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Valdo Fusi: “Fiori rossi” per un cattolico coerente e tollerante

Questo articolo esce  in memoria dei Martiri del Martinetto di cui ricorre oggi il ricordo e di cui Valdo Fusi ha raccontato la tragica e nobile storia  Il Sacrario del Martinetto è un luogo simbolo di una religione civile di grande importanza che si mescola con la testimonianza umana e religiosa dei Caduti sotto il piombo di sicari fascisti

Di Pier Franco Quaglieni

È impossibile cercare di “commemorare” Valdo Fusi, l’uomo che, come osservò Luigi Firpo, si sarebbe giocato la carriera per il gusto della battuta. In effetti, quella carriera se la giocò per una cosa molto più seria: l’amore per la verità e il coraggio di andare contro corrente. Sempre e ovunque. Si può al massimo “ricordare” Valdo, anche se è impossibile far rivivere le ore trascorse con lui, parlando, scherzando, passando dall’ironia più bonaria all’invettiva più feroce. Su tutt’altro versante e in modi molto diversi, io ricordo solo Longanesi, Flaiano, Maccari, ma in Fusi c’era una tensione morale, un rigore civile che rendono sbagliato ed improprio questo accostamento. Egli ci appare, nello stesso istante, lontano e vicino: lontano perché appartiene ormai a quella “Torino civile”, di cui si sono perdute le tracce; vicino perché è proprio a uomini come lui che bisognerebbe guardare per cercare di uscire dalla palude del conformismo.

Partigiano, membro del Comitato militare del Cln piemontese in rappresentanza della Dc, subì l’arresto e il processo che condusse nell’aprile 1944 gli uomini del gen. Perotti davanti al plotone d’esecuzione al Martinetto. Fusi fu assolto per insufficienza di prove e ritenne quella sorte come una missione: ricordare gli eroi del Martinetto. Nel dopoguerra fu deputato, consigliere comunale, presidente dell’EPT e dell’Ordine Mauriziano, ma lo stesso Fusi considerò tutto ciò una “parentesi” perché tornò a fare l’avvocato come prima della guerra, senza farsene un problema. Era un uomo inadatto alla politica intesa in modo settario e meno che mai per l’“affarismo”: si rivelò incapace persino di praticare la politica al fine di soddisfare pur legittime ambizioni. Pari a lui fu solo Silvio Geuna, anche lui partecipe e vittima della tragedia, dopo un fulmineo processo-farsa, in cui si offrì di sostituire il generale Perotti davanti al plotone di esecuzione, essendo il generale padre di tre figli e lui celibe.

Ci ha lasciato due libri, il già citato Fiori rossi al Martinetto e Torino un po’, uscito postumo, che, a parere di molti critici, ci possono far parlare anche di un Fusi scrittore. Sono testimonianze preziose, libri che vanno letti e che soprattutto si è portati naturaliter a rileggere, per il modo in cui sono stati scritti e per le cose importanti che contengono. Fiori rossi al Martinetto è, anche sotto il profilo letterario, un libro importante. Esso non è solo la testimonianza storica di ciò che capitò al Comitato militare del Cln piemontese nell’aprile 1944 a Torino e che ebbe il suo epilogo eroico al poligono del Martinetto. Valdo Fusi è stato uno scrittore autentico. Nel convegno voluto dal Centro “Pannunzio”, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 24 novembre 1977 su Valdo Fusi scrittore in modo particolare Lorenzo Mondo e Riccardo Massano lo dimostrarono con totale evidenza. Lorenzo Mondo sostenne che Fiori rossi è uno di quei libri unici che si scrivono una sola volta nella vita. Evidenziò «la limpidezza della scrittura» che lo caratterizza. Secondo Mondo, Fusi ha in parte guardato a Le mie prigioni del Pellico, ma è andato anche molto oltre l’esempio della letteratura carceraria perché in quel libro si sente «il fiato di nomi grandi, di nomi alti […]». Riccardo Massano affermò: «[…] Fusi è uno scrittore nato, perché per lui lo scrivere è come respirare. Non che non avesse una straordinaria cultura che nelle pagine affiora ed è consegnata persino a quelle epigrafi straordinarie che costellano tutti i suoi libri […] e che non sono solo letture fuggevoli e frivole» […]; è uno «scrittore nato, ma non in senso stretto uno scrittore letterato o, almeno non uno scrittore letterario. Per lui questo nodo di vita e di scrittura diciamo pure di vita e d’arte, era qualcosa di così intenso, che per un certo momento la sua vitalità ha travolto la sua stessa possibilità di scrittura».

Ed ancora: «Fiori rossi al Martinetto sarebbe potuto essere un libro di memoria e invece è un libro di vita, un libro vivo».Un altro critico, Giorgio Calcagno, nel convegno promosso sempre dal Centro “Pannunzio” il 9 marzo 1985 sostenne: «Fiori rossi al Martinetto non è un’epopea; e nemmeno, a rigore, un libro di cronaca, sia pure di un episodio fra i più importanti della guerra partigiana. È una testimonianza personale per scorcio con il segno, e meglio l’unghiata, inequivocabile del suo autore. Fusi gioca tutto il proprio racconto su una duplice prospettiva incrociata quasi avvalendosi di un cannocchiale che capovolge in continuazione: per ingrandire gli altri, per rimpicciolire sé stesso. L’atteggiamento dominante è quello dell’understatement, il tenersi sotto tono, quasi sorridendo di sé per abbassare il tragico, spegnere la tentazione dell’epico». Si tratta di un libro esente dal “reducismo” che tanto danno ha provocato alla memoria storica della Resistenza, nel quale rivive lo spirito migliore che animò quegli uomini che decisero di riscattare l’infamia dell’8 settembre 1943, impegnandosi in prima persona nella guerra partigiana e patriottica. Lo scrittore Piero Chiara colse solo in modo parziale la figura di Fusi quando osservò: «Valdo era un irriducibile. Voleva, come tanti allora, un’Italia libera, cristiana, democratica, onesta e dignitosa […]. Fusi era di quelli che non tollerano l’indifferenza e si votano all’impegno». Infatti va anche precisato che Fusi non conobbe mai l’engagement di tanti intellettuali, perché rimase un uomo libero, totalmente svincolato da discipline che non fossero quelle dettate dalla sua coscienza morale. Uno scrittore che scriveva anche per il piacere di scrivere, di comunicare con gli altri con quello spirito che Luigi Firpo ha giustamente così sintetizzato: «un eterno giovane vivacissimo, ilare, segnato da un umorismo schietto, non di rado tagliente, al quale, in fondo, egli sacrificò anche il successo».

