STORIA- Pagina 137

13 luglio 1970 – 13 luglio 2020

Nel tardo pomeriggio di lunedì 13 luglio 1970, alle ore 17, iniziò nell’aula ottocentesca del Palazzo delle Segreterie di piazza Castello a Torino (sede gentilmente offerta dalla Provincia), la seduta inaugurale della I Legislatura del primo Consiglio regionale della storia del Piemonte.

Alla presenza dei 50 consiglieri eletti il 7 giugno 1970, di numerose Autorità e con l’esposizione dei gonfaloni dei Comuni insigniti dalla medaglia d’oro, il Consigliere anziano Gianni Oberto Tarena, interpretando appieno la solennità e l’emozione del momento storico che tutti avvertivano, aprì la seduta con queste parole: “Da questo momento la Regione Piemonte, costituita in Ente autonomo, esercita propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione”. 

“Il mio discorso deve avere anche un contenuto politico – proseguì Oberto – che riaffermi la fede e i propositi che l’accompagnano in questo nuovo ente che trova la sua collocazione nella volontà politica e per noi adesso nell’adempimento di quel documento fondamentale che è al Costituzione nata dal travaglio ella riscossa e del riscatto che ha avuto e d ha nella lotta di liberazione il suo fermento, il suo lievito, il suo fondamento, il suo insegnamento”.
Proseguendo Oberto fece riferimento alle deleghe di compiti e funzioni alle Province e agli altri Enti territoriali, ai 1209 Comuni prima di tutto. Sottolineando le funzioni della Regione come “essenzialmente normative in senso legislativo e programmatorio prima che esecutivo”. Un cenno nel suo discorso andò anche al tasso di immigrazione che “che per il Piemonte è altissimo: il saldo migratorio nel decennio 1958-1968 si chiude con la impressionante cifra di 521.567 unità e siamo oggi a 4.400.000 abitanti”. Oberto parlò anche dell’imminente stesura dello Statuto della Regione: “i 120 giorni fissati per tale adempimento non sono molti ma la Regione Piemonte, nel solco della sua tradizione di laboriosità, penso vorrà rispettare i termini”.

All’intervento di apertura del presidente provvisorio fecero seguito quelli dei rappresentanti degli schieramenti politici presenti in Consiglio, partendo dai minori per arrivare a quelli più numerosi.
Il primo consigliere a cui il presidente diede la parola fu Mario Giovana (PSIUP-PCI) il quale, dopo aver sottolineato duramente che erano passati ben 22 anni prima di giungere della costituzione delle Regioni, disse: “Riteniamo spetti a questa assemblea farsi momento promotore e collettore delle spinte nuove che emergono dal travaglio di crescita della nostra società, stabilendo rapporti diretti e sostanziosi con quante istanze di democrazia e di autogoverno delle masse vengono maturando in seno al corpo sociale”.
Seguì l’intervento di Domenico Curci, consigliere del MSI, che subito precisò la sua posizione: “Quali rappresentanti dell’unico partito politico che nel parlamento nazionale ha portato coerentemente, sino alle estreme conseguenze, la sua opposizione all’istituzione delle Regioni, ma che come è nella sua morale e nelle sue tradizioni, rispetta istituti, metodi e principi che pur avversa quando essi sono parte integrante della legislazione e degli ordinamenti dello Stato, ci accingiamo a compiere, nella Regione che vede oggi la luce il nostro dovere al servizio della Nazione”.
La parola passò poi ad Aldo Gandolfi, consigliere del PRI, che iniziò il suo intervento dicendo: “…rappresento una corrente, un partito politico che da quasi un secolo conduce una battaglia regionalista. Attraverso una corretta realizzazione delle Regioni passa in concreto la possibilità di realizzare anche nel nostro Paese una moderna democrazia industriale”.
Terenzio Magliano, consigliere del PSU, disse: “… ci accomuna e rende possibile il discorso la convinzione di dover passare, sia pure nel confronto critico continuo, attraverso la sola e unica strada possibile, quella democratica nella quale tutte le riforme sono possibili e tutti gli apporti costruttivi hanno incidenza e lasciano traccia duratura”.
Il consigliere del PLI Cesare Rotta, esordì citando Einaudi: “Come liberali noi siamo assertori del decentramento delle istituzioni e della devoluzione del potere in modo da rendere possibile, al maggior numero di cittadini di conoscere e controllare l’operato della pubblica amministrazione e di occuparsi della cosa pubblica. L’ordinamento regionale non può essere una federazione di sovranità frazionate e divise, deve essere un sistema di autonomie decentrate. Luigi Einaudi ci ammoniva che l’unità del Paese non è data dalle circolari, dalle istruzioni, e dalle autorizzazioni romane; l’unità del Paese deve essere fatta dagli italiani i quali imparino a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé”.
Nerio Nesi, consigliere regionale per il PSI – dopo aver sottolineato con forza la necessità di procedere speditamente alla stesura dello Statuto regionale – così analizzò la situazione del Piemonte di quegli anni: “Qui risiedono alcuni tra i più grandi, gruppi industriali e finanziari europei, ma qui è quasi completamente assente l’impresa pubblica, qui si è riscontrato il più grande fenomeno immigratorio che ricordi la storia del nostro paese, ma qui vi è stata la maggiore diminuzione di occupazione che si sia verificata in questi anni in Italia. Ciò è dovuto soprattutto alla disoccupazione giovanile, fenomeno che diventa sempre più preoccupante ed al massiccio abbandono delle campagne. In questa Regione si costruiscono manufatti perfetti, ma qui si assiste a forme, fra le più odiose, di speculazione e di sfruttamento”.
Conclusero il primo gruppo di interventi i consiglieri dei due partiti politici principali, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana.
Dino Sanlorenzo, consigliere del PCI, dedicò buona parte del suo discorso alla questione meridionale: “… proprio nel giorno in cui si insediano, insieme al nostro, altri Consigli regionali di alcune Regioni meridionali che hanno tanti loro figli nel Piemonte di oggi, noi, comunisti, vogliamo ricordare a noi stessi e alle forze politiche piemontesi la lezione di Gramsci, la necessità di unire i lavoratori venuti da tutte le Regioni, realizzare intanto qui la saldatura fra nord e sud e al tempo stesso operare perché siano affrontati e risolti con metodi e contenuti nuovi i problemi di uno sviluppo distorto, caotico non programmato secondo gli interessi della collettività, diretto sinora dai gruppi privilegiati che questi problemi hanno mantenuto e aggravato in tutti questi anni”.
L’ultimo intervento fu quello di Adriano Bianchi, rappresentante della forza politica più numerosa in Consiglio regionale, che espresse gli obiettivi della Democrazia Cristiana in Piemonte: “L’azione della Regione – disse Bianchi – non può realizzarsi ed esaurirsi nel rapporto e nel confronto fra gli schieramenti politici, o nella loro iniziativa, ma comporta un collegamento con ogni sede in cui si riveli o possa essere suscitata una esigenza di autogoverno. … La risposta che si coglie nella visione di un’unica polis, di un’unica città-regione, senza periferie e senza mura esterne, nella quale le autonomie locali, anche le più esigue, trovino un quadro di riferimento, un modello, una funzione valida”.

