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Gli uomini di mondo, l’ossimoro e l’antitesi

La frase  ormai celebre di Totò << sono un uomo di mondo perché ho fatto il militare a Cuneo>> è entrata nell’immaginario collettivo italiano, ma al contempo è anche un ossimoro, una contraddizione in termini perché  paragona Cuneo al mondo e la città della Granda diventa vetrina della Terra.

Francamente,  per  la bella città di Cuneo l’equivalenza non vale  ancora oggi,  ma ancor meno oltre 50 anni or sono. Tuttavia, per i molti italiani – alcuni famosi – che hanno fatto il militare a Cuneo è stata una bellissima esperienza.

Fra quelli che vi hanno fatto il militare, anche Cino Tortorella, alias il Mago Zurlì di intere generazioni come la mia che dalla televisione imparavano. Quando lo conobbi nel luglio del ’90 mi raccontò i piacevoli ricordi da militare che aveva fatto, parte a Cuneo e parte a Bra. Uomo di mondo lo era già, ma non era stato ancora iscritto negli annali dell’Associazione degli Uomini di Mondo che sarebbe nata solo dopo, nel 1998.

Ci frequentammo per molti anni mentre ero direttore dell’Apt Langhe e Roero e ricordo come – a quel tempo – fossi ancora astemio e lui, uomo di grandissima cultura, mi insegnasse il gusto per il “buon bere e il ben mangiare”. Un paio di volte venne pure a Borgo Robinie, l’agriturismo gestito dalla mia famiglia per poi passare al Mulino Marino di Cossano Belbo e fare la solita visita a Romano Levi e a Tonino Verro che allora gestiva il ristorante La Contea di Neive.

Ricordo ancora la gaffe che feci nel chiamarlo “Mago Zurli” perché a lui andava un po’ stretto essere  imprigionato  nei panni del mago più famoso d’Italia e mi resi conto, con il tempo, di quanta conoscenza e saperi avesse. Sarà per questo che, oltre a ideare lo “Zecchino d’oro” e “Chissà chi lo sa”, che poi condusse Febo Conti, ideò anche la rivista di Cucina “Sapori d’Italia” sulla quale scrivevano in pochi, lui e la bellissima bionda Susanna Signorini, sua segretaria efficiente e instancabile.

Mentre era regista per Rete Quattro, per una serie di trasmissioni sulla cucina e sul Turismo nelle Langhe e Roero, svolse diverse puntate dedicate alle Langhe e lo seguii in tutte. Terminato quel ciclo di trasmissioni continuammo a tenerci in contatto.

Lo persi di vista per un po’, quando cominciai a fare l’ambasciatore delle Langhe in giro per il mondo per l’enogastronomia del Piemonte: Losanna, Helsinki, Pechino, Singapore, Johor Baru, Kuching, Miri, Kuala Lumpur ecc.

Lo rividi solo nel 2001 ed era stato iscritto fra gli uomini di mondo dell’Associazione e me ne parlò con orgoglio. Era in compagnia di Lucia, la figlia avuta dal suo secondo matrimonio con Maria Cristina Misciano              che ebbi successivamente modo di conoscere quando mi portò nella sua casa di via Pergine a Milano.

Il condizionamento che gli dava la notorietà di Mago Zurli non gli vietava, però, di dedicarsi ancora allo Zecchino d’Oro e infatti, a Torino, assistetti, ad un incontro per  programmare le nuove edizioni dello Zecchino d’Oro. Tanto odio, ma anche tanto amore per la sua creatura più bella.

Persona stupenda, di immensa cultura, sempre disponibile con tutti, mi spiace che sul finire della sua carriera sia stato attaccato, in modo brutale, in una trasmissione televisiva che – al suo attivo – ha avuto risvolti di gran lunga migliori.