Nel 1970 il Teatro Stabile di Torino commissionò a Davide Lajolo, il mitico “Ulisse” della Resistenza, la riduzione teatrale di Fiori rossi al Martinetto. Lajolo intese ispirarsi al libro di Fusi troppo liberamente con un taglio politico e persino ideologico che Fusi non poteva condividere. Ha scritto Nuccio Messina, direttore del Teatro in quegli anni: «Il tentativo – forse ingenuo – di mettere d’accordo un democristiano storico e fervente come Valdo Fusi e un comunista rigoroso come Lajolo era fallito. […]. Erano tempi di divisioni profonde. Nel nostro caso i protagonisti erano Fusi e il suo libro: li avevamo scelti e ad essi dovevamo riferirci. E Fusi aveva ragione». Forse Messina enfatizza un po’ il “radicalismo” democristiano di Fusi che già alla fine degli Anni Sessanta era molto deluso dal suo partito, ma appare fuor di dubbio (e chi scrive può testimoniarlo) che Fusi avesse detto chiaramente che la Resistenza come lotta di classe era quanto di più estraneo ci potesse essere rispetto al suo libro in cui la pietas cristiana (e, quindi, il valore della fratellanza umana e del perdono) era l’elemento prevalente. Lajolo, a sua volta, operò in anni successivi una sorta di revisione critica delle proprie posizioni, ma resta il fatto che lo spettacolo teatrale non si poté realizzare perché Fusi, andando contro i suoi interessi materiali anche in questa occasione, mise il veto ad un’operazione che avrebbe sicuramente giovato ad un ulteriore successo del libro.

In particolare, sono da ricordare due tratti della sua personalità che mi sembrano importanti e che forse non sono mai stati abbastanza messi in luce. Fusi fu cattolico di fede indiscussa, ma certo fu anche il più laico e il meno clericale dei cattolici militanti. La civiltà a cui si richiamava era quella fondata sulla tolleranza e sul rispetto per le idee degli altri, come aveva appreso anche da Augusto Monti al Liceo “d’Azeglio” di Torino. Per altri versi, si differenziò anche rispetto a molti ex “dazeglini” perché nel 1968 sentì fortemente la sua distanza ideale e morale rispetto alla contestazione, vedendo in essa una sbornia ideologica intollerabile e un che di «belluino», come disse quando venne la prima volta al Centro “Pannunzio”. Egli aveva colto assai bene che il problema della tolleranza era da vedersi anche rispetto alle ideologie presuntuose e invadenti ed ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Primo Levi che non aveva accettato di venire a un incontro promosso dal Centro “Pannunzio” nel 1972 perché altri invitati «non erano abbastanza di sinistra». Ed ebbe il coraggio di metterlo nero su bianco, pur non facendo nomi, per altro desumibili dal biglietto di invito. Nella esperienza tragica del processo davanti al Tribunale Speciale e nel corso della Resistenza, aveva imparato a conoscere e ad apprezzare uomini di diverso orientamento politico come il comunista Eusebio Giambone, i partigiani di G.L., delle Brigate Matteotti e delle formazioni autonome, con cui collaborò lealmente. Egli fu amico, ad esempio, di Enrico Martini Mauri e ci fu chi ritenne un suo errore aver mantenuto l’amicizia con una medaglia d’oro della Resistenza caduta in disgrazia per il suo anticonformismo. Andrebbe anche detto che negli anni dopo la fine della guerra civile finì di far prevalere – pur nel suo fermissimo antifascismo – il valore del perdono cristiano. Egli era un cattolico che leggeva “Il Mondo” di Pannunzio, tanto per citare un esempio.

Il senso dell’impegno cristiano, umano e politico di Fusi trova la sua sintesi in questa lettera che indirizzò a “La Stampa” nel 1955: «[…] Ignoravo un problema a cui non avevo pensato mai. Dove sono sepolti ceux d’en face, i combattenti di Salò? Il dottor Catalano mi ha risposto: non hanno sepoltura. Dovremmo essere noi resistenti a provvedervi. Se sul piano delle idee nessuna conciliazione sarà mai possibile, se noi rifiuteremo sempre l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, nei rapporti tra uomo e uomo è necessaria la più illuminata apertura dell’animo, e magari l’indulgenza. Indulgenza del resto che ha trovato nelle leggi della Repubblica la sua consacrazione. Dobbiamo cancellare ogni traccia della guerra civile, sul piano umano. È dovere nostro concedere, e subito, quell’onorata sepoltura che a molti dei nostri amici negarono questi nostri nemici. Se non sarò il solo resistente a pensare così, verserò il mio contributo alle spese occorrenti. Altrimenti, provveda il Comune. Suppongo di avere le carte in regola per avanzare siffatta proposta e non dubito che i Geuna, i Passoni, i Coggiola, i Grosa, l’accetteranno». Nel trentennale della Liberazione nel 1975 si rifiutò di tenere commemorazioni, dicendomi: «Sai, non credo più in queste manifestazioni: stanno imbalsamando la Resistenza». Quando nel 1975 salii a Isola d’Asti per dargli, insieme a tanti altri, l’estremo saluto, Mario Bonfantini, che era vicino a me in macchina, disse – e successivamente lo scrisse – che quella collina astigiana era «un paese di dolce grazia fantasiosa che sottende un duro fondo eroico» ed aggiunse che tutto ciò gli faceva pensare all’intima personalità di Valdo, che solo noi, suoi amici, abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.

