Noi italiani abbiamo, tra le molte altre, due sinistre caratteristiche: una è quella di usare i termini stranieri (inglesi o, più raramente, di altri idiomi) anche quando potremmo utilizzare gli equivalenti nostrani e l’altra quella di adottare decisioni, stili di vita, consuetudini mutuate dall’estero, quando nel Paese di origine ci si è già resi conto che era un’esperienza fallimentare, pericolosa, dannosa, antieconomica e chi più ne ha più ne metta.
Pensiamo, ad esempio, agli uffici open space: spazi enormi nei quali convivevano, per oltre otto ore al giorno, centinaia di lavoratori condividendo rumori, dialoghi, telefonate, virus, flatulenze e fino a qualche anno fa, rumore di fax e stampanti ed il fumo di sigaretta. Un esempio nostrano: il disco volante di San Mauro, progettato da Oscar Niemeyer, sede fino ad alcuni anni fa delle Cartiere Burgo SpA che si trasferì lì da Torino nel 1981; in quegli anni gli yankee si erano già resi conto che una simile architettura era controproducente, per i costi, per il maggiore stress cui erano sottoposti i dipendenti, per i problemi di micro-filtraggio dell’aria condizionata e, non ultimo, per la mancanza di privacy e di riservatezza dovendo trattare pratiche riservate. Ma noi, mostrando di saper sbagliare anche da soli, adottammo quell’edificio forte dell’importanza del suo progettista, con tutti i problemi anche manutentivi che ciò comportò. “Open space” perché “spazio aperto” sembrava troppo banale.
Potrei citare molti altri esempi di adozioni tardive ma citerò subito il più recente: il desk sharing. Tradotto in italiano suonerebbe “condivisione del banco” ma si potrebbe aggiustare con “condivisione della postazione” o “posto condiviso” con buona pace dei linguisti. Ciò che non cambia è la sostanza: adottare un sistema che negli USA si sta abbandonando perché controproducente.
Il desk sharing va di pari passo con lo smart working (“lavoro furbo” non rende l’idea). Di cosa si tratta? La postazione che finora era nostra, con la nostra cassettiera ed eventualmente con il nostro armadietto sarà condivisa, a giorni prestabiliti, con altri colleghi. In che modo? Se sono in ufficio, un altro collega sarà a casa a lavorare in smart working e viceversa. Qual è il vantaggio? Che l’azienda deve acquistare una sola postazione (quindi anche telefono) per due o più dipendenti. A parte lo stress (se per caso devo cambiare giorno per cause urgenti, quando torno in ufficio rischio di dovermi sedere sulle gambe del collega) implica una relazione diretta con lo smart working, altro istituto che proprio partendo dagli Usa trova sempre meno affezionati. Infatti, il minor contatto anche visivo tra colleghi è percepito come un fattore negativo nella scelta dello smart working. Non considerando alcuni parametri quali il maggior lavoro, i maggiori costi (riscaldamento durante l’inverno, costo del pasto, corrente elettrica, connessione internet che paghiamo di tasca propria lavorando da casa) e la solitudine, lo smart working e con esso il desk sharing che ti rende visibile un giorno ogni tot sono visti male dalle aziende USA e, solo marginalmente, da alcune aziende nostrane perché portano con sé una disaffezione dal lavoro e dai dipendenti perché costituisce una minor forza contrattuale (“divide et impera”); da entrambi un distacco dalla realtà aziendale, sia nella buona che nella cattiva sorte.
Alcuni nostri imprenditori che, come ho già avuto modo di scrivere, non sanno gestire le aziende ma talvolta riescono a curare i propri interessi si sono resi conto di questo e stanno facendo retromarcia anche per mansioni in cui lo sw sarebbe plausibile. Fra pochi anni lo sw resterà soltanto un ricordo: nato con la pandemia, proseguito per il vantaggio di ridurre gli spazi di lavoro ed i costi ma abbandonato per gli effetti collaterali succitati.
La cosa triste di tutto ciò è che i dipendenti sono continuamente coinvolti in corsi obbligatori su mille materie (dalla privacy all’anticorruzione, dalla qualità alla sicurezza, ai vdt) ma alcuni imprenditori, che sono poi quelli maggiormente coinvolti nei processi di cambiamento (investimenti, rischi, costi e ricavi), vivono nella convinzione di essere illuminati, detentori della verità o, più facilmente, ignorando di essere totalmente inadatti e senza il minimo aggiornamento.
Il suggerimento che ricevo da molti dipendenti (e consulenti) che ho intervistato o che seguono i miei coaching relazionali è che, togliendo di mezzo i sindacati che da circa 50 anni curano gli interessi degli imprenditori, questi dovrebbero concertare con i dipendenti le decisioni importanti: in primo luogo eviterebbero di dover poi tornare sui proprio passi, visto che loro vedono solo il prodotto finito e spesso ignorano cosa vi sia sulla strada per raggiungerlo e, in secondo luogo, se vi è armonia tra impresa e maestranze a trarne vantaggio è il risultato finale perché vi è maggior impegno da parte di chi lavora, più serenità, minor conflittualità.
Un mio amico, diventato amministratore delegato di un‘azienda, ha fatto installare una sala relax con tv, una piscina ed altro. In occasione di uno dei recenti mondiali di calcio ha dato libertà ai propri dipendenti di guardare la partita invitandoli poi a recuperare; sapeva che, in caso contrario, si sarebbero posti in permesso, malattia, ecc. Non solo recuperarono il tempo della partita (anche in due volte) ma da quando ha adottato quella serie di provvedimenti è drasticamente diminuito l’assenteismo, è migliorata la qualità dei servizi resi e la conflittualità tra dipendenti e tra dipendenti e azienda si è azzerata.
Riflettiamoci su.
Sergio Motta