sanremo

Sanremo unlimited scopre nuovi talenti

La rassegna nonostante le difficoltà del momento riesce a proporre in live a discografici e produttori i nuovi talenti della musica leggera.

Con il patrocinio di CASA SANREMO, il format prodotto dal torinese Francesco Ganci, seguendo attentamente le direttive del CST e delle autorità competenti anche nel periodo del Festival di Sanremo 2021 è stato tra i pochissimi eventi ammessi nella città ligure.


Nell’ambito della sala Luigi Tenco, per l’occasione attrezzata come elegante studio
televisivo, con gli auguri fatti dal Presidente di Casa Sanremo Vincenzo Russolillo,
bellissime voci sono state presentate a Maurizio Rusty Rugginenti, il titolare
dell’etichetta discografica milanese “Rusty Records” (con i suoi artisti vincitrice del
Festival di Sanremo 2013, seconda classificata nel 2016 e nel 2020), e al “vivace”
produttore di origine veneta Cristian Gallana. Alcuni di loro avranno presto buone
notizie, dato che gli addetti ai lavori hanno già anticipato il loro interesse per future
produzioni nel campo della musica leggera.

Tra gli ospiti c’era Namida già finalista in Area Sanremo e prossima rappresentante
italiana al New York Canta. Namida è molto di più che una semplice promessa. Ci
scommettiamo !!

Tutti i partecipanti hanno ricevuto il National Voice Awards, prestigioso
riconoscimento al talento canoro.


Una straordinaria Consuela di Monaco, da oltre 10 anni opinionista di moda e costume
nella televisione della Romania, in passato vincitrice dei più prestigiosi titoli nei
concorsi di bellezza internazionali, ha fatto da madrina all’evento. L’organizzazione le
ha consegnato il premio per ciò che fino ad ora ha rappresentato nel glamour e nel
gossip, sapendo inoltre che nel suo immediato futuro ci sarà un ruolo in una produzione
cinematografica romana.

Grazie per la preziosa collaborazione a Paolo Formia e Daniele Morelli.
Sanremo Unlimited nella quattordicesima edizione ha confermato il suo ruolo di leader
nella ricerca degli emergenti nel panorama nazionale. Nell’attesa che si possa
nuovamente tornare alla normalità, con soddisfazione mettiamo in archivio l’edizione
2021

70 anni di Festival di Sanremo, storia semiseria (seconda parte)

DAL 1990 AL 2011

In questa seconda parte della storia del Festival vi racconto le vere storie dei vincitori dal 1990 al 2011, con i titoli veri delle canzoni che hanno trionfato.

Scoprirete interessanti notizie che non vi sareste mai immaginati…

Una canzone simbolo s’impone nel 1990: è “Uomini poli”magistralmente cantata dai Puh (un gruppo di tubercolotici che sputacchiano continuamente…). Evidente il richiamo a Totò Cotogna (vedi il 1980).

Gli anni 90 iniziano con Riccardo Scocciante (un cantante che in genere canta con Fiorella M’annoia) che vince con la sua allegra “Se sciamo insieme”. Il bello è che, nella sezione giovani, vince Paolo Pallesi (un altro nome che dà l’idea del divertimento…).

Nel 1992 vince Luca Barbagrossa (un parrucchiere prestato alla canzone) che si esibisce con “Portami a sballare”, un rock scritto da un ex drogato recuperato grazie ad un lungo percorso di riabilitazione.

Rivince Enrico Buggeri (il baro a poker, ve lo ricordate? Già primo con il Trio) con “Miss Tero” una marcetta dedicata ad una concorrente di Miss Italia.

Ecco il 1994 con il bell’Aleandro Caldi che trionfa con una canzone dal nome emblematico che suscita l’entusiasmo del Teatro Ariston: “Passera”.

Nel 1994 s’impone la bella Jorja con la tenera “Tome saprei”,canzone dedicata ai fabbricanti di formaggi alpini ed alle loro deliziose forme a pasta dolce.