Venne poi eletto l’Ufficio di Presidenza, che risulterà così composto: Paolo Vittorelli (PSI) presidente (eletto con 46 voti favorevoli e 4 schede bianche su 50), Gianni Oberto Tarena (DC) e Dino Sanlorenzo (PCI) vicepresidenti, Stanislao Menozzi (DC) e Cesare Rotta (PLI) Consiglieri Segretari.

Il neo presidente del primo Consiglio regionale del Piemonte, il senatore Paolo Vittorelli, tenne quindi il suo discorso di insediamento sottolineando i caratteri peculiari del nuovo ente.
“Noi non siamo un ente autonomo come gli altri. Non pretendiamo di essere un Parlamento. Ma, nello stesso tempo, noi dobbiamo essere consapevoli che il Consiglio regionale è qualcosa di diverso dal Consiglio delle altre Amministrazioni autonome – disse Vittorelli -. Non foss’altro che per la struttura della quale noi siamo dotati; struttura che presenta alcune analogie con quella degli organi di carattere nazionale. Non è per puro caso che il Consiglio regionale, diversamente dai Consigli provinciali e dai Consigli comunali, è dotato di organi assembleari e di organi di governo; e la distinzione delle loro funzioni è diretta conseguenza delle caratteristiche che la Regione assume nella Costituzione della Repubblica, caratteristiche secondo le quali la Regione è il primo ente autarchico al quale sia stata conferita potestà legislativa e al quale, nello stesso tempo, siano state attribuite funzioni di controllo sugli altri enti locali”.
“Nello stesso tempo – proseguì Vittorelli – come ente autonomo, siamo anche un ente dotato di una propria sfera, sia pur limitata, di sovranità, fissata negli articoli 117 e 121 della Costituzione della Repubblica. Sfera di sovranità che consente alla Regione, su materie esplicitamente enunciate, di emanare norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti nelle leggi dello Stato….. Si tratta di una innovazione importante nel nostro ordinamento amministrativo, in quanto la Regione assume, in questo modo, una responsabilità che, fino ad oggi, in tutta la storia delle nostre autonomie locali, nessun ente locale era riuscito a conseguire”. ” Vorrei, per concludere, Signori Consiglieri, ricordare che la nostra non è una Regione come le altre. Questo non soltanto perché è una Regione industrialmente sviluppata, ma anche perché ha avuto una funzione importante nella storia del nostro Paese. Non voglio ricordare per esteso la funzione che essa ebbe cent’anni fa: desidero soltanto ricordare a questo riguardo che da questo territorio partì una tradizione di correttezza amministrativa che, con la complessità dei problemi sorti dopo l’Unità d’Italia, andò a poco a poco disperdendosi. In questa Regione noi possiamo ricostituire le condizioni di questa correttezza amministrativa, anche perché i problemi che ci stanno davanti sono problemi di una gravità estrema”.

Alle 20.45 di un caldo lunedì sera, il 13 luglio 1970, il presidente Vittorelli pronunciò le solenni parole conclusive: “La seduta è tolta”. Da quella importante serata ebbe inizio la storia della Regione Piemonte che è arrivata oggi, a 50 anni da quel giorno, alla sua undicesima legislatura.

Dall’Ufficio stampa di Palazzo Lascaris

Cinquant’anni fa nasceva la Regione Piemonte

Esattamente cinquant’anni fa, il 13 luglio 1970 (ironia della sorte anche quel giorno cadeva di lunedì) muoveva i suoi primi passi ufficiali la Regione Piemonte.

Riuniti nel Palazzo delle Segreterie in Piazza Castello, i cinquanta membri del primo Consiglio regionale del Piemonte, diedero inizio alla fase costituente dell’Ente la cui nascita era stata prevista nella Costituzione entrata in vigore nel 1948.

L’annuncio  dello storico evento, pronunciato dall’avvocato canavesano Gianni Oberto Tarena, presidente provvisorio dell’Assemblea, venne suggellato dall’applauso unanime dell’intero Consiglio e delle autorità che presenziarono alla cerimonia di insediamento.

Nella stessa seduta si procedette all’elezione del Presidente, il socialista Paolo Vittorelli, coadiuvato dagli altri componenti dell’Ufficio di Presidenza formato dai Vicepresidenti Gianni Oberto Tarena (DC) e Dino Sanlorenzo (PCI), dai segretari Stanislao Menozzi (DC) e Cesare Rota (PLI).

Dieci giorni più tardi, il 23 luglio, il Consiglio procedette all’elezione del primo governo regionale guidato dal Presidente Edoardo Calleri di Sala, esponente della Democrazia Cristiana. Ne fecero parte, oltre al Presidente, altri 15 membri: 11 effettivi (Giovanni Falco, Angelo Armella, Augusto Dotti, Domenico Conti, Pierino Franzi e Carlo

Gianni Oberto Tarena

Borando della DC, Aldo Viglione e Mario Fonio del PSI, Germano Benzi e Giulio Cardinali del PSDI (ex PSU) e Aldo Gandolfi del PRI)  e 4 supplenti (Anna Maria Vietti, Ettore Paganelli, Enzo Garabello e Mauro Chiabrando, tutti appartenenti allo scudo crociato).

L’appuntamento con le urne per eleggere i cinquanta membri del “parlamentino” subalpino si era tenuto poco più di un mese prima, il 7 e 8 giugno del 1970. Nove erano stati i partiti in lizza sulle cui liste si erano riversati  i 2.805.786 voti validi, determinando la composizione del primo Consiglio regionale sulla base proporzionale della rappresentanza politica: 20 seggi alla DC, 13 al PCI, 5 al PSI, 4 al PSDI (a quel tempo PSU), 4 al PLI, 2 al MSI e infine uno ciascuno a PRI e PSIUP.