Incorse anche in un piccolo incidente giudiziario legato alla burocrazia e Tortorella fu accusato, quale organizzatore della trasmissione Bravo, bravissimo, di non aver chiesto all’ Ispettorato del lavoro l’ autorizzazione per far esibire in alcune acrobazie i bambini cinesi ospiti della puntata registrata il 15 novembre ‘ 94 nel teatro Ponchielli di Cremona. I piccoli erano i protagonisti della serie televisiva mandata in onda dalla Fininvest: piccoli geni, musicisti, pittori, cantanti, mini-cabarettisti e, appunto, acrobati.

Fu anche rappresentante Unicef e in molti hannoo ancora un bellissimo ricordo di un grande uomo di mondo che è stato loro amico.

TOMMASO LO RUSSO

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Addio a Zavoli, il “socialista di Dio”

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / E’ stato un nome mitico del giornalismo radiotelevisivo, a partire da quello sportivo. Il Giro d’Italia con Zavoli ebbe un ascolto e un  rilievo mediatico che non avrà più. Ha fatto anche grandi inchieste televisive, da quella sul fascismo a quella dedicata al terrorismo intitolata “La notte della Repubblica” che scandagliò nelle viscere gli anni di piombo. Dopo lo Zavoli giornalista ci fu lo Zavoli politico che non ha mai cessato di dirsi socialista, anche quando fu eletto come indipendente nel Pd  e nelle   precedenti sue denominazioni, ma  non fu mai vicino  al  PCI 

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L’ho conosciuto, era persona di estremo equilibrio, lontano mille miglia dalla televisione e dalla politica odierne. Era anche un uomo colto che amava la poesia. Una persona d’altri tempi che sapeva però essere ben ancorato alla sua epoca.  In tanti anni mai una parola fuori posto, mai una polemica inutile, per ottenere visibilità. Era talmente al di sopra  della  rissa politica che un tg, erroneamente, lo ha definito senatore a vita, un riconoscimento che Zavoli avrebbe meritato più di altri. E’ inevitabile accostare il suo nome a Enzo Biagi che il direttore de “La Stampa” Giulio de Benedetti umiliò e di cui il giornale attuale ripubblica gli articoli in una antologia. Zavoli e Biagi collaborarono insieme per tante iniziative. Ma balza subito all’occhio che Zavoli, pur schierato politicamente, mirava ad una certa  terzietà giornalistica, mentre Biagi,  apparentemente  non schierato, fu molto più polemico ed astioso. Zavoli non scrisse i mille libri di Biagi, quelli che ci ha lasciato erano meditati e curati. Conobbi Biagi e mi sembrò molto attento agli aspetti venali, si faceva pagare per presentare un suo libro, indice sicuramente della notorietà acquisita. Zavoli aveva un altro  stile  e un’altra personalità. Era il “Socialista di Dio“, per dirla con il titolo di un suo libro, un insieme di valori umanitari che lo riconducevano al socialismo dei professori e medici condotti, come diceva Spriano, con venature cristiane. Era un unicum. Simile a lui io ricordo solo il poeta Giacomo Noventa  i cui versi in lingua veneziana piacevano sicuramente a Zavoli. La televisione italiana perde un pioniere e un protagonista di eccellenza. Mario Soldati che fu uno dei creatori della Tv italiana, mi parlava con ammirazione di Zavoli vedendo in lui un collega importante. E in effetti oggi bisogna evidenziare senza retorica la grandezza di Zavoli. E’ stato un grande umanista che ebbe come valori la sacralità della vita e della morte  e fu un grande uomo. “ L’homo sum” di Terenzio è rivissuto in lui.
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scrivere a quaglieni@gmail.com

Gallinara, venduta ma (almeno) non delocalizzata

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni /Per molti piemontesi e lombardi che frequentano anche casualmente la Liguria di Ponente, l’isola Gallinara è un topos, un ricordo affettivo che abbiamo sin da bambini, quando si poteva attraccare nel porticciolo dell’isola. Mio padre ci portava all’isola in motoscafo. Tutte le cartoline di Alassio e di Albenga (l’isola è nel territorio di quest’ultima) contengono da sempre l’isola, quasi come fosse una perla, che da tanti anni è proprietà di privati e che ha una  sua grande storia fin dall’epoca romana  e poi nel Medio Evo.