È significativo che la Giunta di sinistra andata al governo della città di Torino con toni trionfalistici e obiettivi vistosamente egemonici, abbia deliberato, a pochi mesi dalla sua morte, di dedicargli una piazza torinese che è diventata il mostro orribile che è ora il piazzale. C’è stato chi ha affermato che il Sindaco Diego Novelli avesse dovuto affrontare l’opposizione da parte di esponenti del suo partito all’intitolazione per motivi che non fanno loro onore. Novelli tirò dritto per la sua strada e intitolò la piazza che poi divenne un parcheggio di auto, sia pure ombreggiato da molti alberi. Quando una Giunta successiva decise di costruire sotto la piazza un parcheggio sotterraneo, eliminò gli alberi e si affidò ad un concorso internazionale per ridisegnare la piazza sovrastante. Ne derivò quello che divenne un mostro. Fusi si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse potuto vedere quel piazzale incredibile, un vero pugno in un occhio, anzi una ferita inferta alla città a cui nessuno ha voluto in qualche misura porre rimedio, neppure il Comitato che si fregiò del nome di Fusi e quasi subito si arrese.

Il «solito Fusi»

Di fronte a Fusi non contano le distinzioni di parte, vale soltanto la stima per un uomo che non smise mai di desiderare un’altra Italia, diversa da quella in cui era vissuto, un’Italia più limpida sotto il profilo etico-politico e più libera rispetto ai pregiudizi, alle faziosità e alle asprezze del “secolo breve”.

A tanti anni di distanza forse posso lasciarmi andare a una confidenza. Molti di noi erano preoccupati per l’avvento di una Giunta di sinistra al Comune di Torino, frutto anche del modo dissennato – un vero e proprio cupio dissolvi – con cui la Dc gestì le amministrazioni dal 1970 al 1975. Dopo la fine del mandato affidato a Giovanni Porcellana nel 1970, ci furono risse interne alla Dc che portarono al paradosso del socialista Guido Secreto a capo di una Giunta monocolore democristiana. Dopo, arrivò un galantuomo come il sindaco Giovanni Picco che chiuse il quinquennio, cercando di recuperare il terreno perduto, ma dovendo affrontare infinite difficoltà. Si trattava di candidare nel 1975 un uomo limpido, capace, credibile, come si direbbe oggi. Un candidato sindaco quasi super partes, un grande torinese come fu Peyron. Io partecipai ad alcune riunioni “clandestine” a cui presero parte amici liberali, socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Sono tutti morti, ma preferisco non farne i nomi, essendoci scambiata la parola d’onore che mai avremmo rivelato chi partecipava agli incontri. Rassicuro subito: non eravamo una loggia coperta o, come si diceva allora, un piccolo “superpartito”. Tutti pensammo a Valdo Fusi come Sindaco di Torino. Non trovammo il tempo neppure di parlarne con l’interessato. In una pausa del Consiglio comunale ne accennai al conte Edoardo Calleri di Sala, potentissimo e capacissimo leader della Dc, che mi disse: «Il solito Quaglieni che propone il solito Fusi. Voi sognate, non fate politica». Confesso dopo molti anni che quell’abbinamento tra Fusi e me, giovane assistente universitario, fu uno dei più bei complimenti che mi fecero e di cui vado orgoglioso. Come ci sarebbe bisogno anche oggi, di tanti «soliti Fusi»!

 

(Valdo Fusi: Pavia 1911 – Isola d’Asti 1975)

La Venaria Reale ha ospitato il Liberty: Mucha e Grasset

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”.
Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

 

Articolo 8. La Venaria Reale ha ospitato  il Liberty: Mucha e Grasset

“Chi a ved Turin e nen la Venaria, a ved la mare e nen la fija”.
La reggia di Venaria ha ospitato  nella Sala dei Paggi la mostra “Art Nouveau. Il trionfo della bellezza”. La mostra è a cura di Katy Spurrel e Valerio Teraroli, in collaborazione con Arthemisia. L’esposizione vuole rendere omaggio allo spirito rivoluzionario dell’Art Nouveau, che scalza la tradizione e le regole accademiche e stravolge architettura, pittura, arredamento, scultura, musica e ogni altro aspetto della vita e dell’arte, traendo ispirazione dalla natura e proponendo un’immagine nuova della figura femminile. L’esposizione propone un percorso alla scoperta di questo movimento artistico e filosofico che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale. Un corpus di 200 opere che testimoniano la straordinaria fioritura artistica che ha cambiato il gusto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.  Sono presenti in mostra manifesti, dipinti, mobili, ceramiche che illustrano come da una parte l’Art Nouveau rompa con il passato, rifiutando il realismo e il pensiero scientifico, e dall’altra come tale corrente sia andata alla ricerca di mondi onirici e visionari restituiti poi attraverso l’eleganza decorativa di linee dolci e sinuose. Tra gli autori in mostra ci sono due tra le più importanti personalità della corrente dell’Art Nouveau: Eugène Grasset e Alfons Mucha.

Eugène Grasset, nato a Losanna nel maggio 1845, dall’ebanista e scultore Joseph Grasset, frequenta inizialmente le scuole nella città natale. In seguito lavora presso la bottega del padre e prosegue gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo. Dopo un periodo di viaggi che lo portano anche in Egitto, torna a Losanna, e si dedica alla scultura e alla pittura. Qualche anno dopo decide di trasferirsi a Parigi, dove affina la sua modalità artistica che unisce tecniche xilografiche e litografiche, preferendo una composizione più formale, colori sfumati, tenui e pallidi. Le sue opere aprono le porte a una moltitudine di artisti, tra i quali Alfons Mucha.

