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No vax e libertà: prima il bene della Nazione

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Vengo letteralmente aggredito dai no Vax e dai loro accoliti perchè difendo le ragioni della vaccinazione di massa e il green – pass.

Solo così ritorneremo a godere delle nostre libertà che la pandemia ha ridotto e in alcuni casi annullato.

E’  una sensazione molto particolare  quella che provo:  mi suona strano essere accusato di intolleranza;  per uno come me che si è sempre battuto per la libertà e la tolleranza  ed ha subito l’intolleranza e la ghettizzazione proprio perchè libero , sembra quasi impossibile dover  leggere certe parole offensive e false. Ma la pandemia altera la  testa di molti, quei molti il cui comportamento irresponsabile porta alle restrizioni contro le quali gli stessi fanatici  scendono follemente in piazza, creando pericolosi assembramenti. E’  spesso gente piuttosto  ignorante che non sa nulla di storia e delle vaccinazioni che hanno salvato l’umanità. Basterebbe anche solo aver letto Manzoni che descrive la peste, ma questa gente non ha mai studiato nulla .Sono istintivi ,quasi  selvaggi ,  decisamente asociali, gente  che dovrebbe vivere in una selva  e non una comunità civile. L’art. 32 della Costituzione, a parere dei più illustri costituzionalisti, consente un trattamento sanitario forzato per ragioni di tutela della salute pubblica. Di fronte alla pandemia ci vogliono autodisciplina e civismo, due cose che sovente non ci sono. Il bene della Nazione , ricorderei alla destra , deve sempre prevalere La Nazione, la Patria, non il paese. Oggi la destra ha dimenticato il dovere di essere patrioti. I liberali veri hanno innato il senso dello Stato che il liberalismo risorgimentale ha creato cento sessant’anni fa. Sono anarchici senza saperlo . Il liberale Popper diceva che gli intolleranti non vanno tollerati. I fanatici che mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri non sono tollerabili in una libera democrazia in cui vale il rispetto dei diritti , ma anche quello dei doveri.  La libertà è responsabilità, altrimenti è licenza libertina ed anarcoide.
Io mi sono sottoposto a decine  di vaccinazioni quando ero bambino e durante i miei numerosi viaggi all’estero che lo imponevano in modo tassativo.
Oggi siamo in guerra contro un virus che ha fatto milioni di morti e mi sento come un soldato con le stellette richiamato in trincea a combattere con la penna per convincere alla responsabilità  e per  rintuzzare le bestialità che leggo. La pandemia ci ha resi peggiori , molto peggiori . Oltre un anno fa richiamavo il detto di Hobbes tratto da Plauto  Homo homini lupus. Ci stiamo  purtroppo arrivando. Stanno seminando la discordia sociale, seminando la paura del tutto fuori luogo di poter perdere la libertà. La vita e la libertà sono a volte due opzioni antitetiche che l’uomo si trova costretto a fare. “Libertà va cercando ch’e’ si’cara come sa chi per lei vita rifiuta“, come scrive Dante. La vita senza libertà non è meritevole di essere vissuta .In alcune occasioni storiche è richiesto agli uomini non banali il sacrificio della vita per la libertà. Così sono nati gli eroi. Ma in questo contesto, pur molto  drammatico, non ci sono possibilità di  scelta di questo tipo che apparirebbero ridicole  perché la  scelta è  oggi una sola : salvare la vita e la libertà, non dando retta alle Cassandre che per motivi di abietto interesse elettorale creano  panico sui vaccini, avvalendosi dei social in modo irresponsabile. Io non credo che un uomo come Draghi possa attentare alle libertà costituzionali . L’ho temuto  più volte con il governo giallo – rosso precedente , ma oggi l’unico reale pericolo contro cui concentrare ogni sforzo è combattere il virus, salvando vite umane .

Papa Francesco e la Messa di Pio V

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

La questione della Messa in latino sembrava un argomento su cui non fosse più il caso di discutere. Appariva un tema non più divisivo all’interno del mondo cattolico, invece, all’improvviso, è intervenuto con fermezza Papa Francesco, ritenendo la celebrazione della Messa di Pio V motivo di scontro conflittuale  all’interno della Chiesa.