E’ impossibile venire a capo dei reali motivi per cui divenne proprietà privata. Andrò a fare una ricerca in proposito, ma basterebbe chiedere all’avvocato Cosimo Costa, presidente dell’istituto studi liguri per saperlo con certezza. Oggi la notizia dell’acquisto  dell’isola da parte  di un magnate ucraino con cittadinanza monegasca non rende tranquilli soprattutto gli ambientalisti, ma anche tanti semplici cittadini. Pare che fosse in vendita da dieci anni. Il Sindaco di Albenga Tomatis è stato pronto a mettersi in contatto con la sovrintendenza ligure per verificare la situazione. Io, d’istinto, ho pensato al diritto di prelazione che avrebbe lo Stato e la Regione Liguria oltre al Comune di Albenga. Riflettendoci con calma (la richiesta è di 10 milioni di euro) penso alle mille spese prioritarie per il Covid e la crisi economica e sono meno propenso ad un impegno per la Gallinara. Certo un pezzo di Italia cara a molti  finisce in mani straniere, come è capitato per tante industrie italiane. Il magnate ucraino va tenuto d’occhio, ma abbiamo almeno la consolazione che un’isola non si può delocalizzare. In linea di principio un’isola dovrebbe essere un bene pubblico, ma nell’Italia della pandemia tutte le certezze restano sospese. Inoltre non va mai dimenticato  quanti beni pubblici siano mal tenuti e in preda ai nuovi barbari. Anche questo è un altro motivo su cui riflettere. Il ministero dei beni culturali e quello dell’ambiente non sono proprio degli esempi di efficienza. Se l’Italia è in svendita ci saranno pure dei motivi, per quanto molto cattivi.
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Quando alla Fiat c’era Romiti e la crisi era colpa dei padroni

L’11 settembre deve proprio essere una data tragicamente ricorrente. L’ 11 settembre del 1980 cominciò a Torino lo sciopero alla Fiat contro i licenziamenti.

Come si è arrivati a questo punto? In particolare come si viveva ad agosto? La gioia delle ferie spazzata via dalla strage di Bologna. Che fossero stati i fascisti con la complicità dei servizi segreti deviati non c’era alcun dubbio.

Due anni prima venne assassinato Aldo Moro e bombe da tutte le parti. Nel 1979 elezioni
anticipate. Il Pci non ci stava più ad essere lo sgabello della Dc. Si prese la sua botta elettorale,
i socialisti di Craxi non sfondarono e si aprì la stagione del pentapartito e del famoso Caf Craxi
Andreotti e Forlani con De Mita guastatore. Fermandosi trasversalmente il partito del debito
pubblico. Forse per questo la Fiat assunse 19000 mila operai. Li assunse per la prima volta dagli
uffici di collocamento.

Fu l’anno in cui il gruppo ebbe più dipendenti di tutta la sua storia. Qualcosa non tornava
visto che l’auto italiana non funzionava. I piazzali erano pieni di auto invendute ed aumentava
l’ indebitamento con le banche. Cesare Romiti non aveva definitivamente vinto. Fatto fuori
Cantarella la finanziarizzazione era un gioco fatto. C’era la complicazione degli operai, stava iniziando l’
operazione snellimento. In altre parole si facevano più soldi con la finanza e dopo aver prodotto
auto bisognava venderle. Caratteraccio quello di Cesare Romiti scelto dall’Avvocato che, sulla
scelta dei suoi stretti collaboratori non ne sbagliava una. Sicuramente un po fané sui carichi
di lavoro, ma grande uomo di mondo. Dal nonno aveva preso arguzia ed intelligenza , non la
“cattiveria ” delle scelte nette. Anche per tutto ciò venne scelto Cesare Romiti. Gestore delle scelte
draconiane. Prima fra tutte indebolire radicalmente il sindacato.

