l’Haupmann Reserve che gli andò incontro. Ormai stava succedendo l’irreparabile, si vedeva già ben- dato vicino al muro ove sarebbe stato fucilato. Invece sul viso del tedesco si aprì un grande sorriso.
“Caro dottore!” disse con la sua voce potente. “Grazie per suoi medicinali. Finita subito tortura di dolore. Io guarito. Grazie. Io spero di poter ricambiare” e battendo i tacchi e sollevando il braccio disteso urlò “Heil Hitler!” Senza attendere risposta – ma il Temperini non sarebbe riuscito a proferire parola mancandogli l’aria – si girò e risalì sulla macchina che si allontanò velocemente. “Tortura, ricambiare…” queste parole rimasero a lungo nella mente del farmacista. Con profondo raccapriccio il Temperini si rese conto di essersela fatta addosso. Non entrò in farmacia ma salì direttamente alla propria abita- zione. Prese della biancheria pulita dal cassettone della camera, un paio di pantaloni dall’armadio e delle pantofole. Si chiuse in bagno, si tolse con attenzione i pantaloni per non sporcarsi ulteriormente. Sfilò le mutande e le gettò direttamente nel gabinetto. Si vergognava con sé stesso per quanto era accaduto ma, in fondo in fondo, era anche sod- disfatto: aveva compiuto il primo atto eroico della sua vita. Pensando però che non era finita e che la seconda parte della missione sarebbe stata più pericolosa, gli venne un forte conato di vomito e cominciò a sudare freddo. Come era stata bella la sua vita da farmacista riverito e rispettato da tutti. Perché mai si era messo in testa, lui così accomodante con tutti, che non aveva mai avuto un litigio, ma neppure una vera discussione con nessuno, di fare il rivoluzionario? Pensava di sentirsi rinfrancato dalla presenza di quei tre candelotti di dinamite in tasca, forte, pronto a dare una svolta alla vita della valle, una lezione ai tedeschi invasori, una prova di forza che sarebbe pas- sata alla storia ed invece si sentiva incapace anche di comandare al proprio corpo.
Quella sera stessa avrebbe portato a termine il suo compito e poi che andasse come a Dio sarebbe piaciuto. Lui la sua parte l’aveva fatta ed era, forse la più pericolosa. Finì di lavarsi, fece a pezzi i pantaloni con la forbice che si trovava sulla specchiera e li gettò nello scarico. Non avrebbe saputo spiegare l’accaduto senza vergognarsi e senza dover dare spiegazioni.
Rivestitosi si recò al bar. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte anche se al suo stomaco non avrebbe giovato. Nell’attraversare piazza S. Antonio ed entrando nel bar gli sembrò che gli sguardi che attirava fossero di ammi-razione ed i saluti che riceveva più ossequiosi e riverenti del solito. Che in giro si sapesse già dell’atto coraggioso compiuto e di quanto altro ancora doveva coraggiosa- mente affrontare.

Questo gli permise, anche se sapeva che in effetti doveva essere solo una sua illusione, di sentirsi rinfrancato. Ma se tutto fosse andato come programmato, allora sì, sarebbe passato alla storia tra i brenesi illustri. E allora gli sguardi di ammirazione, gli ossequi e le scappellate ci sarebbero state davvero.
Passò tutto il pomeriggio al bar, dormicchiando, chiacchierando con qualche avventore, facendo un solitario dietro l’altro e affidando la riuscita o meno del gioco a una risposta di come sarebbe andata a termine la sua missione. Quando il solitario riusciva, attraversava momenti di allegria, il successivo non riusciva e ricadeva nella paura, e così via.
Quando vide, attraverso i vetri del bar, che si stava abbassando la serranda della farmacia, rincasò. Si sedette a tavola e senza scambiare parola con la figlia e con la cameriera, mangiò la minestrina che gli servivano, un pezzo di formaggio e una pera che proveniva dal suo “brolo”. Finì il suo bicchiere di vino, si alzò, comunicò alle due donne “Io esco” e se ne andò.
Dall’istante in cui si era infilato la giacca con i tre candelotti nella tasca posteriore a quando era rientrato in far- macia, dopo aver lasciato l’esplosivo nel gabbiotto del- l’Orto Fascista, il Temperini non si ricordava nulla. Ave- va agito come un automa. Non ricordava di aver attraversato la piazza mercato, di aver incontrato qualcuno lungo il suo percorso, di aver messo i candelotti nel gabbiotto, di essere ritornato sui suoi passi. Niente. Aveva annullato quei momenti della sua vita come se non li avesse vissuti. Forse, in effetti il suo corpo aveva camminato, portato i candelotti, rimosso le viti della porticina del piccolo ripa- ro degli attrezzi, depositato i candelotti, richiuso la porticina, risistemate le viti, ripercorso la strada, rientrato in farmacia mentre la sua mente, anestetizzata dal terrore, si era rifiutata di partecipare e di registrare quanto avveniva. In fin dei conti meglio così. Non aveva sofferto.

 

XVII

Era stata una lunga giornata passata in mezzo ai boschi, sotto la pioggia, alla ricerca di un deposito di armi segnalato da una lettera anonima. C’erano ancora degli italiani che professavano lo spionaggio, vigliacca- mente, senza esporsi ma per facilitare l’egemonia delle forze occupanti, nonostante queste apparissero sempre più spietate. Quale sarebbe stato il futuro dell’Italia traditrice se le forze armate tedesche avessero avuto, insperatamente, il sopravvento finale nella guerra in corso?
Quella di serva del nazismo? Questo si chiedevano. Tuttavia nulla era stato trovato, anche se le ricerche, effettuate insieme a diversi membri della Brigata Muti, erano state meticolose e il posto controllato fosse sicura- mente quello indicato dalla segnalazione.
Invece i tedeschi erano rientrati all’albergo che li ospitava stanchi, bagnati e delusi. Qualcuno aveva anche sospettato che la lettera fosse stata uno scherzo e questa possibilità li aveva notevolmente innervositi. Franz, il Comandante, e Bernd, dopo essersi scaldati con un fornellino che funzionava con pastiglie Meta, una tazza di quella brodaglia che si continuava a chiamare caffè solo per abitudine, si erano spogliati e avevano steso le loro divise su una corda tesa tra i due letti. Chissà perché quando due uomini si trovano soli in una stanza seminudi, tra di loro si creano una certa intimità e una predisposizione a lasciarsi andare alle confidenze. Quando Bernd confidò al suo Comandante che era riuscito a conoscere una ragazza italiana che si era invaghita di lui – che in effetti era un gran bel ragazzo con uno smagliante sorriso a 32 denti bianchissimi – Franz prese al volo l’occasione per accennare ai suoi progetti.

Lo fece con estrema cautela, ma Bernd si appassionò immediatamente all’argomento. Anche lui provava un gran- de affetto verso il suo capo, affetto e riconoscenza per come era trattato. Anticipandolo, si dichiarò più che disponibile, qualora ve ne fosse l’occasione, a lasciare libera la stanza anche per una notte intera.
“Un posto per dormire da qualche parte in albergo lo trovo sempre. E lei sa che io posso dormire anche per terra” disse infervorandosi tutto. Franz, allora, spiegò quali erano i suoi progetti, raccontando le avances che aveva fatto a Benedetta, che le aveva accettate dimostrandosi ben disposta ad un incontro che, sicuramente, non sarebbe stato solamente romantico. La cosa si sarebbe potuta concretizzare al più presto, continuò il Comandante, ma era da scartare il fatto che Bernd occupasse un qualche luogo dell’albergo. Avrebbe sicuramente destato la curiosità di chi ne fosse venuto a conoscenza. “Non rimane che la macchina” disse Franz, “se non hai nulla in contrario”. “Assolutamente no!” rispose Bernd. “Ma desidero, Her Komandant, che questa mia partecipazione sia un atto di dovuta riconoscenza per il trattamento che Ella mi ha sempre riservato” continuò trattenendo, a stento, il desiderio improvviso che gli era venuto di abbracciare il suo capo. Si vede che anche i duri soldati tedeschi sono capaci, a volte, di dimostrare un briciolo di tenerezza. Quella notte Franz sognò sua moglie nelle sembianze di Benedetta, nuda, tra le sue braccia che gli sorrideva e gli diceva “Ti amo” mentre prendeva tra le mani il suo membro eretto. Alla mattina, con estremo imbarazzo, trovò le lenzuola ancora umide e sporche del suo liquido seminale. Dapprima ne fu inorridito – cosa avrebbe pensato Benedetta vedendo le macchie nel rifare il letto? – Ma poi gli venne da sorridere con nostalgia. Una cosa del genere non gli era più successa dai tempi della sua gioventù. E a Benedetta poteva quasi sembrare un richiamo d’amore e, comunque, la prova della sua ancora intatta virilità.

 

(continua…)

 

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 3

Questo romanzo è pura opera di fantasia. I luoghi citati appartengono solo alla geografia dell’invenzione letteraria. Nomi, personaggi, fatti e avvenimenti sono invenzioni dell’autore e hanno soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

***

VI

 

Quell’anno la famiglia di Ernesto non aveva trascorso l’abituale vacanza al mare. Tutti erano preoccupati per le vicende politiche e della guerra in corso che non lasciavano spazi a programmi festaioli. Però alla fine di agosto suo papà era riuscito a trovare qualche giorno di riposo e fu così che, in fretta e furia, la famiglia fece i bagagli per dieci giorni di vacanze in alta Val Camonica, a Pezzo, un paesino nei pressi del Passo del Tonale. Poco più di quattro case con un alberghetto dal nome pretenzioso “Alte vette” ma che era poco più di una locanda. Le camere avevano un arreda- mento approssimativo, ma la cucina era buona e il paesaggio stupendo: fitti boschi, ruscelli e pascoli pieni di vacche che attendevano l’inizio dell’autunno per scendere a valle lasciando gli alpeggi. Una mattina, all’alba, una vettura di servizio era arrivata in albergo a prendere suo papà per portarlo al Comando dei Carabinieri di Brescia. Era successo qualcosa di vera- mente grave, che però Ernesto non comprendeva completamente: il piccolo, borioso e pauroso Re d’Italia e Imperatore di Etiopia, preso dalla paura per l’imminente invasione dell’Italia da parte delle truppe americane e inglesi, aveva firmato l’armistizio con i nemici abbandonando gli alleati tedeschi. Poi, il Re Cialtrone, tremante ma abbastanza lucido da portare con sé tutti i beni possibili, compresa la sua collezione di monete dal valore inestimabile, era fuggito per mare, a bordo di un incrociatore, lasciando nei guai più assoluti i suoi sudditi, ma soprattutto i soldati che gli avevano giurato fedeltà. I generali non sapevano come comportarsi e i soldati, che si sentivano abbandonati, avevano in massa gettato le divise dandosi alla macchia.
Intanto i tedeschi, traditi dagli italiani, con le truppe inviate in Italia dopo il 25 luglio di quell’anno – quando Mussolini era stato arrestato per ordine del Re e l’al- leanza con l’Italia stava traballando – avevano occupato, con la perfetta organizzazione che possedevano, tutti i punti chiave, compreso il Comando della Legione Carabinieri di Brescia.
Molti dei soldati che avevano lasciato l’esercito avevano cercato di rientrare ai loro paesi di origine. Altri, non sapendo dove andare né a quale santo votarsi, avevano lasciato le città, dove potevano essere facilmente riconosciuti a causa della giovane età, prendendo la via delle valli e delle montagne. In Val Camonica ne erano arriva- ti parecchi. Erano stati accolti con simpatia e con amore dai contadini e dai pastori che riconoscevano in loro i figli che si trovavano al fronte o che avevano perso nel corso della guerra.
Ben presto i tedeschi emanarono una legge marziale intimando ai fuggiaschi di rientrare nei ranghi, pena la morte. Pochi risposero all’invito, preferendo rischiare la pelle in attesa dell’arrivo dei liberatori anglo-americani piuttosto che combattere agli ordini di chi ritenevano ora fosse il vero nemico. Infatti si cominciava a diffondere la voce che i tedeschi non avevano accolto a braccia aperte come avevano promesso, i soldati rientrati nelle loro caserme. Buona parte di loro, infatti, era stata avviata in campi di concentramento e di sterminio in Germania.

Anche a Breno arrivarono sei militari tedeschi, tutti uomini di una certa età tranne Bernd, un giovane che aveva fatto domanda di entrare nell’esercito tedesco non- ostante fosse riformato perché gravemente menomato alla mano destra. La perdita di tre dita, indice, medio ed anulare non gli permetteva di premere il grilletto di nessun tipo di arma da fuoco.
Erano giunti a bordo di una di quelle vetturette che ave- vano proprietà anfibie e che si arrampicavano sui sentieri montani con estrema facilità, oltre a una motocicletta munita di sidecar che nessuno in paese aveva mai visto. Si erano installati in tre camere dell’albergo Fumo in piazza del Mercato, proprio vicino alla vecchia casa dei nonni di Ernesto. A vederli sembravano dei bonaccioni, ma gli ordini che avevano ricevuto erano feroci e dove- vano essere eseguiti senza esitazione. Avevano il compito di individuare e catturare i partigiani, interrogarli anche con la tortura, e quindi passarli per le armi. Avevano l’appoggio incondizionato della Milizia Fascista, special- mente delle Brigate Muti che avevano già avuto occasione di dimostrare la loro ferocia.
Una delle prime operazioni di rastrellamento era avvenuta a Bienno, dove, con l’aiuto di quel Parroco che il Cappelletti voleva segnalare ai fascisti, erano stati accolti alcuni fuggiaschi. Si vociferava del coinvolgimento di don Pompeo, tanto amico dell’OVRA. L’intervento dei tedeschi e dei loro collaboratori della Muti era stata immediata. Furono presi degli ostaggi e minacciati di morte, ma la reazione degli abitanti del piccolo paese fu violenta, per quanto potesse esserlo la reazione di uomini e donne armati solo di attrezzi agricoli contro tedeschi e fascisti ben forniti di armi per quei tempi ritenute sofisticate. I morti furono parecchi e anche qualcuno delle Brigate Muti ci lasciò la pelle. Nel giro di pochi giorni il clima della valle era completamente cambiato: da una sonnolenta esistenza ad una situazione di guerra.
I tedeschi, con i soli due veicoli, pochi ma efficientissimi, si spostavano velocemente da una parte all’altra della valle e avevano il controllo delle principali vie di comu- nicazione. Qualche volta si inoltravano nei sentieri che salivano verso i monti per rapide incursioni.
Anche al bar Monte Grappa l’atmosfera era cambiata. Non più allegri pomeriggi e serate all’insegna del vino e delle battute salaci, ma incontri tra uomini che più non si fidavano dei vecchi amici; dove i sospetti, magari generati da una parola di troppo, rendevano tutti insicuri e timo- rosi. Persino il farmacista era sempre triste: gli avevano sequestrato il fucile da caccia proprio all’inizio della stagione venatoria e non aveva più la possibilità di raggiungere i casolari isolati per le sue avventure senza rischiare di essere intercettato dai tedeschi. L’andare e venire dal paese senza uno scopo evidente poteva portare a gravi sospetti. Il coprifuoco, imposto dai fascisti, obbligava tutti ad esse- re a casa alle nove di sera. E chi, come il Temperini, aveva un letto freddo, ne era particolarmente colpito.