Il Pontefice ha revocato  con il Motu proprio “ Traditionis costodes “le concessioni dei suoi due predecessori relative ad una certa “liberalizzazione“ nella  celebrazione della Messa in Latino secondo il Messale  del 1962 ,precedente al Concilio Vaticano II. Tra le principali novità – scrive” Avvenire”, voce della CEI- viene affermato il ruolo esclusivo del vescovo nell’autorizzare l’uso del Messale precedente alla riforma liturgica voluta da Paolo VI.
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Il Pontefice è preoccupato che vere e proprie comunità di credenti vedano nella Messa in latino una  forma  di contestazione non solo del Concilio, ma addirittura della stessa autorità del Papa attuale, sollevando la questione della sua illegittimità. Esistono infatti sacerdoti e credenti che ritengono che l’unico  vero Papa sia Benedetto XVI. Si tratta di posizioni estreme volte a sconvolgere l’intera Chiesa in  nome di  un tradizionalismo ribelle  che va persino oltre quello del vescovo  Lefebvre che fu promotore  di un piccolo scisma contro il  Concilio e la nuova liturgia che non si limitava a tradurre nelle diverse lingue il Messale, ma cambiava anche radicalmente la Messa, partendo dall’altare dal quale essa veniva celebrata. Ci fu chi disse che la nuova liturgia ribaltava  una visione teocentrica ( con il sacerdote che dava le spalle ai fedeli e restava rivolto verso l’altare) in una visione antropocentrica in cui l’assemblea dei fedeli era coprotagonista del rito. Un tentativo, si disse, per riavviare un dialogo verso il mondo protestante. Non ho la cultura sufficiente in materia liturgica per dare dei giudizi, ma ricordo di aver vissuto  da studente liceale tutta la vicenda. La Messa di Pio V e del Concilio di Trento   fu archiviata come un’eredità della Controriforma. Un segno di rinnovamento che svecchiava la Chiesa di secoli privandola di un qualcosa che aveva sfidato il tempo ed era diventato quasi metastorico. La Chiesa cattolica romana preferì abbandonare o almeno ridimensionare la tradizione
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La  lingua latina venne considerata superata . La liturgia  tradizionale e il canto gregoriano che rappresentava un’attrattiva persino per l’ateo Massimo Mila (che ne  subiva il fascino non solo musicale  vennero sacrificati a favore di un rinnovamento che cancellò un’eredità che durava da secoli. Nel Latino sconosciuto ai più c’era il  fascino del mistero che è andato perduto. Forse la via obbligata della Chiesa era quella di aprirsi al presente e al futuro, guardando al terzo e al quarto mondo. La questione sociale è diventata anche per Chiesa   la questione centrale e l’attuale Papa, anche per le sue origini, appare assai concentrato sui temi sociali, sulla povertà evangelica, sulle disuguaglianze e sui temi ambientali. Questa stretta molto ferma sulla possibilità di celebrare la Messa di Pio V ha  sicuramente delle ragioni che vanno oltre la sua  celebrazione che alcuni hanno utilizzato come una clava contro l’attuale Pontefice, che ha risposto in modo duro e anche comprensibile, mettendo sotto il controllo dei vescovi la possibilità di celebrare la Messa precedente al Concilio. Se devo essere sincero, la Messa voluta da Paolo VI non mi ha mai entusiasmato e ricordo le discussioni animate con il  mio compagno di liceo Mauro Barrera (mancato da poco) che ne era entusiasta. Non credo casualmente Barrera divenne uno dei leader della contestazione studentesca nel ‘68 e seguitò  coerentemente per tutta la vita nella sua scelta progressista. Al contrario  ho sentito rimpianto per la vecchia Messa che ragazzino andavo a servire, come si usava in quell’epoca. Ricordo le solenni Messe cantate nelle grandi festività che davano il senso della festa religiosa oggi forse non più recuperabile.
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Capisco  che i nostalgici  siano considerati dei reazionari. Io che non mi sento affatto un reazionario, ma un liberale  sento il valore di una tradizione che viene da lontano. Vivere immersi nel presente a volte e’ cosa miserevole specie in tempi di nichilismo più o meno totale. Forse è anche la nostalgia della giovinezza a far rimpiangere l’antico. Oggi non avrebbe ragione l’umanista Lorenzo Valla a dire che i veri antichi siamo noi  perchè il presente senza radici che stiamo vivendo  ci priva dell’eredità del passato. Sarebbe  necessario ,a mio modo di vedere , recuperare il senso della storia e del passato e anche la Messa di Pio V costituisce un tassello importante, al di là del fatto che si creda o non si creda. Vivere nel presente può portare a grandi disastri . La storia consente un dialogo tra generazioni diversamente impossibile. Ed oggi il dialogo tra generazioni è diventato sempre più difficile persino all’interno della stessa Chiesa.

Così la scuola non risorge

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Il Covid e la Dad  – stando ai dati Invalsi – hanno portato  una parte di studenti che hanno acquisito la Maturità, ad ottenere una preparazione da III media. E consideriamo che la preparazione della scuola media italiana non è certo brillante ed esemplare . Ho scritto più volte che la Dad era una scelta obbligata, ma che andava impostata con serietà.