I fatti gli diedero ragione.
Sempre Cesare Romiti definì gli anni 70 il decennio della Follia. Qualche ragione sulla
ingovernabilità degli stabilimenti l’aveva. Uno degli slogan maggiormente in vigore era : La
Fiat l’Indocina ce l’ha in officina. Dove portava tutto questo bailamme? Soprattutto se si voleva
tanta occupazione bisogna o fare la ” rivoluzione ” o vendere le auto. Diverse vie non c’erano. Nei
mesi precedenti c’erano stati tentativi di abboccamenti tra Fiat e sindacati che avevano respinto
al mittente le richieste di licenziamenti.

Fausto Bertinotti segretario Cgil regionale aveva coniato il motto: l’uso politico della Fiat della
crisi. Un timido tentativo di confronto fu fatto da Piero Fassino allora responsabile fabbriche
delle Federazione Torinese Comunista.

Si Svolse al Teatro Nuovo la Conferenza Nazionale Fiat. Fassino entrava a pieno titolo nel gota
nazionale. Ma quasi totalmente inascoltato. Rileggendo gli atti del convegno un buon senso che
non era figlio di quei tempi. Giorgio Amendola fu l’ unico che apertamente scrisse su RINASCITA:
La Fiat ha ragione. Avanti così ci sfasciamo.

Molto ma molto più modestamente passai 10 giorni bellissimi di vacanza all’ isola del Giglio con
la famiglia e il mio Vate in assoluto, il  Professore Romolo Gobbi.

Al pomeriggio mi catechizzava descrivendo per filo e per segno cosa sarebbe avvenuto. Tipico
dei solitari visionari Romolo ci azzeccava perché non aveva nulla da difendere e da perdere. Altra
cosa erano i dirigenti sia del sindacato come del PCI. Se avesse avuto ragione la Fiat dovevano
ammettere di aver sbagliato in quegli anni. Non era nelle corde dei politici e sindacalisti di allora.

Semplificando la colpa della crisi settore auto italiano era dei padroni. Dovevano essere loro,
solo loro che pagavano gli effetti negativi della crisi non licenziando. Avevano dunque un obbligo
morale che dovevano saldare e basta. Ora può apparire un modo bizzarro di ragionare. Non
poi così tanto se si pensa che c è qualcuno che ragiona ancora così. Addirittura c’ era chi la
considerava un’ occasione per la nazionalizzazione. Sintesi: lo Stato, attraverso l’ Iri si comprava
tutto. Forse non avevano tutti i torti, fatti i conti lo Stato (forse) tirava fuori meno soldi di
quelli che ha tirato fuori tra cassaintegrazione ed agevolazioni o costiuendo società come Tne
Spa che ha dato oltre 100 milioni a Fiat, diventando padrona di un pezzo di Mirafiori e di fatto
non ha mai operato.

Ma si sa che dei se e dei ma sono piene le fosse della storia  ed il più delle volte
servono ad inutili polemiche. Una cosa è certa: in quell’agosto di attesa una certa sinistra, un
certo sindacato , un certo Pci non avevano capito che il vento era cambiato. Direi di più, quella
certa sinistra, quel certo sindacato stava scrivendo o leggendo un libro che non capiva. Che non
voleva capire o forse che non poteva capire.

E dopo 40 anni Torino non è più capitale di nulla se non del suo rimpianto per i fasti passati.

Patrizio Tosetto

La colazione monferrina per avviare una nuova era del turismo?

La crisi COVID19 ha assestato un colpo pesantissimo al settore dell’ospitalità e della ristorazione italiane, su cui peserà inevitabilmente la proroga della dichiarazione di emergenza del Governo fino a fine ottobre. Tanto che gli operatori del turismo di tutti i territori italiani sono alla ricerca di un modo diverso per proseguire la loro attività, altrimenti destinata al fallimento.