Figlio di un usciere del tribunale e della seconda moglie di quest’ultimo, Alfons Mucha nasce a Ivancice il 24 luglio del 1860. Fin da adolescente dimostra interesse e abilità nel disegno e nel 1879 entra nel laboratorio di pittura di Kautsky-Brioschi-Burghardt, che produce scenari teatrali e sipari. Nel 1882 incontra il suo primo mecenate, il conte Eduar Khuen-Belasi, che gli finanza gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera e un viaggio a Parigi, città in cui Mucha rimane per i successivi diciassette anni. Improvvisamente, nel 1889 il conte smette di sostenere gli studi del giovane, che si ritrova quindi a dover cercare in fretta un lavoro: inizia come illustratore e collabora con importanti riviste e case editrici francesi. Ottiene il suo primo vero successo nel 1894, quando si ritrova a disegnare un manifesto per Sara Bernhardt, in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. È l’inizio di una fortunata e duratura collaborazione che lo decreta come uno degli autori più ricercati di arte applicata, manifesti pubblicitari e illustrazioni.

 

Nel 1897 Mucha inaugura la sua prima mostra personale, alla Galerie de la Bodinière di Parigi e negli anni successivi continua a collezionare successi, e incontra personalità che lo vogliono come collaboratore. La fortuna lo segue fino al giorno della morte, avvenuta a Praga nel 1939. In quello stesso anno la rivista parigina di grafica “Arts e Metiers” dedica un numero alla commemorazione dell’artista. Mucha ha il merito di aver costruito un universo iconico immortale, le donne che compaiono sulle sue locandine sono diventate icone dell’Art Nouveau, con i loro sorrisi delicati e la loro bellezza disarmante. Possiamo dunque dire che è stato proprio Mucha a trasformare la pubblicità in arte, un grandissimo artista grazie al quale ancora oggi guardiamo con nostalgia e ammirazione i manifesti di inizio Novecento.

Alessia Cagnotto

Buon compleanno Museo Egizio

Il Museo Egizio di Torino compie cinque anni. Si tratta, naturalmente, del primo lustro trascorso dal nuovo allestimento, inaugurato il 1 aprile 2015. Perché il celebre museo torinese di anni ne ha parecchi di più

E’  addirittura il più antico museo del mondo dedicato totalmente alla cultura egizia, il secondo per importanza dopo quello del Cairo. 

La fondazione vera e propria avvenne nel 1824, quando il re il re Carlo Felice acquistò una  collezione di reperti egizi (allora diventati molto “di moda” a seguito delle campagne napoleoniche nella terra delle piramidi) per la modica cifra di 400.000 lire di allora. Il sovrano vi aggiunse altri reperti di antichità classiche appartenenti ai Savoia e il museo poté iniziare la sua attività. Oggi le sale sono chiuse a causa  dell’emergenza sanitaria, ma sul sito del museo è possibile effettuare interessanti visite virtuali. Buon compleanno!

 

museoegizio.it

La tentazione ricorrente di riscrivere la Costituzione

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Il Sindaco di Milano Sala che aveva dimostrato i suoi evidenti limiti politici all’inizio dell’epidemia, sottovalutandola totalmente, propone oggi  un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Pur non essendo mai stato convinto della perfezione della nostra Carta, ritengo la proposta di Sala del tutto intempestiva e sbagliata  

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La riscrittura in tempi normali la tentò Renzi che aveva colto l’opportunità di alcuni cambiamenti, ma si rivelò un pessimo costituente, proponendo un testo pasticciato e confuso. Oggi non siamo
e non saremo  in futuro in tempi normali. L’assemblea Costituente venne eletta il 2 giugno 1946, ad oltre un anno dalla fine della guerra, in un clima comunque non sereno perchè per troppi la scelta di quella data era motivata dal desiderio impellente  di dare il benservito alla monarchia, considerata colpevole della dittatura fascista e della guerra perduta. Superato l’ostacolo della liquidazione della monarchia, anche per l’atteggiamento del re che preferì l’esilio ad una guerra civile, i Costituenti seppero mettere da parte gli egoismi settari di partito e trovarono il modo per stendere un testo tra il 1946 e il 1947 che sapeva guardare avanti, al futuro della democrazia italiana. In quell’assemblea costituente ci furono i migliori uomini politici dell’’Italia novecentesca, come ci furono solo  nel Risorgimento. Si realizzarono dei compromessi evidenti, ma nel complesso la democrazia italiana ebbe una carta costituzionale di grande rilievo storico – politico, con riferimenti etici di primissimo livello.
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Se si pensa a quale classe politica ha oggi l’Italia e alle condizioni economiche in cui saremo ridotti dopo l’emergenza sanitaria, appare davvero impossibile pensare di accingersi a scrivere una nuova Costituzione. Sono possibili tra il resto gravi conflitti sociali che sarà difficile prevenire e forse reprimere. L’attuale Costituzione appare oggi preziosissima ed è anche un baluardo rispetto ai sempre possibili conati autoritari di un governo inadeguato che non sa guidare il Paese, ma rincorre con affanno i problemi . L’esempio autoritario dell’ Ungheria  ci fa apprezzare la nostra Carta, sempre che i suoi tutori istituzionali sappiano salvaguardare le prerogative del Parlamento, come ha messo in evidenza con coraggio l’ex presidente del Senato Marcello Pera, una delle poche grandi risorse della Repubblica. Sala pensi a fare il sindaco , se è  ancora in grado di farlo, alla democrazia e al suo futuro penseremo noi cittadini.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

A Tonco d’Asti tra pitu e cavalieri di Malta

A Tonco d’Asti il virus ha sconfitto anche il prode tacchino. Anche il Pitu è finito nella morsa dell’emergenza sanitaria facendo saltare la tradizionale Giostra equestre del tacchino che ogni anno, ad aprile, porta migliaia di persone sulle colline di questo paese di 800 anime a nord ovest del capoluogo

Era stata fissata per domenica 19 aprile ma naturalmente non si farà nulla. Sarà per la prossima volta…ma di Tonco si continuerà a parlare lo stesso, per sempre, non solo per la sua Giostra, ma perchè in paese abitava un personaggio molto importante, più famoso del pitu, che i tonchesi ben conoscono, ne vanno fieri e soprattutto non vogliono farselo portar via da certi storici.