 

VII

Le lezioni erano riprese nelle piccole aule della scuola di Breno, in ciascuna si accalcavano oltre trenta scolari. Alla signora maestra Lucia quell’anno toccava insegnare alla quarta classe. Erano quasi tutti maschi: le femmine avevano abbandonato la scuola in gran numero alla fine del primo ciclo. Gli scolari appartenevano a tutte le classi sociali: figli di contadini, di operai della Fonderia Tassara – l’unica grande fabbrica del paese – di qualche commerciante e di un paio di professionisti. L’unico nuovo allievo, Ernesto, veniva da Brescia: era il figlio del Comandante del Gruppo dei Reali Carabinieri della città. La sua famiglia, tranne il padre che aveva dovuto restare al suo posto di comando, si era trasferita a Breno per sfuggire ai bombardamenti, accolta nella grande casa del nonno materno, personaggio molto importante e conosciuto in tutta la Valle Camonica essendo un Generale degli Alpini in pensione.
Ernesto era un bambino molto più alto della media, magro magro. Si sentiva spaesato tra i nuovi compagni che comunicavano tra loro quasi sempre in un dialetto per lui incomprensibile. Quando poi si seppe che era nato a Bengasi, in Libia, divenne quasi un’attrattiva per tutti i bambini, guardato con rispetto ma anche con sospetto. Tutti pensavano che non fosse uno di loro. Anche la maestra aveva una sorta di riverenza nei suoi confronti: sia perché papà e nonno erano delle personalità impor- tanti, sia perché la famiglia era culturalmente avanzata ed avrebbe potuto valutare con senso critico il suo operato. D’altra parte insegnare in una classe nella quale vi erano figli di persone assolutamente analfabete e figli di famiglie acculturate non era sicuramente facile. Bisogna- va avere tatto, rispetto e pazienza con i primi rimanendo vigili affinché gli altri non si annoiassero ripetendo più volte cose, per loro, ovvie. E poi una buona maestra doveva anche fare in modo che gli scolari socializzassero tra loro, eliminando le differenze tra gli strati sociali. Bi- sogna dire che Lucia in tutto questo metteva un lodevole impegno avendo vissuto sulla propria pelle, lei, figlia di un netturbino, grandi disagi.

Quando Ernesto cominciò a stringere le prime amicizie e a frequentare i nuovi compagni anche fuori dalla scuola, si accorse di quante cose non sapesse della vita. Uno degli argomenti più trattati era il sesso. I figli dei conta- dini sapevano tutto sugli accoppiamenti degli animali, sia bovini che cani o gatti, ma anche quello che succede- va molto spesso nel letto dei loro genitori in quanto, data la ristrettezza delle loro abitazioni, a volte dormivano tutti nella stessa camera.
Lui non capiva molto bene l’importanza di questi argo- menti in quanto non si era posto mai il problema di sapere se fosse stato concepito e tanto meno come. Ma la cosa fece violentemente irruzione nei suoi pensieri quando, un sabato pomeriggio, recatosi con tutti i ragazzi del paese che avevano già ricevuto la prima comunione, a confessarsi, il vice Parroco, don Arlocchi, gli chiese se “si era toccato”. Lui ci pensò su bene, senza capire il senso della doman- da. Sapendo che non poteva mentire e che sicuramente si era toccato lavandosi le mani, la faccia, le gambe, rispose di sì. Il vecchio prete gli fece una predica conci- tata della quale lui non capì il significato, tranne che queste cose non si fanno e gli comminò, come penitenza, sette Pater, Ave e Gloria.
Ernesto uscì dalla chiesa che quasi si sentiva male. Come avrebbe potuto continuare a vivere? Fu il Mario Bertolasi a dargli il primo aiuto. Vedendolo così di cattivo umore e ben avendo sperimentato l’Arlocchi, capì subito che qualcosa era successo in confessionale. Gli si avvicinò e, senza preamboli, gli chiese:
“T’ha dumandà se te set tucà l’usel? L’ha vulu anche sapee’ come e se te ghel faseved vide?”
Il povero Arlocchi, che nonostante il suo caratteraccio, era in effetti una gran brava persona, era tacciato di tendenza alla pedofilia dagli stessi ragazzi che lo frequentavano e che lui, soprattutto in confessionale, tendeva ad abbracciare ma per puro affetto. Non si era sentito dire che avesse mai avuto altre confidenze con i bambini. L’unica cosa strana era che si infilava, sempre con qualche scusa, negli spogliatoi dell’oratorio quando, dopo qualche partita di calcio o qualche altro gioco prolungato chi, avendo a disposizione vestiti di ricambio – ed erano in pochi – li sostituiva con quelli sporchi di sudore. Di docce, a quei tempi, non si parlava neppure. Ernesto rimase alquanto imbarazzato. Ammettere di non aver capito cosa significava la domanda del prete valeva anche come ammissione di non sapere niente del proprio corpo e dei suoi stimoli. I pensieri gli frullavano in testa sconclusionatamente e lui non riusciva a dar loro un ordine logico né una priorità. Guardò con qualche riconoscenza il compagno, ma non aveva coraggio di raccogliere il suo aiuto e si allontanò senza salutarlo.

A casa disse alla mamma di avere mal di stomaco e all’ora di cena preferì andare a letto senza aver mangiato. In effetti voleva star da solo e ripensare a tutti gli eventi della giornata mettendo un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Ma non sapendo da dove cominciare ben presto si distrasse e si addormentò. La mattina dopo a scuola, durante l’intervallo, mentre mangiucchiava due fichi secchi ed una noce – la meren- da tanto invidiata da alcuni compagni che non avevano nulla – gli si avvicinò il Bertolasi che senza altri preamboli gli chiese:
“Ma tu una donna nuda l’hai mai vista?” “No” fu la secca risposta.- Ma che interesse può avere vedere una donna nuda? – pensò Ernesto che però rimase assai turbato.
Per tutto il resto della mattinata non prestò alcuna attenzione alle lezioni perché la domanda del compagno continuava a rigirargli in testa. All’uscita della scuola il Bertolasi lo raggiunse mentre svelto se ne stava tornando a casa e gli disse: “Se vuoi il Sergino ti fa vedere sua mamma” e senza attendere risposta si unì a due amici mettendosi a gioca- re a spallate.
Dopo pranzo, finiti i compiti, Ernesto scese in piazza, proprio sotto casa, dove tanti bambini si ritrovavano per giocare a pallone, con una povera palla fatta di stracci, o a “chi manda in gozza cagna. Questo gioco molto in voga in paese si praticava con delle palline di terracotta. Si faceva una piccola buca, a volte togliendo un sasso dall’acciottolato. Da un paio di metri dalla buca si lanciava la propria pallina e chi riusci- va a sistemarla più vicino alla buca stessa giocava per primo. Doveva colpire con la sua pallina quella dell’av- versario o degli avversari e ad ogni impatto contava “tre!”, “sei!”, “nove”, sino a “18”. Si doveva quindi tirare in buca la pallina. Chi riusciva faceva – non si capisce perché, se non per la rima – “pancotto”. Se si sbagliava un colpo toccava all’avversario giocare. Chi riusciva a fare “pancotto” vinceva le palline degli avversari.
Le biglie erano molto fragili e, essendo probabilmente fatte a mano, di forma molto irregolare. L’urto contro i sassi dell’acciottolato le scheggiava o, addirittura, le rompeva. Ovviamente chi rimaneva senza palline non pote-va giocare e quindi cercava di scambiare qualsiasi cosa per procurarsele.
Il Sergino, che non era un gran giocatore e di palline ne perdeva molte, aveva inventato uno scambio semplice e proficuo. Tutti i sabati pomeriggio sua madre, una gran bella signora con ampie curve, si lavava nel bagno di casa che era dotato di una delle poche vasche del paese. I bat- tenti della porta del bagno erano sovrastati da una finestrella di vetro, attraverso la quale si poteva vedere tutto quello che avveniva all’interno. Il Sergino trasportava fuori della porta una leggera scala di legno e, dietro pagamento di un determinato numero di palline, lasciava salire sulla scala, nel massimo silenzio, il pagatore a godersi lo spettacolo.