E’ la volta di Ronron, nel 1995, con la sua “Vorrei incontrati tra centenni”, uno slow ambientato in una casa di riposo per anziani centenari che cercano di avere rapporti sessuali ingurgitando dosi massicce di Viagra.

Gli sconosciuti Gialisse cantano “Fumi di parole”, vincono e scompaiono (anche perché pare avessero copiato la canzone da una sconosciuta band svedese… ma si può?).

Toh, un nome antesignano, Annalisa Minetti (zia dell’igienista dentale tanto nota ai giorni nostri): vince nel 1998 con la canzone dal titolo problematico “Senza the o con the”, liberamente tratto dall’Amleto all’ora in cui gli inglesi devono la loro bevanda nazionale.

1989: Anna Boxa (l’attrice che aveva avuto un gran successo nel film di Clint Eastwood One million dollar baby, ricordate?) porta al successo “Senza dietà”; con un forte accento francese Anna racconta la storia di una bulimica che non riesce a dimagrire perché non trova la dieta giusta…

Il decennio si chiude con gli Avion Travet e la delicata canzone “Pentimento”, l’amara confessione di un bambino che ha rubato la Nutella e chiede perdono alla mamma.

Il nuovo millennio inizia con la vittoria di E’ Lisa (il soprannome di Mona Lisa, una vecchia prostituta padovana) che canta “Duce”, un inno fascista rivisitato a seguito del processo di trasformazione del MSI in AN.

Nel 2002 trionfano i Matia Lazar con “Massaggio d’amore”, il jingle di molte case d’appuntamento che mascherano la loro attività di bordelli con innocui cartelli tipo massaggiatrice Marisa, citofonare quarto piano…

Appare la giovane Aleksya con “Per dire di do” uno scioglilingua per bambini sul tipo ti ritiri o tiri tu, taratara taratà…

Marco Marini (bagnino di Laigueglia) vince a sorpresa nel 2004 con “L’uovo volante”, la storia di uno chef specialista in frittate, abituato a lanciare uova contro il muro per spezzare i gusci.

Il 2005 incorona Francesco Menga (autore dell’omonima “legge”, che non possiamo pubblicare per decenza…) che mette in musica il teorema di Pitagora con il titolo “Angolo”. Purtroppo il successivo contributo musicale, dal titolo “Ipotenusa”, non ha avuto lo stesso successo…

E’ la volta di Povera che, dopo aver cantato la sigla del Sanremo precedente (“Quando i bambini fanno O”, dedicata ai bimbetti che affrontano il disegno per la prima volta), si esibisce con “Vorrei avere il Recco”, sogno di un allenatore di pallanuoto che desidererebbe tanto allenare la migliore squadra italiana.

E finalmente i pazzi di Cristocchi vincono: è l’anno 2007, la canzone si chiama “Ti regalerò una posa”, storia di un fotografo di calendari per soli uomini, che si fa pagare profumatamente per gli scatti a tette e chiappe, ma poi, generosamente, regala sempre una foto alla modella.

Che ridere nel 2008! Il cantante Joe di Tonno (farebbe già ridere così, il bello che il nome è VERO!) vince con “Polpo di fulmine”,delicata storia d’amore tra un polipo ed una seppia in un vorticoso mulinello di tentacoli che sembra di essere ad Arcore…

Trionfo decretato nel 2009: vince Marco Corta (già vincitore della trasmissione Amici e quindi predestinato ad essere primo a Sanremo…) con “La forza zia” un oscuro messaggio lanciato alla sorella della mamma da un giovane in cerca della prima esperienza sessuale (un po’ come nel film Grazie zia).

Stessa storia nel 2010, che chiude i primi 60 anni di Festival: vince, ovviamente, Valerio Scalu (caposcalu all’aeroporto di Olbia, già vincitore della trasmissione Amici e quindi predestinato ad essere primo a Sanremo…) con la canzone “Per tette le volte che…”, un inno al più celebrato simbolo delle donne.

Nel 2011 la censura non riesce a fermare Roberto Secchioni (uno studente sempre gobbo sui libri) che presenta la sua invocazione erotica cantando Chiavami ancora amore”, diventato l’inno delle ammiratrici di Rocco Siffredi.