Unico partito che non raggiunse il quorum per eleggere un consigliere fu quello monarchico del PDIUM. Dopo una lunga attesa durata oltre vent’anni le Regioni, segnata da una gestazione molto laboriosa e non facile, il regionalismo muoveva i suoi primi passi. In mezzo secolo è stato compiuto un lungo cammino da parte della comunità regionale piemontese che quest’anno festeggia anche il terzo lustro dell’approvazione del nuovo Statuto.  Quindici anni fa, durante la VII legislatura, infatti, venne ridefinito il profilo istituzionale della Regione nell’ottica dell’autonomia e della partecipazione, della devoluzione dei poteri e della sussidiarietà.

Gianni Oberto Tarena con Paolo Vittorelli

 

 

Nel corso dei decenni  le funzioni regionali sono aumentate e con esse il ruolo e la responsabilità fino a ipotizzare nuovi e importanti traguardi nella realizzazione di un federalismo moderno, rispondente alle esigenze dei territori e dei cittadini in una cornice istituzionale basata su rapporti nuovi e condivisi tra lo Stato, il sistema regionale e gli Enti locali.

Basterebbe uno sguardo ai provvedimenti più importanti che sono stati varati in cinquant’anni per rendersi conto del lavoro svolto nel corso delle undici legislature da una classe dirigente di amministratori e legislatori appartenenti alle diverse forze politiche alternatesi al governo della Regione.

Marco Travaglini

 

Srebrenica, venticinque anni dopo il genocidio

/

L’11 luglio di venticinque anni fa, nella calda estate del 1995, nel cuore del Balcani sconvolti dalla guerra cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del ‘900 in Europa. In quella cittadina tra le montagne della Bosnia nord-orientale, enclave musulmana a pochi chilometri dalla Drina, oltre diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. Fu un genocidio, riconosciuto tale dal Tribunale internazionale per i criminini nella ex-Jugoslavia dell’Aja. Vogliamo ricordare quel dramma atroce con il racconto di un viaggio della memoria a Srebrenica con un gruppo di studenti piemontesi. L’autore, il nostro collaboratore Marco Travaglini, è da sempre un attento osservatore delle questioni balcaniche alle quali ha dedicato molti articoli e i libri “Bruciami l’anima” e “Bosnia, l’Europa di mezzo.Viaggio tra guerra e pace,tra Oriente e Occidente”.

 