I dati ufficiali dicono che il turismo internazionale si riprenderà non prima della metà del 2021, con una perdita dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2019, senza alcuna possibilità di pronosticare quando si potrà tornare a contare su numeri stabili: occorre pertanto esplorare nuovi mercati, ma sicuramente saper cogliere tutte le opportunità di sviluppo sostenibile che la situazione impone e, ancor di più, puntare sulla valorizzazione delle capacità di generare e percepire sicurezza e benessere nei nostri territori…

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La colazione monferrina per avviare una nuova era del turismo?

 

Piccole e grandi storie alla bocciofila del borgo

Michele Paolino ha un tocco quasi magico nel far rinascere le cose. E’toccato alla Bocciofila Freius, dal 1920

Più di un anno fa era andata giù, ma lui ha fatto quasi un miracolo rivitalizzandola. Non ha fatto tutto da solo, ma con  Francesco Mule, alias Frank, suo socio con decennali esperienze nel settore della ristorazione. Un sacco di relazioni, buona la cucina casalinga, poi il  gruppo di amanti delle bocce e il gioco e’ fatto. L‘inevitabile botta del coronavirus, e dopo l‘inesorabile risalita.
Clienti e soci a tutte le ore. Ma non basta: ora chi vuole dire la sua sul candidato sindaco del centrosinistra deve passare da qui. Obbligatorio perché, diciamo così, viceversa non si conta niente se non nulla. L‘eclettismo di Michele è notorio, come è notorio che i partiti non contano più nulla. Come si diceva una volta la bocciofila è diventata un punto di riferimento come un porto di mare.
Insomma si fanno sempre interessanti incontri tra gradevole e sgradevole, confortati  dalla affabilità del posto.
E‘ in mezzo ai palazzoni, ma entrandovi sembra, comunque, di lasciarsi indietro la modernità.
Se poi si percorre un km/Km e mezzo, suggerisco il transito a piedi, si arriva in via San Bernardino angolo via Di Nanni. Il cuore di San Paolo. Tanta storia.
All angolo il bar di quattro amici al bar. Michele Paolino l’ha sempre fatta da padrone dallo sport alla politica e tanta cultura. Anche lì è ‘idea del romanzo poliziesco:  siamo al secondo ed il primo ha sfondato. Leggendolo si respira aria di San Paolo tra passato glorioso ed un presente, anche qui, con delle, diciamo cosi, criticità. L’amicizia con Diego Novelli, il sindaco di Torino
per antonomasia. Tra le tante cose che ha fatto è stato fondatore di Nuova Società, gloriosa testata fiancheggiatrice del PCI.
Persino con una testa fine come Saverio Vertone direttore ondivago tra Forza Italia e Antonio Di Pietro. Infine l’inevitabile decadenza ed oblio. E toccato a Michele Paolino rimetterla in carreggiata.
Poi , dedicandosi ad altro , l’immagine e la capacità di ” mordere” non è più stata una prerogativa di Nuova Società. Corsi  e ricorsi storici: Michele sulla politica a sinistra ha una singolare
teoria. Nulla è cambiato dalla prima repubblica se non l‘evaporazione dei Socialisti e il PD è
uno sgangherato assemblaggio tra vecchi ex comunisti ed ex democristiani. Ardita e senza speranze per il presente ed un eventuale futuro. Direi, decisamente eccessiva. Ma nell’eccesso c’è un dato di verità assoluta: non esiste più un minimo di filosofia politica tra destra e sinistra. Si governa in nome del solo potere. Potere effimero, ma pur sempre potere. Michele Paolino è stato anche Presidente del Quartiere San Paolo.
Tanto potere non l‘aveva, aveva l‘occasione di fare qualcosa per il suo quartiere e lo ha fatto. Queste strade le conosce a menadito. Conoscendole conosce le persone che ci abitano.
Il ritrovarsi per due chiacchiere ieri come per oggi e, possibilmente, per domani. Vicino alla Chiesa di San Bernardino uniti da questo filo dell’ incontrarsi. Due chiacchiere sul tempo,  sulla politica e sullo sport. Non sarà molto, ma già qualcosa.Le paeole sanno di antico, di ricordo. Ed anche io ho qualcosa da raccontare. Dei miei zii paterni, Teresina e Roberto,  per 40 anni abitanti in via Timavo. E tutte de domeniche, tutte ma proprio tutte, all inizio degli anni 60 il pranzo domenicale.
La zia cucinava da Dio. La mamma no, diciamo che aveva altre qualità. Classicamente affettati misti come entree. Lasagne a go- go e per chiudere brasato con patate. Mio padre è sempre stato di pasto forte. La nonna raccontava che ai primi anni di Fiat gli preparava due baracchini. Vino no, non l’ho mai visto bere tanto. Dopo riposino per tutti tranne che per me e mio zio, alle 14 e trenta primo spettacolo all’Eliseo. Nitido il ricordo del  1964, Il giorno più lungo . Film sulla sbarco in Normandia. Ero talmente preso dal Film che non mi accorsi di nulla e la cenere del mio vicino mi brucio’pantaloni e pelle. Allora si poteva fumare. Dopo, l’osteria. Io gazzosa e menta mentre  mio zio metà vermut e meta’  vino, rigorosamente rosso. Il bianco è venuto di moda molti decenni dopo. Quando parlo o più precisamente chiacchiero con Michele ho due binari in testa. Il primo su cosa si dice. Il secondo su questi ricordi. E appena posso un salto alla Bocciofila Frejus lo faccio. Piccole storie, si intende. Non piccole storie di pessimo gusto. Un gusto d’antico e moderno. Con il gusto e il profumo del ricordo di queste strade di Borgo San Paolo. Borgo per eccellenza.
Patrizio Tosetto

