SPETTACOLI- Pagina 60

“Dimmi perché non c’è niente a parte gli errori”

Music tales, la rubrica musicale 

“Dimmi perché

Non c’è niente a parte mal di cuore

Dimmi perché

Non c’è niente a parte gli errori

Dimmi perché

Non voglio mai sentirti dire

Voglio che sia così”

Oggi vi accompagnerò alla scoperta del brano che ha fatto battere il cuore di milioni di fan in tutto il mondo: I Want It That Way.

Sono certa che tutti, almeno una volta, l’avrete sentita o canticchiata.

Se così non fosse, beh eccomi a proporvela.

Immaginatevi catapultati indietro nel tempo, precisamente al 12 aprile 1999.

Quanto ero giovane!!!!

 È proprio in quel momento che il terzo album in studio dei Backstreet Boys, “Millennium,” rivoluziona le hit parade di quell’annata, regalando al mondo una traccia indimenticabile. Il primo singolo estratto, I Want It That Way ha toccato l’anima di chiunque abbia ascoltato quella ballata.

Ma non fatevi ingannare dalla sua iniziale scelta come singolo. Inizialmente, la band aveva optato per un’altra canzone, ma quando ascoltarono il finale di I Want It That Way, capirono che avevano tra le mani un capolavoro.

Decisero di puntare su questa per conferire un’immagine più matura al gruppo, una nuova dimensione che avrebbe catturato i cuori di tutti.

La melodia inconfondibile di “I Want It That Way” si apre con un delicato arpeggio di chitarra che avvolge l’ascoltatore in un abbraccio emozionale, ispirato in maniera diciamo più che inaspettata da… “Nothing Else Matters” dei Metallica. Un connubio magico tra sonorità che fanno vibrare il cuore e parole cariche di significato.

Veniamo al significato del testo, che ha sollevato qualche sopracciglio tra i critici per alcune inesattezze linguistiche. Il mistero di “That” ha fatto sorgere domande, ma i Backstreet Boys hanno difeso coraggiosamente il brano, abbracciandone l’originalità e l’orecchiabilità che lo hanno reso unico.

Kevin Richardson ha spiegato che il testo, non perfettamente logico, fu il risultato dell’ispirazione di Max Martin, che all’epoca non parlava un inglese impeccabile.

Questa ballata romantica è un inno al desiderio di un amore eterno, nonostante le sfide che la vita potrebbe porre davanti a noi. Il cantante si dibatte in un’ardua lotta interiore, interrogandosi sulla sincerità e la durata del suo amore.

Nel ritornello, il dolore di non avere ciò che si desidera affiora con forza, implorando risposte sul perché le cose debbano andare in modo così complicato.

Ma è proprio qui che brilla la speranza. I Want It That Way è un richiamo a credere nel potere del vero amore, capace di superare ogni ostacolo e resistere alla prova del tempo. La canzone ci spinge a credere che, nonostante le incertezze, l’amore autentico possa guidarci attraverso le tempeste della vita.

«Siamo musica pura. Siamo cinque ragazzi che cantano e non si curano dell’immagine.»

Buon ascolto in una versione da “viaggio” e con le orecchie e con gli occhi

https://www.youtube.com/watch?v=yzzWW9uKqxE

 

CHIARA DE CARLO

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!

Giorgio Lupano maturo protagonista della “favola” di Scott Fitzgerald

Sino a domenica all’Erba “La vita al contrario – Il curioso caso di Benjamin Button”

Ripubblichiamo, aggiornandola, la recensione scritta in occasione delle rappresentazioni dello spettacolo la scorsa stagione: spettacolo che ancora consigliamo per i rimandi cinematografici, per la bravura del protagonista, per la “diversità” del testo iniziale di Scott Fitzgerald.

La prima traccia, certo la più celebre dopo che ebbe glorie cinematografiche con il film di David Fincher (2008), interpreti Brad Pitt e Cate Blanchett, tre meritatissimi premi Oscar, è quella seguita da Francis Scott Fitzgerald con il racconto “The Curious Case of Benjamin Button”, edito nel 1922 nella rivista “Collier’s” e poi inserito nei “Racconti dell’età del jazz”. Ma non la sola. Non soltanto gli appunti dell’inglese Samuel Butler, ma soprattutto i legami con il torinese Giulio Gianelli, poeta crepuscolare, che undici anni prima del “curious case” scrisse ”Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino”: il tutto sotto l’intelligente arguzia di Mark Twain, se Fitzgerald ebbe un giorno a confermare: “Questo racconto fu ispirato da un’osservazione di Mark Twain: cioè, che era un peccato che la parte migliore della nostra vita venisse all’inizio e la peggiore alla fine. Io ho tentato di dimostrare la sua tesi, facendo un esperimento con un uomo inserito in un ambiente perfettamente normale.”

Nulla vieta che una storia dai contorni così dilatabili prenda la strada di casa nostra, intravedendo vicende ed epoca a noi più vicine. Della stessa storia, con un tour de force affatto trascurabile, si deve essere innamorato Giorgio Lupano, classe 1969, borgo natìo quel di Trofarello alle porte del capoluogo piemontese, alle spalle la scuola dello Stabile torinese diretta da Ronconi e un passato teatral/cinematografico e soprattutto televisivo capace di renderlo uno degli attori più apprezzati. Nell’elaborazione teatrale dovuta allo spirito dinamicissimo di Pino Tierno, capace di costruire i circa 90’ dell’ampio monologo come una sorta di fuochi d’artificio che invadono l’intera vicenda (dall’Unità sino alla metà dello scorso secolo), in un discontinuo imperativo spazio/temporale e in un continuo susseguirsi di piccoli drammi e di leggero divertimento, ogni cosa immersa in un liquido grottesco estremamente ristoratore, Lupano rende totalmente suo il personaggio. Nulla importa che in luogo di Button ci ritroviamo le peripezie di Nino Cotone, sin dalla culla virgulto italianissimo e umanamente tragicomico. Sotto il continuo ticchettìo del tempo, nello sgranarsi di canzonette d’epoca e numeri di danza (oggi in scena Lucrezia Bellamaria, ndr), a fianco la vecchia valigia da cui estrarre il bastone d’appoggio e i diversi abiti e infantili campanellini come le pagine del diario che va scrivendo, pagine che a poco a poco invadono la scena in una cascata di ricordi, Nino inizia con il guardare la propria culla, la pelle grinzosa della vecchiaia, affronta sin dai primi attimi e snocciola il significato della vita: “Capita a tutti di sentirsi diversi in un modo o nell’altro, ma andiamo tutti nello stesso posto, solo che per arrivarci prendiamo strade diverse”. Un lungo percorso ad attraversare una vita intera, Nino che affronta l’infanzia come se fosse un anziano e la vecchiaia come se fosse un bambino, “la vita al contrario” con i genitori sbigottiti a nascondere al mondo la creatura, la giovinezza e le amicizie, la diversità durante il servizio militare sotto l’occhio dei superiori, il matrimonio con Elisabetta e la nascita del figlio, il rapporto con quest’ultimo che è un diverso gioco delle parti.

Con la attenta regia di Ferdinando Ceriani, in una interpretazione dove esprimere tutta la propria bravura e una invidiabile quanto autentica maturità, Lupano si divide, oltre che nella lucidità del suo protagonista, nel fregolismo dei tanti personaggi, maschili e femminili, di più o meno lunga come di fulminea ampiezza, ben articolati nelle differenti movenze e nel gioco delle voci, acute e profonde, dialettali, rotonde e difettose, sussurrate e imponenti, in un eccellente panorama di caratterizzazioni. Una serata di vero successo, colma la sala dell’Erba di un pubblico che certo non ha lesinato gli applausi. Una trasposizione che poteva portarsi appresso ogni rischio ma che al contrario dimostra tutta la sua riuscita.

Elio Rabbione

“Romeo e Giulietta stanno bene”e “Kaleidos” al Gobetti di San Mauro

Giovedi 14 marzo  in scena “Kaleidos -viaggio tra gli stili”

 

Giovedì 14 marzo, al teatro Gobetti di San Mauro Torinese, andrà in scena “Kaleidos -viaggio tra gli stili”, da Beethoven a Piazzolla. Protagonisti il pianoforte e il violoncello di due giovani talenti piemontesi, Luca Cometto e Luigi Colosanto. Preparazione e creatività sono unite all’entusiasmo della gioventù e fanno del duo una coppia interessante e da scoprire, già notata dalla critica e capace di riempire i teatri. Il programma della serata prevede la Sonata per violoncello e pianoforte n.2 op.5, Adagio sostenuto e espressivo/allegro molto più tosto presto e rondò allegro. Seguirà Schumann con “Fantasiestücke” op.73, Nikolai Myaskovsky con Sonata per pianoforte e violoncello n.2 op.81 Allegro moderato, Andante Cantabile, Allegro con Spirito. Conclude la serata il Gran Tango per violoncello e pianoforte di Astor Piazzolla.

La composizione della Sonata per violoncello e pianoforte op.5 fu dovuta a circostanze casuali. Nel giugno del 1796 Beethoven, che stava nuora pensando alla carriera concertistica e che erra stato Praga, Lipsia e Dresda si recò a Berlino. Il Re di Prussia Federico Guglielmo II suonava il violoncello, e per lui Mozart scrisse i Quartetti Prussiani e Boccherini molti quartetti, oltre ad avere al suo servizio uno dei più abili violoncellista dell’epoca, Jean-Pierre Duport. Beethoven, che suonò a corte, offri al Re Violoncellista le due sonate, e le eseguì insieme a Duport.

Tradotto dall’inglese, la “Fantasiestücke” fu scritta da Schumann nel 1849. Sebbene fosse originariamente destinata a clarinetto e pianoforte, Schumann indicò che la parte del clarinetto poteva essere anche eseguita su violino e violoncello. Queste “fantasie” furono scritte da Schumann nel 1849, anno considerato dal compositore fra i più fecondi della propria esistenza, e che fu anche l’ultimo da lui trascorso a Dresda. Rispetto al grigio clima culturale di Dresda, che in precedenza aveva influito sulla creatività dell’autore, le “fantasie” rappresentano un tentativo di evasione, realizzato con la complicità degli amici della locale orchestra di corte.