Un giorno a Srebrenica

di Marco Travaglini

La strada da Tuzla a Srebrenica è tutta a curve e tornanti e si snoda, per la maggior parte, nel territorio  della Republika Srpska. Oltrepassata  la periferia urbana di Tuzla, all’improvviso il paesaggio cambia. C’è molto verde, con boschi e prati. S’attraversano piccole borgate contadine con i segni del conflitto ancora evidenti sui muri delle case. S’avverte la povertà tra i panni stesi, i mucchi di letame secco e  le stoppie. Unica presenza quasi continua, di là dal ciglio della strada, sono le lapidi di irregolari  cimiteri. Le indicazioni stradali sono in cirillico. Da tanti anni, in questo angolo di Balcani, non si spara e non si muore  più, se non ci si avventura sconsideratamente tra i boschi ancora infestati dalle mine , ma la cappa di diffidenze, rancori e  odio resta appiccicata nell’animo delle persone. Del resto è difficile perdonare ciò che appare imperdonabile nel fondo delle coscienze di chi ha subito i torti e le violenze peggiori . Le distanze assumono una dimensione concreta, fisica se si pensa a quella mostruosità d’ingegneria istituzionale  rappresentata da una confederazione di due repubbliche basata sulle differenze etnico-religiose: da un lato la Federazione di Bosnia Erzegovina a maggioranza croato-bosniaca e di religione musulmana, dall’altro la Repubblica Srpska ( per alcuni “la piccola Serbia” di Bosnia) di religione ortodossa. Due mondi che faticano a comunicare, quando non si guardano in cagnesco. Due realtà separate, come ho letto in un reportage sul portale ecologista “Terra News”, “da una linea invisibile lunga più di mille chilometri. Non è mai segnalata, eppure ha un nome ben preciso: si chiama Ielb, Inter-entity boundary line, e ricalca più o meno fedelmente il fronte di guerra del 1995. Da quel momento in poi, il confine tra i due stati confederati non ha più avuto alcun bisogno di essere indicato. Tanto lo conoscono tutti: è rimasto scolpito in ogni ruga, in ogni memoria. La Ielb è la stessa linea che quel maledetto 11 luglio del 1995 i bosniaci in fuga cercarono disperatamente di raggiungere, passando per i boschi”. Dall’altro lato c’erano i luoghi che ci siamo lasciati alle spalle: il territorio libero di Tuzla, controllato dall’armata repubblicana bosgnacca, e quindi la salvezza. Per migliaia restò un miraggio e furono uccisi sul percorso della “marcia della morte” dalle truppe paramilitari serbe sguinzagliate sulle loro tracce dal generale Ratko Mladić, il boia condannato all’ergastolo dal Tribunale internazionale dell’Aja insieme all’altro criminale di guerra, Radovan Karadžić. Di lui si ricordano frasi agghiaccianti come “le frontiere sono sempre state tracciate col sangue e le nazioni delimitate dalle tombe”. Nell’ordinare la strage di Srebrenica Mladić raccomandò ai propri uomini di uccidere solo gli uomini perché “le loro donne devono vivere per soffrire”. Sono gli stessi uomini, ragazzi e vecchi i cui nomi sono impressi nell’enorme lapide di pietra che circonda la grande pagoda del Memoriale di Potočari . E’ lì che stiamo andando. Il pullman ci mette quasi tre ore a coprire una distanza di circa cento chilometri. I ragazzi chiacchierano, ridono, scherzano. Alcuni sono assorti nell’ascolto dell’iPod. Qualcuno dorme.  Arriviamo a Potočari e lasciamo il pullman a qualche centinaio di metri dal memoriale. Sono da poco passate le undici del mattino e fa molto caldo. Tra le file delle  steli bianche e verdi delle lapidi s’aggirano anziane donne. Camminano sotto il sole, ognuna  con la sua  bottiglietta d’acqua in mano. Si rimane sbalorditi dal senso di pace e dal silenzio. S’avverte appena il brusio, sommesso, della preghiera di un gruppo di musulmani raccolti con il loro mullah sotto la grande cupola della moschea all’aperto. La visita prosegue con l’intervento dei rappresentanti della municipalità di Srebrenica e la posa di una corona d’alloro del Consiglio regionale ai piedi della  lapide  con inciso 8372″. E’ il numero delle vittime, che corrisponde a quello ipotizzato quando venne aperto il memoriale. In realtà la cifra più attendibile è di oltre diecimila morti. Terminata la cerimonia si attraversa la strada per visitare l’ex-fabbrica delle batterie che fu la  base dei caschi blu dell’ONU, luogo dove si consumò la pulizia etnica nei giorni della vergogna. Il contrasto è netto. Se fuori fa caldo e la luce è accecante, dentro fa freddo ed è semibuio. La fabbrica, pur mantenendo gli ambienti originali con i grandi capannoni,  è diventata un museo. Sui muri ci sono le fotografie dell’assedio di Srebrenica, dei militari, delle fosse comuni. Alcuni pannelli raccontano  le storie di alcune delle vittime e accanto, dentro delle teche di vetro illuminate, ci sono gli oggetti personali che sono stati trovati accanto ai loro corpi. Ciò che resta di un orologio, un pacchetto di sigarette, un anello, un piccolo quaderno. Oggetti semplici, quotidiani, che fanno parte delle storie semplici di vite spezzate. Sui muri ci sono ancora le scritte e i disegni osceni dei militari olandesi. Gli stessi che avevano il compito di proteggere gli sfollati e non alzarono un dito. Ci sono anche due video. Il primo mostra quello stesso cortile nel primo pomeriggio dell’11 luglio 1995. È ingombro di automezzi  carichi di anziani, donne e bambini attorniati da paramilitari serbi e caschi blu olandesi. Le donne vengono separate dagli uomini con la collaborazione degli stessi caschi blu, forse impauriti da una possibile reazione. Poi i maschi spariscono per sempre nei boschi e le donne vengono selezionate: quelle più giovani sono portate all’interno, dove tuttora è intatta la ‘infertivno dom’, la stanza dell’inseminazione, corredata dalle scritte che sui muri celebrano orari e protagonisti di ogni stupro. Viene voglia di voltare lo sguardo ma gli occhi rimangono incollati alle immagini. Quelle donne, ferite e coraggiose,  sono le stesse donne che da tanti anni aspettano di ritrovare il corpo dei loro cari, ostinandosi a visionare ogni reperto trovato e effettuare gli esami del dna. E’ grazie a loro se tutto ciò oggi può essere raccontato. Al loro  dramma il Tribunale dell’Aja non ha mai riconosciuto un indennizzo di guerra poiché quel genocidio, si è detto, fu opera di singoli e non del governo serbo. Ed eccoli, nel filmato del documentario,i “singoli”: dagli “Scorpioni”, truppe paramilitari d’assalto, alle milizie di Mladić, il “boia di Srebrenica”. Si filmano da soli, in preda a un delirio di onnipotenza,  per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosnacchi disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alle frasche, gli sparano. Nel filmato si comprende bene la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere così allo stress di una mattanza. In questo caso di un genocidio. E’ una richiesta allucinante: “abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”. Le immagini scorrono, incollando gli sguardi allo schermo. Il silenzio si fa ancora più assordante. Di tanto in tanto un rumore metallico ( basta appoggiarsi  o inciampare in qualche struttura per provocarlo e  amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento) lo  spezza , facendo sobbalzare i ragazzi. L’atmosfera è pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi. Non sono pochi quelli che, pur cercando in qualche modo  di mascherarlo, non reggono allo stress emotivo e piangono. In fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi  da  queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Mi sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca  di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta “Memorie di una testa tagliata”. Parole che fanno riflettere a Srebrenica. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti,vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”. Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alle pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna nulla nonostante ci offra un’infinità di cose sulle quali riflettere. Quando si esce dai capannoni  sotto il sole caldo e accecante sono quasi le tredici. E’ come s’uscisse da una tomba. Gli sguardi sono persi, attoniti, provati. I ragazzi salgono sul pullman ammutoliti. Difficilmente dimenticheranno ciò che hanno visto. Si  passa veloci dal centro di Srebrenica, si svolta e si torna indietro, costeggiando il grande cimitero dove ci sono ancora moltissime tombe provvisorie. Secondo i precetti musulmani, le steli  di legno verde devono anticipare di un anno la lapide definitiva in marmo bianco. Ma sopra ognuno di quei legni verdi,  c’è un nome e un cognome. E ci sarà qualcuno che, finalmente,  potrà ritrovarsi lì per piangere un padre, un marito o un figlio. Ci si lascia alle spalle, silenziosi, il cuore della memoria rimossa dell’Europa, mentre il sole s’avvia con una  lentezza esasperante verso il tramonto a ovest. Nella stessa nostra direzione. C’è chi fa notare che , a poche centinaia di chilometri , oltre l’Adriatico, c’è l’Italia. Non troppo lontana e ugualmente europea , anche se pare un altro mondo.

Morricone a proposito di monarchia e Risorgimento

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / In morte di Ennio Morricone è uscita sui giornali anche  questa sua dichiarazione : “Piansi anche per il Re, quando perse il referendum e fu costretto all’esilio. Per me la Monarchia era l’Italia del Risorgimento, che finiva per sempre”

.
Morricone era del 1928 e nel 1946 aveva 18 anni. Espresse un giudizio non positivo sul vecchio re Vittorio Emanuele III, ma giunse a dire che aveva pianto per Umberto II, il nuovo re che aveva suscitato tante speranze e che aveva comunque raccolto quasi 12  milioni di consensi.  Morricone  era un giovane, non era un vecchio ufficiale o un nobile legato alla corte sabauda  Mio nonno che aveva combattuto nella Grande Guerra pianse,nel 1947 all’annuncio della morte in esilio del Re del Piave, come lo definiva lui.
Morricone invece era un giovane che aveva vissuto consciamente le tragiche vicende italiane tra il 1943 e il 1945. Espresse un giudizio appassionato  sul nuovo Re che lo accomuna  idealmente ai giovani di Via Medina a Napoli che nel giugno del 1946 testimoniarono con la vita il loro attaccamento a Casa Savoia. Ma soprattutto e’ importante la seconda parte del suo pensiero  che identificava la Monarchia con il Risorgimento. Era il pensiero di un giovane, forse neppure molto colto in fatto di storia: concluderà infatti   i suoi studi musicali al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma proprio nell’ ottobre 1946. Quell’identificare la Monarchia con il Risorgimento era di alcuni grandi spiriti da Benedetto Croce a Luigi Einaudi. Francesco Carnelutti, Giorgio De Chirico, Anna Magnani, Maria Montessori , Padre Pio votarono per la Monarchia al referendum. Votò per il Re  persino il giovane  Eugenio Scalfari che aveva esordito sui giornalisti fascisti della capitale e che scrisse di aver obbedito a Croce in quella scelta istituzionale. Il grande storico di idee repubblicane Rosario Romeo nel suo libro “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale“ colse quella linea di continuità espressa in maniera semplice e immediata  da Morricone. Se penso alle  semplificazioni storiche, ridotte a battute di varietà,scritte di recente da Alessandro Barbero su Vittorio Emanuele II nel Bicentenario della nascita, constato come quella certa idea di Risorgimento non sia stata capita  da chi pure  pretende di farci costantemente  lezione, come e’ solito fare  il professore dell’Universita’ di Vercelli. Certo, c’è stato anche un Risorgimento repubblicano: Mazzini, Pisacane, Cattaneo, Ferrari. Fu gran cosa sotto il profilo etico, ma falì sul piano politico perché l’idea di unire l’Italia non poteva realizzarsi con la creazione ex novo di una repubblica ì, come già aveva intravisto tanti secoli prima  Machiavelli. Ci fu infatti anche chi come il repubblicano Garibaldi  mise la sua spada al servizio della Monarchia perchè essa era il fulcro su cui far leva per realizzare l’ unità d‘Italia. Francesco Crispi disse che la Monarchia ci univa e che la Repubblica ci avrebbe diviso. Un grande della musica novecentesca seguiva più o meno consciamente Giuseppe Verdi che fu anche patriota del Risorgimento. Poi Morricone fu tanto altro. Era  anche molto amico Mario Pannunzio e di sua moglie Mary. Una volta al Caffè Greco di Roma in via Condotti me lo  fece conoscere e il maestro si interessò del nascente centro Pannunzio, molto interessato perché c’era con noi anche il suo amico Mario Soldati. Avrei desiderato conferirgli il Premio Pannunzio, ma non fu possibile per i suoi tanti impegni internazionali. Mi deluse un po’ quando sostenne con forte partecipazione   nel 2007 Walter Veltroni, una meteora politica piuttosto inconsistente, ma Morricone va ricordato e celebrato essenzialmente  per il suo genio musicale e la sua umanità. Fu un grande della musica, ma fu anche grande umanamente. Cosa rarissima. La politica in fondo non ha nessuna importanza per un personaggio che ha speso la sua vita nell’arte più universale qual è la musica.

Cent’anni fa governava Giolitti…

Di Pier Franco Quaglieni / Cent’anni fa iniziava l’esperienza dell’ultimo governo Giolitti, il quinto. Sembrava la rinascita dell’età giolittiana che si era chiusa con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915

.
Giolitti era contrario all’intervento perché riteneva che si potesse ottenere “parecchio“ dall’Austria attraverso le trattative diplomatiche. Forse era inevitabile quell’intervento in guerra, al di là del compimento del Risorgimento con la quarta guerra di indipendenza. Ma certamente l’Italia, pur vittoriosa nel 1918, uscì sconvolta da quella guerra. La crescita di benessere realizzata durante i governi giolittiani si era fermata. Divampava nel Paese un forte disagio sociale. La guerra aveva toccato quasi tutte le famiglie e la spagnola aveva mietuto le stesse vittime delle trincee.
.
I socialisti pensarono fosse giunto il momento di fare anche in Italia la rivoluzione dei Soviet sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Un colossale errore che genererà la reazione fascista. I fasci di combattimento nacquero nel 1919 anche a tutela degli ex combattenti offesi e scherniti dai socialisti. Lo stesso Gaetano Salvemini, già socialista e poi interventista e intervenuto volontario  nella guerra, fu eletto in Parlamento in rappresentanza dei combattenti. L’Italia, anche in conseguenza della pace ingiusta di Versailles che portò D’Annunzio all’impresa di Fiume, si trovò non riconosciuti i suoi diritti territoriali. Si parlò non senza ragione di <<vittoria mutilata>> . Nel 1919 c’era stata anche l’introduzione della proporzionale per le elezioni politiche che permise un’alta rappresentanza parlamentare di socialisti e popolari. In quello stesso anno Don Sturzo aveva fondato il Partito Popolare, portando direttamente  i cattolici – malgrado la questione romana – nell’arengo politico. Il fronte liberale, diviso tra una destra salandrina e un centro-sinistra giolittiano, uscì indebolito dalle elezioni del 1919. Di fronte ai partiti di massa socialisti e cattolici i liberali non seppero organizzarsi neppure in partito. Il partito liberale nacque nel 1922 alla vigilia della marcia su Roma. Quello di Giolitti di cent’anni fa fu l’estremo tentativo di salvare la democrazia liberale in Italia, riannodando i fili della sua politica prima della guerra : coinvolgere socialisti e cattolici nel governo del Paese. Lo Statista di Dronero, in un celebre discorso che gli valse l’appellativo di “Bolscevico dell’Annunziata“, aveva tracciato un programma di riforme  sociali anche molto ardite. Non a caso Giolitti aveva portato nel 1912 all’estensione del suffragio universale maschile per allargare le basi ancora troppo élitarie dello Stato nato dal Risorgimento.
.
Allargare il consenso, migliorare le condizioni di vita dei cittadini attraverso un attivo riformismo fu il programma che fece di lui lo statista della nuova Italia. Il V Governo Giolitti fu in carica dal 15 giugno, ma divenne operativo nel luglio 1920. Rimase in carica poco più di un anno. Il vecchio Giolitti fu l’unico presidente del Consiglio risoluto del dopoguerra e arrivò nel dicembre del 1920 a cacciare D’Annunzio da Fiume. Il governo era espressione di liberali, popolari, socialisti riformisti, radicali, indipendenti. Agli Esteri c’era il Conte Carlo Sforza, alla Guerra Ivanoe Bonomi, all’istruzione Benedetto Croce, agli Interni lo stesso Giolitti, al Lavoro Arturo Labriola, al Tesoro Filippo Meda. L’ipotesi di un’alleanza democratica tra liberali, cattolici e socialisti venne avviata da Giolitti come l’unica soluzione  possibile alla crisi italiana, politica ed economica. Giolitti era un pragmatico molti concreto e capace.  Il Governo cercò con risolutezza di andare oltre l’emergenza post – bellica. Ma l’infuriare del ribellismo violento dei socialisti massimalisti e dei comunisti da una parte e delle squadracce fasciste dall’altra impedì il realizzarsi di una politica che avrebbe salvato l’Italia ed avrebbe evitato il fascismo. Le colpe sono da ascriversi ai socialisti e ai popolari e in parte minima allo stesso Giolitti che forse non aveva pienamente colto che il clima politico era totalmente cambiato. Quel Governo fu comunque il migliore possibile e quelli che seguirono furono fragili e deboli e finirono con Facta di consegnare l’Italia a Mussolini che rivelò invece  sorprendenti doti politiche perché con appena 35 deputati fascisti divenne nel 1922 presidente del Consiglio.
.
Peccato che Giolitti non abbia più avuto da tempo uno storico serio che abbia aggiornato gli studi su di lui e che dobbiamo ancora avvalerci esclusivamente  del volume di Nino Valeri. Non sarebbe un discorso storico confrontare il Governo Giolitti con il Governo che abbiamo cent’anni dopo perché i contesti sono distanti e diversi . Ma non sarebbe neppure possibile tentare un confronto tra un grande statista e l’avvocato pugliese, anche se oggi ci ritroviamo nel pieno di una crisi peggiore di quella di cent’anni fa. Giolitti dopo Cavour fu e resta il più grande statista italiano della nostra storia unitaria.  Giolitti fu anche l’esempio del modo di intendere lo Stato da parte un piemontese che era nato nel 1842, quando il Risorgimento era di là da venire .Era stato prima di entrare in Parlamento un alto funzionario dello Stato di cui conosceva gli ingranaggi a menadito. ”Governe’ bin“ era il suo obiettivo e Salvemini che lo definì ministro della malavita ,commise un grave errore storico di cui in tempi successivi si rese pienamente conto. Anche Luigi Firpo mise in evidenza le qualità tutte  piemontesi di Giolitti che venne sottovalutato e criticato da Gobetti e anche da Einaudi. C’è  chi scrisse del mito del buongoverno giolittiano, senza comprendere lo sforzo titanico che  egli fece per cucire ,come disse, un abito su misura ad un’ Italia molto difficile e problematica: un’ impresa disperata.
.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