Quel giorno non gliene andava bene una: perse quattro partite di seguito e tre palline, nell’urto contro i sassi, si ruppero miseramente. Era arrabbiatissimo ed invidioso dell’Ernesto che, si vedeva, aveva una tasca piena di palline e continuava ad aumentarne il numero vincendo una partita dietro l’altra.
“Domani è sabato” disse il Sergino ad alta voce perché tutti i bambini lo sentissero. Tutti smisero di giocare e scese un gran silenzio. Ciascuno mentalmente fece il conto di quante palline potesse offrire per poter fare da spettatore. Il Bertolasi parlò per primo e disse: “E’ ora che ci venga l’Ernesto. Io penso che ti possa dare venti palline!”
Un “ohh” meravigliato uscì dalle bocche dei presenti. Venti palline erano una piccola fortuna! Il Sergino guardò l’Ernesto che era rimasto frastornato – ma ormai il destino aveva già deciso per lui – con estremo interesse e poi allungò verso di lui le due mani avvicinate a coppa. Contò le venti palline e le diede al compagno di giochi. “Alle cinque” disse il Sergino e trionfante si allontanò dal gruppo. Alle cinque meno un quarto l’Ernesto si presentò a casa dell’amico. Provava una strana sensazione: gli pareva di non essere presente totalmente con la mente e di navigare su un mare non completamente calmo che gli dava, insieme a una lieve sensazione di vertigine, un po’ di nausea. Non sapeva esattamente cosa andasse a vedere né quanto gli interessasse, ma sapeva che DOVEVA andarci. Suonò alla porta che si aprì immediatamente, come se Sergino fosse dietro la stessa in attesa. Imboccarono un lungo corridoio ed entrarono in una stanza mettendosi a giocare con delle figurine, in attesa di veder passare la mamma diretta verso il bagno che si trovava in fondo al corridoio.
Non dovettero aspettare molto. Con l’immancabile sigaretta tra le labbra, fasciata in una vestaglia rosa, la donna passò davanti alla porta senza interessarsi né del figlio né dell’ospite. Sembrava leggermente in trance, forse appena risvegliatasi da un sonnellino pomeridiano.
Entrata nel bagno la porta fu chiusa a chiave. Sergino corse a prendere una leggera scala di legno che appoggiò sulla parete a lato della porta. Chiamò a gesti l’Ernesto, si pose il dito indice sulle labbra a raccomandargli di fare silenzio e, dopo avergli indicato di salire sulla scala, se ne andò correndo senza far rumore.
Ernesto salì lentamente, quasi controvoglia, sino alla finestrella. Gli era venuta una violenta paura di andare a vedere cose “proibite”, ma soprattutto di essere scoperto. In un attimo vide la madre di Sergino raccontare alla sua come e dove l’aveva sorpreso. Sua mamma che, scoppiata in lacrime, lo guardava con dolore e disprezzo con quei suoi occhi verdi che già di solito, difficilmente, esprime- vano affetto. Ma si fece coraggio e guardò: la donna stava inginocchiata davanti allo scaldabagno. Una stufa alta circa un metro e mezzo, di forma cilindrica, ricoperta da un lungo tubo di rame che saliva a serpentina verso l’alto e dentro al quale, evidentemente, scorreva l’acqua da scaldare. La donna stava accendendo il fuoco con un pezzo di giornale e qualche ramoscello secco: aggiunse tre o quattro pezzi di legna e richiuse lo sportello. Si rialzò ed andò davanti allo specchio. Diede con le dita qualche col- petto alla capigliatura quasi a volerla aggiustare e, volgendo con malizia la testa un poco verso destra e poi verso sinistra, rimase a contemplarsi con sulle labbra un leggero sorriso di soddisfazione. E aveva ragione, pensò Erne- sto: aveva veramente un viso ben formato, occhi chiari e vivissimi, un sorriso smagliante nonostante le tante siga- rette che fumava da anni.

Poi si tolse la vestaglia, rimanendo nuda, dando le spalle alla porta. Ernesto, preso alla sprovvista, per poco non ruzzolò dalla scala ma, ripresosi, scese con lo sguardo lungo il corpo esposto totalmente alla sua vista, fermando- si a rimirare le chiappe, un po’ grosse, ma ben tornite. La sua attenzione fu immediatamente attratta da qualcosa di più interessante: i seni riflessi dallo specchio. Lei appoggiò le palme delle mani sotto di loro quasi a soppesarli, li spin- se verso l’alto e quindi uno contro l’altro. Intanto aveva cominciato a canticchiare con quella voce, leggermente rauca, che tanto arrapava gli uomini. Un leggero sorriso di soddisfazione confermò che anche questa parte del corpo riceveva l’approvazione della sua proprietaria.
Infine quel corpo nudo si voltò ed Ernesto rimase a bocca aperta quando vide una selva di peli biondi e ricci, a forma di triangolo, che scendevano da pochi centimetri sotto l’ombelico sino all’inizio delle cosce. E sotto o so- pra i peli nulla, nulla di lontanamente paragonabile a quello che aveva lui in quella posizione. Anzi, PROPRIO ASSOLUTAMENTE NULLA!
La donna fece due passi avanti e si mise a sedere sul water. Poi si udì chiaramente il rumore del liquido che usciva dal suo corpo. Aveva fatto pipì. Ma da dove era uscita? Non gli rimase che pensare che le donne fossero come le mucche, che aveva visto tante volte fare i loro bisogni, liquidi o solidi che fossero, usando sempre lo stesso buco. Ma ci avrebbe ripensato poi, adesso era troppo occu- pato a guardare quel corpo che gli veniva offerto, vera- mente in tutta la sua nudità. Lei lasciò il water, lo richiuse con la tavoletta e si avvicinò allo specchio prendendo dalla mensola un paio di pin- zette. Iniziò a togliersi qualche pelo dalle cosce e poi scese sotto le ginocchia. E poi più in basso. Ma per comodità si risedette sul water, alzò la gamba destra e appoggiò il piede sulla parte anteriore della tavoletta. E fu allora che Ernesto la vide: una ferita, aperta, rosea che iniziava da sotto i peli e finiva giù quasi all’attaccatura delle natiche. Questa volta non rimandò il proponimento di cercare di capire in un secondo momento. La cosa lo intrufolava troppo, doveva vedere bene e, se possibile, capire.

Purtroppo la depilazione della parte inferiore della gam- ba durò poco tempo, ma a lui il tempo sembrò ancora più breve.
Iniziò poi la depilazione della gamba sinistra ma, quando fu raggiunta la posizione che Ernesto tanto attendeva, dalla sua angolazione non si riusciva che a vedere la parte laterale della coscia sinistra e una chiappa. Un leggero sudore, lui che non sudava mai, cominciò a bagnargli le spalle e uno strano formicolio si fece sentire nella zona del basso ventre. Ma lui non poteva ancora capire da cosa, effettivamente, queste due sensazioni derivassero. L’acqua, finalmente calda, aveva cominciato a scendere nella vasca e quel corpo nudo, bagnato ed insaponato pareva ancora più bello. La donna si massaggiava tutto il corpo insaponandosi e traendone un evidente piacere. Alla fine uscì dalla vasca e, aiutandosi con un telo azzurro che ben si addiceva al colore dei suoi capelli, a quello dei peli e della pelle, cominciò ad asciugarsi con lenta lascivia. Prima il seno, le spalle, poi il ventre, i peli del pube e poi… e poi si dedicò alla ferita che per un mo- mento apparve ad Ernesto, leggermente aperta, rosea. Come un fiore di primavera! A questo punto non ce la fece più, scese dalla scaletta e fuggì via.

