In attesa degli Oscar “La forma dell’acqua” di Guillermo Del Toro

I sentimenti del mostro, un omaggio al cinema

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

A Baltimora, nel 1962 – sono gli anni della Guerra Fredda, è l’anno della crisi di Cuba e l’anno successivo alla Baia dei Porci -, in un piccolo appartamento che confina attraverso il pavimento con un vasto cinema dalle architetture déco, pressoché vuoto, abita in solitario trantran, una giornata eguale all’altra, una giovane donna, Elisa Esposito, affetta da mutismo (ma ci sente benissimo) procuratole fin da bambina con la recisione delle corde vocali. Nell’alloggio accanto Giles, un disegnatore omosessuale, certo non più giovanissimo, a cui lei prodiga visite e premure e colazioni, sul posto di lavoro, un laboratorio governativo dove è addetta alle pulizie, Zelda, un’afroamericana sempre con le antenne dritte, vittima di un marito fannullone e iroso: sono i suoi unici amici. Elisa scopre un giorno, in questo avamposto costruito a contrastare con esperimenti le ricerche e la presenza inquietante del mondo sovietico, un essere anfibio, mezzo pesce e mezzo uomo, un “mostro” scovato tra le acque dell’Amazzonia e lì venerato, qui tenuto prigioniero e incatenato in una luminosa gabbia di vetro. Le premure che riversa su Giles, Elisa le trasporta verso l’essere sconosciuto, grazie al linguaggio dei segni, e a suon di uova, di musiche jazz e di canzoni dell’epoca instaura un rapporto fatto di affetto e di carnalità allo stesso tempo. Ma il tempo scorre, la vivisezione che le alte sfere comandano è ormai decisa, il crudele colonnello della base ha ordini ben precisi. Del progressivo innamoramento, degli inseguimenti e dell’epilogo di questa favola inventata dal visionario Guillermo del Toro (La spina del diavolo, Il labirinto del fauno) non diremo. Ricco del Leone d’oro veneziano e delle tredici candidature agli Oscar prossimi (miglior film e miglior regia, miglior interprete femminile come attore e attrice non protagonisti, colonna sonora e fotografia e montaggio, per tralasciare gli altri), La forma dell’acqua spazia con estrema padronanza nei più diversi generi cinematografici, saggia l’horror e sconfina nel musical, afferra il mélo e viaggia spedito nel fiabesco e oltre, si muove con appropriati, a tratti vorticosi movimenti della machina da presa, un grande inchino al cinema, settima arte con l’omaggio e l’ispirazione al

Mostro della laguna nera di Arnold che tanto colpì l’autore, ragazzino di dieci anni, e luogo dove sullo schermo scorrono le immagini di un vecchio film del ’60 di Koster, La storia di Ruth. Nella domanda che scorre lungo tutta la durata del film, ovvero chi sia il vero mostro, tra le opprimenti scenografie, ma pure capaci di liberare, liquide e no, di Paul Austerberry, Del Toro regala grazie a una sceneggiatura perfetta una love story inaspettata, non rinnega la lacrima, spreme con il superlativo commento musicale di Alexandre Desplat ogni sentimento, cerca a tutti i costi lo spiraglio dell’happy end, lavora di cesello sul rapporto tra la Donna e la Bestia (a lui non interessa il discorso della Bella e la Bestia, la scelta dell’accorata e bravissima Sally Hawkins è quanto mai significativa), rapporto che trascorre attraverso gli occhi prima e il gesto poi – la parola è esclusa ad entrambi -, mette su un innocente piedistallo la cultura del diverso. Oltre che dalla protagonista, è aiutato con concreta partecipazione, con un’immedesimazione che va ben oltre la buona prova interpretativa, da un gruppo d’attori che sono da citare in blocco, da Richard Jenkins a Doug Jones (la creatura da intravedere all’interno della sua armatura verdastra), da Octavia Spencer a Michael Stuhlbarg (il padre nel film di Guadagnino, un altro oscarizzabile) al perfetto Michael Shannon, anima inquieta e perfida nella sua voglia d’annientamento. Una storia, e un film, grandiosa nella sua particolare semplicità, che cattura i cuori senza troppa fatica: che il prossimo 4 marzo dovrà vedersela con quell’eccellenza cinematografica che per chi scrive queste note continuano a essere i Tre manifesti a Ebbing, Missouri. La mia scelta sta lì, nella desolazione violenta di quel paese e con tutta la rabbia di Frances McDormand. A meno che ci si debba ravvedere con sonore sorprese ancora in arrivo.