La liberissima democrazia degli anni Sessanta

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Nel luglio del 1960 ci fu  in Italia il governo Tambroni  con il sostegno del MSI. Tambroni era una seconda fila democristiana, come mi disse Vittorio  Badini Confalonieri, era  un onesto avvocato di provincia, non era certamente uno statista. Venne imposto come presidente del Consiglio da Gronchi, un Presidente della Repubblica molto decisionista, del tutto diverso dal  predecessore Luigi Einaudi 

.
Nello stesso luglio era previsto il Congresso nazionale del Movimento Sociale a Genova , congresso considerato  a priori un’offesa alla Resistenza e ad una città medaglia d’oro. L’appoggio del MSI al governo e il congresso di Genova fece esplodere incandescenti polemiche. La sinistra scese in piazza massicciamente e ci furono gravi incidenti con delle vittime in Emilia. La polizia venne accusata di aver ucciso dei manifestanti. Togliatti adottò la figlia di uno dei manifestanti comunisti  caduti. Anche Guareschi accennò a quei fatti. In realtà  Tambroni non era certo una minaccia alla democrazia, se non per  i soliti Parri e Antonicelli, accecati dalla faziosità, sempre pronti a scendere in piazza.
Era  solo una persona inadeguata al ruolo. Anche la FIVL si schierò con l’ANPI  nelle manifestazioni  di piazza per impedire il congresso missino e far cadere il governo,  ma il senatore e generale  Raffaele Cadorna, comandante  del Corpo dei Volontari della Libertà nella Resistenza  e presidente  nazionale della FIVL, steccò nel coro e dichiarò che non si potevano vietare congressi di partiti con parlamentari eletti attraverso  una sommossa di piazza che diventava automaticamente eversiva. Il diritto costituzionale a riunirsi doveva essere tutelato e non oppresso dagli uomini della Resistenza. Cadorna dovette dimettersi da presidente a causa delle critiche e degli insulti ricevuti. Ma la sua presa di posizione era indicativa di un antifascismo non fazioso, storicamente rivissuto attraverso le garanzie costituzionali repubblicane. Un antifascismo liberale. Cadorna veniva da una famiglia di patrioti risorgimentali e fu a capo della Resistenza come comandante generale designato dal governo legittimo del Regno Sud. Non poteva mescolarsi con gli agitatori di piazza, come mi disse una volta quando lo incontrai a Pallanza dove si era ritirato.  A distanza di tante decine d’anni credo che si possa dire che avesse ragione  il generale Cadorna e avessero torto gli altri. Poi il governo Tambroni cadde in Parlamento, come avviene in una libera democrazia e il nuovo governo fu presieduto da Fanfani che nel 1963 fece il centro-sinistra con l’appoggio dei socialisti . Fanfani volle come ministro degli Interni Mario Scelba, padre della legge contro la ricostituzione  del partito fascista , ma anche  ministro accusato di essere  stato istigatore di una Celere molto repressiva  negli Anni 50 . Conobbi Scelba nel 1970 quando era Presidente del Parlamento Europeo e trassi l’impressione di aver conosciuto un sincero democratico, un cattolico democratico fedele a don Sturzo. Uno statista di alto livello. Quella degli Anni 60 fu una liberissima democrazia che non è stata abbastanza considerata. Soffermarsi solo  sul luglio 1960 e’ un errore storico . Tra l’altro , andrebbe ricordato che, paradossalmente ,il MSI fu un partito  che faceva congressi democratici in cui si scontravano idee e persone. In assoluta libertà. Niente tessere comprate, tanto per capirci , come avverrà in altri partiti. Forse solo da Fiuggi in poi, con Fini,  l’ex MSI perse l’abitudine di discutere e fini’ in malo modo,  incagliandosi nella villa di Montecarlo. Era un ex MSI divenuto antifascista  che vedeva nel fascismo il male assoluto , come diceva Fini. I partiti degli Anni 60 erano partiti puliti in cui il valore delle idee era  largamente il metro del dibattito. Io ho vissuto giovanissimo il luglio 60. Anche a Torino c’era un clima pesante. Mio padre mi telefonò da Parigi, ordinandomi di stare in casa, di non uscire,  senza darmi spiegazioni, se non sommarie. Incredibilmente proprio in quei giorni io avevo sentito per la prima volta In segreto  un disco, venduto insieme ad un giornale,  di un discorso di Mussolini che mi colpì molto. Avevo sentito parlare spesso del Duce, ma non sapevo nulla di lui. La mia famiglia era antifascista da sempre. La sua oratoria mi colpì’ fortemente, anche se colsi, sia pure in modo ancora confuso, che il fascismo era una dittatura oppressiva e, direi oggi, populista,   incompatibile con i valori della libertà, come mi disse mio nonno, criticando il fatto che avessi ascoltato quel disco. Strano destino di un giovane solitario  che nel luglio 1960 ascoltò la voce del Duce. Da allora in poi  cercai di dedicarmi agli studi storici anche e oltre la scuola con una passione sempre più forte  e decisi che sarei diventato professore di storia, come poi mi accadde. I miei interessi per la storia nacquero dall’ascolto di quel disco che mi incuriosì  e mi indusse a conoscere la storia più recente. Non fu facile per un giovane districarsi nel labirinto delle celebrazioni acritiche. L’amicizia con il partigiano Valdo Fusi che frequentava la nostra casa, fu preziosissima a farmi capire cosa fosse la storia e cosa fosse l’ideologia. Poi arrivò il 68 e tutto fu molto più chiaro: il fanatismo politico divenne violenza e cercò di travolgere la democrazia.
.
scrivere a quaglieni@gmail.com