Arriva, lemme lemme, la cantante Flemma che sorprende tutti cantando, a metà febbraio del 2012, Non è l’inverno, un testo di contestazione delle rigide temperature verificatesi quell’anno a Sanremo.

Il 2013 è l’anno di Marco Mentoni, un giovane con una mandibola molto pronunciata, che trascina il pubblico con la sua L’e senza ale”, misterioso titolo evocativo di pratiche esoteriche.

L’anno dopo è la volta di Arìda, cantante che deve il nome al fatto di essere nata nel deserto del Gobi, molto arido; ma la sua canzone vincente, Controvetro non ha successo.

Ce l’ha invece, nel 2015, enorme, il trio 2015 Il Molo che ottiene una standing ovation con la bellissima Gronde a mare che descrive la strana forma dei tetti delle case della Riviera ligure.

Ancora una vittoria di un gruppo nel 2016: si chiamano Gli Studio e presentano una complicata ricetta di torta cotta a legna; titolo della canzone Un forno mi dirai”.

Originalissima la canzone vincitrice nel 2017, dal titolo “Occidentali’s Tarma”, che descrive una tenera storia d’amore fra una tarma ed un pidocchio conosciutisi in un armadio a muro dove erano accumulati vecchi vestiti. L’artista che la porta al successo è Francesco Gabbiani, un allevatore di pellicani della costa delle Nuove Ebridi.

E’ la volta, nel 2018, della coppia Ermal Menta (un ortolano specializzato nella coltivazione di piantine di menta e di liquirizia) e Fabrizio Toro (allevatopre di bovini nella bassa padana). Cantano una canzone ecologica dal titolo Non mi abete fatto niente per sensibilizzare il pubblico sui problemi del disboscamento alpino.

E siamo arrivati ai giorni nostri: il 2019 segna l’apertura del Festival ai cantanti immigrati: il giovane Mammut (evidenti ascendenze siberiane) lancia il ritornello Saldi”,immediatamente adottato come jingle da tutti gli outlet sparsi per l’Italia.

E chiude questa rassegna il grande Iodato (figlio di un proprietario delle saline di Trapani) che giusto 12 mesi fa vince con la delicata “Mai rumore”, forte denuncia contro rappers ed urlatori di ogni tipo che hanno invaso Sanremo pe decenni.

Chi vincerà la prossima edizione?

Io lo so, ma non ve lo dico…

GIANLUIGI DE MARCHI

Volete saperne di più sul Festival di Sanremo?

Chiedete il libro “La mormora sussurra, l’ornitorinco … glionisce” al numero 3356912075 oppure scrivete a demarketing2008@libero.it

 

70 anni di Festival di Sanremo (parte prima)

DAL 1951 AL 1989  / La storia d’Italia è cambiata nel febbraio 1951, quando a Sanremo fu presentato il primo festival della canzone italiana. Quanti vincitori da allora! Vogliamo ricordare i più noti? Ho fatto lunghe e precise ricerche e sono in grado di rinfrescarvi la memoria.

Dunque, nel 1951 vince una giovane Nilla Pazzi con “Grazie dei fuori”, un ritornello composto da Nereo Tocco, grande allenatore di calcio che insegnava ai suoi calciatori a buttar fuori la palla appena vincevano, per guadagnare tempo.

L’anno dopo rivince Nilla Pazzi, con la deliziosa “Viola colomba”, la storia surreale di un uccello dal colore insolito.
Nel 1953 è la volta di Carla Bona (un nome da escort, ma a quel tempo non esistevano…) con la tristissima “Fiale d’autunno”, canzone che parla di vecchietti ricoverati in un ospizio che aspettano Ottobre per iniziare a farsi iniezioni di ricostituenti.
Finalmente vince un uomo, anzi due, la coppia Giorgio Tontolini e Gino Lapilla che nel 1954 cantano l’inno di tutti i figli “Tette le mamme”, una canzone che a quel tempo fece scalpore per l’allusione un po’ osé all’attrattiva del sesso femminile…
Il 1957 porta alla ribalta Nunzio Ballo e Claudio Lilla, con la straziante “Morde della mia chitarra”, la storia di un suonatore di chitarra rimasto disoccupato perché il suo fox terrier gli ha divorato lo strumento con il quale si esibiva nei tabarin (oggi si direbbe discoteca).

