Giancarlo Pajetta, il “ragazzo rosso” 

Trent’anni fa, il 13 settembre 1990, si spegneva nella sua casa romana  Giancarlo Pajetta, il “ragazzo rosso”, definizione che offrì lo spunto per il titolo della sua autobiografia.

 

Irriducibile antifascista, partigiano e vicecomandante delle Brigate d’assalto Garibaldi, parlamentare della Repubblica fin dalla Costituente, dirigente di primo piano del Partito Comunista Italiano, Pajetta è stato uno dei protagonisti del ‘900. La sua salma riposa in Val d’Ossola, nel piccolo cimitero di Megolo , frazione di Pieve Vergonte, nella  stessa tomba che ospita l’intera famiglia Pajetta, dai fratelli Gaspare (morto giovanissimo in battaglia proprio a Megolo, durante la Resistenza, nel febbraio del ‘44) e Giuliano, a mamma Elvira e papà Carlo.

Giancarlo Pajetta era nato a Torino il 24 giugno del 1911. Figlio di Carlo, avvocato, e di Elvira Berrini, maestra elementare, iniziò giovanissimo la sua attività politica iscrivendosi nel 1925, a quattordici anni, alla federazione giovanile comunista. Una scelta di campo che gli valse nel febbraio del 1927, mentre frequentava il liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio a Torino, l’espulsione da “tutte le scuole del Regno” per tre anni per “propaganda antifascista”, secondo la locuzione dl tempo. Come non bastasse, Gian Carlo Pajetta venne arrestato e rinchiuso, quando non aveva ancora 17 anni, nella sezione minorile delle carceri giudiziarie di Torino. Il 25 settembre del  1928 il Tribunale Speciale lo condannò a due anni di reclusione che scontò nelle carceri di Torino, Roma e Forlì. Nel 1931 espatriò in Francia dove il “ragazzo rosso” assunse lo pseudonimo di “Nullo”, diventando segretario della Federazione giovanile comunista, direttore di Avanguardia e rappresentante italiano nell’organizzazione comunista internazionale. In quel periodo Pajetta compì numerose missioni clandestine in Italia fino a quando, il 17 febbraio del 1933, venne arrestato a Reggio Emilia. Il Tribunale Speciale fascista lo condannò a 21 anni di reclusione. Rimase in carcere dieci anni e sei mesi tra Civitavecchia e Sulmona, fino alla liberazione che avvenne il 23 agosto del 1943, un mese dopo la caduta del fascismo. Poi venne l’8 settembre e la guerra partigiana, durante la quale perse la vita a diciotto anni il fratello Gaspare, combattendo a fianco del capitano Filippo Maria Beltrami e degli altri resistenti sulle balze del Cortavolo, sopra l’abitato di Megolo.

 

L’altro fratello, Giuliano, anch’esso dirigente comunista fu deportato nel campo di concentramento di Mauthausen e tre suoi cugini persero la vita per mano dei nazisti e dei fascisti. “Nullo” partecipò da protagonista alla lotta di Liberazione come Capo di Stato Maggiore ( anche se, di fatto, fu vice comandante generale) delle Brigate Garibaldi e membro del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà. Fu in questa veste che, tra il novembre e il dicembre del 1944, Pajetta si trovò a Roma, come membro del CLNAI, per trattare con gli Alleati e con il governo Bonomi l’accordo politico-militare che portò al riconoscimento delle formazioni partigiane come formazioni regolari e all’attribuzione delle funzioni di governo al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Dopo la liberazione Giancarlo Pajetta diventò direttore dell’edizione milanese de l’Unità e membro della Direzione del Pci. Nel 1945 venne eletto alla Consulta (non era potuto diventare senatore perché troppo giovane) e successivamente nel 1946 all’Assemblea costituente. Nel 1948 diventò deputato della Repubblica, ruolo nel quale venne riconfermato ben dodici volte). Negli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1984, venne eletto al parlamento europeo. La sua biografia si intreccia con la storia repubblicana del dopoguerra e con le vicende del movimento comunista. Una storia lunga decenni tra i fronti popolari, i legami e le divergenze tra le peculiarità nazionali dell’Europa occidentale e l’Unione Sovietica, i grandi eventi storici e le guerre, la liberazione dal fascismo, il Cominform, la guerra fredda, il promemoria di Yalta e la destalinizzazione, la primavera di Praga stroncata dai carri armati sovietici, la crescente attenzione verso un nuovo internazionalismo e i paesi emergenti nel sud e nell’est del mondo,  il destino strategico dell’area mediterranea e la ricerca di una visione nuova attraverso l’eurocomunismo. Un impegno appassionato sul quale occorre ancora oggi riflettere, indagare. In un libro-intervista a cura di Ottavio Cecchi, intitolata “La lunga marcia dell’internazionalismo” e pubblicata dagli Editori Riuniti, Pajetta concentrò il suo pensiero su questi temi di grande attualità sostenendo come dovessero “fondarsi sulla distensione, sulla pace, sulla collaborazione internazionale, su rapporti non imperialisti tra paesi sviluppati e paesi emergenti,sullo scambio di esperienze”. Scriveva( eravamo nel marzo del 1978, anno cruciale) “Circolazione delle idee e degli uomini deve voler significare anche circolazione del socialismo e fiducia nelle forze nazionali e di classe che in ogni paese tendono al rinnovamento sociale”.