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I docenti italiani non erano pronti per la Dad e  una parte di studenti – va detto –  ha preso sottogamba una scuola senza  reali contatti con i docenti  e senza verifiche periodiche adeguate. Poche scuole hanno superato l’ostacolo che era oggettivamente quasi  insuperabile, malgrado l’impegno di presidi, docenti e personale non docente che, si spera, siano stati tutti vaccinati, ma neppure su questo ci sono certezze. Voglio citare come esemplare in senso positivo il liceo classico “Vittorio Alfieri “ di Torino e la sua preside che ha dichiarato ai giornali costantemente delle informazioni e delle prese di posizione che rivelano la sua onestà intellettuale e la sua competenza. Altrettanto posso dire per il liceo “Viesseux“ di Imperia e del suo capo d’Istituto. Io che mi sono sempre battuto per la serietà della scuola contro il facilismo permissivo e le promozioni di massa,  ero giunto all’amara  conclusione che sono meglio degli asini vivi che dei sapientoni morti. Anche durante la Seconda Guerra Mondiale si ebbero conseguenze nefaste sulla scuola. Ogni vicenda va comparata e storicizzata.

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Quindi non mi scandalizzo anche se  denuncio e ho denunciato le carenze del ministro attuale e le gravissime responsabilità della signora Azzolina e del commissario Arcuri che ,insieme al non potenziamento dei trasporti, provocarono il disastro che sappiamo. Il nuovo ministro Bianchi  ha investito nel progetto della scuola aperta d’estate somme non indifferenti. Un’idea sicuramente  positiva soprattutto se volta a tentare di colmare le lacune ereditate da un anno che ha avuto una certa regolarità solo a partire da aprile. Da quanto si apprende i fondi sono andati solo ad alcuni istituti e non ad altri in base a criteri che non voglio discutere, anche se appaiono non sempre accettabili  come quello della perifericità delle scuole come elemento preferenziale.

Il progetto era finalizzato al recupero delle competenze relazionali oltre che disciplinari degli studenti. Sicuramente la scuola non più in presenza ha determinato delle carenze nella socializzazione tra allievi. Leggendo però come sono stati utilizzati i fondi  da alcune scuole, mi sembra che le competenze disciplinari siano state sacrificate alla socializzazione. Un preside ,dopo aver sciorinato tutte le iniziative promosse, ha dichiarato che la sua  scuola non intendeva diventare un oratorio. Excusatio non petita, dicevano i latini, accusatio manifesta. Le lezioni di yoga e le camminate in collina sono solo un esempio. Poche scuole hanno centrato l’obiettivo del recupero disciplinare. I licei classici si sono distinti ancora una volta per la serietà. E il Liceo Alfieri di Torino che di fatto non ha avuto finanziamenti, ha puntato sul recupero didattico in modo adeguato. Il fine della scuola non è socializzare, ma istruire. La socializzazione non è un fine, ma una conseguenza della frequenza scolastica. Chi la pensa diversamente è ancora fermo alla scuola di campagna di don Milani. Oggi occorre riprendere l’invito, dimenticato dal ‘68 in poi,  di Gramsci: ” Istruitevi  perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.
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I fratelli Garrone tra eroismo e umanità. La mostra a Vercelli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Quando, dopo la laurea, i miei rapporti con Alessandro Galante Garrone mio  indimenticabile docente di Storia del Risorgimento e per tanti anni mia stella polare,  divennero meno formali -anche se la nostra frequentazione risaliva al 1968 quando nacque il Centro Pannunzio e alla comune amicizia con Mario Soldati e con Leo Valiani-ci capitò a cena  al “Cambio“, in occasione del conferimento a Spadolini nel  1982  del Premio “Pannunzio” di cui Galante Garrone tesse’ le lodi, di parlare di un argomento molto speciale.