Stiamo parlando nientemeno che del fondatore del glorioso Ordine di Malta, il più antico, più potente e più nobile di tutti gli Ordini cavallereschi della storia. Ebbene, fra Gerardo, vissuto nell’XI secolo, sarebbe nato (il condizionale è d’obbligo) proprio a Tonco d’Asti e quasi mille anni fa creò l’Ordine ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme che diventerà in seguito il Sovrano Ordine Militare di Malta. Nella festa del Pitu, antico rito popolare propiziatorio contadino, compare anche lui: la giostra equestre è preceduta dal corteo storico dei nobili che vanno a trovare Gerardo e sono seguiti dai carri dei borghi, dai fantini, da scene di vita contadina e dal povero Pitu (oggi un fantoccio di tessuto) che rappresenta il feudatario locale sul quale il popolo scarica tutta la rabbia accumulata durante l’anno. Nel sito del Comune astigiano si legge che “attualmente tutte le prove dimostrano che Gerardo da Tonco è di famiglia monferrina, uscito dai Signori di Tonco, i quali signori feudali compaiono in numerose carte della regione”. Bufale, fake news? Niente affatto. Gerardo si era trasferito a Gerusalemme per dare una mano ai cristiani e ai pellegrini e, secondo una leggenda, durante l’assedio di Gerusalemme nel 1099 da parte dei crociati gettò loro del pane dalle mura ma quando fu scoperto il pane si trasformò all’improvviso in pietre. Quindi anche il nostro Gerardo, che ha fatto conoscere il nome di Tonco in tutto il mondo, è volato nel Vicino Oriente anticipando le gesta dei celebri marchesi del Monferrato, da Corrado a Bonifacio.

Ma qui divampano le polemiche che dividono gli storici molti dei quali sostengono che fra Gerardo Sasso (e non di Tonco), superiore dell’Ospizio per pellegrini nella Città Santa, nacque ad Amalfi o nei pressi della cittadina, da dove partirono, intorno al 1050, i primi mercanti diretti a Gerusalemme per costruire una chiesa e un ospedale per accogliere e curare i malati. Tra questi studiosi spiccano l’inglese Ernle Bradford, Claudio Rendina e lo stesso Ordine di Malta nel suo sito ufficiale. Gerardo nato sulla costiera amalfitana? I tonchesi non ci stanno e mostrano invece le tesi sostenute dagli storici piemontesi che la pensano ben diversamente. Tanto più “che la partenza di Gerardo di Tonco per Outremer rientra nel quadro della partecipazione di tante famiglie feudali monferrine alle Crociate…” precisa Aldo di Ricaldone nella rivista “Note di storia” della Camera di Commercio di Asti. Lo scrittore e studioso casalese auspica inoltre che “in una prossima edizione della Storia dell’Ordine di Malta si provveda ad inserire un’opportuna appendice dimostrante che Gerardo di Tonco non è né amalfitano né provenzale ma piemontese, dei signori di Tonco Monferrato”. Il mistero continua.

Filippo Re

I musei sono sui social, li visiti da casa

Fondazione Torino Musei: GAMPalazzo Madama e MAO sempre visitabili, anche se in remoto

 I musei sono chiusi, ma la Fondazione Torino Musei continua a lavorare con nuovi progetti digitali per rendere le opere, gli spazi, le collezioni e le mostre visitabili anche se #iorestoacasa.

GUARDA

Sui canali Youtube di GAMPalazzo Madama e MAO sono disponibili playlist speciali, con video realizzati dai direttori, dai conservatori, da colleghi e da professori universitari che approfondiscono le collezioni e le esposizioni temporanee:

Con la playlist #AppuntidalMAO, nei giorni precedenti la chiusura del museo sono stati invitati alcuni professori dell’Università degli Studi di Torino affezionati al MAO a scegliere e raccontare le loro opere preferite dalle collezioni del museo. I video sono pubblicati giornalmente anche sui canali Instagram e Facebook, con curiosità sulle opere raccontate.

Nella playlist #StoriedaPalazzo, sono i conservatori di Palazzo Madama che guidano il pubblico ad approfondire opere e spazi del museo situato nel cuore della città.

I video vengono pubblicati giornalmente anche sui canali Instagram e Facebook del museo.

In #GAMconTE, una serie di clip riguardano le opere della collezione permanente, insieme a temi legati alle esposizioni temporanee “Pittura Spazio Scultura” e “Helmut Newton. Works”.

Anche in questo caso i video sono ogni giorno proposti anche sui canali Instagram e Facebook, della GAM.

CERCA

Il catalogo della maggior parte delle opere dei musei è consultabile online. È possibile cercare gli artisti e le  opere preferite nelle collezioni di Palazzo Madama, della GAM e del MAO.

SCOPRI

Grazie al progetto Google Arts & Culture, al quale i musei di Fondazione hanno precocemente aderito, sono on line tante mostre virtuali che portano alla scoperta delle nostre collezioni da punti di vista insoliti e curiosi

Per scoprirle tutte:

Mostre virtuali di Palazzo Madama

Mostre virtuali della GAM

Mostre virtuali del MAO

 

www.fondazionetorinomusei.it

www.gamtorino.it

www.palazzomadamatorino.it

www.maotorino.it

La storia non si ripete mai

IL COMMENTO  / di Pier Franco Quaglieni – La storia non si ripete mai. Per questo motivo non è magistra vitae, come credono quelli che non  conoscono i meccanismi complicati ed a volte tortuosi della storia

