Tutto è felicemente ovattato, tutto è ostinatamente dolciastro in questa “casa di bambola” – e Andrée Ruth Shammah, che per il milanese Teatro Parenti e la Fondazione Teatro di Toscana ha messo in scena il testo ibseniano, visto al Carignano per la stagione dello Stabile torinese, ha con coerenza introdotto quell’articolo indeterminativo, “Una casa di bambola”, che ben lascia intravedere la strada che percorrerà -, al di qua degli alti muri di mattoni, il rosa o il verde tenue degli intonaci o dei divani, gli abiti di Nora, gli impalpabili velluti (la scena è di Gian Maurizio Fercioni, i costumi di Fabio Zambernardi con la collaborazione Lawrence Steele), i fiocchi di neve che dondolano al di là della porta, l’albero di Natale e le ghirlande, i pacchetti dei doni, anche l’arpa su cui la piccola di casa dà prova della sua bravura, anche le porte che delimitano gli spazi sembrano fatte di ovatta, aggiungendo il pregevole gioco di luci di Gigi Saccomandi, che accompagnano il cammino psicologico dei personaggi, calde, morbide prima, estese nella loro freddezza poi.In questa cornice esplode la ribellione di Nora Helmer, ostile ormai alla devozione e alla sempre amorevole protezione di Torvald, agli eterni ritrattini di allodola e bambola, ad una vita insieme in cui fino a ieri è circolata quell’aria (inconsapevole?) di tornaconto che ha aiutato la coppia a proseguire “bellamente”, alla prigione dorata cui ci si abitua, quel ruolo di bambola pienamente accettato e condiviso non soltanto all’interno della famiglia ma pure con il dottor Rank, da sempre innamorato di lei, e con il bieco strozzino Krogstad, che da lei attende lo scioglimento di un ingente debito contratto per salvare il marito, a sua insaputa. Non più nella veste quindi di “sorella spirituale del proletariato femminista” come nel 1917 la voleva Gramsci, la donna che rifiuta e sfugge alla maschera che la società norvegese degli ultimi decenni del secolo scorso le ha affibbiato, ma un calcolo in piena regola dove la “ignoranza” verso il mondo che la circonda la spinge ad aprire gli occhi e a crescere, a educare la donna che sino adesso è stata.
Marina Rocco, nella rilettura della Shammah, mentre entra ed esce di scena dalla platea quasi a volersi mescolare nelle idee e nei comportamenti con il pubblico femminile oggi in sala, segue i passi della sua donna-bambina, i suoi pianti e le sue risate, i bamboleggianti, gli affetti, mentre il popolo della servitù orecchia e getta sguardi dagli angoli delle stanze: sino all’ultimo atto, con uno slancio di ossessione e di isteria che rischiano di bloccare il personaggio nel suo percorso di logica “redenzione”, una reazione concretizzata nei tic e nell’affanno continuo delle urla. Il peccato di debordare, quasi di voler scendere a inspiegabile marionetta, coinvolge anche Filippo Timi, che raccoglie in sé i tre personaggi maschili, simboleggiando l’intero sesso forte e dominante, gli è sufficiente un collare, o un bastone a sostegno di una gamba azzoppata, o un aspetto benevolo, per triplicarsi ad effetto e dar di gomito al pubblico con l’imitazione di un cinese o con un numero sfrontato in passerella sulle note di My funny Valentine. Molto meglio l’apporto interpretativo di Mariella Valentini, quelli sono eccessi, sbrodolature, incidenti che finiscono con l’annacquare uno spettacolo che forse aveva le pretese di fare, anche lui, la rivoluzione.
Elio Rabbione