Questo articolo esce in memoria dei Martiri del Martinetto di cui ricorre oggi il ricordo e di cui Valdo Fusi ha raccontato la tragica e nobile storia Il Sacrario del Martinetto è un luogo simbolo di una religione civile di grande importanza che si mescola con la testimonianza umana e religiosa dei Caduti sotto il piombo di sicari fascisti
Di Pier Franco Quaglieni
È impossibile cercare di “commemorare” Valdo Fusi, l’uomo che, come osservò Luigi Firpo, si sarebbe giocato la carriera per il gusto della battuta. In effetti, quella carriera se la giocò per una cosa molto più seria: l’amore per la verità e il coraggio di andare contro corrente. Sempre e ovunque. Si può al massimo “ricordare” Valdo, anche se è impossibile far rivivere le ore trascorse con lui, parlando, scherzando, passando dall’ironia più bonaria all’invettiva più feroce. Su tutt’altro versante e in modi molto diversi, io ricordo solo Longanesi, Flaiano, Maccari, ma in Fusi c’era una tensione morale, un rigore civile che rendono sbagliato ed improprio questo accostamento. Egli ci appare, nello stesso istante, lontano e vicino: lontano perché appartiene ormai a quella “Torino civile”, di cui si sono perdute le tracce; vicino perché è proprio a uomini come lui che bisognerebbe guardare per cercare di uscire dalla palude del conformismo.
Partigiano, membro del Comitato militare del Cln piemontese in rappresentanza della Dc, subì l’arresto e il processo che condusse nell’aprile 1944 gli uomini del gen. Perotti davanti al plotone d’esecuzione al Martinetto. Fusi fu assolto per insufficienza di prove e ritenne quella sorte come una missione: ricordare gli eroi del Martinetto. Nel dopoguerra fu deputato, consigliere comunale, presidente dell’EPT e dell’Ordine Mauriziano, ma lo stesso Fusi considerò tutto ciò una “parentesi” perché tornò a fare l’avvocato come prima della guerra, senza farsene un problema. Era un uomo inadatto alla politica intesa in modo settario e meno che mai per l’“affarismo”: si rivelò incapace persino di praticare la politica al fine di soddisfare pur legittime ambizioni. Pari a lui fu solo Silvio Geuna, anche lui partecipe e vittima della tragedia, dopo un fulmineo processo-farsa, in cui si offrì di sostituire il generale Perotti davanti al plotone di esecuzione, essendo il generale padre di tre figli e lui celibe.
Ci ha lasciato due libri, il già citato Fiori rossi al Martinetto e Torino un po’, uscito postumo, che, a parere di molti critici, ci possono far parlare anche di un Fusi scrittore. Sono testimonianze preziose, libri che vanno letti e che soprattutto si è portati naturaliter a rileggere, per il modo in cui sono stati scritti e per le cose importanti che contengono. Fiori rossi al Martinetto è, anche sotto il profilo letterario, un libro importante. Esso non è solo la testimonianza storica di ciò che capitò al Comitato militare del Cln piemontese nell’aprile 1944 a Torino e che ebbe il suo epilogo eroico al poligono del Martinetto. Valdo Fusi è stato uno scrittore autentico. Nel convegno voluto dal Centro “Pannunzio”, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 24 novembre 1977 su Valdo Fusi scrittore in modo particolare Lorenzo Mondo e Riccardo Massano lo dimostrarono con totale evidenza. Lorenzo Mondo sostenne che Fiori rossi è uno di quei libri unici che si scrivono una sola volta nella vita. Evidenziò «la limpidezza della scrittura» che lo caratterizza. Secondo Mondo, Fusi ha in parte guardato a Le mie prigioni del Pellico, ma è andato anche molto oltre l’esempio della letteratura carceraria perché in quel libro si sente «il fiato di nomi grandi, di nomi alti […]». Riccardo Massano affermò: «[…] Fusi è uno scrittore nato, perché per lui lo scrivere è come respirare. Non che non avesse una straordinaria cultura che nelle pagine affiora ed è consegnata persino a quelle epigrafi straordinarie che costellano tutti i suoi libri […] e che non sono solo letture fuggevoli e frivole» […]; è uno «scrittore nato, ma non in senso stretto uno scrittore letterato o, almeno non uno scrittore letterario. Per lui questo nodo di vita e di scrittura diciamo pure di vita e d’arte, era qualcosa di così intenso, che per un certo momento la sua vitalità ha travolto la sua stessa possibilità di scrittura».