Mantegna, una campagna di monitoraggio della qualità dell’ambiente interno

Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno / La Fondazione Torino Musei ha avviato un progetto di controllo della qualità e salubrità dell’aria all’interno degli ambienti museali, rivolto non solo alla conservazione delle opere, ma anche al benessere e al comfort del visitatore.

L’innovativo progetto è stato realizzato per la mostra Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno, in corso a Palazzo Madama fino al 20 luglio 2020. La campagna di monitoraggio ambientale ha previsto l’installazione di due sensori di ultima generazione, posizionati nelle aree del museo interessate dalla mostra, che rilevano costantemente i parametri che influiscono sulla qualità dell’ambiente interno (composti organici volatili, polveri sottili PM10 e PM2,5, temperatura e umidità dell’aria, elettrosmog e CO2). I dati, elaborati settimanalmente, sono esposti in modo sintetico in museo, per informare le persone sul benessere ambientale e sulla qualità dell’aria che si respira durante la visita alla mostra.

Per l’elaborazione e l’analisi dei dati la Fondazione Torino Musei si è avvalsa della società Onleco S.r.l, esperta nel settore del monitoraggio, del comfort e della sostenibilità ambientale.

I riscontri evidenziano un’elevata qualità dell’aria all’interno dello spazio museale.

Da diversi anni La Fondazione Torino Musei applica procedure consolidate di controllo e manutenzione degli impianti di climatizzazione, di regolazione dei flussi dei visitatori e di accurata pulizia degli ambienti. Grande attenzione viene prestata ai cantieri di allestimento delle mostre, affinché non vi sia propagazione di polveri e inquinanti, attraverso l’accurata scelta dei materiali e la verifica delle lavorazioni.

Gli ottimi risultati rilevati dal monitoraggio dell’aria dimostrano l’efficienza degli impianti installati e delle misure di tutela adottate.

PALAZZO MADAMA – MUSEO CIVICO D’ARTE ANTICA – piazza Castello, 10122 Torino

Nuovi orari di apertura: giovedì e venerdì: 13.00 – 20.00, sabato e domenica: 10.00 – 19.00.

Chiuso il lunedì, martedì, mercoledì. La biglietteria chiude un’ora prima per l’ingresso alla collezione permanente e un’ora e mezza prima per l’ingresso alla mostra su Andrea Mantegna.

Biglietti collezione permanente e mostra Argenti preziosi: intero: € 10; ridotto: € 8; gratuito minori 18 anni, Abbonamento Musei, Torino + Piemonte card

Franca Valeri e Piazzale Loreto

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Franca Valeri compie cento anni e viene festeggiata nel modo migliore. Sicuramente è stata una grande attrice, anche televisiva, dotata di  un’ ironia raffinata e pungente. E’ entrata da tempo nella storia del grande teatro italiano.

.
In una intervista ha dichiarato di essere andata a vedere i cadaveri di Mussolini e della Petacci a piazzale Loreto a Milano  nell’aprile 1945, esposti al ludibrio della folla inferocita ed ha aggiunto che non sentì pena, in quanto ebrea che aveva sofferto.
Posso comprendere che, a caldo, non abbia sentito pena, perché il risentimento prevaleva in lei, ma sicuramente una scena del genere avrebbe dovuto almeno  suscitare disagio se non orrore non fosse altro pensando alla Petacci denudata. Ferruccio Parri, capo della Resistenza, parlò di bassa macelleria sudamericana. Pertini che pure era intransigentissimo, ordinò di porre fine a quella infame e sguaiata manifestazione di odio contro dei cadaveri. Leo Valiani tanti anni dopo mi disse che consentire quella “ barbarie“ fu un un grave errore della Resistenza ,una macchia originaria  che offendeva lo spirito libero e  democratico da cui essa nasceva. Ricordo che c’era gente che orinava e defecava sui cadaveri che furono poi appesi ai lampioni della pompa di benzina  per evitare il perpetuarsi di queste forme di bestialità. Se non si accetta l’idea di Hegel che la storia sia un immenso mattatoio, per la gente civile quell’episodio di piazzale Loreto resta un atto infame di cui vergognarsi . Mi stupisce che una gran donna, almeno a tanti anni di distanza, non abbia  meditato su quanto vide nel 1945. L’antifascismo non può essere così cieco e totalizzante da non farci cogliere il gesto infame di infierire sui morti e in particolare su una donna che pagò con la vita il suo amore per Mussolini.
.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

L’atto di nascita del Club alpino Italiano

Il 23 ottobre 1863, all’una del pomeriggio di un venerdì d’autunno, le sale del castello torinese del Valentino ospitarono un evento importante: la costituzione del Club Alpino Italiano.