Il Gran Tango di Astor Piazzolla reca una versione originale per violoncello e pianoforte, attraverso la quale il compositore argentino espresse lo spirito del nuovo tango o “nuevo tango”, una fusione di ritmi tradizionali del tango e sincopi ispirate al jazz. Scritto nel 1982, il Gran Tango è stato pubblicato a Parigi, da cui deriva il titolo originale francese “Le Grand Tango” anziché quello spagnolo.

 

Teatro Gobetti, via Martiri della Libertà 17, San Mauro Torinese

Info: 011 0364114

 

Mara Martellotta

 

 

Venerdì 15 marzo, “Romeo e Giulietta stanno bene”

 

Venerdì 15 marzo al teatro Gobetti di San Mauro Torinese andrà in scena “Romeo e Giulietta stanno bene! – Amore contro tempo”, liberamente tratto dalla tragedia di W. Shakespeare e interpretato da Andrea Kaemmerle, Anna Di Maggio e Silvia Rubens. Romeo e Giulietta stanno bene, non sono morti, anzi hanno dovuto vivere diversi anni affrontando tutte le difficoltà quotidiane dovute a convivenza, lavoro, vecchiaia e modernità. Lo spettacolo è molto divertente e ricorda, quasi citandoli, molti capolavori del teatro del Novecento, da “Giorni felici” a “Rumori fuori scena”. Il testo è un omaggio all’amore lento, quello che dura, quello che sa trasformarsi da passione in esperienza, l’amore dei nostri nonni, l’amore dei resistenti. Un gioiello di comicità poetica e di ottimismo. I tre artisti si muovono da più di 25 anni in modo indipendente e molto personale, si tratta di onesti e talentuosi cercatori di bellezza. Lo spettacolo è in tour nei teatri italiani, mietendo successi di pubblico e critica grazie alla capacità che gli interpreti hanno dimostrato di portare sulla scena dolori e gioie nei rapporti di coppia. L’amore passionale dei due adolescenti di Verona si trasforma così in una relazione come tante, fatta di crisi e di noie. Anche l’ironia dello spettacolo è semplice: così sarebbe finita se Shakespeare non li avesse fatti morire prima.

Venerdì 15 marzo, ore 21:00, cinema-teatro Gobetti

Via Martiri della Libertà 17, San Mauro Torinese

Info e prenotazioni: 011 0364114

 

Mara Martellotta

 

 

 

A Torino il meglio delle radio e tv internazionali al Prix Italia

Torino torna ad ospitare il Prix Italia dopo ben 7 anni, dall’1 al 4 ottobre 2024, in una cornice completamente rinnovata, grazie alla collaborazione della Città di Torino e della Regione Piemonte, per raccontare e valorizzare in particolare le eccellenze del territorio su innovazione, divulgazione culturale e scientifica. Un’edizione speciale in occasione di Rai 70/100 per il Prix Italia, il Concorso Internazionale inizialmente chiamato Premio Italia, che dal 1948 coinvolge centinaia di televisioni e di radio di tutto il mondo al fine di premiare il meglio delle produzioni, in una kermesse da sempre aperta al pubblico e accessibile a tutti. Il titolo dell’edizione, “Loud and Clar, Forte e Chiaro” è stato scelto per celebrare i 70 anni della Rai, i 100 della Radio ed in occasione del 150enario della nascita di Guglielmo Marconi, uno degli scienziati italiani più visionario di tutti i tempi. Quando Marconi, premio Nobel per la Fisica nel 1909, lanciò il messaggio “Can you hear me” attraverso l’Oceano Atlantico, tutti lo ricevettero in modo inequivocabile, forte e chiaro. La sede del Prix, giunto alla sessantasettesima edizione, sarà il Centro di Produzione Rai di via Verdi con uno studio allestito per l’occasione e con numerose iniziative all’interno del Museo della Radio e della Televisione ed in altre location cittadina di grande appeal per il pubblico Internazionale. Durante il Festival, in programma dall’1 al 4 ottobre, non mancheranno le Anteprime Rai alla presenza dei protagonisti e con la possibilità di incontrare i registi ed i produttori del programmi finalisti sino alla Cerimonia di premiazione nel corso della serata finale. Dopo 7 anni quindi il Prix Italia ritorna finalmente a Torino! Negli anni che furono già vennero organizzate in città ben 10 edizioni: nel 1950, nel 1972, nel 1994 e dal 2009 al 2015.

Igino Macagno

OSCAR: Nolan e Glazer, non poteva che essere così

Il rito è finito e lo spettacolo più o meno sfavillante – le contestazioni fuori del Dolby Theater disturbano e insegnano in un mondo che sarà pur sempre dorato ma che a poco a poco, sempre più, prende atto di quanto gli sta attorno e lo coinvolge – pure, Emma Stone ha ricacciato le lacrime e ricucito il suo abito, John Cena dopo una botta di notorietà – con la busta a ricoprire le proprie pudenda, un ingenuo teatrino inventato dal presentatore della serata degli Oscar Jimmy Kimmel se si è scoperto che sotto a protezione già ci stava un tranquillizzante cache-sex – è corso a rivestirsi, i vincitori hanno ripiegato i foglietti preparati per i ringraziamenti d’occasione, le mamme e i papà e le famiglie al completo hanno riabbracciato quegli idoli che a loro hanno indirizzato tutti quei grazie e hanno guardato con occhi ammirati le ben lustrate statuette dello zio Oscar. Fine della storia, ci rivediamo al prossimo anno.

Certe pagine erano già scritte, quando ancora i primi arrivati non avevano ancora messo piede sul red carpet. Era impossibile che Emma Stone non salisse su quel palcoscenico a stringere la sua seconda statuetta (dopo quella per “La La Land”) perché la migliore attrice protagonista non poteva essere che lei: ma noi abbiamo imparato due cose. Abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare in modo incondizionato la grandezza di un’attrice come Sandra Hüller, moglie con l’accusa d’aver fatto fuori il consorte tra le immacolate quanto solitarie nevi francesi e (ancora) moglie, nella “Zona di interesse” di Jonathan Glazer, un miglior film straniero d’obbligo, del comandante del campo di Auschwitz tutta presa dalla normale spensieratezza della sua vita quotidiana – chissà se e quanto i giurati avranno pensato ad attribuirle il premio per il primo ruolo? E abbiamo imparato che, quegli stessi giurati – che già se la sono immeritatamente ritrovata nella cinquina -, hanno oscurato con acume la nativa Lily Gladstone, messa chissà perché al centro dell’attenzione del pubblico e di un film tutt’altro che perfetto come è “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese, uscito dalla serata a bocca asciutta. Forse tra tutte le colleghe, svetta Da’Vine Joy Randolph, biondissima e spumosa, debordante e stracolma di piume azzurre, un premio come migliore attrice non protagonista a omaggiare – meritatamente, questa volta sì – la sua Mary, chiusa negli abiti dimessi di cuoca nelle sale della scuola chiusa del New England, nei giorni del Natale quando tutti se ne sono andati, la ferita da rimarginare della recente morte del figlio in Vietnam, poche scene e poche frasi ma una presenza costante e indimenticabile attorno alla figura problematica del professor Paul Giamatti.

Pagine già scritte, perché sopra tutti si stagliava l’”Oppenheimer” di quel mago del cinema che è Christopher Nolan, tredici nomination tanto per cominciare. S’è portato via sette statuette, tra cui (e tralascio montaggio, fotografia, colonna sonora) le due maggiori di miglior film e miglior regista, senza tralasciare il riconoscimento a Cillian Murphy (ha ringraziato affermando che “viviamo tutti nel mondo di Oppenheimer”, siamo sul continuo orlo di un precipizio e chi ha dato una faccia allo scienziato dell’atomica lo può ben dire forte), magnifico protagonista che, con buona pace di Bradley Cooper alias Leonard Bernstein, non aveva rivali e a Robert Downey jr., pronto a ringraziare la moglie che lo ha raccolto un giorno come un cucciolo abbandonato e lo ha riportato sulla retta via dalle dipendenze che aveva anni fa attraversato. Forse un possibile ex aequo avrebbe potuto addolcire l’esistenza di Ryan Gosling, come autoironicissimo Ken forse tra le pochissime note positive di un “Barbie” tutto rosa confetto che non ha mai convinto fin dal suo apparire chi scrive queste note. Il per noi sconosciuto “American Fiction” si guadagna la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale mentre quella originale va a Justin Triet e Arthur Harari per il successo dell’anno “Anatomia di una caduta”, già Palma d’oro a Cannes, capolavoro di lettura intimistica, di rari disegni psicologici, di nebbiose tracce di thriller che soddisfano appieno l’intelligenza e la fame di autentico cinema da parte dello spettatore. Una pagina annunciata anche questa.

E poi c’è il capitolo “Io capitano”. Che stava nella cinquina dei film stranieri. Con i colori verde bianco rosso. Ho sempre pensato che ci stesse un po’ stretto, che le ragioni prime di una simile scelta non fossero quelle sinceramente cinematografiche ma altre, affidate alla nostra quotidianità, che Garrone deponendo a terra la malvagità e la durezza di “Dogman” si fosse – con un bel carico di banalità e di aspetti già conosciuti – spinto nel campo dei buoni sentimenti, del buonismo a tutti i costi, non riuscendo a reggere la fuga dei due ragazzi sino in fondo, con convinzione, con robustezza, con un disegno più documentaristico. È chiaro che davanti alla freddezza, alla rappresentazione del Male – quella sì intesa come un “documentario” dentro il racconto – fatta di gesti che rabbrividiscono mentre al di là dello sguardo degli abitanti della casa e del giardino incombono quelle ciminiere che eruttano fumo e ceneri, ai sorrisi e alla banalità delle chiacchiere che riempiono le giornate degli aguzzini nel film di Glazer, “Io capitano” non poteva avere in sé i mezzi autentici per vincere. Quasi per pretenderla, quella vittoria: con buona pace di una certa stampa che sino all’ultimo giorno ha tentato con tutte le forze di esprimere quelle convinzioni.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene di “Povere creature!”, di “Oppenheimer” e di “La zona di interesse”.