VIII

Un gigante dagli occhi verdi e dai capelli rossi, una leggenda tra i pastori dell’alta valle che lo consideravano il loro re. Uno che non sbagliava mai l’accesso a un pascolo, che non aveva mai perso una bestia in vita sua, che era capace di caricarsi in spalla un vitello, nato prematuramente, e portarlo, camminando ore e ore, alla
stalla a valle perché ricevesse le necessarie cure.
Era il padrone delle montagne che dividevano la Val Camonica dalla Val di Scalve. A lui si rivolgevano i gros- si allevatori per affidare le vacche da portare agli alpeggi, sicuri per la loro incolumità e perché fossero fatti onesti conti sul formaggio prodotto dal latte dei loro capi. Ma anche escursionisti che volevano raggiungere le alte vette che si affacciavano sulla valle, senza correre grossi rischi. Sapeva in anticipo di ore se il tempo sarebbe cambiato, conosceva le pareti ove era possibile raccogliere le stelle alpine, dove aveva fatto il nido il gallo cedrone o il for- cello, dove cacciare, d’inverno, le lepri dal mantello bianco, le grasse marmotte o quei pochi daini che erano rimasti. Sapeva cucinare i peluc raccogliendoli al momento della giusta maturazione, annegandoli nel burro di baita che ha quel poco di profumo di affumicato che esalta il palato. Peluc e polenta: un piatto da grande intenditore. La mascherpa, pur nella sua povertà, fatta da lui aveva quel qualcosa in più da essere richiesta dalle ricche famiglie del bresciano.
Uno di quei personaggi dei quali, come si dice, si è perso lo stampo. Il suo corpo emanava uno strano odore, non di sporco, ché ci teneva moltissimo alla pulizia persona- le, ma quasi di selvatico, un odore che piaceva alle donne (e molte, anche tra le così dette della buona società, se ne dovevano essere impregnate in esaltanti incontri amorosi) ma che gli permetteva anche di poter avvicinare gli animali che cacciava a distanze molto inferiori a quelle che erano consentite agli altri cacciatori.
La sua pazienza negli appostamenti era proverbiale. Riusciva a stare ore fermo alla posta in attesa che la preda, ormai sicura di non essere braccata, gli arrivasse a porta- ta di tiro, un solo tiro, che quasi sempre risultava morta- le. Vederlo tirare al gallo cedrone in volo, quando scendeva rasente le cime degli alberi dalle vette a 100 chilo- metri all’ora, era uno spettacolo che, purtroppo, era con- cesso a pochi. Lui e il suo bracco, di nome Diana, erano veramente leggendari.
Aveva più di sessant’anni ma ne dimostrava venti di me- no con quel fisico possente, ancora elastico nel camminare e nell’arrampicarsi.
Nemico da sempre dei tedeschi, o comunque di tutti quelli che parlavano quella lingua dura adatta solo al comando, che gli avevano ucciso il fratello, nei primi giorni di battaglia della guerra ’15-’18.Aveva odiato Mussolini da quando si era alleato coi cruc- chi per combattere le altre nazioni europee. L’arrivo dei militari, alleati o occupanti a seconda dei punti di vista, in paese lo aveva reso ancora più restio a venirci se non quando aveva necessità di qualcosa di urgente. E quel giorno ci stava andando per rifornirsi di sale, tabacco e fiammiferi. Sarebbe stata una visita breve dal solo tabac- caio, se non avesse fatto due incontri che gli cambiarono la vita per molto tempo.

Appena finito il viottolo che portava al Cerreto del mat Ruscun e arrivato in piazza S. Agostino, vide venirgli in- contro, uscito precipitosamente dalla farmacia, il dott. Temperini. I due, vecchi compagni di escursioni, grandi bevute e battute di caccia, neppure si salutarono. Il farmacista, quando gli arrivò a pochi metri, gli sussurrò: “Andiamo a bere un bicchiere che ho da parlarti”.
Entrarono nel bar, vuoto a quell’ora della mattina, si diressero al bancone e, fattosi dare un bicchiere di vino, si accomodarono a un tavolo d’angolo. Il farmacista entrò subito in argomento:
“Russì, così non si può andare avanti, siamo diventati tutti delle signorine. Capisci, sei tedeschi tengono in scacco tutto un paese, tutta una valle… e noi non facciamo niente. Cacciamo giù tutto come se fosse una cosa naturale. A quelli dobbiamo dare una lezione”. Il Russì lo guardava serio, continuando a muovere lo sguardo a destra ed a sinistra per controllare che nessuno li ascoltasse, ma era attento e continuava ad annuire alle parole del Temperini. “Con quella maledetta macchina corrono su e giù per la valle tutto il giorno e ci tengono tutti sotto controllo; non si può uscire dal paese perché quelli della Muti gli danno una mano e all’improvviso te li trovi davanti in qualsiasi viottolo che va verso i monti. E se ti fermano, vogliono i documenti… e perché si trova qui? e da dove viene? e cosa c’è nella borsa? e di qua e di là. Russì, son tre mesi che non scopo, non riesco più ad andare a trovare le mie ami- che! Ma non è per quello, è che se ci caghiamo tutti addosso per noi è finita. Nel ’18 avevamo conquistato un po’ di dignità, ma ora l’è finita sotto i piedi!” Il Russì stette in silenzio un paio di minuti e poi disse, sottovoce ma risoluto:
“Gli facciamo saltare in aria la macchina!” Il farmacista sgranò gli occhi, lo guardò fisso e poi, menandogli una gran botta su una coscia, si mise a ridere e a voce altissima gli disse:
“Cristo, sei sempre il migliore”, pensando scherzasse. Poi lo guardò meglio in faccia e dalla sua espressione, così dura, capì che la decisione era seria, forse maturata da tempo come se tutto fosse già programmato, qua- si già avvenuto. “Fermati al Fumo che ci mangiamo qualcosa insieme. Andiamo nella tana del lupo così nessuno dubiterà di niente. Ci vediamo a mezzogiorno” disse il farmacista diventato a sua volta teso e pensieroso. Russì fece un cenno di assenso, si alzò e, mentre il farmacista si avvicinava al banco per farsi riempire nuovamente il bicchiere, uscì dal locale. I discorsi del farmacista gli avevano risvegliato pensieri che gli giravano nel cervello da tanto tempo. Pensieri che non aveva mai elaborato ma che erano sicuramente dettati da un profondo stato di disagio e che ora lo stimolavano, fortemente, a fare qualche cosa. Adesso aveva fretta, già che era in paese, era meglio se riusciva ad incontrare le persone giuste per poter cominciare a programmare l’attentato. Come sempre quando avvistava una preda si lasciava prendere dalla smania di iniziare l’inseguimento – in questo caso la preparazione – per raggiungere lo scopo. Mentre parlava col farmacista gli era venuto in mente che un aiuto impor- tante poteva venire dal Martin Bascià, che lui conosceva come un fratello e del quale si fidava completamente.

IX

Martin Bascià era arrivato in paese intorno agli anni Trenta, ragazzo. Nessuno si era mai preso la briga di sapere da dove provenisse, al seguito di una vecchia zia che, occupato un fondaco nelle case sotto il lavatoio, vi si era installata senza mai uscire se non per fare la spesa. Da dove provenissero i soldi, che spendeva abbondantemente almeno per i generi alimentari, non si sapeva. Né si sapeva dove li custodisse. Martino era di pelle scura, neri erano gli occhi e i peli: “sembra un scurbat”, diceva qualcuno, ma altri lo chiamavano “u scaraffone”. Nessuno riuscì mai a scoprire quando e come sparì la zia. Il panettiere e il macellaio un giorno videro presentarsi, a far acquisti, il nipote che continuava a comprare la stessa quantità di cibo, come se a mangiare fossero sempre in due. Ma con il passare del tempo e dalle poche parole che i negozianti riuscivano a strappargli, si seppe che la zia non abitava più con il ragazzo. Anzi, era pro- prio sparita forse per ritornare nella patria d’origine. Nonostante il paese brulicasse di curiosi, nessuno si inte- ressò mai seriamente per chiarire la situazione. Passava il tempo, Martino cresceva, aveva sempre i soldi per paga- re e non dava fastidio a nessuno. Diventato un giovane uomo, un giorno sparì anche lui dalla circolazione per ripresentarsi, dopo qualche mese, accompagnato da tre belle ragazze che fece iscrivere all’Ufficio Anagrafe asserendo fossero sue cugine.
Nel vecchio, piccolo fondaco, al padrone del quale anche da lontano aveva continuato a pagare l’affitto, ora risiedevano in quattro.
Martino tutte le mattine si alzava all’alba e, dopo un’abbondante colazione, partiva, tirando un carretto, alla raccolta di qualsiasi cosa trovasse buttata via lungo le strade, nei cortili o nelle aie dei contadini: carta, vetro e me- talli. Tornava alla sera, prima di cena, con il carretto sempre pieno. Lo scaricava davanti al fondaco e, dopo esser- si accesa la pipa e aver preso posto su una comoda poltrona che aveva portato fuori da casa, dirigeva le tre ragazze nella suddivisione di quanto aveva raccolto.
Questo succedeva tutti i giorni della settimana, sabati e domeniche comprese. Solo al lunedì Martino trasporta- va il suo piccolo tesoro: il metallo alle ferriere Tassara; il vetro alla ditta Pontebba che poi lo rivendeva alle vetrerie; carte e cartoni giù al Lanico dove venivano ammucchiati vicino ai binari del treno, in attesa fosse raggiunto il quantitativo necessario a riempire un vagone da man- dare alle cartiere. Di soldi doveva guadagnarne abbastanza perché ci vive- vano in quattro, e ai vicini sembrava abbastanza bene. La cosa che suscitava grande invidia era che le ragazze erano sempre in preda ad una grande allegria, durante tutta la giornata o cantavano o scherzavano ridendo anche sguaiatamente. Comunque nel loro gruppo non accettavano nessuno e con i vicini scambiavano solo le parole per una civile convivenza. Non si sapeva cose succedesse alla sera nel fondaco ma, data la costante allegria delle ragazze, qualcosa doveva succedere e, sicuramente, di molto piacevole. In paese, privi di notizie certe, si cominciò a mor- morare che le tre ragazze fossero, in effetti, il piccolo harem di Martino che, nonostante le fatiche di un lavo- ro pesante, riusciva ad accontentarle tutte e tre.