Denominato in via del tutto provvisoria “Club alpino di Torino”, il sodalizio esisteva simbolicamente già dalla precedente estate quando, il 12 agosto, avvenne la prima ascensione italiana del Monviso. L’idea di fondare l’associazione degli alpinisti italiani venne a Quintino Sella, ministro delle Finanze dell’allora Regno d’Italia, che partecipò alla scalata insieme ad altri appassionati della montagna. A comporre il primo elenco di aderenti furono in poco meno di duecento e primo presidente venne eletto il barone Ferdinando Perrone di San Martino. In una lettera di Quintino Sella, conservata tra i documenti fondativi del CAI, veniva precisata la cifra identitaria del Club, a partire dallo scopo di far conoscere le montagne e di agevolare salite e ricerche storiche e scientifiche. Torino, “culla del Club alpino” ne ho ospitò anche la prima sede, poi trasferita a Milano nel secondo dopoguerra. Nel 1938 il fascismo impose un temporaneo e “autarchico” cambio di denominazione, lasciando l’acronimo trasformato in Centro alpinistico italiano. A Torino sul Monte dei Cappuccini, dal quale si gode una splendida vista sulla città e sulle Alpi, vi è ancora oggi la sede sociale, accanto alla Biblioteca nazionale del CAI e al Museo nazionale della montagna. Diviso in circa oltre 500 sezioni, sparse in tutte Italia con più di 320 mila iscritti, il CAI svolge un ruolo prezioso in tutti i vari aspetti che riguardano l’ambiente montano,la memoria storica,le attività di prevenzione e soccorso nelle “terre alte”.

Marco Travaglini

Riapre il rivellino degli invalidi della Cittadella

Dal 28 giugno e tutte le prossime domeniche nel periodo orario 15-19 e 21-23

Domenica 28 giugno, riapre di nuovo alle visite, come avanguardia per l’apertura del museo Pietro Micca, l’Area Archeologica del Rivellino degli Invalidi della Cittadella, l’ultimo dei siti scoperti del prezioso patrimonio sotterraneo di Torino, che rende la città speciale in ambito europeo.

Il Rivellino degli invalidi rappresenta il primo recupero in assoluto di un settore delle opere fortificate “di superficie” della Cittadella di Torino dai tempi della sua demolizione, iniziata dalla seconda metà del XIX secolo.

Riemersi nel corso degli scavi del parcheggio iniziati nel 2015, i resti delle fortificazioni costituiscono parti significative delle opere difensive della cittadella appartenenti al fronte sud compreso fra i bastioni “Il Duca” e “S. Lazzaro”, dove a inizio nel 1639 iniziò la costruzione di una ulteriore opera di difesa a pianta triangolare composta da un terrapieno rivestito da solide muraglie a scarpa dotate di parapetto lungo le due facce rivolte verso il nemico e un muro sul lato rivolto verso la cinta principale della Cittadella da cui era separato da un ampio fossato. Queste difese, che furono contemporaneamente costruite anche tra gli altri bastioni, si chiamavano in termine tecnico Rivellini e quello ritrovato, unico esempio rimasto, è il Rivellino detto “degli Invalidi” perché durante l’assedio non venne interessato agli attacchi diretti e vi furono pertanto destinati in prevalenza i soldati con rminori capacità operative.

Si accede all’Area archeologica attraverso un ingresso autonomo all’altezza del nr 14 di corso Galileo Ferraris, che porta a circa 6 metri sotto il livello stradale dove è visibile un buon tratto del fossato e del fronte di gola del Rivellino rivolto verso la Cittadella e anche l’unico segmento ritrovato delle mura del primo ampliamento urbanistico della Città, risalente al 1619, che costituisce la struttura muraria più antica fra quelle rinvenute, fino ad oggi l’unica testimonianza visibile delle difese della prima espansione della Città, che attraverso la via Nuova (oggi via Roma) e la piazza Reale (oggi San Carlo) univa piazza Castello con la Porta Nuova, l’attuale stazione, che dava accesso al nascente borgo di San Salvario e alla residenza sabauda estiva del Castello del Valentino.  L’ampliamento della città e le relative mura furono iniziati da Ercole Negro di Sanfront proprio nel 1619 e terminate da Carlo di Castellamonte negli anni ‘30 del XVII secolo.

Attraverso un ponticello si entra poi nei resti della polveriera delle mine, salvaguardata solo in parte e unica trovata tra quelle dell’epoca e pertanto testimonianza unica di tali infrastrutture operative e di servizio; dalla polveriera si accede poi nella galleria di collegamento tra la polveriera e la cittadella che passava al di sotto del fossato, entrambe risalenti agli anni ‘80 del XVII secolo. Quest’ultima, analoga alla cinquecentesca comunicazione del Pastiss, messa in luce nel 2001, e alla settecentesca “Grand Galerie”, parte delle contromine della Mezzaluna del Soccorso, recuperata nel 1958 e accessibile dal Museo Pietro Micca, è la prima grande galleria di comunicazione fino ad oggi recuperata databile a questo periodo. Un tratto del fossato principale della Cittadella e le adiacenti rampe di accesso al terrapieno del rivellino, conservate in buona parte, concludono la visita delle strutture principali.

Guida il visitatore a scoprire il complesso sistema difensivo e i resti delle opere eccezionalmente rinvenute e preservate un dettagliato apparato illustrativo consistente in 17 grandi pannelli didattici disposti lungo le pareti dell’area archeologica,

Quest’anno, il patrimonio sotterraneo di Torino facente capo alle gallerie di Pietro Micca, della Fortezza del Pastiss e del Rivellino degli Invalidi è inserito nei “LUOGHI DEL CUORE” del FAI Italia, per i quali è in corso la votazione fino al 15 dicembre.

 

La gestione delle visite è affidata alla Associazione Amici del Museo Civico Pietro Micca e dell’assedio di Torino del 1706 che ha aperto alle visite, secondo le previste norme di sicurezza del Covid, già il 24 giugno e proseguirà in

tutte le prossime domeniche nel periodo orario 15-19 e  21-23

con visite continuative secondo l’orario di arrivo.

 

Per assicurare una visita piacevole nella massima sicurezza l’accesso è organizzato nel rispetto di semplici norme di comportamento (distanza interpersonale, uso della mascherina per tutta la permanenza nel sito, misurazione iniziale della temperatura, disponibilità di erogatori di gel igienizzate all’ingresso e durante il percorso, pulizia frequente dei mancorrenti delle scale).

 

Non è prevista la prenotazione e le visite sono gratuite.

Il sito non è abilitato per disabili motori.

 

Per visite in altri momenti, è possibile solo a prenotazione, nell’intesa che la visita sarà organizzata quando si raggiunge un gruppo/numero adeguato di visitatori.

 

Per il museo Pietro Micca e per la Fortezza del Pastiss, sono in corso le procedure per garantire il prima possibili le visite in completa sicurezza. Ci scusiamo dell’a attuale impossibilità alle visite.

 

Informazioni e prenotazioni c/o Museo Pietro Micca e dell’assedio di Torino del 1706:

 

Per contatti e informazioni particolari:

gen. Franco Cravarezza, direttore@museopietromicca.it