Ed ecco il biennio d’oro, con la prepotente apparizione di Domenico Mordugno, in abbinamento con Johnny Durelli (una specie di Rocco Siffredi anni ’60?). Nel 1958 trionfano con “Colare”, divenuto il jingle di una nota casa di bevande gassate americane, la Coca Cola; nel 1959, invece, vincono con “Piave”, liberamente ispirata alla Grande Guerra.
Il decennio si chiude con la vittoria della coppia Pony Dallara e Renato Mascel e la loro “Roma antica”, dedicata ai monumenti più noti della città eterna.
Nel 1963 trionfa Tony Trenis, un vecchio capostazione di Villarbasse, con la sua bellissima (ed eccitantissima…) “Uno per tette”, un’anticipazione di storie verificatesi quasi 50 anni dopo ad Arcore.
Il 1964 è memorabile, compare Gigliola Cinguetti con la sua “Non ho l’età”, canzone di una minorenne coinvolta in un traffico di prostitute-bambine, una forte denuncia sociale contro un fenomeno sempre attuale.
E’ la volta, nel 1965, del grande Bobby Molo, ex marinaio di Camogli che, dopo aver aperto un negozio di barbiere, ha scoperto la bellezza di fare barba e capelli, componendo il tema vincitore, “Se piangi, se radi…”
Nel 1966 vince una coppia di grandi cantanti, Gigliola Cinguetti e Domenico Mordugno con la loro “Pio, come ti amo”, liberamente tratta dalla poesia del Carducci, “T’amo pio bove”, che canta l’innamoramento di una cecoslo vacca per il suo adorato che, purtroppo, ha perso gli attributi saltando malamente una staccionata.
Ancora una coppia l’anno dopo, con Claudio Lilla (toh, chi si rivede…) ed Iva Nanicchi (la cantante più bassa del Festival, una prozia del Ministro Brunetta) che duettano con “Non pesare a me”, testo elaborato nei centri Weight watchers da un gruppo di bulemici preoccupati dei controlli sulla bilancia.

Nel 1968 ecco sul palco Sergio Intrigo (ex dirigente del SISDE) che canta “Canzone per the”, colonna sonora del film “Un the nel deserto”.
Tornano vincitori due colossi della canzone italiana, Bobby Molo in coppia con Iva Nanicchi con la canzone “Bingara”, ambientata nel mondo dei pensionati che passano le domeniche pomeriggio a giocare a Bingo, mangiandosi la magra pensione nell’illusione di azzeccare almeno una cinquina…
Il decennio si chiude nel 1970 con il meritato successo della coppia Adriano C’è l’ontano (proprietario di boschi vicini e l’ontani) e Claudia Pori, un’estetista specializzata nella cura della pelle. Il ritornello è cantato ancora adesso “Chi non lavora non fa le more” che ricorda a tutti che se non si lavora non si possono raccogliere le gustose bacche dei rovi.
Il 1971 è storico, vince Nicola di Bali, un immigrato clandestino proveniente dalla lontana isola dell’Indonesia. Il giovane Nicola canta in coppia con una giovane cantante di nome Nuda (ancora un riferimento a fatti odierni!) e la canzone s’intitola “Il cuore è uno zigaro”. L’apparente errore (zigaro anziché sigaro) è dovuto al fatto che a Bali la esse non esiste, ma c’è solo la zeta, quindi…
Il buon Nicola di Bali rivince l’anno dopo con la canzone che richiama la sua precedente esperienza come cacciatore di balene sulle navi giapponesi. Il titolo è infatti “I giorni dell’arco balena”.
Nel 1973 è la volta di Peppino di Capra, un pastore di lontane origini sarde, con la romantica canzone “Un glande amore e niente più”, che celebra le eroiche gesta erotiche di un giovane imprenditore milanese.