Naturalmente gli uomini sbavavano, invidiosi, pensando che uno straccione come Martino era riuscito ad attuare, così sfacciatamente, il sogno nascosto di ogni uomo: far convivere sotto lo stesso tetto moglie, amante e amante di riserva. Le donne, che avrebbero dovuto sentirsi parte lesa, invece, anche sulla base di quella allegrezza che le tre concubine dimostravano tutti i giorni, parteggiavano per Martino, che un giorno divenne per tutti Martin Pa- scià, storpiato poi, per ignoranza, in Martin Bascià.
Un giorno Martino vicino al lavatoio, in un posto al ri- paro, legò un asinello. La mattina dopo arrivò con un piccolo carretto e con gli accessori per attaccarci l’asino. La ditta si ingrandiva, Martino riusciva a visitare più posti, a recarsi nei paesi vicini e, davanti al fondaco, la quantità dei materiali raccolti continuava a crescere.
Un giorno mentre si trovava a Pescarzo, una frazione di Breno, venne avvicinato da una giovane vedova che ave- va deciso, dopo la morte del marito e non avendo figli, di trasferirsi presso una sorella che risiedeva a Brescia. Aveva bisogno di guadagnare e, forse, in città avrebbe potuto trovare da lavorare, magari a fare le pulizie in qualche famiglia benestante. La donna gli offrì di ritira- re, per quattro soldi, mobili e suppellettili della casa che stava per abbandonare. Martino accettò ben volentieri e da quel giorno si trovò, oltre all’abituale raccolta, a com- merciare in mobili usati e, di rado, in pezzi di antiqua- riato. Comprò il fondaco dove abitava con le tre concubine, lo allargò; prese in affitto un magazzino dove cominciò ad accatastare i mobili che non riusciva a rivendere subito. Insomma, incominciò una attività di compra-vendita che venne conosciuta praticamente in tutta la valle.
Ora, quasi sempre, erano i venditori a cercare lui; alcune volte offrendogli persino gli arredamenti in conto vendita, permettendogli così di tenere sotto controllo una grande quantità di merce senza grossi impegni finanziari. Quando ancora era ragazzo, durante uno dei suoi giri in cerca di rottami, Martino si era avvicinato a una cascina che sembrava abbandonata, attraversando un boschetto al centro del quale vi era quello che restava di un vecchio pollaio. L’attenzione fu attratta da un grosso pezzo di ferro, ormai arrugginito, che aveva una forma strana. Il ragazzo, cercando di rivoltarlo, lo spinse col piede. Un urlo terribile percorse la valle. Martino, tra dolori indici- bili, cercava di staccarsi quella morsa di ferro che gli lacerava la gamba. Ma la tagliola per volpi era fatta in modo tale che solo un uomo robusto riuscisse ad aprirla. Guidato dalle urla del ragazzo, il Russì, che stava pascolando alcuni capi proprio sopra la cascina abbandonata, venne in suo soccorso. Aprì con grandi sforzi la tagliola, tolse la gamba di Martino, se lo caricò sulle spalle per poi adagiarlo sul carretto del ragazzo e partire verso l’ospedale di Breno. Per fortuna nessun nervo era stato leso e la gamba fu sistemata con una ottantina di punti di sutura ed ingessata. Martino, da quel giorno, ebbe per il suo soccorritore una grande riconoscenza, quasi una venera- zione. Il Russì non si limitò, infatti, al trasporto in ospedale, ma andò a visitarlo durante i tre giorni di ricovero.

 

Fu lui a trasportarlo a casa e a portargli da mangiare sino a quando il ragazzo non fu in grado di camminare. Quando Martin Bascià vide venirgli incontro l’amico Russì, gli rivolse un gran sorriso per poi abbracciarlo fraternamente apostrofandolo scherzosamente: “Vecchio orso delle montagne, è la fame di femmine che ti ha fatto scendere a valle?” e dopo avergli battuto affettuosamente la mano sulla spalla lo invitò ad entrare nel Bar Littorio per bere un aperitivo. “Sto volentieri con te, ma aperitivi niente. Se no con la mia morosa rendo poco e lei ci tiene alle mie prestazioni. Te e le tue donne come andate? Ce la fai a mettere al mondo un figlio, che sarebbe ora? Mi sa che non ci sai fare. Vedrò di trovare il tempo per darti qualche lezione e magari… una mano”. Tutti e due scoppiarono a ridere e il Russì prese l’amico per un braccio, tirandolo verso il centro del paese dov’era il tabaccaio. Con voce più bassa chiese all’amico: “Come va con i tedeschi? Ti rompono le balle anche a te? Brutti bastardi”.
“Non li posso più vedere” rispose Martin. “Tutte le volte che mi incrociano e vedono che ho il carretto pieno me lo fanno scaricare neanche nascondessi partigiani o bombe. Un po’ lo fanno per dispetto, ma soprattutto lo fanno perché ormai hanno paura di tutto e di tutti. E poi girano sempre intorno a casa mia con la speranza di incontrare una delle mie donne e vedere di combinarci qualcosa. Io un giorno gli sparo a quegli affamati. La figa se la cerchino tedesca. Potevano pensarci prima di veni- re a rompere i coglioni a noi!” “Ho un progettino per castigarli” disse il Russì, “e forse potresti darmi una mano, naturalmente se te la senti”. “Con te sempre e ovunque” gli rispose. Dal tono della voce si capiva che era veramente disposto a seguire l’ami- co in ogni avventura.

 

(continua …)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 2

 

L’AUTORE DICE DI SE’  Sono un vecchietto che a 76 anni, stanco di leggere romanzi con una infinità di personaggi difficili da ricordare (ed un inizio di arteriosclerosi non aiuta), trame complicate e finali scontati, ha deciso di tentare di scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere.
E’ nato così “L’orto fascista” che non è nè vuole essere un romanzo storico o politico. E’ una tragicommedia (più commedia che a volte sfiora la pochade) che si svolge in un piccolo paese della Valcamonica nel 1943 all’atto dell’invasione tedesca in Italia. Il romanzo è stato accolto benevolmente dalla critica. Alcuni mi hanno paragonato a Piero Chiara (con mio immenso piacere in quanto da ragazzo ebbi occasione di frequentare lo scrittore varesino e di stimarlo), altri (con minor piacere) al “miglior” Andrea Vitali. I giornalisti del quotidiano “La Stampa” hanno collocato il mio scritto nel sito “Lo Scaffale” ove vengono ospitati solo i libri che non dovrebbero mancare in ogni biblioteca privata.
Spinto dall’entusiasmo ho scritto e pubblicato “Gilberto Lunardon detto il Limena” e quindi “L’oro di Breno” che sono altrettanto piaciuti.
Quest’anno, per festeggiare i miei 84 anni, ho pubblicato il giallo “Il sosia.” Non avendo nessuna esperienza in questa tipologia di romanzi temevo un fiasco. Quindi è stata con grande meraviglia l’aver ricevuto tante mail da persone, anche sconosciute, che si congratulavano con me e che mi esortavano a continuare. Ho altri due romanzi nel cassetto ed ho intenzione di editarli il prossimi Marzo e Ottobre. Infatti a Ottobre uscito “Don Arlocchi e il mistero della statua di Minerva”.

