Il Torino Film Festival dal 24 novembre al 2 dicembre
Secondo anno successivo Ugo Nespolo a firmare il manifesto del Torino Film Festival, giunto (tra il 24 novembre e il 2 dicembre) alla sua 41ma edizione. Seconda e ultima direzione a firma Steve Della Casa, poi sarà la volta di Giulio Base: ma questa sarà pure un’altra storia, crediamo totalmente diversa. La aspettiamo.
“L’invito di Steve a lavorare all’immagine icona di John Wayne che grazia la giovane Debbie – Natalie Wood, è stato da me accolto con la gioia di rivisitare una scena risolutiva che corona una trama dai forti contenuti psicologici, dalle originarie incomprensioni critiche.” Immagini finali certo indimenticabili quelle di “Sentieri selvaggi”, del 1956, “considerato dall’American Film Institute – ci tiene a ricordare ancora Nespolo – il dodicesimo film nell’elenco dei migliori film statunitensi di tutti i tempi.” Un fotogramma che è una storia, per uno sguardo nuovo, forse pacificatore, forse tardivo, dritto negli occhi del rude eroe di tanti western, della classicità del cinema, dell’immagine del suo compagno John Ford, dell’attore premio Oscar, di un cammino di gloria e di tramonto (per un uomo e per un genere), un affetto a posteriori che aveva già coinvolto Jean-Luc Godard, diametralmente opposto, altre idee e altri sentimenti, orizzonti diversi, l’America delle grandi praterie e dell’indiano cattivo e la Francia sessantottina e ancora una volta rivoluzionaria, la Nouvelle Vague che sapeva guardare ben oltre certi confini. “Come posso io odiare John Wayne e poi amarlo teneramente quando prende improvvisamente in braccio Natalie Wood negli ultimi minuti di Sentieri selvaggi?”, diceva l’autore di “À bout de souffle”. Un’occasione per ripensare, per analizzare meglio nel confronto di aspetti e mentalità, di ambiguità anche all’uscita del film non chiarite, “è proprio la vocazione del TFF quella di non proporre progetti comodi e risaputi ma di saper dare vita a ricerca e questioni, punti di vista sempre critici e per questo davvero innovativi.”
John Wayne non soltanto nell’immagine del festival. Ma al suo interno, con una nuova riscoperta, attraverso la rassegna “Mezzogiorno di fuoco”, del mondo del western, ai titoli noti come a quelli meno conosciuti (secondo le vecchie passioni universitarie e giornalistiche e critiche di Steve Della Casa). Quindi John Wayne ancora presente con l’omaggio che il TFF gli renderà, nel 60° anniversario dell’uscita dei “Tre della Croce del Sud”, ancora il vecchio Ford dietro la macchina da presa, anno di grazia 1963, un’isola immaginaria della Polinesia, una taverna e le risse, una figlia in arrivo e un’eredità tutta da verificare: resta qualcosa delle atmosfere western ma quello di stampo antico ha già girato l’angolo. E un pezzo di grande cinema, quello con cui gran parte di noi sono cresciuti, è stato cancellato.
Elio Rabbione





Gruppo di famiglia (sgangherata) in un interno. Che è uno di quelli infossati nei tanti serpentoni di pareti e balconi tutti eguali della periferia romana, la famiglia è quella di Desirè (“con l’accento”, ci tiene a precisare), ragazza dolce e “strana”, parrucchiera sui tanti set cinematografici della capitale, detta anche “la bicicletta” perché “tutti ci hanno fatto un giro”. Malinconica e per tutti rassicurante, volgarotta, dolce e perdente, non soltanto perché l’attore di turno, nel chiuso della roulotte, prima del ciak, riesce per l’ennesima volta ad approfittarsene: ma perché continua a essere vittima di una coppia di genitori che non fa altro che rinfacciarle fatti e misfatti di una vita, egoista, ricattatoria, con un padre che la sfrutta economicamente (“se non ci aiutiamo tra noialtri”) e una madre pronta a spiattellarle qualsiasi mancato appoggio, cieca come una talpa di quanto stia succedendo in casa sua. Vittima, Desirè, anche di quel professore universitario che l’ha scelta e che dice di amarla, che la porta alle cene chic tra colleghi dove la figuraccia è sempre servita tra tentativi di discorsi e storpiature di parole: una relazione che tra sorrisi e litigate resta in piedi con i continui rattoppi erotici, immediati, frustranti, assurdi ma per entrambi inevitabili. Il suo unico scopo di affetto e di protezione è il fratello Claudio – una pioggia di “Cla’” per il gran romanesco, a tratti incomprensibile, che circola doverosamente nella storia -, ragazzo problematico e depresso, vagonate di pasticche, senza un futuro, “strano”, sull’alterino della madre che continua a stirargli la camicia bianca, pronta per un lavoro che lui nemmeno riesce a fare.
Si sarebbe tentati di dire che ha pensato troppo a se stessa, mettendo in ombra gli altri, lasciandoli ai luoghi comuni e a certe caricature di troppo, a certi sopra le righe, come è il padre Max Tortora, nella sua sguaiataggine, in quella scena d’ospedale davanti al letto dell’immigrato, nel redde rationem nello studio della psicologa, nell’incontro burrascoso con il mancato genero, con lo sgambetto che il regista Veronesi gli tende tra le maestranze del film. Intenzioni di Ramazzotti, va bene, ma una briglia più serrata avrebbe giovato al racconto e al personaggio. Più a suo agio Sergio Rubini nelle frustrazioni del suo professore, nella ribellione che s’accende su altre scelte; da elogiare il fratello Matteo Olivetti, anche se il suo Claudio (rimaniamo di più di fronte allo svilupparsi dei rapporti con Desirè ma della malattia sappiamo in definitiva poco, con accenni sempre eguali) più di altri rientra nei difetti del film, le cose non dette, i personaggi non sviluppati abbastanza, e poi le volgarità disseminate troppo spesso, le scene interrotte di fretta. Di prim’ordine, al contrario, le persone di cui l’autrice ha saputo e voluto circondarsi, da Jacopo Quadri, per il montaggio, a Luca Bigazzi per la fotografia, a Carlo Virzì per le musiche.