Ritorna sul podio l’inossidabile Iva Nanicchi nel 1974 con “Ciao bara, come stai?”, una marcetta diventata di moda nei funerali delle sette sataniche.
Appare per la prima (ed ultima) volta una certa Gilda con un titolo scomparso subito dalle classifiche “La ragazza del CUD”, storia di un’impiegata addetta alla dichiarazione dei redditi dei pensionati.
Ritorna sul palco Peppino di Capra nel 1976 con la sua “Non lo caccio più”, motivetto ispirato ad un professore di latino che, dopo aver espulso dall’aula infinite volte un alunno indisponente cambia atteggiamento e gli dà dei bei 10 quando il padre, facoltoso professionista, gli stacca un assegno da 50 milioni.
Gli Homo sapiens vincono nel 1977 con “Balla da morire”, colonna sonora del film “Balla coi cupi”, torbida storia di omosessuali piemontesi.
Ecco il 1978 con la canzone “…E dirsi miao” cantata dai Mattia Lazar, una bella storia di amore tra mici, tratta dal film “Gli Aristogatti”.
Lo sconosciutissimo Mino Vermaghi arriva primo con “Arare” e scompare nel nulla…
E finalmente nel 1980 trionfa Totò Cotogna, un coltivatore di mele destinate alla produzione di cotognata. La canzone, famosissima, s’intitola “Polo noi”, l’epopea degli esploratori Amundsen e Scott impegnati alla ricerca del Polo Nord e del Polo Sud.

Gli anni 80 iniziano con Anìce che si esibisce con una canzone di forte denuncia sociale, “Pere Lisa”, in cui si fa chiaramente riferimento ad una giovane in preda alla droga.
Nel 1982 vince Riccardo Foglia (un botanico prestato alla canzone) che si esibisce con “Storie di tutti i forni”, liberamente ispirato al romanzo di Giulio Verne “Il giro del mondo in 80 forni”.
La sconosciuta Tiziana Risale vince con “Farà quel che farà” e scompare nel nulla.
E finalmente, dopo anni di tentativi andati a vuoto, vince Al Nano (un lontano parente di Brunetta) che, in coppia con la moglie Romina, canta “Ci farà”; ma tutti ricordano il vero vincitore, quello della sezione giovani, Eros Racazzotti (un ex pugile dilettante) che entusiasma giovani e vecchi con la sua “Una tetta promessa”, altra anticipazione di storie attuali…
Nel 1985 al primo posto si piazzano i Ricci e Poveri, pescatori squattrinati di ostriche, cantando “Se minna moro”, di cui nessuno ha mai capito il significato…
Il bravo Eros Racazzotti trionfa nella sezione principale nel 1986: il titolo del suo brano è “Adesso Su”, dedicato ai protagonisti della serie televisiva Dallas, in cui domina la figura di Su Ellen.
Si mettono in tre, nel 1987, per vincere, e sono tre grandi: Gianni Forandi (gommista di Roncobilaccio), Enrico Buggeri (baro a poker) e Franco Gozzi (un malato con vistose carenze di iodio). Il titolo è rimasto nella storia: “Si può mare di più”, una spensierata canzone che celebra la bellezza delle vacanze ad Alassio.
E’ la volta, nel 1988, di Massimo Panieri, un esperto nella fabbricazione di cesti di vimini, che dopo tanti anni vince l’alloro con “Perdere le more”, la storia di una giovane raccoglitrice di bacche dei rovi che inciampa nel bosco e perde tutto il raccolto.

1989: una coppia supera tutti i concorrenti. Sono Anna Ossa e Fausto Le Ali (un pilota dell’Alitalia in congedo; tanto a quei tempi lo stipendio si prendeva lo stesso…) con la loro “Ti fascerò”, tenera storia di una mamma che accudisce il suo bébé con sistemi tradizionali, rinunciando ai pannolini preconfezionati.