Ed ancora: «Fiori rossi al Martinetto sarebbe potuto essere un libro di memoria e invece è un libro di vita, un libro vivo».Un altro critico, Giorgio Calcagno, nel convegno promosso sempre dal Centro “Pannunzio” il 9 marzo 1985 sostenne: «Fiori rossi al Martinetto non è un’epopea; e nemmeno, a rigore, un libro di cronaca, sia pure di un episodio fra i più importanti della guerra partigiana. È una testimonianza personale per scorcio con il segno, e meglio l’unghiata, inequivocabile del suo autore. Fusi gioca tutto il proprio racconto su una duplice prospettiva incrociata quasi avvalendosi di un cannocchiale che capovolge in continuazione: per ingrandire gli altri, per rimpicciolire sé stesso. L’atteggiamento dominante è quello dell’understatement, il tenersi sotto tono, quasi sorridendo di sé per abbassare il tragico, spegnere la tentazione dell’epico». Si tratta di un libro esente dal “reducismo” che tanto danno ha provocato alla memoria storica della Resistenza, nel quale rivive lo spirito migliore che animò quegli uomini che decisero di riscattare l’infamia dell’8 settembre 1943, impegnandosi in prima persona nella guerra partigiana e patriottica. Lo scrittore Piero Chiara colse solo in modo parziale la figura di Fusi quando osservò: «Valdo era un irriducibile. Voleva, come tanti allora, un’Italia libera, cristiana, democratica, onesta e dignitosa […]. Fusi era di quelli che non tollerano l’indifferenza e si votano all’impegno». Infatti va anche precisato che Fusi non conobbe mai l’engagement di tanti intellettuali, perché rimase un uomo libero, totalmente svincolato da discipline che non fossero quelle dettate dalla sua coscienza morale. Uno scrittore che scriveva anche per il piacere di scrivere, di comunicare con gli altri con quello spirito che Luigi Firpo ha giustamente così sintetizzato: «un eterno giovane vivacissimo, ilare, segnato da un umorismo schietto, non di rado tagliente, al quale, in fondo, egli sacrificò anche il successo».
Nel 1970 il Teatro Stabile di Torino commissionò a Davide Lajolo, il mitico “Ulisse” della Resistenza, la riduzione teatrale di Fiori rossi al Martinetto. Lajolo intese ispirarsi al libro di Fusi troppo liberamente con un taglio politico e persino ideologico che Fusi non poteva condividere. Ha scritto Nuccio Messina, direttore del Teatro in quegli anni: «Il tentativo – forse ingenuo – di mettere d’accordo un democristiano storico e fervente come Valdo Fusi e un comunista rigoroso come Lajolo era fallito. […]. Erano tempi di divisioni profonde. Nel nostro caso i protagonisti erano Fusi e il suo libro: li avevamo scelti e ad essi dovevamo riferirci. E Fusi aveva ragione». Forse Messina enfatizza un po’ il “radicalismo” democristiano di Fusi che già alla fine degli Anni Sessanta era molto deluso dal suo partito, ma appare fuor di dubbio (e chi scrive può testimoniarlo) che Fusi avesse detto chiaramente che la Resistenza come lotta di classe era quanto di più estraneo ci potesse essere rispetto al suo libro in cui la pietas cristiana (e, quindi, il valore della fratellanza umana e del perdono) era l’elemento prevalente. Lajolo, a sua volta, operò in anni successivi una sorta di revisione critica delle proprie posizioni, ma resta il fatto che lo spettacolo teatrale non si poté realizzare perché Fusi, andando contro i suoi interessi materiali anche in questa occasione, mise il veto ad un’operazione che avrebbe sicuramente giovato ad un ulteriore successo del libro.