Fino ad un mese fa – ma oggi tacciono – c’erano giornalisti e politici che affermavano che si stava ripetendo ciò che accadde cent’anni fa con il fascismo, sostenendo che l’Italia stava scivolando verso un regime involutivo di estrema destra. Antonio Scurati con il suo romanzo “M.” è stato  l’ispiratore di queste cassandre che, non conoscendo la storia, non consideravano le oggettive diversità tra quella  italiana di cento anni fa e quella di oggi.
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Basterebbe pensare che cent’anni fa uscivamo  dalla Grande Guerra e c’era in Italia un movimento operaio che pensava di ripetere anche qua la rivoluzione del 17 in Russia. Oggi l’ Italia vive in una stagione politica e storica totalmente diversa e quindi certi paralleli erano totalmente errati se non politicamente strumentali. Ma la storia e’ anche imprevedibile . Sono cose chi ha letto Guicciardini e Machiavelli, capisce immediatamente. La “fortuna“ di Machiavelli è l’ imprevedibilità’. La non ripetitività della storia è una constatazione che lo storico Guicciardini oppone all’ “ideologo“ Machiavelli che si illudeva di trarre dalla storia romana insegnamenti validi per la politica dell’oggi. La imprevedibilità della storia è oggi rappresentata drammaticamente  da una pandemia  imprevista ed imprevedibile che ha sconquassato il mondo è l’Italia. Anche Tucidide analizzo ‘ il ruolo della peste nella guerra tra Spartani ed Ateniesi ed alcune sue riflessioni andrebbero rilette. Oggi la notizia è data dal numero superiore di morti in Italia  rispetto alla  Cina ,come titola crudelmente “ La stampa” ,una debacle terribile di cui pure qualcuno dovrà rendere conto e di cui qualcuno, nelle alte sfere, dovrà parlare. Oggi in Italia si guarda con simpatia ai sistemi” cinesi” per uscire dal disastro. Abbiamo davanti ai nostri occhi stralunati  una democrazia sospesa , quasi in ginocchio, con un Parlamento che sta perdendo sempre di più la sua centralità, senza che nessuno abbia da obiettare qualcosa.
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L’ ho già scritto un’ altra volta, Primum vivere, deinde philosofari,ma qui non sono in gioco gli inutili gargarismi filosofici di qualche utopista   ,ma le basi stesse della Costituzione che non sento più  invocare da nessuno,mentre un mese fa era citata e difesa dalle minacce in atto da parte di  pericolose congiure neofasciste. Le Sardine tacciono e sembrano  essere finite sigillate in una scatoletta: sono diventate improvvisamente afone. La storia è imprevedibile  e nessuno può immaginare che piega possa avere il nostro futuro. Comunque il Coronavirus ha portato ad una crisi economica senza precedenti che potrebbe provocare delle gravi proteste sociali di cui non possiamo  neppure prevedere le conseguenze. Certamente l’entrata drammatica in scena  del virus ha già comportato una svolta  evidente anche nella politica: i tempi della politica sono cambiati radicalmente  e il bombardamento ossessivo dei media finisce di stordirci come uomini pieni di ansie, ma anche come cittadini sbandati ,pronti, potenzialmente pronti,  ad affidarci  a chiunque possa salvarci. Ricompare l’uomo forte, ma in tutt’altra veste rispetto a quello armato di manganello e di olio di ricino.
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Il fatto, ad esempio, che i  nostri movimenti vengano controllati attraverso i nostri telefonini ci fa inevitabilmente pensare al Grande Fratello. E’ certo  vitale contenere il virus, anzi è indispensabile sconfiggerlo e i pazzi che girano per le strade vanno fermati. Ma il dubbio critico ,il dubbio kantiano, non deve mai abbandonarci.Altrimenti ne verrebbe meno la nostra civiltà a cui difficilmente  come uomini di cultura potremmo rinunciare. Per difendere la libertà c’è stato, nella storia delle diverse epoche, chi ha sacrificato la propria vita. Un discorso macabro e difficile che oggi cerchiamo di scacciare  giustamente dalle nostre menti atterrite da una prova durissima che non  ha precedenti  nella nostra storia unitaria ed  è proprio per questo  che ci allarma e ci rende fragili e suggestionabili. La democrazia e ‘ sempre fragile e la  libertà, come ci ricordava Calamandrei, è come l’aria di cui sentiamo l’importanza ,quando facciamo fatica a respirare.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com
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(Nell’immagine in alto Niccolò Machiavelli)

Il Polo del ‘900 è chiuso ma è sempre in rete

Il Polo del ‘900 e i 22 enti partner lanciano il programma #ilpoloèsempreonline. Pillole di storia, contenuti d’archivio, consigli cinematografici, letture online e una call agli insegnanti per rispondere alle sfide del presente attraverso il Novecento.

 

Il Polo del ‘900 di Torino e i 22 Enti partner hanno messo insieme competenze, patrimoni e idee per continuare la propria attività culturale online. Da oggi, con il programma #ilpoloèsempreonline, sul sito del Polo e sulla pagina FB, racconti, figure e voci del Novecento per rispondere alle domande del presente.

Da oggi, per 4 settimane, ogni martedì e venerdì alle 14, lo storico Giovanni De Luna propone Momenti di storia, racconti del passato e suggerimenti cinematografici, in collaborazione con l’Istituto Piemontese per la storia della Resistenza. Ogni martedì, De Luna racconta aneddoti della seconda guerra mondiale alla scoperta della voglia di vivere dei torinesi e delle forme di resistenza sviluppate durante l’eccezionalità di quel momento storico. Il venerdì, invece, sarà dedicato a suggerimenti cinematografi con i film che hanno raccontato i grandi cambiamenti del Novecento.

Da venerdì 20 marzo ore 17, parte un altro appuntamento, in collaborazione della Rete Italiana di Cultura Popolare. La voce di Antonio Damasco ci accompagna fra le pagine del libro la Storia sei tu. 1000 anni in 20 nonni (Rizzoli) di Carlo Greppi. Una lettura adatta a grandi e piccoli che racconta gli eventi e i personaggi più importanti degli ultimi mille anni attraverso il racconto di venti saggi nonni.

