Intervento a cura del Centro Studi sul Federalismo
di Domenico Moro* |
Il 13 novembre scorso, 23 paesi dell’UE hanno inviato, al Consiglio europeo e all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, la notifica della loro volontà di partecipare a una cooperazione strutturata permanente (PESCO) nel settore della difesa. Si tratta di: Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia. Restano fuori dall’intesa Regno Unito, come esito della Brexit, Danimarca, Malta, Portogallo e Irlanda, anche se gli ultimi due si sono riservati di aderire nelle prossime settimane. La decisione definitiva dovrà essere presa nel Consiglio europeo di dicembre, in vista del quale i paesi aderenti dovranno presentare il “National implementation plan“, la cui congruità e il cui rispetto vale ai fini della partecipazione e permanenza nella PESCO.
La notifica rappresenta una risposta concreta che l’Europa dà ai suoi cittadini, preoccupati per la propria sicurezza interna ed esterna, messe in discussione dagli attentati terroristici, dai conflitti militari nell’est del continente, in Africa settentrionale, in Medio Oriente e dalla svolta americana in politica estera. Essa mette fine a sessant’anni di esitazioni su una politica autonoma europea nel settore della difesa, anni durante i quali si è affidato ad altri la propria sicurezza. In base alle indagini dell’Eurobarometro, il 68% dei cittadini europei auspica un maggior intervento europeo nella politica di sicurezza e di difesa e il 70% un intervento più significativo nella protezione delle frontiere esterne. Se l’UE, a 18 mesi dalle elezioni europee del 2019, non avesse cominciato a dare segnali reali in questa direzione, l’attenzione dell’opinione pubblica europea sarebbe rimasta concentrata sulle misure di risanamento finanziario, bollandole come politiche di sacrificio “imposte dall’Europa”, senza alcuna contropartita. Le spinte nazionalistiche ed euroscettiche si sarebbero rafforzate, mettendo in discussione i passi avanti anche in altri settori. Per cogliere la rilevanza della decisione del 13 novembre, il paragone migliore è quello con la decisione, adottata nel 1979, di istituire il Sistema Monetario Europeo (SME). Con quella misura, i paesi europei presero atto del fatto che stabilità e unità del mercato comune europeo non potevano essere affidati alla valuta di un paese terzo, il dollaro americano. Occorreva dotare l’Europa di una sua moneta, aprendo così la strada all’introduzione dell’euro. Con la notifica sulla PESCO, i paesi europei hanno preso atto del fatto che la loro difesa non può più essere affidata all’esercito americano, ma vi devono provvedere in maniera autonoma. L’iniziativa ha sollevato dei dubbi, che vanno valutati. Essi riguardano il numero dei partecipanti, la cui estensione coincide quasi con l’intera UE e quindi non sarebbe chiara la differenza con l’ambito PESCO; il voto all’unanimità che regge la governance della PESCO; il meccanismo di finanziamento; l’interoperabilità tra le forze militari dei paesi PESCO e quelle della NATO. A questi dubbi si può rispondere ricordando il precedente dell’avvio dell’unione monetaria che ci ha dato l’euro. Inizialmente allo SME aderirono tutti i paesi che componevano la Comunità Europea (tranne il Regno Unito, che aderirà nel 1990). A mano a mano che prendeva corpo la volontà di procedere all’istituzione di un’unica moneta europea, alcuni paesi si sono dissociati dal progetto. Anche nel caso dell’avvio della PESCO, non si può escludere che tutti i paesi che oggi vi aderiscono, in una fase più avanzata dell’integrazione militare ne faranno ancora parte. La volontà reale di andare avanti si comincerà a vedere quando l’avvio della Coordinated Annual Review on Defence (CARD) promuoverà progetti industriali sovranazionali e il raggiungimento di standard sempre più elevati di capacità operativa congiunta. Il voto all’unanimità, che va certo criticato, non deve essere un alibi, per i governi più volenterosi, rispetto al promuovere progressi nel processo di integrazione. Soprattutto, devono essere gli europeisti più lucidi che, come per lo SME, e in altri casi in cui si prevedeva l’unanimità, devono saper intuire che si è di fronte ad un’occasione unica per un altro passo avanti verso un’unione federale. Lo SME fu istituito con il voto unanime e la governance del tasso di cambio delle valute dei paesi partecipanti prevedeva l’unanimità (o, meglio, la decisione di svalutare o rivalutare era adottata “in base a un mutuo consenso“). Più in generale, nei casi dell’Atto Unico, approvato all’unanimità (ma le misure di attuazione del mercato interno venivano votate a maggioranza), dell’unione monetaria, approvata all’unanimità (ma con la fissazione del voto a maggioranza nella BCE) e della politica estera, le cui decisioni sono approvate all’unanimità (ma la sua attuazione avviene a maggioranza, tranne che per gli aspetti militari e la difesa), si è di fronte a situazioni in cui, di fatto, è già stata attuata o è prevista la cosiddetta “clausola passerella”, evocata dal Presidente della Commissione Juncker nel Discorso sullo stato dell’Unione 2017. Il finanziamento della PESCO è un aspetto rilevante dell’iniziativa, che la notifica sembra sottovalutare. Ma in questo caso si possono ricordare: la possibilità di avvalersi di quanto prevedono i trattati per i costi amministrativi, che possono essere sostenuti dal bilancio UE; l’attivazione del meccanismo Athena – in corso di revisione – per il finanziamento dei costi militari; il Fondo Europeo per la Difesa, che è composto di due volani, uno per il finanziamento della R&S e l’altro per l’incentivazione di progetti industriali sovranazionali. Inoltre, occorre accennare al “fondo iniziale”, previsto dall’art. 41.3 TUE, che può essere istituito dal Consiglio a maggioranza qualificata per operazioni militari che non possono essere finanziate dal bilancio UE. A questo proposito, si può ricordare un Rapporto del Senato francese, il quale prefigurava la possibilità di fare del meccanismo Athena il “fondo iniziale” di cui sopra. Infine, per quanto riguarda l’interoperabilità delle forze militari PESCO con quelle della NATO, effettivamente non è del tutto chiaro se devono essere i paesi PESCO ad adeguarsi agli standard della NATO – cioè a quelli degli Stati Uniti –, piuttosto che la NATO a quelli dei paesi PESCO. Quello che occorrerà stabilire è il fatto che i paesi PESCO dovranno preventivamente condividere degli standard comuni tra di loro, sulla base dei quali procedere ad un successivo confronto con quelli della NATO, prevedendo regole che non penalizzino l’industria militare europea. Con l’avvio della PESCO, che ha l’ambizione di fornire un bene pubblico essenziale, quale è la sicurezza interna ed esterna europea, i paesi partecipanti si sono messi su di un asse di equilibrio: a un certo punto, come con lo SME, o decideranno di andare avanti, verso una maggiore integrazione militare, oppure precipiteranno all’indietro, mettendo in discussione l’intero progetto europeo. La nascita dell’euro ci incoraggia a ritenere che l’asse d’equilibrio, al momento opportuno, penderà dal lato dell’avanzamento, soprattutto se nel frattempo ci si adopererà per consolidare e far avanzare la nuova fase che si sta aprendo per la difesa europea.
*Membro del Consiglio Direttivo del Centro Studi sul Federalismo (coordinatore dell’Area Sicurezza e Difesa) |
Verso una difesa europea: il precedente dell’unione monetaria
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