Il Maestro, rivolgendosi all’ex allievo, in modo sorprendente, mi disse più o meno queste parole : io colsi in  te un amore per il Risorgimento che in un giovane d’oggi appare inspiegabile ed è molto raro  e che fa quasi pensare a quello dei miei due zii, i fratelli Garrone. Io lo ritenni un grande complimento  che ascoltò anche Spadolini e quando parlai il 20 settembre dello scorso anno a Palazzo Carignano (dove tanti anni fa presentammo insieme “Fiori rossi al Martinetto” di Valdo Fusi) per i centocinquant’anni della Breccia di Porta Pia, parlai di innamorati del Risorgimento rivolgendomi al pubblico presente. Non ritenni di ricordare quell’episodio lontano, ma quella espressione veniva dal ricordo di uno straordinario evento: il presidente del Consiglio repubblicano che dopo aver parlato al museo del Risorgimento, si siede al tavolo del ristorante al posto dove era solito pranzare Cavour  per ricevere il Premio Pannunzio appena istituito da Mario Soldati e da chi scrive.
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Ma quelle parole di Sandro (così volle che lo chiamassi e fu per me un grande onore) mi sono tornate alla mente quando sua figlia, la storica dell’arte Giovanna Galante Garrone, mi invitò a visitare la mostra inaugurata a Vercelli a metà giugno “DA UNA VITA ALL’ALTRA. I fratelli Garrone: eredità di affetti e di ideali dal fronte della Grande Guerra”, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre al Museo Leone. Solo in questi giorni sono stato a visitare la bella mostra  realizzata dal Museo Leone – vero fiore all’occhiello della cultura non solo vercellese -, che si è rivelata molto curata nell’allestimento e va dato atto dell’ottimo lavoro dei due curatori   Chiara Maraghini Garrone (che tra l’altro che ha catalogato il ricco fondo di lettere dei due fratelli)e Luca Brusotto direttore del Museo.  Essa rientra in un progetto di più ampio respiro: “ I fratelli Garrone e il loro epistolario: testimonianza di un percorso di libertà e giustizia“, sostenuto dalla Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni della Presidenza del  Consiglio dei Ministri. Non si può descrivere la mostra storico fotografica dedicata a questi due giovani patrioti, che sull’onda degli ideali risorgimentali partirono volontari nella Grande Guerra che sentirono come quarta guerra per l’ indipendenza e che si immolarono   Insieme il 14 dicembre  del 1917 durante la battaglia del Col della Berretta  che  segnava la ripresa dell’Esercito italiano dopo Caporetto. Giuseppe ( Pinotto) ed Eugenio( Neno )  Garrone  furono due personaggi davvero straordinari che si possono considerare come gli ultimi giovani del Risorgimento italiano che si compirà con Trento e Trieste italiane.Ottennero la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria con  motivazioni che vanno ben oltre le parole spesso retoriche usate nel linguaggio militare.
Giuseppe, nato il 10 novembre 1886  era un giovane magistrato, Eugenio ,nato il 19 ottobre 1888, era un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione .Erano molto diversi tra loro, il primo legato ad un atteggiamento molto razionale, il secondo emotivamente romantico.
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Le loro vite vengono ricostruite attraverso la mostra che espone le splendide fotografie che i due volontari scattarono al fronte. La loro famiglia  vercellese era imbevuta di forti ideali patriottici che erano vivi in quasi tutte le famiglie piemontesi che avevano vissuto da vicino il Risorgimento. Io ebbi due zii partiti volontari e caduti già nel 1915 e mio nonno, amico di Cesare Battisti e di Damiano Chiesa, che parti’  anche lui per un fronte ,quello albanese, in cui si moriva più di malaria che a causa dei combattimenti ,mi parlava spesso della Grande Guerra. L’interventismo non fu solo quello di Gabriele D’Annunzio e dell’ex socialista Mussolini ,ma ebbe anche un volto risorgimentale e democratico e liberale  con Salvemini, Calamandrei, Parri, Bissolati, Omodeo ed altri. Un altro mio congiunto, il deputato liberale Marcello Soleri , giolittiano e quindi  non favorevole all’intervento in guerra, indosso ‘ la divisa di alpino e parti’ per il fronte dove venne ferito e decorato di Medaglia d’Argento. Mentre