Nel giorno in cui nacque la creatrice Germana Erba il Liceo si fa ancora più bello

Con la realizzazione dell’insegna dipinta nei caratteri ‘G.E.T.’ sulla facciata

Nella data di nascita di Germana Erba, il 12 marzo, il Liceo Germana Erba, che porta il suo nome per volontà (e autonoma raccolta firme!) degli studenti si fa ancora più bello nella nuova sede in corso Moncalieri 203 a Torino dove occupa un edificio anni ’50 di architettura razionale con grandi e luminose finestrature affacciate da un lato sul corso e dall’altro sul verde della collina.

Infatti, onorati tutti i passaggi e i tempi burocratici che caratterizzano il mondo delle insegne (soprattutto in contesto contiguo alla collina!), È IL MOMENTO DELLA REALIZZAZIONE della scritta-logo dipinta sulla facciata.

Il compito è affidato alla Gerograf I.R.A, storicissima ditta specializzata in insegne addirittura dal 1919 e, in particolare a Enrico Guidetti e Leonardo Maiorano.

La data non è casuale e ha contribuito a determinarla anche il meteo degli scorsi dieci giorni…

E‘ il secondo anno scolastico di vita della nuova sede per questa Scuola di eccellenza, il primo Liceo italiano per danzatori, attori, cantanti e performer di musical, una realtà formativa stimata a livello nazionale, vitalissima „Saranno famosi“ con 30 anni di attività.
Già dal settembre del 2022 residenti, negozianti e passanti restavano colpiti dai giovani studenti-artisti che popolano il corso rendendolo speciale con chignon da danzatrice, note di musica classica o emozioni da musical, così come una scena shakespeariana o goldoniana accennata uscendo da scuola … adesso il sogno si realizza e il nome del LICEO GERMANA ERBA campeggerà in facciata con i caratteri del fortunato brand „Germana Erba’s Talents“ a indicare dove si trova la fucina di talenti delle arti performative, quel progetto in cui l’architetto-docente-ricercatrice Germana Erba seppe credere e per cui si batté sempre fino a dare pari dignità alle materie dello spettacolo, sempre saldamente unite a una solida formazione culturale.

Il Liceo Paritario Germana Erba per attori-danzatori-cantanti, gestito dall’ETS Fondazione Germana Erba, si caratterizza infatti per la formazione culturale e professionale di giovani con attitudini per la danza, il teatro, il musical, l’arte, la scenografia e lo spettacolo in tutte le sue forme. Insieme a una regolare istruzione di II grado, il corso di studi fornisce una specifica preparazione nelle discipline artistiche prescelte, creando figure professionali dotate di buone basi per un inserimento diretto nel mondo del lavoro in qualità di danzatori, attori, cantanti, conduttori, registi, coreografi e addetti alla comunicazione e per l’accesso a qualsiasi Facoltà Universitaria, agli Istituti AFAM (Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica) e alle Accademie di Belle Arti. Il Liceo Germana Erba, che nel 1995 ha ottenuto dal MIUR il riconoscimento della prima sperimentazione coreutica e nel 1998 di quella teatrale, e dal 2000 è Scuola Paritaria, offre l’Indirizzo Coreutico, primo e “pioniere” in Italia, che si avvale della metodologia della Scuola Nazionale di Cuba, ed è convenzionato con l’Accademia Nazionale di Danza e l’Indirizzo Teatrale, unico in Italia, che collabora con il Teatro Stabile Privato “Torino Spettacoli”. I diplomati sono 800 e lavorano in tutto il mondo.

Per incontrare i G.E.T. in teatro: Galà di arti performative al Teatro Colosseo (Torino, via Madama Cristina 71) sabato 25 maggio ore 21. Informazioni e prevendite:  Teatro Colosseo Torino

Rock Jazz e dintorni a Torino: Cisco e la Lazarus Band

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. All’Imbarchino si esibiscono Roy Werner e Les Halles. Al Colosseo canta Pupo.

Martedì. Al Jazz Club è di scena Matteo Salvadori.

Mercoledì. Al Blah Blah suonano i Black Delta Movement. All’Hiroshima Mon Amour “sold out” per Cisco dei Modena City Ramblers.

Giovedì. Al Peocio di Trofarello è di scena Leon Hendrix fratello del mitico Jimi. Al Blah Blah si esibiscono i Supersuckers. Alla Suoneria di Settimo suona il pianista Thomas Umbaca. All’Imbarchino  si esibisce il duo Pale Moon e i Karamamma.

Venerdì. Al Circolo della Musica di Rivoli suona il duo elettronico Ozomoti, presentando il progetto “Computing Transcendence” con i musicisti della Filarmonica Trt. Al cinema Massimo la Lazarus Band sonorizza il film horror di Robert Wiene “Orlac’s Hande”. Al Magazzino di Gilgamesh blues con il tastierista Bob Malone. Allo Spazio 211 si esibiscono i Voina. Al Blah Blah suonano gli Assalti Frontali. Allo Ziggy sono di scena i This Eternal Decay. Al Folk Club suona il quartetto Naviganti e Sognatori di Daniele Di Bonaventura.

Sabato. All’Istituto Musicale di Rivoli si esibisce Xantonè Blacq.  Da Gilgamesh è di scena J. Forest. Allo Spazio 211 suonano gli Speedy Ortiz. Allo Ziggy hip hop con gli Hard Aquat Crew. Al Capodoglio si esibisce Alex Fernet.  Al Blah Blah suonano gli Hopeless e i Bloody Unicorn.

Domenica. Al Sociale di Pinerolo si esibisce il quartetto del sassofonista Enzo Favata. All’Imbarchino è di scena Atte Elias Kantonen. Al Colosseo lo spettacolo “Shine” della cover band Pink Floyd Legend.

Pier Luigi Fuggetta

In scena al teatro Regio per l’Anteprima giovani “La fanciulla del West” di Puccini

 

 

Al via giovedì 7 marzo prossimo la vendita per l’Anteprima Giovani dell’opera di Giacomo Puccini, “La fanciulla del West”, che andrà in scena giovedì 21 marzo prossimo alle ore 20 al teatro Regio di Torino.

Mentre i primi film di ambientazione western, molto brevi e muti, facevano furore sul grande schermo, nel 1910 Giacomo Puccini pensò di trasferire una di quelle storie di pistoleri e di disperati sul palcoscenico prestigioso del Metropolitan Opera di New York, nella sua prima rappresentazione il 10 dicembre del 1910. Il risultato fu “La fanciulla del West”, un’opera del tutto originale sia per il soggetto sia per lo stile musicale.

La fanciulla protagonista dell’opera è Minnie, una giovane energica e generosa che gestisce il saloon di un villaggio di cercatori d’oro della California. Di lei è innamorato lo sceriffo Jack Race. La vita di Minnie è sconvolta dall’arrivo del bandito Dick Johnson, che ne conquista il cuore. Nel tentativo di salvarlo dalla forca, la giovane si giocherà la felicità in una partita a poker.

La musica segue il passo dell’azione in un continuo flusso sinfonico, dal quale emergono splendide isole di espansione lirica, come la struggente aria di Johnson “Ch’ella mi creda libero e lontano”. Tra orchestra e palcoscenico è necessaria una stretta collaborazione, che il maestro Francesco Ivan Ciampa è in grado di stabilire con precisione e il nerbo che lo contraddistinguono. Maestro del coro del teatro Regio Ulisse Trabacchin.

Tra il fiasco scaligero di Madama Butterfly e la sua riabilitazione a Brescia nel 1904 La fanciulla del West, andata in scena nel 1910 a New York con Enrico Caruso, Emmy Destinn, Pasquale Amato e Arturo Toscanini sul podio, corrono sei anni durante i quali Puccini, stufo di Bohéme e Butterfly, si pone alla ricerca di un libretto nuovo e originale. Il secolo è appena scaduto, Debussy e Strauss hanno inaugurato il Novecento con Pélleas et Mélisande e Puccini è ormai riconosciuto erede di Verdi, acclamato nei teatri di tutto il mondo, e avverte che è necessario “rinnovarsi o morire” perché l’armonia e l’orchestra non sono più le stesse.

Come già in Tosca, La fanciulla del West ripropone uno scontro all’interno di un triangolo amoroso, confermando un credo irrinunciabile della poetica pucciniana: “non si può sortire da un soggetto passionale, contornato pure da grandi avvenimenti, di folla, di moto, ma ciò che deve campeggiare è la grande passione, la vera, la sublime, la sensuale”.

Sul podio dell’orchestra e del coro del teatro Regio salirà il maestro Francesco Ivan Ciampia; al suo debutto al teatro Regio la regista argentina Valentina Carrasco, che prende spunto dalle suggestioni cinematografiche del libretto e della partitura proponendo un nuovo allestimento che rende omaggio al genere western.

Protagonisti saranno Jennifer Rowley, che debutta nel ruolo di Minnie, Roberto Aronica è il bandito Johnson e Gabriele Viviani lo sceriffo Jack Rance.

Alle 20 avrà inizio l’opera ma il teatro Regio aprirà i battenti prima alle 19.15, in attesa dello spettacolo sono aperti i bar dei foyer.

L’ingresso dell’Anteprima giovani è riservato agli under 30 e ai minori di 14 anni, che devono essere accompagnati da un maggiorenne under 30.

 

MaraMartellotta

“Slavika”. Torna a Torino il Festival delle culture slave

Da mercoledì 13 a domenica 17 marzo

Organizzato dall’Associazione Culturale italo-polacca (con sede a Torino) “Polski Kot”, torna in città (alla sua settima edizione) “Slavika Festival”, il primo Festival italiano dedicato alle culture slave. L’appuntamento è articolato in cinque giornate, da mercoledì 13 a domenica 17 marzo, rese possibili grazie al sostegno di “Fondazione CRT”, del “Consolato della Repubblica di Polonia” in Milano, dell’“Istituto Polacco di Roma” e al contributo di “Arci Torino”.

