“Ma cosa ci dice il cervello” di Riccardo Milani
Anche Schwarzenegger esattamente venticinque anni fa in True Lies camuffava la sua vita di spericolato agente segreto al servizio di un’agenzia segreta di sicurezza del governo degli Stati Uniti dietro quella piuttosto noiosa e anonima di rappresentante di apparecchi informatici: senza pensarci su due volte, doveva salvare moglie, famiglia e l’intero suo Paese dalle grinfie del terrorista mediorientale di turno. Oggi la nostra Paola Cortellesi, nei confini più stretti di una Roma caotica, caciarona e priva di educazione, (stra)facendo la sceneggiatrice in compagnia del marito/regista Riccardo Milani, cui s’aggiungono Furio Andreotti e Giulia Calenda, imbocca la medesima strada, nella lunghissima quanto eccessiva, debordante prima parte di Ma cosa ci dice il cervello, ultimo titolo per uno sguardo sulla povera Italia in cui stiamo vivendo, ma sguardo che avrebbe intenzione di dire ben altro, con il rischio di impantanarsi in un terreno affatto suo. Parliamo di spionaggio, con Remo Girone nella sala comando a impartire ordini e lei tra le dune del Marocco con le movenze simili al Neo di Matrix o sulla Piazza Rossa di Mosca a inseguire i cattivi? Oppure parliamo di strafottenza, di cattivo gusto, di tutti che sanno tutto, di tutti che ti schiacciano e ti guardano dall’alto in basso e tu che cerchi di porci una palizzata di ribellione? Va bene, lasciamo perdere e cambiamo strada. Nell’altro capitolo Giovanna è separata dal marito pilota d’aereo, vive con una figlia e una madre che sta vivendo una seconda giovinezza a suon di balli in discoteca e vestiti di lamé attillatissimi e gambe in bella vista, soprattutto il ritmo delle sue giornate è scandito dal suono del cartellino bollato in entrata e in uscita al Ministero presso cui lavora. Il grigiore, l’anonimato, l’incolore tailleurino sempre cascante, il muso lungo (ma non è troppo il rifugio nello spionaggio?). È chiaro che uno si sente un po’ fuori posto se ai colloqui di classe i giovani compagni della pargola hanno per genitori chi un’astronauta chi un vigile del fuoco che con gesta da fuochi d’artificio salva a più riprese decine di persone, lei sta lì a raccontare che si occupa di ritenute d’acconto e di certo con quelle premesse il morale della piccola non si risolleva di un centimetro. Una premessa per rigirare nuovamente la torta e tentare sulla commedia di costume della nostra quotidianità sfasciata, per acclamare ai buoni sentimenti e alla modalità tutta zen, per dare una aggiustata ai soprusi e agli usurpatori. La molla arriva dalla vecchia compagna di scuola che si rifà viva dopo un secolo e per una cena in riva al Tevere si porta appresso un gruppetto di sfigati, vecchi compagni della nostra o amorucci liceali irrisolti e ormai sfioriti. Il medico Lucia Mascino, la hostess Claudia Pandolfi, l’insegnante Stefano Fresi e l’allenatore Vinicio Marchioni se la devono vedere tutti i giorni con pazienti che vivono di scienza infusa o raffazzonata da Internet, di passeggeri che pretendono di tenere acceso il cellulare in volo perché anche lì è business, di discepoli bulli che menano e ti ficcano il cestino delle cartacce in testa, di padri che credono di conoscere il gioco e se non fai come dicono loro ti stendono sul tappeto verde. Ma le maniere forti sono bandite, all’indignazione si risponde con l’insegnamento, alla prepotenza e all’ignoranza ormai imperante con lo sberleffo. In un’altra (lunga) tappa che ci trasporta a Siviglia, con un orgoglio transfrontaliero raro nel nostro cinema, si tirano le somme: sbiadite, inconcludenti, facili. È la ricarica verso i buoni sentimenti, che negli intenti potrebbe avere anche l’applauso generale: ma il tutto si risolve in una scrittura iniziale piena di disordine e di fragilità, con qualche briciolo di noia e spunti divertenti che si risolvono nel nulla immediatamente, con compagni di viaggio che fanno la loro piccola particina (a dire il vero chi più chi meno, qualcuno sembra capitato sul set per caso o controvoglia) ammodo ammodo ma che sono ben lontani dal far parte di un quadro preciso e compatto (ci voleva insomma un graffio, più cattiveria, andare anche a scovare le cause di un simile dissesto, ci volevano gli sceneggiatori di un tempo a descriverci i “nuovi mostri”) capace di farci vivere oggi questa “aiuola che ci fa tanto feroci”.
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