Gianluigi De Marchi

Volete saperne di più sul Festival di Sanremo?
Chiedete il libro “La mormora sussurra, l’ornitorinco … glionisce” al numero 3356912075 oppure scrivete a demarketing2008@libero.it

Riapriamo subito le sale teatrali e che l’Italia della canzonetta non possa vincere

Ah, le canzonette! Che poi, come cantava qualcuno, sono solo canzonette, non dovrebbero disturbare. E invece no, a quelle canzonette si costruiscono piedistalli – seppure con temporanei e fragili basi d’argilla -, tutt’intorno si confezionano serate televisive, per darci divertimento, dicono loro, zeppe dei soliti nomi che di tanto in tanto, gellificati e stratamponati, per esempio in un Sistina ridotto a studio televisivo, spremono la lacrima per quei “colleghi cui l’annus horribilis ha impedito e continua a impedire di lavorare, noi siamo qui anche per loro”.

Mentre un velo sottile sottile di ipocrisia cala sul teleschermo. E i flashmob in piazza si sprecano, inascoltati. Piedistalli intorno ai quali l’Italietta della canzone trova il suo miglior momento, da anni (siamo arrivati al settantesimo appuntamento, tra alti e bassi, tra successoni salva Rai e cali d’ascolto su cui arrabattarsi il giorno dopo), a Sanremo, nelle più o meno tiepide giornate di febbraio, quest’anno slungate ai primi di marzo, non si sa mai. Perché quei piedistalli sono il meccanismo annuale che non si può inceppare né scavalcare, perché su di essi fiorisce un’industria – sponsor docet -, ricca e salvifica,  di cui non si può tacere, in grado di riempire di linfa nuova le casse della tivù. E allora ben vengano Orietta Berti, trasportata lì dalle personali altezze filosofiche alla corte di Fazio, e il rap e il resto della corte dei prescelti a riscattare con le loro ugole questo tempo gramo, ben vengano le performance del signor Lauro De Marinis, “in arte” Achille Lauro, presenza ricercata (imposta?) e insostituibile, capace di scalare inimmaginabili vette con le sue Rolls Royce o i suoi Me ne frego come con le sue tutine trasparenti. Show must go on ci insegnano d’oltreoceano, il carrozzone deve andare avanti diciamo noi.

In questo periodo di ordini e contrordini, di riunioni e di giuramenti del tipo “andrà tutto bene”, di pacche sulle spalle tra gli amiconi Amadeus e Fiorello e di telefonate all’alba a cercare soluzioni dell’ultima ora, di spazi esterni tipo navi da crociera confezionati ad hoc per la salute pubblica, quel che non riusciamo a mandar giù è l’uso del teatro Ariston, che le sue porte si spalanchino – al di là del solito ritornello “dopo aver preso tutte le precauzioni del caso” e del proclama ingannatore e di comodo “noi dobbiamo portare nelle case allegria e leggerezza”- per cinque sere, che s’inventino un circa quattrocento figuranti, contrattualizzati e con tanto di tamponi per ogni tranquillità, e che la galleria se ne resti lì svuotata di tutto e di tutti.

Un panorama triste, diciamo noi, tra attività che cessano, tra le barzellette dei seicento euro tirati a mille che arrivano quando arrivano, con il contagocce (a proposito, anche a quei semisconosciuti canterini – o attori in erba come a quelli che in erba non sono più, che le bollette continuano a pagarle – che non hanno ancora ben chiaro che faccia abbia il successo), tra i vaccini che si macchiano di ritardi e i conti che non tornano, tra le crisi senza fine del governo, tra questo mostro che finirà col mettere troppi in ginocchio. Ah no, Sanremo non si tocca, dicono al contrario in Rai, quel festival s’ha da fare e “senza pubblico e il suo calore”, come ci tiene a precisare Iva Zanicchi, “sarebbe molto triste”. D’accordissimo. Mentre i francesi con tutta la loro grandeur, dopo che hanno fatto della Croisette un deserto lo scorso maggio, pensano di far slittare Cannes e il suo festival a luglio, con ogni gesto scaramantico, decente e no, mentre gli inglesi, azzannati da una brexit che costringe gli artisti a casa loro, hanno per il secondo anno fatto una croce sul festival di Glastonbury, mentre anche il carnevale di Rio rimetterà in soffitta bauli e paillettes.