In particolare, sono da ricordare due tratti della sua personalità che mi sembrano importanti e che forse non sono mai stati abbastanza messi in luce. Fusi fu cattolico di fede indiscussa, ma certo fu anche il più laico e il meno clericale dei cattolici militanti. La civiltà a cui si richiamava era quella fondata sulla tolleranza e sul rispetto per le idee degli altri, come aveva appreso anche da Augusto Monti al Liceo “d’Azeglio” di Torino. Per altri versi, si differenziò anche rispetto a molti ex “dazeglini” perché nel 1968 sentì fortemente la sua distanza ideale e morale rispetto alla contestazione, vedendo in essa una sbornia ideologica intollerabile e un che di «belluino», come disse quando venne la prima volta al Centro “Pannunzio”. Egli aveva colto assai bene che il problema della tolleranza era da vedersi anche rispetto alle ideologie presuntuose e invadenti ed ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Primo Levi che non aveva accettato di venire a un incontro promosso dal Centro “Pannunzio” nel 1972 perché altri invitati «non erano abbastanza di sinistra». Ed ebbe il coraggio di metterlo nero su bianco, pur non facendo nomi, per altro desumibili dal biglietto di invito. Nella esperienza tragica del processo davanti al Tribunale Speciale e nel corso della Resistenza, aveva imparato a conoscere e ad apprezzare uomini di diverso orientamento politico come il comunista Eusebio Giambone, i partigiani di G.L., delle Brigate Matteotti e delle formazioni autonome, con cui collaborò lealmente. Egli fu amico, ad esempio, di Enrico Martini Mauri e ci fu chi ritenne un suo errore aver mantenuto l’amicizia con una medaglia d’oro della Resistenza caduta in disgrazia per il suo anticonformismo. Andrebbe anche detto che negli anni dopo la fine della guerra civile finì di far prevalere – pur nel suo fermissimo antifascismo – il valore del perdono cristiano. Egli era un cattolico che leggeva “Il Mondo” di Pannunzio, tanto per citare un esempio.
Il senso dell’impegno cristiano, umano e politico di Fusi trova la sua sintesi in questa lettera che indirizzò a “La Stampa” nel 1955: «[…] Ignoravo un problema a cui non avevo pensato mai. Dove sono sepolti ceux d’en face, i combattenti di Salò? Il dottor Catalano mi ha risposto: non hanno sepoltura. Dovremmo essere noi resistenti a provvedervi. Se sul piano delle idee nessuna conciliazione sarà mai possibile, se noi rifiuteremo sempre l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, nei rapporti tra uomo e uomo è necessaria la più illuminata apertura dell’animo, e magari l’indulgenza. Indulgenza del resto che ha trovato nelle leggi della Repubblica la sua consacrazione. Dobbiamo cancellare ogni traccia della guerra civile, sul piano umano. È dovere nostro concedere, e subito, quell’onorata sepoltura che a molti dei nostri amici negarono questi nostri nemici. Se non sarò il solo resistente a pensare così, verserò il mio contributo alle spese occorrenti. Altrimenti, provveda il Comune. Suppongo di avere le carte in regola per avanzare siffatta proposta e non dubito che i Geuna, i Passoni, i Coggiola, i Grosa, l’accetteranno». Nel trentennale della Liberazione nel 1975 si rifiutò di tenere commemorazioni, dicendomi: «Sai, non credo più in queste manifestazioni: stanno imbalsamando la Resistenza». Quando nel 1975 salii a Isola d’Asti per dargli, insieme a tanti altri, l’estremo saluto, Mario Bonfantini, che era vicino a me in macchina, disse – e successivamente lo scrisse – che quella collina astigiana era «un paese di dolce grazia fantasiosa che sottende un duro fondo eroico» ed aggiunse che tutto ciò gli faceva pensare all’intima personalità di Valdo, che solo noi, suoi amici, abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.