visitavo la mostra mi tornavano in mente i miei ricordi famigliari che sicuramente  sono la causa prima che mi portò sempre a sentirmi patriota  anche se non sono  confrontabili con quelli delle famiglie Garrone e Galante .Ricordo che una delle mie prime letture già al liceo fu “Difesa del Risorgimento“ di Adolfo Omodeo , un vademecum ideale che mi ha accompagnato nella mia vita di studioso. La prima a farmi conoscere da vicino – al di là di mio nonno – i due “ dioscuri” fu Virginia Galante Garrone che ripubblico ‘ nel 1974 da Garzanti “ Giuseppe ed Eugenio Garrone, lettere e diari di guerra” con un ampio saggio del fratello Sandro. Nel catalogo risalta un lucido saggio del magistrato e storico Paolo Borgna ,il biografo di Sandro Galante Garrone che, prima di dedicarsi all’insegnamento universitario ,fu anche lui magistrato. Borgna affronta un tema scottante . Il patriottismo che portò i due fratelli a manifestare per l’intervento nel maggio 1915 e a decidere di partire per il fronte ,dove avrebbe condotto i due giovani se fossero sopravvissuti alla guerra? Il fascismo cercò di annetterseli e il busto di Pinotto inaugurato nel 1936  dal Guardasigilli fascista  Solmi nel Palazzo di Giustizia di Roma fu un omaggio ad un magistrato eroico ,ma anche un tentativo di strumentalizzarne il ricordo.
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Cosa avrebbero fatto i fratelli Garrone di fronte alla ostilità violenta  dei socialisti nei confronti dei reduci negli anni del dopoguerra italiano quando si giunse quasi alla guerra civile tra fascisti e socialisti? Cosa avrebbero fatto di fronte alla Marcia su Roma a cui si opposero anche uomini come Carlo Delcroix? Cosa avrebbero fatto di fronte al delitto Matteotti? E’ legittimo pensare secondo Borgna – e io concordo con lui – che il delitto Matteotti avrebbe rappresentato un campanello d’allarme decisivo anche se un uomo come Benedetto Croce dovette attendere il 1925 per una scelta antifascista decisa con il manifesto degli intellettuali di risposta a quello di Gentile. Furono anni travagliati e confusi che portarono molti a sottovalutare Mussolini. Ernesto Rossi, ad esempio, che si fece anni di galera per antifascismo, fu collaboratore del “ Popolo d’Italia” il quotidiano diretto dal futuro duce. Borgna si spinge ad immaginare i due  fratelli  dopo l’8 settembre 1943 , a “dirigere la lotta contro il tedesco invasore“. E anche qui convengo con lui ,anche se ritengo difficile pensarli sulle posizioni che caratterizzarono i nipoti Sandro e Carlo, i quali furono impegnati in “ Giustizia e libertà”. Molto opportunamente Borgna evidenzia come sarebbe errato appropriarsi dell’eredità dei due fratelli in senso diametralmente opposto a quello del ministro fascista Solmi .
Ipotizzare cosa avrebbero fatto  sarebbe un’operazione storicamente scorretta. Ma credo che non sarebbero rimasti nella zona grigia . Tra l’altro molti resistenti scelsero di andare in montagna per fedeltà al giuramento prestato come il maggiore degli Alpini Enrico Martini Mauri che aveva combattuto eroicamente ad El Alamein. In questa lunga riflessione non ho accennato all’aspetto umano dei due fratelli ,alla nobiltà dei loro sentimenti, al loro attaccamento alla famiglia ,al fatto che Pinotto muore tra le braccia dell’altro fratello che lo veglia tutta la notte. Un episodio che fa pensare agli eroi antichi. Andrebbe anche sottolineato il loro modo umanamente molto significativo di trattare i propri soldati condividendone le sofferenze e i disagi ,un qualcosa di diametralmente opposto al rigorismo cieco di Cadorna. L’atrocità della guerra di posizione li  aveva resi consapevoli della violenza estrema di un conflitto mondiale che stravolse la storia .Eugenio scrisse nel 1917 ai genitori :” Perché si devono odiare a tal punto gli uomini. Perché ?” Una domanda che ci porta a pensare che il nefasto mito guerrafondaio del fascismo avrebbe trovato i due fratelli schierati dall’altra parte perché la loro idea di Nazione ,per dirla con Chabod, era nutrita di una profonda umanità che si coglie in tutte le  loro lettere. Io li immagino giovanissimi lettori del “Cuore“ di De Amicis che contribuì a formare intere generazioni di giovani  che si ritrovarono nelle trincee della Grande Guerra.

