“Per me, in tutto il mondo, non esiste un villaggio comparabile con questo. Qui ho vissuto gli anni più belli della mia infanzia…”. Così il regista Jean Renoir descriveva il suo rapporto con Essoyes, paesino dello Champagne, dove Aline e Pierre-Auguste Renoir acquistarono nel 1896 una casa nella quale, per 30 anni, insieme ai loro figli Pierre, Jean e Claude, trascorsero lunghe estati.
La tranquillità e la serenità del piccolo borgo del quale era originaria la moglie Aline consentiva al pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir di realizzare le proprie opere, trovando la propria ispirazione nel paesaggio che lo circondava, nel borgo, nella chiesa e le modelle nelle ragazze del paese che il suo pennello velava di colore, quasi dissolvendone i contorni e, così, eternizzandole.
Renoir aveva aderito alla “Societé anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs”, istituita su suggerimento di Pissarro per organizzare esposizioni, della quale facevano parte anche Monet, Sisley, Degas e Berthe Morisot e il 15 aprile 1874 fu tra gli artisti della mostra organizzata presso lo studio del fotografo Nadar, mostra che suscitò l’ilarità di molti critici sostenitori delle linee classiche dei dipinti dell’Accademia e che portò uno di loro a coniare il termine “impressionisti” in spregio al dipinto “Impression, soleil levant” di Claude Monet, definito simile ad una carta da parati.

La luce, ossessione di Monet, rappresenta uno degli elementi principali anche dei dipinti di Renoir, una luce che accarezza, dissolve, sfuma, attraversa gli edifici, gli alberi, i capelli e la pelle, i volti dei bambini, le carni delle bagnanti opulente, una luce che sembra illuminare dall’interno ogni soggetto e che si riverbera sullo spettatore esterno. Oggi, a cento anni esatti dalla morte di Pierre-Auguste Renoir tutto ad Essoyes continua ad essere permeato dalla stessa luce dei suoi quadri, influenzato dal suo passaggio. Attraversando Essoyes si ha l’impressione di procedere alla ricerca di un tempo perduto, di quella “parte dei Renoir” che, passo dopo passo, rivela al visitatore le sue storie, quelle dei momenti conviviali di una famiglia felice, quelle dei tanti dipinti realizzati in questi luoghi, ma anche quelle dolorose degli anni di malattia di Renoir, costretto da un’artrite reumatoide su una sedia a rotelle a dipingere con i pennelli legati alle mani, e, infine, a rifugiarsi nel Domaine des Collettes a Cagne sur Mer in Costa Azzurra, alla ricerca di un clima più favorevole alla sua malattia.
Il “percorso Renoir” si snoda nelle vie del borgo, lungo le sponde dell’Aube, nell’atelier che conserva, tra i ricordi, la commovente sedia a rotelle dell’artista, nella casa dove tutto è rimasto intatto, quasi pietrificato dal tempo, fino al cimitero nel quale riposano Pierre-Auguste Renoir, sua moglie Aline e i loro tre figli. Aline si spense a Nizza nel 1915, Pierre-Auguste a Cagne-sur-Mer il 3 dicembre 1919. Inizialmente sepolti nel vecchio cimitero del castello di Nizza, il 7 giugno 1922 vennero trasferiti nel piccolo cimitero di Essoyes, secondo la volontà da loro espressa in vita. I loro figli Pierre, Jean e Claude, condividendo quella stessa volontà, riposano nel cimitero del piccolo villaggio dello Champagne: Claude, il ceramista insieme alla madre, Pierre, l’attore, e Jean, il regista, nella stessa tomba del padre. La commemorazione per il centenario della morte di Pierre-Auguste Renoir, che si terrà nel camposanto di Essoyes il 3 dicembre prossimo, non rappresenterà soltanto un omaggio al pittore impressionista, ma un tributo a tutta una “famiglia di artisti”. Quest’anno ricorre anche il 40° anniversario della scomparsa di Jean Renoir.
Al destino piace giocare con le date, mescolare le carte, creare strane coincidenze: 1919 muore Pierre-Auguste, 1979 Jean.
Le “village des Renoir” continua a conservare la stessa serenità dei tempi lontani e, cristallizzato nella sua semplice bellezza, trasmette pace e di tranquillità, quelle stesse sensazioni che emanano i dipinti di Renoir: una pacata, semplice felicità. Scriveva Jean Renoir “Ho girato dei film che ho desiderato girare. Li ho girati con persone che erano più che dei collaboratori, erano dei complici. Ecco, io credo, una ricetta della felicità: lavorare con persone che si amano e che vi amano molto”. In queste parole viene svelato anche il segreto della gioia di vivere leggera, ma palpabile che emanano le opere di Renoir: sono il lavoro di un artista circondato da persone che lo amavano e che amava molto.
Barbara Castellaro
Il Mondo era il giornale che il grande pubblico non leggeva, ma che non mancava sulle scrivanie di sostenitori e avversari e, in particolare, negli uffici dei palazzi che formavano l’establishment di allora. “Perché uomini come Moravia e Montanelli – si interrogava Domenico Bartoli su Epoca, nel 1968 – dovevano tenere il parere di Pannunzio in maggior conto di quello dei critici più conosciuti? E perché grandi personaggi come Croce, Salvemini e Einaudi, tanto più vecchi e famosi di lui, assai diversi l’uno dall’altro, gli avevano concesso interamente la loro stima e fiducia?”.