Il Polo pensa anche a studenti e insegnanti e a sostegno della didattica online, propone sul proprio sito, la sezione #Chiedialpolo. Attraverso una call rivolta agli insegnanti, il Polo intende intercettare le esigenze scolastiche attuali e proporre approfondimenti, documenti d’archivio, lezioni in collaborazione con studiosi, archivisti del Polo. I contenuti prodotti saranno condivisi sulla pagina FB e sul sito a partire dal 23 marzo. Tutte le info su www.polodel900.it

“Il Polo del ‘900 e i 22 enti partner hanno messo a punto un programma di appuntamenti online, per tutti coloro che in questo periodo di inattività vogliono approfondire storie, figure e valori del Novecento correlate alle sfide e emergenze dell’oggi. Lo faremo attraverso format e contenuti digitali che metteremo a disposizione sui nostri canali web. Il sito del Polo e la pagina Fb saranno una sorta di hub che progressivamente accoglieranno le proposte e elaborate dai 22 Enti partecipanti – spiega Alessandro Bollo, direttore del Polo del ‘900 – Confido che, come spesso è accaduto in passato, risposte positive a momenti di emergenza e straordinarietà possano produrre effetti di cui beneficiare anche in periodo di ritorno all’ordinarietà. Uscire dalla zona di confort, mettersi in gioco, lavorare su nuove frontiere, sperimentare le possibilità del digitale penso possa considerarsi un esercizio di fecondo approccio per il mondo della cultura, in un tempo che nostro malgrado ci è dato affrontare senza istruzioni per l’uso”.

Il finto patriottismo della paura. Risposta a Galli della Loggia

IL COMMENTO  di Pier FRanco Quaglieni / Ernesto Galli della Loggia, lo stesso che scrisse il fortunato e citato libro “La morte della Patria” sul Corriere della Sera di oggi inneggia al nuovo patriottismo che sarebbe rinato in questi giorni con l’esposizione di tricolori e con il canto in strada  dell’Inno nazionale. Egli giunge a scrivere che  “in tempi di vita e di morte” rinasce l’identità nazionale. Per uno storico come lui  il suo mi sembra un  discorso banalizzante e fuori tempo

Per decine e decine di anni ci siamo sentiti ripetere che la Nazione e la Patria erano parole retoriche e tutti hanno usato il ben più banale e democratico Paese. Solo Ciampi tentò come presidente di farci riappropriare del nostro orgoglio di essere e di sentirci italiani. E solo in minima parte ci riuscì. Chi scrive si è sempre considerato un patriota e potrebbe vantare qualche benemerenza in fatto di inni nazionali e di bandiere tricolori. Nelle occasioni  solenni ho fatto aprire le manifestazioni del Centro Pannunzio con il suono e persino il canto dell’ Inno di Mameli ; in tante occasioni ho promosso concerti patriottici ed uno era stato  programmato proprio per il  prossimo 17 marzo anniversario dell’Unità d’Italia, una festa mal concepita e frettolosamente realizzata  da un sottosegretario di Monti che fu alle dipendenze di Ciampi. Ho sempre esposto il tricolore al mio balcone ,preferendo però quello con lo stemma sabaudo, la bandiera del Risorgimento ,la bandiera ereditata da mio nonno.
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Ho in più occasioni commemorato le  date di anniversari e di feste nazionali in giro per l’Italia, da Bolzano a Trapani.Partecipando sempre a titolo gratuito. E potrei aggiungere tanti altri ricordi riferibili fino agli anni della mia giovinezza, quando scelsi a 14 anni di andare ad El Alamein e non a Luxor, come tanti miei compagni di scuola del Collegio San Giuseppe nel corso di un viaggio in Egitto. Ho ricordato queste cose non certo per vantare dei meriti che non ho, perché ho solo seguito le tradizioni della mia famiglia. Ho voluto ricordare queste cose perché non credo all’ improvvisato patriottismo di gente che ha sempre calpestato la storia e, se non la ha calpestata, è solo perché l’ha sempre ignorata. Mussolini cercò di “galvanizzare” gli  italiani dopo le clamorose sconfitte delle armi italiane in Africa, in Russia, nei Balcani , con le parole d’ ordine patriottiche. Fu un inutile richiamo che rese la dittatura intollerabile.
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Oggi non abbiamo bisogno di tricolori alle finestre, ma di disciplina nel non uscire di casa. I patrioti dell’emergenza virus sono dei finti patrioti. Oggi di fronte alla pandemia che non guarda alle frontiere nazionali, abbiamo bisogno di spirito umanitario, capace di farci sentire cittadini del mondo. Non dobbiamo cantare inni che la maggioranza dei cittadini non conosce, ma dobbiamo cercare di essere solidali, donando soldi e sangue. Oggi i veri eroi sono i medici e gli infermieri che cercano di salvare vite umane. Il prof. Galli dovrebbe scrivere queste cose e non esaltarsi di una Patria  di cui lui stesso ha dichiarato la morte. Anche la patria europea, in cui pure abbiamo creduto, si è rivelata un miraggio e nessuno penserebbe di cantare oggi   l’inno alla gioia. Sentirci uomini solidali e sofferenti, a fianco di altri uomini solidali e sofferenti, è l’ imperativo categorico di questi tempi così difficili e inediti.
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La retorica,buona o cattiva, non ha senso. Il “Cuore” di De Amicis riprende vigore  e significato nel senso  della rivalutazione dei valori umani che debbono legarci, per la vita e per la morte. Ed anche il senso più modesto ma indispensabile della rivalutazione   dei valori civici che molti nostri connazionali hanno dimostrato di non possedere affatto. Quando ho letto che in una cittadina ligure che pure amo, è passata un ‘auto della protezione civile con gli altoparlanti a tutto volume con l’Inno di Mameli, ho pensato che quell’auto doveva  essere utilizzata per ben altri ed urgenti scopi.
scrivere a quaglieni@gmail.com

Re Vittorio e la semplificazione della storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Scarso risalto sui giornali italiani ha avuto il bicentenario di Vittorio Emanuele II. Era prevedibile ed anche comprensibile perché l’emergenza Coronavirus ci ha  invaso, creando via via sempre di più quel clima di psicosi che si voleva  illusoriamente evitare. Quindi lo spazio per il re il “Corriere  della Sera” non l’ha trovato