Quarant’anni fa la strage della stazione di Bologna

Nel più sanguinoso attentato degli anni della strategia della tensione persero la vita anche quattro piemontesi 

 

di Marco Travaglini

Sono passati quarant’anni dal 2 agosto 1980. Quel giorno, alle 10.25 di un caldo mattino di sabato, avvenne uno degli atti terroristici più gravi del secondo dopoguerra, il più sanguinoso e criminale degli anni della strategia della tensione. Nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna Centrale esplose un ordigno a tempo, nascosto in una valigia abbandonata. Ottantacinque persone persero la vita e oltre duecento riportarono ferite molto serie.

La violenta esplosione venne avvertita nel raggio di parecchi chilometri. Un’intera ala della stazione crollò come un castello di carta, investendo il treno Ancona-Chiasso che sostava sul primo binario e il parcheggio dei taxi antistante l’edificio. Tra le ottantacinque vite innocenti che furono spezzate quel giorno quattro erano piemontesi. Mauro Alganon, 22 anni, era di Asti e viveva in casa con i genitori pensionati. Ultimo di tre figli lavorava come commesso in una libreria ed era appassionato di fotografia. Era partito molto presto quella mattina con un amico per andare a Venezia. A Bologna dovevano cambiare treno, ma, a causa di un ritardo, persero la coincidenza. Faceva caldo e cercarono ristoro nella sala d’aspetto, uscendo a turno a prendere un po’ d’aria.L’esplosione lo uccise mentre stava leggendo un giornale. L’amico che era uscito dalla stazione riuscì a salvarsi.

Rossella Marceddu aveva 19 anni e viveva con i genitori e la sorella a Prarolo, piccolo comune a sud di Vercelli. Studiava per diventare assistente sociale e aveva appena trascorso alcuni giorni di vacanza con il padre e la sorella al Lido degli Estensi. Stava rientrando a casa per raggiungere il fidanzato. Inizialmente, con l’amica che l’accompagnava, avevano pensato di fare il viaggio in moto, poi scelsero il treno ritenendolo più sicuro. Quella mattina si trovavano sul marciapiede del quarto binario in attesa del treno diretto a Milano. L’aria era afosa e così decise di andare a prendere qualcosa da bere. La bomba scoppiò mentre la ragazza stava andando al bar e la uccise. L’amica rimasta sul quarto binario si salvò.