La scritta Tito e l’amicizia italo-slovena

Il commento di Pier Franco Quaglieni

Sul versante che guarda verso l’Italia del Monte Sabotino (legato alla storia della Grande Guerra e alle battaglie dell’Isonzo e del Carso ), oggi in territorio sloveno, continua a campeggiare la scritta TITO lunga 100 metri con lettere di 25 metri.

 

Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce,  Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.

Del Boca, il non accademico che combattè il colonialismo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Ho avuto qualche polemica con Angelo Del Boca in passato, ma non ho mai disconosciuto la sua buonafede. La morte del giornalista e saggista ha portato a riscrivere del   colonialismo fascista di cui  egli è  stato uno dei massimi studiosi, anche se Del Boca non era neppure laureato

Io ho una naturale diffidenza per chi non abbia appreso un metodo storico sicuro con studi regolari, ma è l’abitudine di tanti giornalisti quella di avventurarsi nei cammini impervi  della storia che spesso viene semplificata nel tentativo di divulgarla ai non addetti: un lavoro sicuramente utile ,ma non sempre rigoroso. Per altri versi, gli storici cadono spesso nel difetto di scrivere  per i colleghi ,usando linguaggi da addetti ai lavori. Dalla sua opera noi comprendiamo gli aspetti nefasti del colonialismo italiano che, secondo De Boca, fu pari a quello inglese, portoghese, francese ecc. Egli vede nel colonialismo una sorta di male assoluto, concetto che gli storici non accettano perché tendono sempre a relativizzare gli eventi .Il male assoluto in campo storiografico non esiste. Il colonialismo mastodontico inglese non è neppure confrontabile con quello italiano che arrivò alla fine dell’800,quando le grandi potenze europee si erano impossessate da secoli di intere parti dei diversi continenti mondiali. Montanelli polemizzo’ con lui da giornalista e da reduce dalle campagna d’Etiopia ed ebbe torto, nel negare l’uso dei gas a cui Graziani fece  effettivamente ricorso. Del Boca cavallerescamente difese Montanelli, quando il suo monumento milanese venne imbrattato. Gli studi della storica Federica Saini Fasanotti in “Etiopia :1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell’ Esercito italiano “ mettono in rilievo aspetti che non vennero abbastanza considerati da Del Boca, innanzi tutto l’opera pacificatrice in Etiopia del Vice Re Amedeo di Savoia – Aosta ,opera interrotta dallo scoppio della guerra. Il Duca d’Aosta non va confuso con altri nella maniera più assoluta. Se ci furono atrocità italiane , ci furono anche atrocità indicibili dei guerriglieri etiopi nei  confronti dei soldati italiani fatti prigionieri  che vennero evirati  . All’epoca della conquista dell’ Impero vigeva in Etiopia un regime schiavista che non può essere ignorato. Può sembrare paradossale che sia stato il regime fascista ad abolire la schiavitù, ,ma la storia è quella, piaccia o non piaccia. La retorica fascista ha nascosto gli aspetti inconfessabili di quella campagna coloniale, ma è indubbio che gli italiani portarono anche nelle colonie scuole, strade, ospedali: un fatto indiscutibile. A Tripoli quel poco di significativo nel campo degli edifici pubblici esistenti  prima della fine  drammatica del regime di Gheddafi ,era stato costruito dagli Italiani, quando Italo Balbo fu Governatore. La figura di Balbo in Libia è molto diversa da quella del Quadrumviro  della Marcia su Roma e del capo dello  squadrismo  di Ferrara. Sia reso onore al giornalista del Boca per la coerenza della sua opera . A volte si e’ permesso persino di polemizzare con uno storico come Renzo De Felice che era oggettivamente a lui molto superiore. Si è accusato De Felice di essersi via via “innamorato” di Mussolini nel corso dei suoi studi trentennali sul duce, sarebbe facile dire che anche Del Boca che dedicò due libri al Negus e a Gheddafi, si fosse “ innamorato“ di un certo mondo africano. Io ho conosciuto ex combattenti delle guerre coloniali e   profughi d’Africa  penso agli Italiani cacciati brutalmente  da Gheddafi dalla Libia) che non stimarono (uso un eufemismo) Del Boca, che non ha considerato l’altera pars ,come dovrebbero fare  sempre gli storici. Ma di fronte alla sua morte provo grande  rispetto perché credo nella buona fede delle sue battaglie, un concetto che  però non coincide con quello degli storici che non debbono intraprendere battaglie, ma limitarsi a raccontare e valutare i fatti con animo sgombro da pregiudizi. Gheddafi, ad esempio, fu un ferocissimo  dittatore,  direi indifendibile, se  non ricorrendo al machiavellismo che vede in lui chi seppe trattenere le tribù sanguinarie che si contesero la Libia dopo la sua morte. Anche il periodo coloniale italiano, che certo non intendo esaltare, ebbe a che fare con tribù libiche ancora più feroci. Il senso della storia ci impone di ricordarlo . Del Boca però ha svelato verità scomode  che gli storici accademici  prima di lui  ci avevano nascosto o avevano omesso di indagare .Appare incredibile che Giorgio Rochat abbia dovuto attendere le ricerche di Del Boca che lascia un vuoto difficilmente colmabile. Non fu certamente  uno storico nel senso della storiografia di Chabod, ma fu  sicuramente un uomo intellettualmente onesto che merita considerazione anche da parte di chi è lontano dalle sue idee.
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Libertà, vaccino e tutela della salute

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Un gruppo di medici che non vogliono vaccinarsi, sta cercando di invocare dei presunti diritti costituzionali di libertà, per non sottoporsi alla vaccinazione. Una vera e propria ribellione, palese e ingiustificabile  provocazione che rivela la irresponsabilità di una minoranza di medici, a fronte dello spirito di sacrificio  e, a volte, anche dell’eroismo del personale medico e paramedico italiano.