È significativo che la Giunta di sinistra andata al governo della città di Torino con toni trionfalistici e obiettivi vistosamente egemonici, abbia deliberato, a pochi mesi dalla sua morte, di dedicargli una piazza torinese che è diventata il mostro orribile che è ora il piazzale. C’è stato chi ha affermato che il Sindaco Diego Novelli avesse dovuto affrontare l’opposizione da parte di esponenti del suo partito all’intitolazione per motivi che non fanno loro onore. Novelli tirò dritto per la sua strada e intitolò la piazza che poi divenne un parcheggio di auto, sia pure ombreggiato da molti alberi. Quando una Giunta successiva decise di costruire sotto la piazza un parcheggio sotterraneo, eliminò gli alberi e si affidò ad un concorso internazionale per ridisegnare la piazza sovrastante. Ne derivò quello che divenne un mostro. Fusi si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse potuto vedere quel piazzale incredibile, un vero pugno in un occhio, anzi una ferita inferta alla città a cui nessuno ha voluto in qualche misura porre rimedio, neppure il Comitato che si fregiò del nome di Fusi e quasi subito si arrese.
Il «solito Fusi»
Di fronte a Fusi non contano le distinzioni di parte, vale soltanto la stima per un uomo che non smise mai di desiderare un’altra Italia, diversa da quella in cui era vissuto, un’Italia più limpida sotto il profilo etico-politico e più libera rispetto ai pregiudizi, alle faziosità e alle asprezze del “secolo breve”.
A tanti anni di distanza forse posso lasciarmi andare a una confidenza. Molti di noi erano preoccupati per l’avvento di una Giunta di sinistra al Comune di Torino, frutto anche del modo dissennato – un vero e proprio cupio dissolvi – con cui la Dc gestì le amministrazioni dal 1970 al 1975. Dopo la fine del mandato affidato a Giovanni Porcellana nel 1970, ci furono risse interne alla Dc che portarono al paradosso del socialista Guido Secreto a capo di una Giunta monocolore democristiana. Dopo, arrivò un galantuomo come il sindaco Giovanni Picco che chiuse il quinquennio, cercando di recuperare il terreno perduto, ma dovendo affrontare infinite difficoltà. Si trattava di candidare nel 1975 un uomo limpido, capace, credibile, come si direbbe oggi. Un candidato sindaco quasi super partes, un grande torinese come fu Peyron. Io partecipai ad alcune riunioni “clandestine” a cui presero parte amici liberali, socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Sono tutti morti, ma preferisco non farne i nomi, essendoci scambiata la parola d’onore che mai avremmo rivelato chi partecipava agli incontri. Rassicuro subito: non eravamo una loggia coperta o, come si diceva allora, un piccolo “superpartito”. Tutti pensammo a Valdo Fusi come Sindaco di Torino. Non trovammo il tempo neppure di parlarne con l’interessato. In una pausa del Consiglio comunale ne accennai al conte Edoardo Calleri di Sala, potentissimo e capacissimo leader della Dc, che mi disse: «Il solito Quaglieni che propone il solito Fusi. Voi sognate, non fate politica». Confesso dopo molti anni che quell’abbinamento tra Fusi e me, giovane assistente universitario, fu uno dei più bei complimenti che mi fecero e di cui vado orgoglioso. Come ci sarebbe bisogno anche oggi, di tanti «soliti Fusi»!
(Valdo Fusi: Pavia 1911 – Isola d’Asti 1975)