Ernesto Masina

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In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

***

III

Don Pompeo Cappelletti era detto don Pompetta Cappelleo a causa della strana configurazione del suo corpo, largo in modo abnorme all’altezza delle anche e dei glutei e che andava restringendosi vistosamente nella parte alta del tronco, finendo in due spalline strette strette che sorreggevano una testa oblunga: proprio la forma di quelle pompette che una volta si usavano per fare gli enteroclismi. A coprire la scarsa capigliatura sempre un basco alla francese. Era stato Cappellano Militare nella guerra ’15-’18 e si diceva avesse, non si sa con quale incarico, partecipato anche alla guerra di Spagna, ovvia- mente dalla parte dei franchisti. Era un grande sostenitore del Fascismo e non perdeva occasione per esprimere la sua enorme ammirazione per il Duce e per le sue grandi opere. Durante le sfilate in occasione delle giornate ufficiali, naturalmente istituite dal Regime, sfoggiava sulla tonaca alcuni nastrini militari colorati e qualche medaglia assegnatagli non si sa perché. Teneva ottimi rapporti con le autorità fasciste. Due volte al mese si recava a Brescia, con la scusa di andare in Arcivescovado, diceva, o a trovare qualche parrocchiano ricoverato nel locale ospedale, oppure ad acquistare qual- che articolo che non si trovava nei negozi della valle. Per raggiungere il capoluogo prendeva il trenino che partiva qualche minuto dopo il termine della messa delle sette, oppure trovava un passaggio su qualche auto di servizio o di proprietà di qualche privilegiato che, per meriti politici o perché svolgeva comunque attività che interessavano il Partito, era esentato dal divieto di uso persona- le delle vetture a benzina.

Giunto a Brescia sbrigava il più velocemente possibile la visita in Arcivescovado, augurandosi di non trovare mai il Vescovo che aveva fama di sinistrorso e che, con quello sguardo profondo, durante gli incontri lo guardava sempre negli occhi mettendolo in imbarazzo. Si dedicava quindi alle poche commissioni, trascurava le visite in ospedale e poi, guardandosi in giro con circospezione, sperando di non essere seguito e di non incontrare qual- che persona che lo conoscesse, si recava in una stretta via che partiva da piazza Tebaldo Brusati e suonava al n°10. Quando gli veniva aperto gettava un ultimo sguardo sia a destra che a sinistra e poi si precipitava all’interno.
Era la sede dell’OVRA, la polizia politica del Regime, che si interessava di controllare, interrogare – sempre più spesso con la tortura – tutti quelli che sembravano critici o contrari al Regime. Gli uffici erano stati ricavati in un appartamento requisito a una coppia di antifascisti che erano stati inviati, per redimersi, al confine in un paese sperduto tra le valli dell’appennino calabrese. Per mancanza di fondi il mobilio non era stato sostituito e quindi l’ufficio del Commissario era situato nel salotto di casa con tanto di poltrone e divano.
Gli appartenenti all’OVRA ritenevano che quella sede non fosse conosciuta se non a loro – chi vi era portato veniva preventivamente bendato – ma a Brescia, come succede in tutte le piccole città del nord di curiosi e di pettegoli, tutti sapevano.

Qui don Pompeo veniva fatto accomodare in un salottino e dopo poco veniva raggiunto dal Commissario Capo. Bevuto un caffè i due si mettevano a chiacchierare come due vecchi amici, ma ben presto il discorso si limitava ad un soliloquio del prete. Raccontava tutte le notizie raccolte a Breno e in altri paesi della valle. Solo notizie, ovvia- mente, che potevano interessare alla Polizia Politica.
Il Parroco era un abile confessore. Se chi si presentava per ottenere l’assoluzione era donna dai 40 ai 60 anni – mai fidarsi delle giovani moderne che prendevano i sacramenti e, soprattutto, le autorità ecclesiastiche troppo sotto gamba – riusciva sempre a intrufolarsi nei suoi pensieri e a sviscerarne i più reconditi segreti. E se si parlava di peccati riguardanti il sesso, don Pompeo voleva sapere, con dovizia di particolari, come si erano consumati. I movimenti, le posizioni, la condivisione o meno alle eventuali strane richieste del marito, e se, magari con l’aiuto del preservativo o del coitus interruptus, erano state violate le leggi stabilite dalla chiesa. Giustificando tutto ciò con il fatto che la gravità del peccato era in proporzione al godimento ricevuto e che un orgasmo femminile non era cosa buona. Al Parroco questi racconti davano lo stesso malsano godimento che avrebbe ricevuto – fervido come era di immaginazione – guardando un film porno. Se capitavano in una giornata tre confessioni di questo genere, don Pompeo usciva dal confessionale spossato ma evidentemente appagato.
Uguale malizia il prete usava nel raccogliere notizie dal o dalla penitente riguardo la vita privata, la sua, quella del coniuge e, qualche volta, dei vicini. Ricordando che se si fornivano notizie di atti contrari al Fascismo – al partito che aveva voluto un concordato così… cristiano – si faceva solo il volere di Cristo. E quanti o quante ci cadevano!
Don Pompeo manteneva anche ottimi rapporti con i parroci dei paesi vicini, con i quali spesso si incontra- va per uno scambio di vedute, non spirituali, certo, ma… politiche.
– Alla prossima visita all’OVRA dovrò far cenno anche di quel don Sprezzali, Parroco di Bienno, che mi sembra troppo impegnato con Cristo e poco col Duce – pensava spesso, anche se non era mai riuscito, in fin dei conti un residuo di carità cristiana tentava di sopravvivere ancora nel suo animo, a denunciarlo.
Finito il colloquio con il Commissario, questi chiamava un dipendente che, ad un suo cenno di assenso, lasciava la sede diretto al vicino casino. Nel frattempo il prete veniva fatto accomodare in una stanzetta arredata con un comodo letto, due belle poltrone e un lavandino. Lì si spogliava dagli abiti talari che nascondeva in un armadio ed attendeva la ricompensa ai suoi servigi. Poco dopo, infatti, una prostituta (“molto florida, mi raccomando” aveva richiesto la prima volta) proveniente dal vicino postribolo bussava alla porta pronta a sottomettersi ai suoi desideri. Nel frattempo lui aveva ripassato il contenuto di qualche confessione e, tutto eccitato, si era predisposto a sfruttare nel modo migliore l’occasione.

 