In una libera democrazia, di fronte ad una emergenza epocale come una pandemia mondiale , non possono essere accettati  atteggiamenti che ledono la libertà e la salute pubblica  e possono compromettere la stessa  vita di altri cittadini. Lo sforzo ciclopico che lo Stato sta facendo per garantire la vaccinazione a tutti, non può essere compromesso dai pregiudizi antiscientifici di persone che hanno scelto di lavorare in campo medico. Il Governo deve porre l’aut – aut  della immediata sospensione dal servizio e dallo stipendio e in casi estremi del licenziamento. La vaccinazioni obbligatorie hanno fatto la differenza nella qualità della vita in passato e chi ha scoperto i vaccini viene considerato tra i benefattori dell’Umanità come Jenner, Pasteur, Sabin. Ma il cattivo esempio di medici che rifiutano il vaccino rappresenta anche un pessimo esempio che andrebbe sanzionato socialmente e penalmente perché causa diretta di nuove infezioni. Ci sono anche semplici cittadini che stanno evitando di sottoporsi alla vaccinazione in base a pregiudizi che non hanno valide giustificazioni. In uno Stato democratico il cittadino non può rivendicare una libertà che in effetti è licenza e che costituisce un’aggressione agli altri cittadini. Non confondiamo la libertà che deve sempre essere responsabile, con il libertinaggio anarcoide. Il liberalismo si fonda sui valori dello Stato che esso stesso ha contribuito a creare nel corso dei secoli, ponendo dei limiti ai suoi poteri. Porre dei limiti ai poteri dello Stato è da liberali, negare lo Stato è proprio dell’anarchia, idea tra utopia e violenza, che ha nulla di liberale. Chi ritiene che ciascuno possa comportarsi come meglio ritiene di fronte ad una pandemia , non può essere tollerato perché attenta alla vita degli altri e alla sua stessa esistenza. In una società nichilista che ha fatto tabula rasa anche dei valori solidali, va riaffermato con forza il dovere morale e civile di vaccinarsi. Ma di fronte alle nuove difficoltà  e ai nuovi pericoli che si stanno profilando all’orizzonte, i cittadini che non adempiono  a questo dovere, vanno almeno sanzionati con forti multe, se non con provvedimenti più gravi. Occorre un deterrente per chi ha smarrito la ragione e si comporta in modo incivile come vivesse in una foresta di barbari. Su questi punti occorrono chiarezza e fermezza assoluta da parte di  chi ci governa. I Decreti del Presidente del Consiglio Conte che marginalizzavano il Parlamento , potevano sollevare dei dubbi di legittimità costituzionale ,ma di fronte alle vaccinazioni che non violano nessuna libertà e salvano vite umane, non ci possono essere debolezze di sorta .I miopi egoismi individuali non sono segni di libertà, sono l’esatto contrario anche solo del semplice, comune  buonsenso. Direi che in primis è dovere di noi cittadini far opera di convinzione con chi si sta sottraendo più o meno inconsapevolmente a un dovere che è anche un diritto. Chi spera nell’immunità di gregge ,più che pecora, si sta rivelando un lupo pericoloso da cui difenderci. Anche se negli Usa – è notizia recente – stanno morendo proprio i non vaccinati.

I fatti di Genova venti anni dopo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Concita De Gregorio, già direttore de l’”Unità“, ha scritto un pezzo su “La Stampa“- in cui rivela una indiscussa bravura nello scrivere, pari solo alla sua  innata faziosità – dedicato ai fatti di Genova del luglio 2001 in occasione del G8.

Sono passati vent’anni, c’è’ stato un processo in cui sono stati condannati i responsabili delle violenze che  subirono i manifestanti alla Caserma “Diaz”, violenze ingiustificabili che fanno orrore. Limitarsi di fatto a parlare di  quelle violenze , dimenticando che Genova venne messa a ferro e  fuoco dai black- blok e dai centri sociali arrivati da tutta Italia, appare però vistosamente come una mistificazione della realtà. Addossare al governo Berlusconi delle colpe è un altro segno non di buona fede anche  se il ministro degli interni Scajola non si rivelò una cima. Sostenere che sia stata la polizia  la regista occulta di una vera e propria insurrezione, è un falso storico fondato su una frase di Giorgio Bocca. La violenza eversiva e distruttiva  dell’estremismo di sinistra solo i ciechi non riuscirono e non riescono  a vederla. Mettere come icona di quel luglio genovese la foto di Carlo Giuliani che tentò di ammazzare  un carabiniere, lanciandogli addosso un estintore, è un’altra scelta scellerata perché in Giuliani si vuole vedere solo la vittima e non l’eversore violento. A Genova ci fu chi tentò di celebrarlo, sua madre venne eletta senatrice  di Rifondazione comunista che dedicò al figlio la sede del  suo gruppo parlamentare al Senato della Repubblica. Il carabiniere ventenne  Mario Placanica che sparò per legittima difesa – come venne riconosciuto in tutte le sedi giudiziarie anche internazionali – fu oggetto di un linciaggio intollerabile anche a livello mediatico  ed ancora oggi la De Gregorio lo cita in modo  non veritiero come fosse stato un pistolero assassino. Io sono anche disposto ad aver pietà per il giovane Giuliani che aveva alle spalle una vita travagliata, ma esigerei una ricostruzione storica non emotiva e unilaterale  che racconti la verità complessiva dei fatti. Le vulgate di allora  di don  Gallo e di Franca Rame oggi non possono reggere. Don   Andrea Gallo lo conobbi qualche anno dopo in treno da Genova a Roma. Dopo poco ci mettemmo a parlare e devo riconoscere che, al di là delle sue idee, era una persona  molto simpatica. Parlammo anche di Don Bosco perché originariamente era stato salesiano. Provai ad avviare  inopportunamente un discorso sul giovane Giuliani così tenacemente difeso dal “prete degli ultimi“, così caro a De Andre’.  Ma subito si irrigidì  all’improvviso come lo avessi colpito in modo proditorio e il nostro dialogo si interruppe . Mi ero permesso di dirgli che io stavo dalla parte del carabiniere. Anche oggi stare da quella parte sembra ancora  difficile. E sono trascorsi vent’anni. Vedremo cosa scriveranno  e diranno attorno al 18 /20 luglio, quando ci sarà l’anniversario di quei fatti che portarono alla ribalta personaggi come tal Vittorio Agnoletto che sicuramente verrà intervistato come un reduce di quelle epiche e dannate  giornate genovesi.