Nato nel 2015 da un’iniziativa di Alessandro Ajres, presidente del “Circolo Polacco Torinese” fino al 2021, dopo una breve pausa dovuta alla pandemia, dal 2023 il Festival è tornato con la consueta generosa “carrellata” di laboratori, ospiti internazionali, musica e reading. E, fresca novità, con un nuovo simbolo, quello della “Rusałka”, figura mitologica riconducibile al folklore slavo, un essere magico associato a fiumi e laghi che assume la forma femminile accompagnata all’ “ombrello nero”, invitante a distogliere lo sguardo dal suo corpo nudo individuale, che a una lettura pubblica si tramuta nel corpo collettivo di tutte le donne vittime di violazioni dei propri diritti in Polonia e altrove.

“Per questa nuova edizione – spiega Daria Anna Sitek di ‘Polski Kot’ – abbiamo ampliato il programma con un cospicuo numero di workshop artistici e letterari con professionisti e artisti internazionali. L’obiettivo è far conoscere le nuove personalità di spicco della cultura dei Paesi slavi, alcune già acclamate a livello internazionale, altre ancora poco conosciute al pubblico italiano, con l’intento di suscitare interesse e curiosità verso l’universo dei linguaggi, scenari e racconti delle culture slave”.

“Arci Torino – dichiara Luca Bosonetto, responsabile ‘Cultura’ del Comitato territoriale- è felice di sostenere nuovamente ‘Slavika”, ospitando quest’anno in due circoli la parte più consistente delle attività, sempre più in linea con il nostro impegno nella realizzazione di eventi, format e attività transculturali capaci di promuovere, attraverso l’aggregazione, l’arte e lo spettacolo, i valori della pace e la cultura dei diritti”.

Il programma di quest’anno prevede l’arrivo a Torino di ospiti internazionali, provenienti principalmente dall’area balcanica, dalla Russia e dalla Polonia, ma anche dall’Italia. Non mancheranno, come sempre, interessanti workshop artistici e letterari per permettere una partecipazione e un coinvolgimento attivo da parte del pubblico, nonché talk con autori e autrici, presentazioni, proiezioni e concerti. Il tutto, coinvolgendo diverse zone di Torino, la maggior parte all’interno della rete “Arci”. La sede principale del Festival sarà il “Kontiki” di via Cigliano 7B, nuovo circolo (dove iniziano, il 13 marzo, gli incontri festivalieri) nato nel cuore di Vanchiglietta, prima sede di “Fridays for Future Italia”. Le perfomance saranno, invece, ospitate al “Magazzino sul Po”(Murazzi del Po Ferdinando Buscaglione, 18). Il Festival trova casa anche allo “Studio Abra” di via Carlo Goldoni 5, nuovo spazio che è contemporaneamente laboratorio e residenza per gli artisti che transitano a Torino, e al “Circolo dei Lettori” di via Bogino, 9. E proprio qui, giovedì 14 marzo, alle 21, è atteso lo scrittore e reporter polacco di fama internazionale Witold Szabłowski che presenterà il suo ultimo libro “Come sfamare un dittatore” (Keller, 2023), in cui si racconta dei grandi tiranni del ‘900 attraverso lo sguardo (curioso!) dei loro cuochi.  A dialogare con l’autore ci sarà Monica Perosino, giornalista de “La Stampa”.

 

Altri (fra i tanti) appuntamenti da segnalare: sabato 16 marzo, al “Kontiki”,dalle 10, il laboratorio di traduzione letteraria dal polacco all’italiano tenuto dallo slavista Riccardo Campion e dedicato alla traduzione di alcune poesie di Joanna Oparek, (con la quale sarà possibile avere un confronto diretto durante il laboratorio), seguito nel pomeriggio (ore 17,30) dalla proiezione degli ultimi due cortometraggi realizzati da Zulfikar Filandra, regista di “Minotaur” (2020), e membro della commissione di selezione del “Sarajevo Film Festival”. In chiusura, domenica 17 (ore 17,30), sempre al “Kontiki”, la premiazione del vincitore del “Premio Polski Kot”, il primo premio in ambito editoriale dedicato alla traduzione dalle lingue slave all’italiano e le note della chitarra di Liuzzi, cantautore pugliese che, per l’occasione, si esibirà con alcune canzoni italiane tradotte in russo, e viceversa.

Per info: slavika.fest@gmail.com; programma completo: https://linktr.ee/polskikot

g.m.