D’accordissimo con la Iva nazionale. E’ come farsi servire una bella puttanesca e vedersi arrivare una pasta in bianco. E’ l’Ariston in quanto teatro che non mi sta bene. Che la Rai riesca ad imporre il suo diktat. Che per cinque giorni lì dentro esistano le luci, le voci, gli affanni, il sudore, le proposte, i sentimenti, le riuscite e i fallimenti: mentre tutti gli altri teatri italiani, abolita ogni scala di grandezze e di valori, restano polverosamente chiusi. Non mi sta bene che nell’arcobaleno di colori rosso arancione giallo, che nello srotolìo di notturni DCPM, di riunioni nel cuor della notte per salvare la patria, nessuno (ma Franceschini dov’è? ha una voce, qualche proposta al proposito? o lo sentiamo far festa e inneggiare alla cultura dell’Italia soltanto quando a Pompei trovano un galletto dipinto in un thermopolium di duemila anni fa?) si sia per un attimo messo le mani nei capelli e, folgorato, abbia gridato “oddio, abbiamo anche i teatri e i cinema che da un anno non riaprono, abbiamo i set spenti e le compagnie che non si possono formare, abbiamo un enorme pacchettone di film che non possono uscire e che finiscono per la contentezza di pochi su qualche piattaforma, abbiamo gli attori a spasso!”, fregandosene di quanto la sala e il grande schermo siano ancora, alla faccia delle più recenti tecnologie, il mezzo più “bello” (ma ognuno si scelga l’aggettivo che più gli piace) per godersi un film e il palcoscenico, con tutta la sua polvere, trascinata giù da secoli di arte e di storia, di una Vita che non si può far finta che non esista, uno dei luoghi più vitali e significativi che ci possano essere. Gabriele Lavia accusava ieri dalle colonne del Messaggero “la morte del teatro” e definiva “una volgarità” questo affannarsi di troppi intorno all’appuntamento rivierasco. E se non è morte, è una lunga insopportabile agonia. Lo streaming, vabbè, ma è come visitare gli angoli più singolari del mondo standocene stancamente a casa, magari davanti al piattino dei cioccolatini, davanti a qualche sito.

“Latitante” ha definito il ministro “alla Cultura” nei giorni scorsi Emma Dante, regista teatrale e lirica, una delle punte d’eccellenza di casa nostra, dalle pagine dei social, “se si decide di fare Sanremo con il publico, si riaprono i teatri e i cinema. E’ pacifico”. La prosa morta, il cinema affossato, il balletto in solaio, i concerti nella totale ombra, è doveroso, umano, coerente cercare un orizzonte di luce. Con l’Ariston di Sanremo. Dopo l’Ariston di Sanremo. Le ha fatto eco Manuela Kustermann, nome storico del teatro, oggi responsabile del Vascello di Roma: “Se il festival di Sanremo apre al pubblico, mobilitiamoci, scendiamo in piazza. Ci sentiamo mortificati, dimenticati. Si parla di turismo, mai di cultura, mai di teatro. E’ vergognoso che da mesi il ministro Franceschini sia latitante, non dica nulla, non si esponga”. Il teatro deve riprendere vita, con tutte le precauzioni, i teatri e i teatranti devono sentirsi di nuovo vivi, vedere riaffermato quel posto che gli spetta, ben oltre le canzonette. Non è più tempo di panem et circenses, i miseri ristori e il  festival canterino della nostra epoca, non è più tempo di girare la faccia dall’altra parte. Altrimenti non sarà soltanto la morte del Teatro. La Commissione di Vigilanza ha convocato per domani martedì il direttore di Raiuno, Stefano Coletta, vedremo che avrà da dire e quali decisioni verranno prese.

Elio Rabbione