 

Un pensiero che, in un epoca di appannamento e confusione valoriale, di scarse capacità di elaborazione di un pensiero di sinistra e progressista, di profonda debolezza delle classi dirigenti della politica, rivela all’opposto la preparazione, la passione e la determinata volontà dei protagonisti di una fase importante della storia italiana. Il giorno prima di morire a causa di un arresto cardiaco Giancarlo Pajetta rilasciò al Messaggero un’intervista nella quale, riferendosi alla “svolta della Bolognina” che avrebbe portato allo scioglimento del PCI, confessò di vivere i giorni più brutti della sua vita. Un sentimento comprensibile per chi aveva vissuto e partecipato a quella storia collettiva che segnò la vita di intere generazioni. Pajetta sapeva cogliere le novità, il bisogno di cambiare, l’evoluzione della storia ma temeva che un grande patrimonio di idee e valori potesse in qualche modo disperdersi.  Era toccato a lui, con la sua voce tonante, pronunciare l’orazione ai funerali di Enrico Berlinguer, dopo aver accompagnato Giorgio Almirante, avversario di mille battaglie, a render visita alla salma del leader comunista nella camera ardente alle Botteghe Oscure. Anche da quell’episodio si coglie la cifra democratica e la levatura di un grande personalità. Miriam Mafai, giornalista e scrittrice scomparsa nel 2012, visse per trent’anni al suo  fianco e così raccontò il “ragazzo rosso”: “È morto a casa mia. Ma ho vissuto con lui molti anni, se si intende per vivere insieme stare insieme, viaggiare insieme, studiare insieme. Stiamo stati anche molto felici ma non abbiamo mai vissuto da coniugi: non eravamo interessati né io, che avevo già più di 30 anni né lui, che ne aveva oltre 50, a scambiarci l’esistenza dalla mattina alla sera. Giancarlo si trasferì a casa mia solo nell’ultimo periodo”. Pajetta morì senza assistere alla fine, ormai decretata, del Pci. Lo raccontò, ancora, Miriam Mafai: “Lui muore quando sta morendo il partito comunista. Quindi ha già visto il crollo del muro di Berlino ma non ha visto, per sua fortuna, la bandiera rossa calare dal pennone del Cremlino.Ma all’epoca il Pci sta cambiando nome e lui sa che finirà. Certo Giancarlo è morto perché non era più un giovanotto ma credo che non abbia voluto vedere il seguito”. La drammaticità della sua personalità stava nell’estrema fedeltà al socialismo e al Pci, vissuta senza nasconderne e denunciandone limiti e difetti. Era consapevole di quella che Berlinguer chiamò “l’esaurimento della spinta propulsiva” dell’URSS pur riponendo molte speranze in Gorbaciov. Pajetta, tra i leader più amati e popolari nel vecchio partito comunista era un grandissimo oratore e i suoi comizi si trasformavano ogni volta in un avvenimento perché riusciva a stabilire un rapporto straordinario con il sentimento popolare di quelle piazze piene. Quando chiesero alla Mafai che uomo fosse, questa fu la sua risposta:“Era una personalità ricca di sfumature, per alcuni versi insopportabile.Impaziente, molto colto, un divoratore di libri di ogni genere. E poi viveva di niente, a Roma in un appartamento orrendo. Non aveva mobili e io gli dicevo che aveva nostalgia del carcere. Parlando della mia casa diceva: Vedi? Qui in Unione Sovietica ci vivrebbero tre famiglie! Io gli rispondevo: infatti, io non voglio andare a vivere in Unione Sovietica. Giancarlo immaginava una società che non esisteva più e il suo sogno, da vecchio, era una camera in affitto in una casa di operai a Torino. E, diversamente da tutti i deputati, ai suoi figli ha lasciato praticamente niente”.

Marco Travaglini

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