“La stanza accanto”, sugli schermi il Leone d’oro di Venezia
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
In fondo quel melodramma che gli è caro, certo quei tanti autentici sentimenti che gli abbiamo da sempre riconosciuto all’interno di non pochi capolavori – “Tutto su mia madre” e “Parla con lei” sopra tutti, per restare tra i titoli più celebri, e non dimentichiamo il grande “Dolor y gloria” -, quella passione smoderata per le architetture e gli interni, per l’arte che qui compare con Hopper, per l’esposizione di alto design, per quei colori che riempiono le immagini, per il cinema che qui s’affaccia con l’antico Buster Keaton e con “The Dead” ultimo film di John Huston e per la letteratura che qui rovista nella vita di Virginia (Woolf) e di Vita (Sackville-West), per la guida perfetta, senza nessun ripensamento da parte di chi guarda, delle sue tante attrici che per blocchi temporali si sono susseguite nel suo cinema, quel cinema che ha già visto l’Oscar e coronato tra gli altri lo scorso settembre con il Leone d’oro veneziano: ogni cosa resta, ben salda. Lo sottoscriviamo. Pedro Almodòvar tante volte ci ha appassionato e coinvolto, innanzi tutto per quel lavoro d’attenzione e di raffinato cesello drammaturgico, pur spingendosi più volte ben sopra le righe, che stava alla base delle sue opere, in alcuni momenti ci ha deluso con spazi vuoti che sembravano memento di tempi del tutto trascorsi o scommesse perdute o interruzioni di un lungo cammino, tutto completamente buttato via (“La pelle che abito” o “Gli amanti passeggeri”). Oggi, davanti alla storia che il regista stesso ha tratto in prima persona e liberamente dal romanzo “Attraverso la vita” di Sigrid Nunez e alle immagini e all’avvicendarsi dei fatti della “Stanza accanto” non ci sentiamo di gridare all’ennesimo capolavoro, inconfutabile, senza se e senza ma: innegabile la fermezza nel suo primo film in lingua inglese dell’immaginario e delle doti che in questi decenni ci ha regalato, le radici di una architettura filmica almodovariana, ma qualche dubbio, mentre scorrono i titoli di coda, sulla scrittura, su un certo schematismo che attraversa la vicenda, su certi flashback che disturbano nella loro visiva narrazione (per chi vorrà vedere il film, l’incendio della vecchia casa, una forzatura), sui dialoghi che i due personaggi femminili si scambiano, davvero più recitati che vissuti, quasi imposti da una certa interna geometria, su quel tanto di artefatto e di obbligato dal momento in cui noi – ovvero la terra intera intesa come natura, paesaggio, verde, ambiente: in totale sopravvivenza – viviamo e ci dibattiamo: avverti che qualcosa non sta al punto giusto, scricchiola, non ti convince appieno. Anche se continueremo ad accompagnare Almodòvar con la parola “maestro”.
Per cui, quasi per eccesso, ti metti a seguire gli sguardi e i silenzi, le rabbie e le commozioni, la malinconia soffusa di due attrici, Tilda Swinton (semplicemente da applauso incondizionato) e Julianne Moore, che qualcuno ha detto potrebbero leggere l’elenco del telefono e sarebbero altrettanto perfette. Non ci ha pensato la giuria di Isabelle Huppert, rimedieranno le cinquine degli Oscar? Procedono ferme e lucide, costruiscono sguardi e sospensioni ed è fuori di dubbio che l’asse portante dell’intero film siano quelle due interpretazioni. Sono Martha che è stata una fotoreporter del New York Times, un’inviata di guerra che alleggeriva le immagini dolorose e furiose con un sesso offerto a piene mani, e che ora è ricoverata in una camera d’ospedale a subire un tumore impossibile da curare; e Ingrid, scrittrice di successo, che nell’apprendere la notizia decide di starle accanto e accompagnarla lungo quella strada di ultimi istanti di vita quando la bionda amica ritrovata deciderà di morire nella pienezza della propria volontà, nella piena dignità della morte. Hanno avuto momenti di felicità comune in gioventù (“Ti ricordi quanto casino negli anni ottanta a New York”: e quanto ne ha fatto Pedro a Madrid, in quegli stessi anni?), hanno condiviso lo stesso uomo, si sono poco a poco abbandonate ma un solo richiamo è sufficiente a riavvicinarle, con solidarietà, con intrigo, con una amicizia che non ha confini. Martha, nell’avvicinarsi della fine, guarda anche con rammarico alla sua realtà di madre che una figlia (la figlia che apparirà per alcuni istanti, ha i tratti ancora della Swinton, con parrucca nera) l’ha allontanata, messa da parte, ignorata, incapace di rispondere alla insistente domanda di chi fosse il padre, mentre si dispera per le cure che non approdano all’effetto sperato, mentre rivela di aver trovato sul dark web quella pillola che l’aiuterà nel gesto finale, che ora affida all’amica, rivelandogliene il nascondiglio. Tanti momenti di passaggio e di scrittura controversa, momenti che raccolgono l’ospedale mentre la neve cade sulla città, rosata per il cambiamento climatico, e la casa di Martha e il rifugio all’interno del bosco dove il disegno del regista rimanda a un impianto teatrale, dove l’allegria dei colori – un maglione, una parete, un vaso di Venini, l’ultimo abito – giallo – indossato da Martha sconvolge in un attimo l’atmosfera di morte, guidata e accolta: un tragitto, una componente di sorellanza dove forse il momento più rabbioso e doloroso allo stesso tempo è la presenza indagatrice e accusatrice del poliziotto Alessandro Nivola, nel chiuso di una stazione di polizia, a forzare le domande e le risposte di Ingrid, nel considerarla “una delinquente”, nel volerla degradare completamente.
Siamo d’accordo, i messaggi che Almodòvar manda al suo pubblico sono autentici, innegabili, fanno parte di un cinema alto: ma allo stesso tempo non supportati da altrettanta altezza del racconto, toccato a tratti da una debolezza che, stranissimo a dirsi, ce lo fa apparire lontano da noi, forse preso troppo nell’ingranaggio di due persone, per vederlo espandersi in una più dolorosa universalità.