Il cinquantaquattrenne Amorveno Marzagalli viveva ad Omegna sul lago d’Orta, con la moglie Maria e il figlio Marco.Lavorava come dirigente in una ditta produttrice di macchine da caffè. In quell’estate dell’80 aveva accompagnato la famiglia al Lido degli Estensi, in provincia di Ravenna e, poi, avrebbe dovuto raggiungere il fratello a Cremona con il quale aveva programmato una gita sul Po. Erano dieci anni che il fratello lo invitava, ma solo quella volta Amorveno acconsentì, anche per non lasciarlo solo dopo la morte della madre avvenuta in giugno. La mattina del 2 agosto si fece accompagnare alla stazione di Ravenna e di lì, dopo vent’anni che non saliva su un treno, si mise in viaggio alla volta di Bologna dove lo attendeva una coincidenza in partenza alle 11.05 che però non riuscì mai a prendere.

La quarta vittima aveva 33 anni, si chiamava Mirco Castellaro ed era nato a Frossasco in provincia di Torino. Nel paese a due passi da Pinerolo, dove il padre Ilario era stato sindaco, aveva vissuto a lungo per poi trasferirsi a Ferrara dove risiedeva con la moglie e il figlio di sei anni. Capoufficio presso la ditta Vortex Hidra a Fossalta di Copparo, nel ferrarese, aveva da poco acquistato un’imbarcazione in società con un amico, accarezzando il progetto di avviare una attività rivolta ai turisti. In quell’estate del 1980 l’obiettivo era di sistemare il natante ormeggiato in Sicilia e di fare alcuni piccoli viaggi di rodaggio. Una serie di imprevisti costrinse Mirco a ritardare la partenza. E l’appuntamento con il destino lo colse quel maledetto sabato di agosto alla stazione di Bologna. L’individuazione delle responsabilità della strage di Bologna rappresenta una delle vicende giudiziarie più complicate, lente e discusse della storia contemporanea del nostro Paese. Una vicenda che ha conosciuto tentativi di depistaggio e che, viceversa, nella ricerca della verità, ha visto l’impegno dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage, costituitasi il 1° giugno dell’81. Dopo vari gradi di giudizio si giunse a una sentenza definitiva di Cassazione solo quindici anni dopo la strage, il 23 novembre 1995: vennero condannati all’ergastolo come esecutori dell’attentato i neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (che si sono sempre dichiarati innocenti, pur avendo apertamente rivendicato vari altri omicidi di quegli anni). Per i depistaggi delle indagini furono condannati l’ex capo della P2 Licio Gelli, l’ex agente del Sismi Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Il 9 giugno del 2000 la Corte d’Assise di Bologna emise nuove condanne per depistaggio e sette anni più tardi venne condannato a 30 anni per l’esecuzione della strage anche Luigi Ciavardini (minorenne all’epoca dei fatti). Altri due imputati — Massimiliano Fachini (anch’esso legato agli ambienti dell’estrema destra ed esperto di timer ed inneschi) e Sergio Picciafuoco (criminale comune, presente quel giorno alla stazione di Bologna, per sua stessa ammissione) — vennero condannati in primo grado, ma poi assolti in via definitiva, rispettivamente nel 1994 e nel 1996.

