Delude Christopher Nolan per una storia fragorosa, dove gioca con il tempo e annoia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione / “Tenet” inaugura la stagione cinematografica

 

Confidando negli strilli pubblicitari o nelle parole benauguranti di certi ben informati, Tenet sarebbe dovuto essere il film con le più ampie capacità di riportare la gente al cinema. Il che dovuto non soltanto ad una programmazione di inizio stagione fatta di curiosità e di sospirata liberazione dai ristretti sche(r)mi televisivi, ma soprattutto alla necessità di un (buon) cinema visto (e gustato) in sala, con tutte le sacrosante paure e difese di e da pandemie, contagi, ricadute e ogni altra apocalisse; e poi alla grande opera di un regista che negli ultimi vent’anni ha disseminato lo schermo di tanti capolavori, da Insomnia ai vari Batman, da Inception a quel Dunkirk del ’17, suddiviso in triplice visione tra cielo, mare e terra, che tanto abbiamo amato.

Certo di questi tempi vorranno dire qualcosa i 400mila euro d’incasso il primo giorno di proiezioni italiane, certo è stato davvero l’occasione giusta per riaprire le porte al cinema, il giorno sognato: ma l’ultimo titolo di Christopher Nolan si chiude con le pagine finali dell’amaro in bocca per un’opera che in una sceneggiatura estremamente trombona ha rovesciato strizzate d’occhio agli 007 come a noiosi trattati fisico/filosofici, affondati nella percezione e nell’uso del tempo alla rovescia, immersi nel piacere di mescolare e rimescolare le carte, con il menefreghismo più assoluto nei confronti di un pubblico in attesa e orante. Non ci si può affidare al bum bum bum di certe scene fragorose, impetuose, tonanti, tra fiamme e spari; non ci si può affidare al crash di un enorme aereo che come un arrabbiato uccellaccio si cala sull’hangar di un aeroporto e ne fa strage; non ci si può divertire per l’ennesima volta di fronte a inseguimenti di auto, con montaggi superveloci, dai cui interni, da uno all’altro, rimbalzano palleggi di rossi contenitori di parti di armi; non si può pendere dalle labbra di una dottissima scienziata indiana che di tanto in tanto rispunta in aiuto nostro (e forse del regista) a farci partecipi di un qualche chiarimento che, a costo di passare per deficienti, lascia davvero il tempo che trova.

E non chiedetemi della trama, pasticciata, arruffata, chiusa in se stessa con tanto di arroganza, stupidamente didascalica a tratti, che s’impegna oltre misura ad annaspare in un mare che poteva rimanere un poco più liscio con buona pace di tutti, magari benignamente per noi povera di dialoghi nella prima parte e poi grondante parole e termini che un buon vocabolario in aula di proiezione farebbe fatica a chiarire. Alla Storia più o meno recente si riallaccia l’inizio, con tanto di truppe in tenuta antisommossa che irrompono nel Teatro dell’Opera di una non meglio identificata città di Santa Madre Russia (forse Kiev, ma non ha molta importanza) per mandare l’intero pubblico nel mondo dei sogni. La parola d’ordine diventa sventare la terza guerra mondiali e di lì in avanti si comincia a lavorare. E a confondere. Panorami diversi e suggestivi (Mumbai, la Costa amalfitana, Londra, Oslo in tutta la sua bellezza, gran bello spettacolo: persino le sotterranee città dell’URSS, proposteci come fantasmi, portano una loro bella suggestione), due giovani eroi, un nero e un bianco – John David Washington, il figlio di Denzel e la scoperta di Spike Lee, e Robert Pattinson, una carriera di ex vampiro alle spalle, all’occorrenza capace pure di affiancare la saputella indiana per buttare nel calderone qualche idea in più: entrambi facilmente sostituibili con qualsiasi altro collega rimasto a Hollywood – che non peccano certo di fiducia reciproca e che si devono buttare in missioni pressoché suicide, proiettili che sparati dalla solita pistola hanno ora la sorpresa di invertire la traiettoria e rientrare nell’arma (e come i proiettili anche i personaggi hanno questo vizio del vado e rieccomi qua), algoritmi e una nebulosa ragnatela dentro cui, alzando bene le orecchie, ci si accorge che viene pure scomodato il “Quadrato del Sator” nascosto in qualche cognome o società (ricordate le enigmatiche cinque parole latine, esempio di palindromo, qui capace di impossessarsi e governare il mondo intero, enigmaticamente lette da sinistra a destra e viceversa sui banchi di scuola?), un cattivissimo Kenneth Branagh che accarezza un simile sogno accanto ad una bionda e longilinea moglie (di un attimo erotico tra primi piani di visi occhi e altre parti corporali della signora, manco a parlarne) che non gioca ad altro che a mettergli il bastone tra le ruote e che anzi non ci pensa su dallo scaraventare il mare il poveretto pur di vederlo morto, azioni catapultate nel futuro che hanno già avuto a che fare con il passato, incontri al vetriolo veri o immaginati, azioni contemporanee viste ai nostri occhi diverse, è sufficiente che un vetro le separi e ce le renda come è piaciuto a Christopher Nolan: con l’inghippo dello sdoppiamento dei protagonisti. Qualcuno, per un paio di volte almeno, ha il buon gusto di avvertirci “non tentare di capire, senti soltanto”. Il rovinoso finale altro non è che la resa dei conti tra il micidiale cattivone e consorte, con la domanda “di tutto il resto come scriviamo la parola fine?”

Nolan non è mai stato facile, è tortuoso, espone una sua filosofia e tu dovresti già esser lì, tremante davanti a lui, come il più preparato degli studenti. Certo non è mai bassamente banale, ti fa lavorare ad ogni immagine. In altre occasioni ha saputo tuttavia intrappolarci con acutezze, con montagne russe che ti piaceva un sacco salire e ridiscendere, con la curiosità allegra di addentrarti in certi meccanismi, in sulfurei giochi di specchi, in passaggi improvvisi, in liquefazioni pronte a ricomporsi immediatamente: qui ha soprattutto il sopravvento il cinema del movimento, del guazzabuglio meccanico, del giochino proposto in ogni suo attimo per testimoniare i 200 e passa milioni di dollari spesi nell’operazione. Ti alzi dalla poltrona e di Tenet ti porti a casa davvero poco. Anzi pochissimo. Nelle mani di Nolan, che ne è rimasto del povero spettatore che cercava un altro capolavoro e una inaugurazione di annata cinematografica diciamo con qualche leggero entusiasmo?

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