Nelle foto:

–       “Rusalka”, logo del Festival

–       Witold Szablowski

–       Joanna Oparek

–       Zulfikar Filandra, ph. Nemanja Knezevic

 

De Rosa decifra “Edipo”, il “suo” sovrano antieroe

Da venerdì 8 a domenica 17 marzo

Seduto al tavolino del vecchio caffè, Andrea De Rosa decifra il “suo” “Edipo re”, sul palcoscenico dell’Astra da venerdì 8 a domenica 17 marzo, accanto a tutti i suoi attori e ai collaboratori che lo hanno coadiuvato nel costruire la tragedia greca, “considerata uno dei testi teatrali più belli di tutti i tempi”, “a ritrovare un senso, il senso di se stessi, delle parole, delle cose”. Guardando con occhi nuovi il testo di Sofocle, “la mia impressione è che Edipo sappia sin dall’inizio di conoscere la verità e quella conoscenza deriva dalle parole – “Sei tu”: sei tu l’assassino, sei tu che hai ucciso tuo padre, sei tu a giacere con tua madre e ad essere allo stesso tempo padre e fratello dei tuoi stessi fratelli – che Tiresia, il dito puntato con decisione, gli pronuncia. Entro immediatamente nella storia, con più immediatezza di quanto normalmente succeda. Come ho affidato ad un unico attore il ruolo di Tiresia e di tutti i messaggeri: non si tratta solo di uno stratagemma registico, ma di mettere in scena un personaggio che, di volta in volta, rappresenti una manifestazione del dio Apollo, della sua voce oscura, dei suoi oracoli. Questo spettacolo sarà per me un proseguimento del lavoro iniziato con “Le baccanti”. Se in quello tutto ruotava intorno alla figura e alla voce di Dioniso, in questo il protagonista nascosto sarà Apollo.”

Sottolineando fortemente come non sia lo spettacolo a inserirsi nei venti e più titoli della stagione del TPE ma al contrario tutto quanto ruoti dalla necessità di impaginare in scena “Edipo” da parte di De Rosa, sei attori stanno al centro dell’adattamento del regista (reduce del successo ottenuto al Regio con il verdiano “Ballo in maschera” diretto da Riccardo Muti) che si è avvalso della traduzione di Fabrizio Sinisi – drammaturgo, poeta e scrittore, collaboratore di De Rosa per il “Processo Galileo” della scorsa stagione e dei maggiori teatri nazionali, del quale vanno almeno ricordati la menzione dell’American Playwrights Project, il Premio Testori per la Letteratura e il Premio Nazionale dei Critici di Teatro -: il protagonista è Marco Foschi, un Edipo antieroico, spaventato dai lati oscuri della vicenda e schiacciato dagli eventi, Frédérique Loliée (già sbalorditiva Elettra e Maria Stuarda e lady Macbeth: “c’è sempre una rilettura, rapportata all’oggi, ci deve essere, sia che tu metta in scena Sofocle o Shakespeare”) assume tutta la disperazione di Giocasta, Roberto Latini è Tiresia, Francesca Cutolo e Francesca Della Monica il coro, Fabio Pasquini Creonte. A Daniele Spanò si devono gli specchi in plexiglas, diversamente ambientati, magari in via di definizione in questi ultimi giorni di prove (“quello realizzato è un allestimento spaziale dal carattere fortemente installativo che dichiara con crudezza la sua funzionalità: dare luce”), di Graziella Pepe i costumi (un tempo) regali che a poco a poco, allorché la verità verrà svelata, perdono la loro ricchezza. Estremamente importanti nella costruzione della tragedia le luci di Pasquale Mari (felicissimo collaboratore di Martone e Moretti, Sorrentino e Bellocchio e Ferzan Ozpeteck), un ruolo fondamentale nel porsi di fronte alle cecità di Edipo, esiliato a Colono e di Tiresia, colpevole d’aver visto la nudità di Athena: entrambi hanno guardato troppo dappresso e si sono confrontati con il dio, con Apollo che “porta vita e conforto agli umani ma può anche annientarli.”

Verità e non verità, annientamento e salvezza, il vedere e il non vedere, colpa e fato, differenti strade s’incrociano in “Edipo”: al regista è questo intersecarsi a interessare maggiormente, anche a costo di mettere in secondo piano il rapporto tragico tra madre e figlio e le teorie freudiane. Si va alla ricerca della “aletheia” che in greco non è soltanto la verità, quanto piuttosto l’atto di togliere il velo da qualcosa per scoprirla: atto di protezione prima, atto di distruzione poi, perché la verità acceca. Ma è della natura umana ricercare, andare addentro a ogni cosa, e Edipo vuole sapere, vuole conoscere: farà di quella conoscenza la propria grandezza ma anche la propria rovina. Ogni azione vissuta nella paura in una città che sta morendo, colpita dalla peste, dalla pandemia ci sarebbe più facile dire oggi, ogni azione mentre si arriva alla lettura e alla scoperta di un passato, che si fa con dolore presente: “Non dite mai di un uomo che è felice, finché non sia arrivato il suo ultimo giorno”, reciterà in ultimo il coro.

A completamento dello spettacolo – continuiamo a definirlo così, ma ci aspettiamo “altro”, lontano dai canoni che siamo abituati a incontrare a teatro -, Daniele Spanò ha inventato “Ultimo movimento”, una installazione visibile nell’Astra Room, “riflessione sulla bulimia odierna di immagini e sulla paradossale indifferenza che ne scaturisce”. Mentre domenica 10 marzo la replica è destinata a spettatori non udenti, tramite l’aiuto di uno speaker che guiderà in cuffia lo spettatore attraverso una descrizione riassuntiva della vicenda.

Elio Rabbione

Immagini delle prove di “Edipo re”