Autostrada da incubo tra Torino e il Ponente Ligure

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Andare da Torino verso il Ponente ligure e viceversa sta diventando un’impresa mai vista. Anche nei giorni feriali. C’è da immaginare cosa succede nei fine settimana.

La percorrenza in autostrada tra Albenga e Finale Ligure ha richiesto ieri 30 giugno, nel tardo pomeriggio, due ore  con una coda interminabile  in molti tratti un galleria. Non è la prima volta perché ormai i tempi sono imprevedibili  con ricadute di intasamenti anche sull’Aurelia. Una situazione da terzo mondo in via di sottosviluppo che colpisce residenti, operatori dei trasporti, turisti. La Società autostrade ha delle responsabilità  gravi in presenza di tariffe molto alte. La situazione di ieri  – 30 giugno – non avrebbe consentito il passaggio di un mezzo di soccorso o di un’autombulanza per Pietra ligure. Sindaci e presidenti della Regione e della Provincia  debbono intervenire per porre un qualche rimedio ad una programmazione di lavori quanto meno intempestiva. Anche i rapporti con il Piemonte sono compromessi  perché i lavori per la strada del San Bernardino ostacolano la viabilità. E quella sarebbe l’unica alternativa all’autostrada. In ogni caso due ore per pochi chilometri sono davvero troppe. Significa di fatto spezzare in due la Liguria e scollegarla dal Piemonte . La situazione è aggravata dal fatto che in altre parti dell’autostrada la si registrano altri intoppi. Pensare di affrontare luglio e agosto in queste condizioni risulta  non accettabile.

Addio a Lelia Cracco Ruggini, grande donna e grande studiosa

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La morte della professoressa Lelia Cracco Ruggini, professore emerito dell’Ateneo torinese, dove ha insegnato storia romana e storia greca, è passata nell’indifferenza.

La famiglia stessa ha scelto un necrologio austero privo di titoli che ha impedito, se non a pochi, di collegare quel nome a quello di una grande donna di scienza meritevole di un adeguato ricordo. Per chi ha frequentato la Facoltà di Lettere e Filosofia tra il 1968 al 1975, la Cracco Ruggini è stata un mito.  Io la ricordo negli ultimi anni Sessanta tenere delle splendide lezioni di storia romana in una università devastata dalla contestazione. Con lei scompare l’ ultima esponente di spicco di un periodo storico della nostra Università e della Facoltà di Lettere in particolare che ebbe tra i suoi docenti Franco Venturi, Giovanni Tabacco, Giorgio Gullini, Giovanni Getto, Antonio Maddalena,  Aldo Garosci, Aldo Bertini, Oscar Botto tanto per citare qualche nome. Una Facoltà che dopo di loro non ebbe più maestri, ma solo professori. I suoi trecento lavori parlano per lei. Era accademica dei Lincei e delle Scienze, una studiosa di livello internazionale che aveva mosso i primi passi all’Istituto italiano di Studi storici di Napoli fondato da Benedetto Croce e diretto da Federico Chabod .Dalle aule di Palazzo Filomarino passo’ il meglio della storiografia italiana, da Romeo a De Felice. Io avevo scelto la Storia del Risorgimento e successivamente la Storia contemporanea a cui mi sono dedicato e continuo ad occuparmi. Gli studi di storia antica mi interessavano poco. Ma ricordo ancora il valore scientifico e la passione che si potevano cogliere nelle lezioni della Cracco Ruggini.
Vorrei scrivere di più su di Lei, ma non ho la competenza per farlo. Mi auguro che ci sia chi voglia ricordare una grande donna e una grande studiosa, forse l’unica donna di quella gloriosa Facoltà di Lettere del 1968 con preside il grande archeologo Gullini, che ha lasciato un segno indelebile, mai più raggiunto.