Se fosse stato  vivo  Giuseppe Galasso, non sarebbe accaduto, ma con i  vari Carioti e’ stato possibile. Tuttavia l’articolo   di Alessandro B a r b e r o  su “La Stampa” che riprende parte delle argomentazioni di Mack Smith, – vecchie di cinquant’anni e non frutto di ricerche condotte seriamente, – e  riprende persino  citazioni riportate su Wikipedia, basta ed avanza.
Pochi lo hanno letto, ma chi lo ha fatto non ha potuto non constatare le esagerazioni e le strumentalizzazioni che balzano fin troppo evidenti anche a un non addetto ai lavori. In passato gli storici del Medio Evo si limitavano a scrivere della loro disciplina, salvo casi eccezionali. Ed erano dei grandi storici. E’ stata un‘ eccezione quella di Luciano Canfora che da filologo dell’antichità classica si è spinto avventurosamente a scrivere di Gramsci e di Concetto Marchesi e di tanto altro . Gli esiti non sono stati sempre felicissimi, ma va riconosciuta la vivida intelligenza del  noto professore dell’ Università di Bari che a volte è anche fazioso, ma si rivela sempre brillante nel senso migliore dell’espressione e non e’ mai banale.  Sarebbe logico che ognuno si occupasse del suo orticello, curando in primis la ricerca, l’insegnamento e gli allievi, mettendo all’ ultimo posto la divulgazione che da’ facile notorietà e forse, anche, guadagni significativi. Il  docente, di norma, dovrebbe rifiutare la mediaticità dei circenses che piacciono alle plebi, anche se  ormai i monaci del sapere  laico come Franco Venturi non ci sono più  da tempo.
Sarebbe stato  comunque impensabile un Rosario Romeo, sommo storico risorgimentale, nella veste di volgarizzatore sommario di storia medievale, ad esempio. Certo e ‘ lecito criticare il re Vittorio – anzi le celebrazioni vanno abortite  –  ma occorrono sempre delle  serie argomentazioni storiche riferite al Risorgimento e al trentennio del suo regno che non può essere solo e soltanto un insieme di  errori e di ombre negative.
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 C’è stata in Italia una storiografia repubblicana da  Salvatorelli  a Spadolini, a Galasso, tanto per citare tre nomi importanti, che ha dato un contributo alto al dibattito risorgimentale. Adolfo Omodeo non esito’ a difendere  il Risorgimento dalle semplificazioni giovanili di Gobetti con assoluta fermezza, parlando dell’ “orianesimo“ giornalistico del giovane torinese.  Questi  storici sarebbero  indignati di fronte alla prosa  un po’ troppo disinvolta di B a r b e r o  che non ha titolo  specifico per scrivere su Risorgimento e fascismo, come invece fa da anni. Il fatto che piaccia al pubblico televisivo non dimostra nulla. Anzi, il successo televisivo è inversamente proporzionale allo scrupolo storiografico che impedisce  sempre la semplificazione, una scorciatoia vietata agli storici. Direi che la consapevolezza della complessità  e’ per uno studioso anche una questione di  etica  professionale  irrinunciabile . La storia e’ sempre un fatto complesso  e non semplificabile,  se non si vuole tradire il valore della ricerca. Luigi Firpo, quando ci insegnava i rudimenti della ricerca storica, era molto rigoroso e chiaro  su queste premesse procedurali. Ma c’ è un esempio ancora più emblematico di una storiografia di origini nettamente di sinistra,   opera di un dirigente del PCI  che ha ricoperto importanti incarichi pubblici. Mi riferisco a Gianni Oliva la cui opera ha spaziato dalla storia militare a quella sabauda, per poi giungere in tempi molto difficili alla ricostruzione storica del dramma delle foibe, tema sul quale  il PCI ebbe posizioni omertose e mendaci. Oliva ha saputo e continua a distinguere il suo legittimo impegno politico e la sua ricerca storica  con un’onestà intellettuale davvero eccezionale. Anche Oliva ha fatto della divulgazione storica, anche Oliva va in televisione, ma ha sempre saputo mantenere il necessario rigore scientifico. Non si è mai esibito e non si è mai montato la testa anche se viene invitato in tutta Italia e i suoi libri hanno un ampio successo. Oliva usa un linguaggio semplice e leggibile che molti storici rifuggono, rendendosi troppi elitari, ma non scade mai nella banalità  oggi imperversante.
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Oggi in Italia  tutti scrivono di tutto, ma la tuttologia  è esattamente l’inverso della scienza. E non si può stabilire una differenza tra  il testo  di un articolo di giornale rispetto ad un saggio perché il rispetto della verità e dello scrupolo storico deve essere sempre lo stesso . Il venir meno a certe regole in un articolo non è meno grave che in un saggio. B a r b e r o si laureò con Giovanni Tabacco di cui fui amico. Non fu lui a succedergli sulla cattedra torinese, ma  B a r b e r o vinse la cattedra a Vercelli. Tabacco  non  credo – il dubbio e’  sempre doveroso, trattandosi di un morto – che potrebbe approvare il suo ex allievo, anche se è chiaro che ognuno è libero di scegliere la sua strada in assoluta libertà . Anche Galante Garrone criticò il suo  ex allievo Vittorio Messori,  un giornalista  per molti versi colto e intelligente che, per un eccesso  di foga polemica, cercò di distruggere, niente di meno,  il Risorgimento.   Anche il solito presidente della sedicente consulta dei senatori del regno ha voluto scrivere in questa occasione il suo compitino, una rigovernatura di luoghi comuni che hanno  assai poca affinità con la riflessione storica sul bicentenario.   Nessun esponente dei diversi comitati per il bicentenario del re ha fatto sentire la sua voce   per confutare l’articolo di B a r b e r o. Hanno taciuto in attesa di riorganizzare  magari a Ferragosto il  gran ballo  programmato per il 13 marzo. Loro, invece di studiare la storia, ballano. Questione di gusti ma anche  segno  sinistro dei tempi calamitosi in cui viviamo.