Nel 2017 è stato rinviato a giudizio per concorso nella strage di Bologna, l’ex terrorista dei Nar Gilberto Cavallini. Nell’ambito di questo procedimento è stata richiesta una nuova perizia sui reperti della stazione ancora conservati. In questa perizia è segnalato il ritrovamento di quello che potrebbe essere l’interruttore che fece esplodere l’ordigno. Nuovi e recenti scenari potrebbero aprirsi sulla strage di quarant’anni fa: il 9 gennaio di quest’anno Cavallini, sulle cui spalle pesano già otto ergastoli, è stato condannato con sentenza di primo grado, per concorso nella strage. A maggio la Procura generale del capoluogo emiliano ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex militante di Avanguardia nazionale Paolo Bellini, in quanto esecutore dell’attentato alla stazione mettendo in rilievo che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, con l’ex capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato, con l’imprenditore e finanziere piduista Umberto Ortolani e col giornalista Mario Tedeschi, tutti morti nel frattempo e tutti coinvolti come possibili mandanti o finanziatori dell’eccidio. Si può arrivare finalmente a gettare luce sui mandanti? C’è davvero una svolta importante nell’inchiesta sulla strage? Questo si vedrà ed è augurabile che accada per dare finalmente dei volti e dei nomi a chi decise di colpire al cuore la nazione, stroncando la vita e i sogni di tanti innocenti e delle loro famiglie.

L’inciviltà viaggia in monopattino

FRECCIATE   A centinaia sfrecciano in città. Complice la paura del Covid che fa diffidare dei mezzi pubblici, la moda del monopattino si consolida. Peccato che molti utenti viaggino sui marciapiedi e sotto i portici. Volteggiano noncuranti dei pedoni e mollano l’aggeggio a due ruote nel bel mezzo dei marciapiedi stessi creando un ostacolo per i disabili che così restano bloccati. Qualcuno vuole intervenire?

L’arciere

Troppa leggerezza nell’assegnare il reddito di cittadinanza

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Pietro Maso che nel 1991 uccise in modo barbaro a sprangate entrambi i genitori in concorso di tre amici, e’ riapparso alle cronache come detentore del reddito di cittadinanza. Il suo fu delitto orribile commesso allo scopo di fruire dell’eredità dei genitori. Venne condannato a 30 anni di carcere con il riconoscimento della seminfermità mentale al compimento del fatto,una formula ambigua, quasi una scappatoia da azzeccagarbugli di alto livello. Scontò 22 anni da detenuto e venne rimesso in libertà nel 2013 

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Dal 2016 venne  ricoverato in clinica psichiatrica .Venne anche  accusato anche di estorsione nei confronti delle sorelle che vennero messe sotto scorta. Nel frattempo, dopo essersi sposato, si separò.
Nel 2019 ottenne il reddito di cittadinanza, malgrado la sentenza contemplasse il divieto di poter fruire di erogazioni, data l’interdizione  perpetua dai pubblici uffici, di stipendi o assegni a carico dello Stato o di enti pubblici. Lo scorso anno si era parlato di una ex terrorista figlia di un magistrato ed ex parlamentare del pds che fruiva del reddito di cittadinanza e la cosa creò scandalo. Oggi il reddito di cittadinanza a Maso ha provocato  altra indignazione. Il delitto premeditato commesso è davvero grave, anche se la condanna che non comportò l’ergastolo, poteva apparire in qualche modo non rapportata al reato commesso. Va detto che Maso ha scontato almeno 22 anni di pena,cosa che molti terroristi, dissociandosi, non hanno scontato. Certo, appare scandalosa la leggerezza con cui venne concesso il reddito di cittadinanza  senza rispettare le norme di legge. E balza anche fuori il fatto che il reddito e ‘ un sussidio certamente non finalizzato, almeno in questo caso, alla ricerca di un lavoro.E forse in tantissimi altri casi e’ mero assistenzialismo. E’ giusto il reinserimento nella società del condannato al carcere. Io esaminai nel carcere delle Vallette uno studente condannato a decine di anni di carcere per mafia che desiderava laurearsi in Scienze Politiche. E’ giusto che vengano offerte opportunità di reinserimento, ma il reddito di cittadinanza a Maso lascia molto perplessi.  Ma forse è proprio il reddito di per sè che rivela dei limiti molto evidenti. Il caso di Pietro Maso lo dimostra in maniera quasi lapalissiana.
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(foto Corriere Veneto)