Chiesi a Fabrizio Chieli segretario della Gli torinese quale posizione avrebbero dovuto mantenere gli universitari liberali dopo che le rappresentanze dell’Intesa – il Parlamentino universitario – erano andate dissolte. Non seppe o non volle darmi un orientamento preciso, non sembrava pronto ad affrontare il tema della contestazione, forse anche perchè, ormai, era fuori dall’Università e non coglieva ciò che stava accadendo a Palazzo Campana.
Articolo 1: Torino geograficamente magica
L’elenco è ancora lungo. Luci improvvise nella notte, voci che si perdono tra le vie più strette, oggetti che si spostano, anime che non si arrendono a doversi distaccare da questo mondo. E in questa moltitudine di spiriti vi sono anche delle vittime di tragiche storie d’amore, come quella della figlia di “Monsù Druent”, vissuta a Palazzo Barolo. Elena Matilde Provana di Druento, figlia del conte Giacinto Antonio Ottavio Provana di Druento, si sposò con suo cugino, il marchese Gerolamo Gabriele Falletti di Castagnole, il giorno 3 febbraio 1695. Il matrimonio combinato si trasformò, come in una bella favola, in un matrimonio d’amore, tuttavia i due protagonisti non riuscirono ad avere il loro lieto fine. Il giorno delle nozze avvenne un doppio infausto presagio: crollò un pezzo dello scalone del palazzo e la sposa perse la collana che le era stata regalata dalla duchessa Anna Maria di Orléans. Nonostante gli avvertimenti del destino, la cerimonia non venne interrotta. Dall’unione dei due nacquero tre figli. Successe poi che “Monsù Druent” non volle pagare la dote della figlia e se la riprese in casa. Elena impazzì dal dolore e il 24 febbraio del 1701 si suicidò lanciandosi dalla finestra del primo piano. Quell’anno c’era molta neve e il colpo si attutì, la donna non morì sul colpo, ebbe il tempo di essere riportata nel palazzo e di spirare distesa su una panca di pietra che si trovava nell’androne.
Almeno 10.000 caduti tra gli imperiali, circa 2000 francesi tra morti e feriti, un territorio percorso e devastato da 30.000 soldati che causarono lutti e sofferenze nella popolazione locale. In quel giorno di primavera Ceresole d’Alba diventò un immenso campo di battaglia. Nel paese di poco più di 2000 abitanti, a una decina di chilometri da Carmagnola, il Museo della Battaglia, aperto lo scorso autunno, racconta il sanguinoso scontro tra le truppe francesi di Francesco I e l’esercito imperiale di Carlo V che lasciò sul terreno migliaia di morti, feriti e mutilati.
firmata a Crépy sarà solo una tregua di breve durata. Dopo Ceresole d’Alba i francesi dilagarono in Piemonte. Anche Alba, Chieri, Casale, Ivrea e gran parte del Monferrato caddero nelle mani dell’armata transalpina. A metà del Cinquecento un’ampia fetta del Piemonte era stata annessa al regno di Francia ma dopo pochi anni la situazione internazionale mutò drasticamente. Nel 1557 la disastrosa sconfitta dei francesi a San Quintino (Saint-Quentin), nel nord della Francia, annientati dalle truppe imperiali condotte da Emanuele Filiberto, duca di Savoia (battaglia celebrata dal Caval’d brons in piazza San Carlo a Torino) condusse poco alla volta alla pace di Cateau-Cambrésis nel 1559 che pose fine alle guerre d’Italia. Enrico II di Francia abbandonò i territori occupati in Savoia e in Piemonte anche se estese il suo dominio al Marchesato di Saluzzo e mantenne presidi militari nelle cittadelle di Torino, Chieri, Pinerolo e Chivasso. La prematura morte del conte d’Enghien, all’età di ventisette anni, fu causata da un banale incidente durante un gioco in un castello. Quando il Museo di Ceresole verrà riaperto, una volta superata l’emergenza sanitaria, il visitatore potrà seguire le tattiche e i movimenti degli eserciti sul territorio attraverso dei video raccontati da storici ed esperti militari ammirando reperti e cimeli storici.
“Storie dal Marocco. Oggetti testimoni di identità e memoria”. Fino al 30 agosto
e i piccoli oggetti adibiti al makeup. Oggetti partecipi di una sorta di “museo ideale”, selezionati dalle famiglie e in particolare dalle donne marocchine per farne memoria viva del loro Paese, curando- con il personale del Museo di via San Domenico- ogni dettaglio della piccola ma suggestiva mostra, dalla scelta dei materiali all’esposizione in vetrina fino alla scrittura delle didascalie. “Nel passaggio dall’oggetto al suo racconto – dicono ancora gli organizzatori – il patrimonio materiale si è così arricchito di un prezioso aspetto immateriale di ‘memoria’ e ‘testimonianza’: la cultura oggettiva e i ricordi personali delle partecipanti hanno in tal modo preso forma in tante narrazioni legate a oggetti iconici”. In cui raccontarsi, in un “mettersi in mostra” che è voglia e desiderio palese di confronto e dialogo. Mano tesa e voce amica. Per davvero bella da ascoltare.