IV

La farmacia Temperini si affacciava sulla piazza S. Ago- stino al termine della via Roma che era in ripida sali-
ta. Sembrava fosse stato scelto il posto giusto perché chi era perfettamente sano potesse raggiungerla senza affanno, ma chi aveva problemi di salute, arrivato alla farmacia, se li trovasse raddoppiati e bisognoso di ulteriori cure: per la gioia del farmacista.
Entrando si era avvolti dagli odori degli ingredienti dei vari prodotti galenici, quelli preparati direttamente dal farmacista, che un tempo andavano per la maggiore, essendo la produzione industriale dei medicinali ancora limitata. Anice, liquirizia dai buoni odori dolciastri, ma anche valeriana, aconito, malva, stramonio ed altre erbe officinali. Nel retro si sentiva in continuazione il picchiettare di un pestello in un mortaio, ove un inserviente lavorava i componenti per preparare decotti, pillole e cachet secondo le ricette del medico condotto o del tito- lare della premiata farmacia. Ricette vecchie di lustri che mai venivano modificate in quanto nessuno si prendeva la responsabilità di farlo, anche perché effettivamente spesso le condizioni di salute di chi li ingurgitava miglio- ravano. Probabilmente più per l’effetto placebo che per le proprietà delle formulazioni.
La farmacia era condotta dalla figlia del proprietario, Ida, con l’aiuto al banco di un certo Angiolino che non aveva le rotelle che giravano tutte al modo giusto se non quando si trattava di fare i conti ed incassare. Era il figlio della Sofia, la balia che aveva nutrito Ida quando la madre, pochi giorni dopo il parto, era morta di febbre terziaria. Prima di trovare la balia, Ida aveva sofferto la fame rifiutando il latte di mucca e l’acqua zuccherata che le veniva- no offerte in cambio del latte materno. Ma quando era stata rintracciata la balia, che aveva da poco partorito l’Angiolino, si era rifatta abbondantemente e Sofia aveva lasciato fare perché era molto interessata ai soldi promessi in caso avesse fatto crescere in modo rigoglioso la piccola orfanella. Si diceva che l’Angiolino non fosse del tutto normale perché durante i primi mesi di vita non aveva ricevuto sufficiente nutrimento in quanto, quando la mamma gli offriva le tette, queste ormai erano pratica- mente vuote. Il farmacista probabilmente aveva accettato questa ipotesi ed aveva preso a lavorare con sé l’Angiolino come segno di riparazione. Il commesso, che si interessa- va più che altro della cassa, prima di dare il resto aveva preso l’abitudine di chiedere con fare mellifluo, chiunque fosse il cliente, uomo, donna, vecchio o giovane:
“Vuole mica una bella scatola di preservativi?”
Alle lagnanze dei clienti, il Temperini, spesso, si riteneva per burla, rispondeva che il suo commesso era impotente e che con quella proposta voleva che i clienti facesse- ro in tutta tranquillità quello che a lui non riusciva: quindi la sua era una affettuosa cortesia. La Ida ormai non faceva più caso alle stranezze del fratello di latte ed alle lamentele dei clienti. Era sempre triste e immusonita: precisa e disponibile nella gestione della farmacia ma altrettanto scostante.  Anni addietro aveva perso la testa per un operaio della Ferriera Tassara e forse ci aveva anche fatto all’amore. Scoperta dal padre le era stata vietata la frequentazione del povero operaio, con la minaccia di essere diseredata. Dapprima aveva resistito alle imposizioni del padre, ma poi, quando il moroso (per intervento del farmacista?) era stato licenziato con uno strano pretesto ed aveva dovuto emigrare in Francia in cerca di lavoro, aveva per forza accettato la nuova situazione ma aveva iniziato ad odiare in silenzio il genitore.
Il Temperini difficilmente rimaneva in farmacia dopo l’apertura. O se ne andava a caccia, se era stagione e la giornata non prometteva pioggia, oppure si trasferiva al bar Monte Grappa che si trovava proprio di fronte alla farmacia, dove passava ore ed ore.
Alto, magro elegante, con un paio di baffetti sempre curatissimi, il farmacista portava occhiali con lenti scure che aggiungevano al fascino naturale un qualcosa di misterioso. E’ inutile dire che piaceva alle donne, soprat- tutto alle contadine e alle mogli dei numerosi pastori alle quali non faceva mancare la sua presenza quando queste rimanevano a casa sole, essendo i mariti agli alpeggi con le mucche, o, come ora, al fronte. Anche se in paese si parlava molto delle sue avventure, nessuno aveva prove concrete, perché per le sue attività amatorie si recava nelle cascine fuori paese, dove aveva più facilità di suc- cesso. E poi a lui piacevano queste donne franche, di car- ne abbondante e di pretese limitate. Accoppiamenti classici, senza l’obbligo di preliminari laboriosi e finali romantici, che lo appagavano pienamente. “Una botta e via”, come usava dire il Temperini che, invero, ben difficilmente accennava alle sue conquiste.
Ci aveva provato una volta anche con la maestra signora Lucia, che però gli aveva fatto capire chiaramente che apprezzava le avances ma che non sapeva che farsene di una persona che nulla di concreto avrebbe potuto lasciar- le. Il farmacista si era ritirato in buon ordine con un mazzo di fiori e tante scuse.

V

Il bar Monte Grappa era il luogo di ritrovo di tutti gli sfaccendati del paese, dei negozianti che avevano chi potesse sostituirli in negozio o dei professionisti che potevano gestire il loro tempo a piacimento. Vigevano due regole ferree: era vietato parlare di politica e non si poteva giocare a carte a soldi. I pettegolezzi e le abbondanti libagioni erano quindi gli unici sfoghi dei clienti. Il proprietario, detto Burtulì squarta fasöö, per la sua tirchieria e per la precisione che metteva in tutto ciò che faceva, per mantenersi la clientela riusciva sempre a inventarsi qualcosa. In quel periodo aveva messo a punto tornei di briscola. Con pazienza certosina predisponeva 15-20 mazzi di carte con identica sequela in modo che tutti i partecipanti al torneo avessero le stesse chances. Anche se non si poteva giocare a soldi, veniva fissata una cifra di iscrizione e al termine del torneo venivano premiate le prime tre coppie. A volte con una dozzina di uova, a volte con un salame o una piccola forma di for- maggio. Cose preziose in periodo di autarchia dove combinare il pranzo con la cena non era per nulla facile. La cosa faceva impazzire gli accaniti giocatori che si iscrive- vano ai tornei, versando le iscrizioni anche dieci giorni prima dell’inizio pur di non perderle. I risultati poi, tra buone bevute, si discutevano a lungo con prese in giro per i perdenti e promesse di rivincita.

Il Temperini era un grande affabulatore ed era richiestissimo dai frequentatori del bar per le storie che sapeva inventare, soprattutto se erano particolarmente, come si diceva allora, sboccate. E il farmacista condiva sempre questi racconti con fatti veri che si riferivano, non esplicitamente ma in modo alquanto comprensibile, a qualcuno del paese che aveva qualche problema fisico nel senso sessuale e che si era rivolto a lui per qualche cura: alla faccia del segreto professionale. Altre volte iniziava barzellette che centellinava magari in diverse visite al bar, rendendo spasmodica l’attesa per il finale. Ai nuovi venuti non risparmiava mai la storiella dell’omino verde che lui recitava con gran bravura.
Si trattava di un problema di un suo cliente che lui aveva contribuito a curare. Il poveretto aveva avuto una strana situazione di incontinenza. Appena addormentato sogna- va che un omino verde gli si posava sulla parte inferiore della pancia ed incominciava a gridare “Piscia! Piscia!” e lui alla mattina si svegliava con il pigiama ed il letto intrisi della sua urina. Il Temperini, interpellato, aveva preparato un intruglio di erbe calmanti che avrebbero reso il sonno più tranquillo e risolto il problema. Niente affatto. Quello aveva continuato a sognare l’omino urlante e a svegliarsi alla mattina bagnato sino al collo. Lui gli aveva aumentato la dose ma, non ottenendo risultati, aveva sentenziato: “A mali estremi, estremi rimedi!”
Gli aveva detto: “Se noi riusciamo a interrompere, alme- no per una volta, che l’omino l’abbia vinta vedrai che tutto finirà. Però, secondo me, bisogna intervenire fisica- mente. Sarà un po’ doloroso ma sono certo ce la farai!” Aveva allora spiegato al cliente che alla sera, prima di andare a letto, avrebbe dovuto prendere il solito sedativo e poi un pezzo di corda con il quale legare strettamente il pene, e di conseguenza il canale urinario, onde rende- re impossibile il passaggio del liquido. L’aveva quindi congedato regalandogli un potente antidolorifico e dandogli appuntamento per la mattina successiva. Quando si ritrovarono il cliente gli disse:
“Dottore, io ho fatto come mi ha detto lei. Ho preso il calmante, le pillole contro il dolore e poi mi sono legato l’uccello il più strettamente possibile. Un dolore bestia, dottore. Un dolore bestia! Però sono riuscito ad addormentarmi e subito è venuto quel disgraziato. Si è messo a urlare ‘Piscia! piscia!’ e io l’ho lasciato urlare. Poi mi sono toccato: era tutto asciutto, non usciva veramente niente! Lui continuava a urlare ed io a rimanere asciutto”. “Allora ce l’abbiamo fatta” gridò il dottore tutto contento. “Mi lasci finire, dottore. Lui urlava ed allora io gli ho detto: ‘Guarda che non posso pisciare perché me lo sono legato. Guarda!’ Lui si è sporto a guardare verso il basso e, visto il mio uccello tutto infiocchettato, si è arrabbiato come una bestia. Prima di andarsene, mi ha urlato ‘Ma va’ a cagare!’. Dottore, io questa mattina mi sono svegliato pieno di merda sino al collo!”

(continua…)