“Il panico” di Spregelburd, uno spettacolo difficile ma di gran successo
Il nome di Rafael Spregelburd – attore, drammaturgo e regista teatrale argentino, oggi 54enne, tradotto ormai in una ventina di lingue, autore residente in teatri inglesi e tedeschi, una trentina di opere proposte in Sud America, in Europa e negli Stati Uniti – circola con sempre maggiore curiosità e convinzione nelle sale teatrali di casa nostra, più o meno dal 2008, con il lavoro dell’abituale traduttrice Manuela Cherubini (un lavoro pressoché intimo, sempre più profondo, “il primo incontro è stato quello con le sue opere, e per conoscere e comprendere meglio sono stata a lungo a Buenos Aires, a guardare da vicino questo “Pinter tropicale”, a guardare dove vivesse, quale fosse l’ambiente teatrale in cui era possibile concepire opere così straordinariamente classiche e rivoluzionarie”; un affetto e una partecipazione presto contraccambiati, “quello che ha avuto tra le mani Manuela Cherubini, la più coraggiosa traduttrice italiana, caro spettatore, fu soltanto la mappa del labirinto, attraversarlo è un altra cosa, e traghettarlo verso un’altra cultura, tramite una traduzione, è un atto di fede e di empatico coraggio”), con la pubblicazione della sua intera “Eptalogia”, con le principali messe in scena di Ronconi (di cui non si disse particolarmente soddisfatto) e di Juri Ferrini, che dopo “Lucido” ha affrontato per la presente stagione dello Stabile torinese “Il panico”: con una regia tutta fuochi d’artificio, impetuosa, folgorante, intelligente, molto aiutato dall’ambiente fisso inventato da Anna Varaldo, nei colori rosso e giallo di esplicita memoria almodovariana (e penso che ad Almodovar imbattersi in Spregelbrud piacerebbe un sacco).
“Il panico” è parte di un vasto disegno teatrale che nasce nel 1996, guardando alla tavola dei “Sette peccati capitali” dovuta al fiammingo Hieronymus Bosch, un accumularsi di infiniti e godibilissimi dettagli che impediscono la distinzione di un centro che ti venga in aiuto per la più soddisfacente disanima, la rappresentazione con linguaggio moderno della dissoluzione morale del nostro tempo come il pittore mostrava quella di un Medioevo prossimo ad un Umanesimo “non ancora definito”. Sette testi per sette peccati, che guardano alle colpe antiche per sviscerare le colpe moderne, sette opere che avrebbero dovuto essere brevi nella loro stesura, di facile e non costoso allestimento, magari date in contemporanea in sette teatri della città o una per ogni singolo giorno della settimana. Al contrario, in molti casi, le parole si sono moltiplicate alle parole, i personaggi ai personaggi, e se “L’inappetenza” ha una durata di “soli” venticinque minuti altri testi (“La stupidità”) possono arrivare alla durata delle quattro ore. Un arcipelago teatrale che può sconvolgere, spostare la mente e l’attenzione, dare delle certezze allo spettatore e rovesciarle dopo un attimo, legarsi a quella mancanza di punto focale e perdere (e far perdere) un intero percorso che logicamente debba avere un inizio e una sua conclusione.
Moduli, impressioni, sconcerti che rientrano perfettamente nel “Panico”: che tout court altro non è che il peccato dell’accidia, un ensemble di persone affannate a percorrere la propria vita, a tentare due o tre lavori, a correre senza requie nella ricerca di questo o di quello. Che -inoltre – a seguire ancora le parole della Cherubini – di perfetto aiuto nel dovere di districarsi in quello che è e rimane un rabbuiato labirinto – “è la parodia di un b-movie sulla trascendenza e sulla vita dopo la morte: la costruzione di una spiritualità attraverso banali strumenti retorici e grotteschi, con un riferimento alla contingenza della recessione argentina del 2001 (con la chiusura delle banche)… torna a emergere con chiarezza la messa in discussione del concetto di famiglia, che qui troviamo alle prese con la morte di un padre, fratello, amante, tra fantasmi incoscienti di esserlo ed esseri umani inconsapevoli di essere vivi”. Dove forse quel perno che cerchiamo (mentre in scena si catapultano ballerine tarantolate, un’agente immobiliare, una coreografa, un travestito e altri appartenenti ad una copiosa fauna umana) potrebbe essere la ricerca di una chiave che aprirebbe una cassetta di sicurezza, capace con il proprio contenuto di dare sicurezza ad una intera famiglia, lasciata ben nascosta in casa dallo scomparso Emilio qui ridotto a fantasma: ma siamo sicuri che sia quello il perno che stiamo cercando? Forse per un attimo (una delle scene più divertenti dello spettacolo visto al Gobetti in finale di stagione, capitanata in grande stile da una Arianna Scommegna in vero stato di grazie, certo non dimenticando i suoi compagni, Dalila Reas, Michele Puleio, Viola Marietti con una Roberta Calia d’eccezione come funzionaria di banca) ma non poi avanzando nello spettacolo (ma è lecito definire “Il panico” semplicemente “spettacolo”?); potrebbe essere il terapeuta (Ferrini) che visita la prigioniera in carcere (ancora la Calia, irriconoscibile, diversissima, ancora una bella prova) ma anche questo sbandamento non convince; perché non la sfacciata Susana (Elisabetta Mazzullo, un’altra pedina della serata che semina successo), con un linguaggio che corre a ruota libera, alle prese con il pupo di casa in fatto di grandi offerte erotiche.
Sta allo spettatore cercare, scegliere, muoversi (“non si tratta di opere semplici, ma sì, questo lo posso assicurare, in termini assoluti divertenti”, ancora la traduttrice) mentre non ha quel dizionario di riferimento che non solo una volta ci mettiamo a cercare come la chiave del testo. Divertimento certo, innegabile, scaturito a piene mani dalla risata e dalla satira e dal continuo stravolgimento delle leggi e delle abitudini e delle norme che coinvolgono la maggior parte del genere umano. Nei ghirigori, negli zigzag, negli andare e venire della vicenda (l’ho effettivamente rilevato al termine dei 130’) chi scrive ha la sensazione che lo spettatore un tantino squinternato si debba ritrovare, che si diverta alle frasi e alle situazioni e al linguaggio che non ha peli sulla lingua ma che allo stesso tempo non percepisca/possa percepire e districare appieno tutto il tessuto sottile con cui Spregelburd ha costruito questo suo “Panico”. Difficoltà certo, ci hanno avvisati, come ci hanno avvisati di non legarci più strettamente alle emozioni che sorgono dalla pancia come a quelle che sorgono dalla testa, “certe distinzioni fra testa e pancia ormai da tempo hanno provato la loro inconsistenza”. E a noi non rimane che decifrare che cosa esattamente “nasconda” quella cassetta di sicurezza, quali significati siano nascosti al suo interno, come seguire tutta l’illogicità, la spensieratezza, la sconfinata anarchia, i paradossi, le sgraffignature, i percorsi sconnessi di un autore che guardi con una certa titubanza ma anche con una gran dose di rispetto. Presente in sala ad una delle repliche a cui ho assistito, a prendersi tutto il mare d’applausi che un pubblico foltissimo gli tributava.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma