Il puntaspilli- Pagina 8

Il te’ di Eleonor

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

La settimana scorsa si è celebrata la giornata contro la violenza sulle donne. 

 

Parlarne oggi per me è un modo per ricordare come il problema andrebbe affrontato quotidianamente e non solo il giorno a lui riservato.

 

Il fenomeno non è, tragicamente, solo italiano anche se da noi è maggiore il numero di delitti commessi dal partner o dell’ex partner, quest’anno il 58% (63 su 109 totali) contro il 29% in Europa (dati del 2017).

 

Il nostro Paese, peraltro, registra una incidenza di questi odiosi soprusi simile alla media europea ed un minore tasso di femminicidi (in percentuale della popolazione).

 

Questo naturalmente non è di nessun conforto ma ci ribadisce come il fenomeno sia diffuso in tutto il mondo (ed in Europa si registra una minore incidenza rispetto agli altri continenti).

 

La riduzione della violenza fisica contro le donne rimane un imperativo morale ma, come analista dei fenomeni economici, non posso anche sottolineare il fardello che questa rappresenta per il nostro sistema.

 

Le discriminazioni, una delle declinazioni della violenza sull’altra metà del cielo, e la mancanza di attenzioni e tutele per lo svolgimento dell’attività lavorativa hanno provocato una ridotta partecipazione femminile al mondo del lavoro.

Avere un lavoro significa, tra l’altro, potersi sottrarre al potere impositivo di uomini violenti ed essere in grado di proteggere la propria famiglia (e crescere i figli) dai loro soprusi.

Negli Stati Uniti il costo della sola violenza sulle donne è stimato in 500 miliardi di dollari all’anno (il 2,5% del PIL).

Una stima è stata fatta per il nostro Paese dall’ EIGE, l’ Istituto europeo per l’Uguaglianza di Genere, quantificando il danno in 26 miliardi di euro (l’1,3% del nostro PIL).

 

A questo andrebbe aggiunto il contributo che le donne potrebbero fornire in presenza di pari opportunità, stimato in circa l’1% del PIL mondiale l’anno.

Per comprendere questi dati e le potenzialità economiche inespresse basterebbe ricordare che attualmente in Italia il 77% degli uomini hanno una occupazione retribuita contro il solo 56% delle donne.

 

Maggiori possibilità di occupazione significherebbero, quindi, una maggiore crescita economica (e sociale) aiutandoci ad uscire da una situazione che negli ultimi anni ha aggiunto alle nostre ataviche debolezze (burocrazia e scarsa efficienza del settore pubblico in primis) la crisi pandemica ancora in corso.

 

D’altronde sappiamo molto bene come i momenti più difficili e complicati non hanno mai spaventato le nostre madri (nonne, mogli, amiche, colleghe…).

 

Ricordiamocelo quindi ogni giorno, affinché si possa finalmente smettere di dovere parlare di uomini che considerano le donne come delle bustine di tè usate e da gettare con disprezzo nella spazzatura.

 

Questo perché, per parafrasare Eleonor Roosvelt, la donna è sì come una bustina del tè ma solo perché non si può dire quanto è forte fino a che non la si mette nell’acqua bollente!

 

Il Ringraziamento

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina

 

Nei prossimi giorni, giovedì 25 novembre, gli americani festeggeranno, come ogni ultimo giovedì di novembre, l’annuale ricorrenza del Ringraziamento.  

Le origini vengono fatte risalire ad una celebrazione dei raccolti che, nel 1621, fu condivisa tra i coloni inglesi (i “Pellegrini”) di Plymouth e la tribù indigena dei Wampanoag.

L’altro protagonista della festa, l’unico a non esprimere alcun ringraziamento,  è il tacchino, che, secondo la tradizione, fece la sua comparsa sulla tavola imbandita sin dalle origini.

Gli storici raccontano che il primo contatto tra i 50 europei e una novantina di “indiani” ebbe luogo alle porte dell’insediamento fu fonte di forti tensioni ma che alla fine i due gruppi decisero di socializzare condividendo il cibo (costituito per lo più dal pollame) che si erano procacciato nelle vicinanze dell’ accampamento.

Il risultato dell’incontro di civiltà fu un trattato che durò fino al conflitto di re Filippo, nel 1675-76, quando alcune centinaia di coloni e migliaia di indigeni persero la vita durante i combattimenti.

La celebrazione del Ringraziamento divenne dapprima una consuetudine nel New England, teatro del primo banchetto, per poi diventare una festa nazionale, sancita dal Congresso ma soggetta alla volontà dei singoli Stati, nel 1789.

Fu poi l’editrice della popolare rivista Godey’s Lady’s Book, Sarah Josepha Hale, che promosse una campagna per l’adozione di una festa nazionale del Ringraziamento che fu alla fine proclamata dal Presidente Abramo Lincoln nel 1863, in piena guerra civile.

I giorni successivi al Thanksgiving vennero presto dedicati agli acquisti ed iniziarono ad essere celebrati da una annuale sfilata, la Macy’s Thanksgiving Day Parade a New York, sin dal 1924.

Solo parecchi anni dopo, però, a Filadelfia all’inizio degli anni 60, la festività divenne il simbolo del consumismo arrivando a identificare l’inizio, il giorno successivo al taglio del tacchino, dello shopping natalizio.

A quegli anni va quindi fatto risalire il primo “Venerdì nero” (“Black Friday”).

Fino ad allora il termine aveva evocato cupi ricordi, come il crollo dei mercati finanziari del 24 settembre del 1869 (un venerdì, ovviamente).

La nuova accezione designava, all’inizio, il traffico caotico e gli intasamenti che si erano creati nel centro di Filadelfia per il sovrapporsi della folla che accorreva all’incontro di football tra esercito e marina con quella che affollava i grandi magazzini per lo shopping.

Prevalse in seguito la logica commerciale che vede nel venerdì di fine novembre il primo giorno nel quale i conti incominciano a tornare ed i ricavi (voce scritta in nero nei bilanci) dei centri commerciali e dei grandi magazzini iniziano finalmente a superare i costi (tradizionalmente indicati in rosso).

Quest’anno gli analisti economici attendono con particolare trepidazione questa ricorrenza.

Una nuova ondata pandemica è in corso creando una comprensibile incertezza.

Inoltre, i prezzi (ah, l’inflazione) renderanno più cara la tavola degli americani: il costo della carne di tacchino, ad esempio, è aumentato del 24% rispetto a quello messo in tavola nel 2020.

Ciononostante le attese (stime della National Retail Federation) sono di una crescita di 2 milioni del numero delle persone che effettueranno i loro acquisti recandosi direttamente nei negozi (non accontentandosi di ordinare da casa, sedute davanti al cellulare o al proprio computer).

Saranno certamente giornate frenetiche che daranno indicazioni importanti (sebbene non certo definitive) sulla capacità dell’economia americana di fronteggiare la nuova salita delle infezioni.

Le vittime del Covid negli Stati Uniti sono state quest’anno circa 771.000, il doppio di quelle del 2020, e un vero ritorno alla normalità dovrà accompagnarsi ad un rafforzamento della capacità di curare una malattia che, con le sue continue variazioni, non sparirà tanto presto dalle nostre città.

Come altre tradizioni anglosassoni anche quella del Black Friday sta  entrando da qualche anno nelle nostre abitudini ed anche nella vecchia Europa sarà perciò interessante verificare la capacità di tenuta dei consumi (che dovranno fronteggiare il vento contrario delle chiusure forzate in alcuni Paesi, come l’Austria), in vista di un auspicabile accelerazione a partire dalla prossima primavera (con la messa in campo dei tanti piani di sviluppo in corso di approvazione).

Le difficoltà non vanno sottovalutate ma una maggiore consapevolezza dei rischi e l’affinamento delle potenziali contromisure dovrebbero consentire di proseguire la ripresa economica e di celebrarla, il prossimo anno, con un degno (giorno del) ringraziamento.

Almeno tu nel metaverso

IL PUNTASPILLI  / Di Luca Martina

 

I deludenti risultati del COP26 sembrano dare ragione al fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg.  

Forse davvero il mondo che saremo destinati a vivere ed a popolare con sempre maggiore soddisfazione è il Metaverso.

Il “libro delle facce” non consentiva più di ottenere di ottenere i risultati economici in continua crescita, minati dai problemi emersi sulla tutela dei dati dei quasi 3 miliardi di iscritti e dal fatto che, secondo le denunce della sua ex top manager Frances Haughen “ha messo i profitti al di sopra della sicurezza degli utenti”.

Si tratta di peccati mortali per un colosso quotato al Nasdaq, il mercato azionario americano dedicato principalmente alle società tecnologiche, dove, per sopravvivere, occorre continuamente dimostrare di sapere produrre crescita ed innovazione.

Meglio allora esplorare l’infinito, ed in continua espansione, universo virtuale in perenne costruzione in rete: il metaverso, appunto.

Per chi volesse comprendere meglio il nuovo territorio di caccia della rinominata, Meta, creatura di Zuckerberg può essere di aiuto leggere la sua recente “Lettera del Fondatore” al seguente link:   https://about.fb.com/news/2021/10/founders-letter/

Per usare le sue parole: “La prossima piattaforma sarà ancora più immersiva (rispetto alla attuale esperienza di condivisione di testi e video tramite PC e cellulari), un internet incarnato dove saremo parte dell’esperienza e non semplici spettatori. Noi la chiamiamo “metaverso” e riguarderà ogni prodotto che noi costruiremo. Nel metaverso potremo fare qualunque cosa che saremo in grado di immaginare ”.

Il video visibile su https://www.youtube.com/watch?v=Uvufun6xer8&t=1277s  può essere molto utile per farsi un’idea di quanto ci aspetta.

Si ha, insomma, l’impressione che di fronte ad un mondo “reale” destinato ad un rapido deterioramento potremo rifugiarci e prendere cittadinanza in un universo parallelo, un mondo ideale plasmabile e personalizzabile secondo i nostri desideri ed i nostri sogni.

Non possono non tornarmi alla mente, allora, le parole che Shakespeare mette in bocca a Prospero, nel quarto atto de “La tempesta”:

“Ferdinando, ti vedo assai turbato, come sgomento: non aver paura. I giochi di magia son terminati. Come t’avevo detto, quegli attori erano solo spiriti dell’aria, ed in aria si son tutti dissolti, in un’aria sottile ed impalpabile. E come questa rappresentazione – un edificio senza fondamenta – così l’immenso globo della terra, con le sue torri ammantate di nubi, le sue ricche magioni, i sacri templi e tutto quello che vi si contiene è destinato al suo dissolvimento; e al pari di quell’incorporea scena che abbiam visto dissolversi poc’anzi, non lascerà di sé nessuna traccia.  

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.”  

Il metaverso promette di farci sognare ad occhi aperti, in modo cosciente, ed allargare così i confini della nostra breve vita, poco importa se “l’immenso globo della terra (…) è destinato al suo dissolvimento”.

Fuor di metafora non possiamo (né potremo farlo neanche in un futuro dove ci reincarneremo in un “avatar”, cittadini del metamondo) ignorare quanto sta avvenendo intorno a noi.

Gli obiettivi da raggiungere per contenere i cambiamenti climatici ed evitare un rapido deterioramento del pianeta torneranno anno dopo anno a bussare alla nostra porta e prima o poi la dovremo, volenti o nolenti, spalancare.

Un, seppur timido, spiraglio di luce nel grigiore dell’autunno scozzese è arrivato da un riavvicinamento tra la Cina e gli Stati Uniti.

Parlando ad una conferenza stampa separata, durante il COP26 di Glasgow, gli inviati sul clima Xie Zhenhua e John Kerry hanno annunciato un accordo per limitare l’aumento della temperatura ad un grado e mezzo, costituire un gruppo di lavoro per accelerare le azioni a salvaguardia del clima in questo decennio (gli impegni ufficiali spostano al 2030 ed oltre i possibili obiettivi) e cooperare più strettamente sul controllo delle emissioni inquinanti.

Proprio l’inviato per il clima degli Stati Uniti ha sottolineato come “Se tutti si lamentano significa che ciascuno ha fatto un passo indietro”.

Il presidente Biden potrebbe ora, secondo alcune indiscrezioni, essere invitato ad assistere alle prossime, blindatissime, olimpiadi invernali che si svolgeranno in Cina da febbraio.

Ieri si già tenuto un primo incontro virtuale, in videoconferenza, di avvicinamento con l’omologo cinese ed il clima ed i rapporti di interscambio commerciale avranno fatto certamente la parte del leone.

L’approvazione, durante il plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese della settimana scorsa, della risoluzione sui successi raggiunti dalla presidenza in corso (il terzo caso nella storia cinese dopo quelle presentate da Mao nel 1945 e da Deng nel 1981) ha di fatto innalzato il presidente in carica (atteso tra un anno alla terza riconferma) al ruolo di “principale innovatore” glorificando così “il pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era”.

I prossimi 12 mesi saranno pieni di eventi che potranno renderci più consapevoli sul futuro prossimo della nostra salute (i vaccini ed i nuovi farmaci anti virali per fronteggiare la pandemia dovrebbero consentire ulteriori passi avanti verso il ritorno alla normalità), dell’economia (i grandi piani, il PNRR e i suoi “fratelli”, approvati in tutto il mondo, dovranno iniziare a dispiegare i loro benefici effetti), della politica (con le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti ed il Congresso del Partito in Cina) e dell’ambiente (seguendo il progresso della diffusione delle energie rinnovabili e della mobilità elettrica).

Possiamo solo augurarci che i risultati non siano solo virtuali e che almeno qualcuno dei nostri sogni possa realizzarsi.

In caso contrario non ci resterà che rivolgerci, in preghiera, al potentissimo padre del social network nato dagli annuari universitari statunitensi: “Mark, almeno tu nel metaverso…”.

Il giovane (Paese) favoloso

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La settimana che abbiamo alle spalle ha riservato agli economisti ed agli investitori una serie di buone (e, in qualche caso, inattese) buone notizie provenienti dagli Stati Uniti.

 

La camera dei rappresentanti ha finalmente approvato, con il voto congiunto di Democratici e Repubblicani dopo mesi di aspre negoziazioni, il pacchetto di investimenti in infrastrutture da 1.200 miliardi di dollari.

 

L’esito è stato di reciproca soddisfazione pur ridimensionando (come era d’altronde prevedibile sin dall’inizio) la proposta iniziale del presidente, l’“American jobs plan”, di 2.250 miliardi.

Lo scandalo che ha coinvolto nei mesi scorsi alcuni membri della Federal Reserve (la banca centrale statunitense), accusati di avere utilizzato (in modo legale ma non eticamente ineccepibile) le informazioni a loro disposizione per speculare sui mercati finanziari, sembrava avere messo seriamente a rischio la rinomina dell’attuale governatore, Jerome Powell (creando così incertezza sulla guida futura della politica monetaria) ma negli ultimi giorni la probabilità di una conferma del mandato (in scadenza a febbraio) sono aumentate significativamente, tranquillizzando così gli investitori.

 

Lo stesso Powell ha nei giorni scorsi rassicurato i mercati in merito alle evoluzioni del tasso di inflazione (uno dei maggiori rischi alla prosecuzione del cammino di crescita dell’economia) ed alla “pazienza” nei suoi confronti da parte della Fed (non certo intenzionata ad aumentare, ancora, i tassi di interesse), dopo averne atteso ed auspicato il ritorno per molti anni.

 

In campo sanitario, poi, i risultati dei test delle pillole antivirali per le persone affetta da Covid pubblicati da parte di Pfizer sono stati molto confortanti, mostrando una riduzione di quasi il 90% dei ricoveri ospedalieri e dei decessi.

 

Meno efficaci (con un ridimensionamento del 50% dei casi più gravi) ma promettenti sembrano essere le cure in sperimentazione da parte della Merck, un’altra casa farmaceutica statunitense.

 

La settimana scorsa erano inoltre attese con curiosità le elezioni dei governatori in Virginia e nel New Jersey che hanno alla fine confermato la perdita di consenso del Presidente Biden e del partito democratico (pur mantenendo il proprio governatorato nel New Jersey).

 

Questo rende più probabile che tra un anno, alle elezioni di metà mandato, i repubblicani possano tornare a controllare la camera dei rappresentanti (mentre il senato potrebbe rimanere in mano ai democratici); un simile scenario non dispiace affatto ad economisti ed analisti finanziari in quanto potrebbe limitare gli eccessi di spesa proposti dal presidente e rendere più equilibrata la gestione della spesa pubblica nella seconda parte del suo mandato.

 

Malgrado una sempre maggiore rifocalizzazione sulla politica economica domestica, iniziata da Trump e non certo smentita da Biden, rimane cruciale il comportamento dell’economia statunitense (dove si produce un quarto circa del PIL mondiale) anche per le sorti del nostro vecchio continente (in special modo in una fase storica che si sta caratterizzando per il ridimensionarsi della crescita economica cinese) ed i segnali positivi fanno ben sperare.

Gli Stati Uniti, d’altronde, sono forse il solo luogo al mondo dove il miracolo economico non ha mai smesso di rinnovarsi e possiamo ben dire, citando Thomas Wolfe, che “… è un paese favoloso, l’unico paese favoloso, l’unico posto dove i miracoli non solo avvengono, ma dove accadono ogni momento”.

Ciò non può naturalmente fare dimenticare come i prossimi mesi saranno molto delicati, in special modo per i colli di bottiglia ancora presenti nel sistema produttivo (responsabili in buona parte dell’aumento dei prezzi di beni, materie prime e servizi ai quali stiamo assistendo) e per una possibile ripresa, stagionale, dei contagi ma, se queste difficoltà saranno superate senza troppi affanni, potremo poi assistere, dalla prossima primavera, alla continuazione di un ciclo economico positivo ed ancora nella sua fase iniziale.

 

La ripresa mondiale (rinata dalle ceneri della pandemia) è ancora molto giovane proprio come lo è l’America secondo Bruce Chatwin: “Giovane, innocente e crudele”.

Celeste Impero e cieli azzurri

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La ventiseiesima Conferenza delle parti (Conference Of Parties, COP26) che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, trattato nel cui ambito è stato siglato l’Accordo di Parigi ha iniziato domenica i suoi lavori a Glasgow, in Scozia.

 

Si tratterà di trovare un accordo tra i principali Paesi per ridurre l’inquinamento ed arrestare il trend in corso (di fatto dalla rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo) al surriscaldamento del pianeta.

 

L’obiettivo esigerà una azione decisa su più versanti: dalla riduzione dell’utilizzo del carbone all’arresto della deforestazione, dall’utilizzo di veicoli elettrici al massiccio investimento nelle risorse energetiche rinnovabili.

 

Durante gli incontri preparatori durante il G20 di Roma non si sono fatti sostanziali passi avanti al di là dell’accordo a non finanziare i progetti di produzione energetica basati sul carbone al di fuori dei propri confini (ma non all’interno, come fatto recentemente dalla Cina).

 

Cruciale sarà il ruolo dei Paesi emergenti che contribuiscono ai due terzi delle emissioni di CO2 e che necessiteranno dell’aiuto economico dei Paesi più industrializzati.

 

La sola Cina si stima che sia il principale responsabile, con il 28% del totale, della produzione di anidride carbonica, pur essendo solo al tredicesimo posto nelle emissioni pro-capite.

 

Il Paese più popoloso del mondo ha aderito alla richiesta di procedere alla riduzione delle sostanze inquinanti ma la data della “neutralità” (“net zero emissions”) che ha fornito, ”entro  il 2060”, è lontana da quella proposta dagli altri Paesi (il 2050).

 

L’impressione è che l’attenzione della leadership cinese sia in questo momento rivolta più ad un consolidamento politico interno che a perseguire un impegno deciso sul fronte del riscaldamento globale (rinunciando ad una fonte energetica ancora fondamentale per il paese asiatico come il carbone).

 

Il 7 novembre inizierà, infatti, l’assemblea plenaria del Comitato Centrale Cinese ed avrà come piatto forte una nuova “Risoluzione sulla storia”.

 

Si tratterà della terza “risoluzione” in cent’anni di storia del gigante asiatico e precederà di un anno esatto la terza riconferma di Xi Jinping a capo del Partito, nel 2022.

 

Le “risoluzioni” hanno sempre caratterizzato in Cina dei momenti di snodo, storicamente rilevanti, e sono state utilizzate per rafforzare la leadership al governo e per porre fine alle lotte di potere al vertice della politica cinese.

 

La prima venne elaborata da Mao Zedong nel 1945, per affermare la sua leadership unica sul partito e sbarazzarsi senza tanti scrupoli dei suoi rivali interni, e la seconda da Deng Xiao Ping nel 1981, con l’ammissione degli errori della Rivoluzione culturale, l’adozione di una politica di apertura, senza rinnegare il pensiero del “Grande timoniere”, e l’introduzione di un’economia di mercato (al fianco di quella governata dallo Stato).

La risoluzione che verrà discussa la prossima settimana non potrà che riaffermare l’importanza di Xi Ping e della politica della “Prosperità comune”  (della quale ho parlato nell’articolo: https://iltorinese.it/2021/10/19/prosperita-e-carbone/) nella storia del Paese.

 

L’obiettivo finale, più volte dichiarato, è quello di costruire entro il 2049, il centesimo anniversario della Cina Moderna, un grande e moderno Paese socialista capace di inaugurare una nuova fase del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

 

Anche in questa occasione la pianificazione sui tempi lunghi rimane una delle caratteristiche della Cina e non a caso un suo celebre detto recita: “ci vuole un decennio per coltivare gli alberi, ma un secolo per coltivare gli esseri umani”.

 

E’ molto forte, quindi, la sensazione che gli interessi del Celeste impero saranno, almeno per il momento, posti di fronte a quelli, globali, di avere cieli più azzurri ed una crescita più sostenibile.

 

Sperando ardentemente di essere smentito, consiglio di seguire con attenzione gli sviluppi della politica cinese cercando di individuarne le evoluzioni ed i mutamenti, qualche volta lenti e quasi impercettibili.

 

D’altronde, come diceva Confucio, non importa quanto lentamente vai finché non ti fermi.

 

Nel frattempo saranno i Paesi occidentali che dovranno guidare il cambiamento e mantenere viva la speranza di un mondo migliore.

 

Eppur si muove…

Nero petrolio

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il prezzo del petrolio ha toccato negli ultimi giorni dei livelli che non si vedevano dal 2018. 

 

Sembra lontanissimo il ricordo di quando, appena 18 mesi orsono, nell’aprile del 2020, incamerando un barile di petrolio, consegnato a fine maggio, si poteva incassare fino a 40 dollari (non sapendo dove depositare il greggio acquistato tramite i contratti “future”, gli investitori erano disposti a pagare pur di sbarazzarsene).

La forte, e per molti inattesa, ripresa dell’economia nella seconda parte del 2020 ha rappresentato uno shock che ha rapidamente fatto impennare il prezzo del carburante che ora può nuovamente fregiarsi del titolo di “oro nero”.

 

Non si tratta certamente del primo caso: più volte in passato le oscillazioni del combustibile hanno sorpreso per la loro violenza.

 

Ma questa volta si inserisce un nuovo elemento.

 

La pandemia, oltre ai drammatici riflessi umani ed economici, ha prodotto un accresciuto interesse verso l’ambiente ed i rischi legati al cambiamento climatico indotto dall’uomo.

 

Il gap delle emissioni di CO2 rispetto al livello fissato durante gli Accordi di Parigi del 2015 rimane molto ampio.

 

Il rallentamento economico del 2020 ha prodotto solo una modesta, del 7%, riduzione delle emissioni inquinanti ed abbondano gli inviti ad un’azione più decisa per ridurre l’utilizzo di combustibili fossili.

 

Le fonti rinnovabili rappresentano oggi quasi la metà della produzione di energia elettrica in Europa e poco meno di un terzo negli Stati Uniti.

 

Non si tratta di una quota trascurabile ma occorre considerare come i due terzi dei consumi petroliferi siano dovuti ai trasporti e la loro riconversione sarà graduale e richiederà parecchi anni.

 

Per rendersene conto basta pensare allo “strano caso” della Norvegia.

 

Nel Paese scandinavo, il tredicesimo produttore al mondo di petrolio, le vendite di autovetture elettriche costituivano già il 60% nel 2020 ed a settembre di quest’anno erano ulteriormente salite al 78% del totale.

 

Ciò nonostante i consumi norvegesi non si sono minimamente ridotti.

 

I nuovi veicoli elettrici, infatti, costituiscono ancora solo una piccolissima parte del parco auto circolante (per lo più alimentato a benzina).

 

A livello mondiale le vendite di veicoli elettrici sono oggi circa il 3% del totale e l’obiettivo di raggiungere il 60% entro il 2030 appare molto ambizioso.

 

Di fronte a queste incertezze i giganti del settore energetico hanno congelato o ridimensionato i nuovi investimenti, nel timore che un brusco rallentamento nella domanda di greggio possa, tra qualche anno, renderli non più convenienti.

 

L’IEA (l’Agenzia internazionale dell’energia, un’organizzazione internazionale intergovernativa fondata nel 1974 in seguito allo shock petrolifero dell’anno precedente) stima che i consumi scenderanno, entro il 2030, del 29% e provocheranno così una discesa del prezzo a 35 dollari (dagli 85 attuali).

 

Avviene così che l’apertura di nuovi pozzi e gli investimenti in nuovi impianti vanno a rilento e l’estrazione fatica a tenere il passo della domanda.

 

Non va peraltro trascurato il fatto che anche la produzione proveniente dalle fonti rinnovabili comporta un notevole dispendio di risorse inquinanti (e di petrolio).

 

Un recente studio della società di consulenza indipendente Alpine Macro (“The chaotic energy transition”, 12 ottobre 2021) ha messo a confronto i valori del rapporto tra energia prodotta (e immagazzinata) ed energia consumata per la sua produzione per le principali fonti energetiche (l’ EROI, Energy Return on Investment).

 

Questo calcolo tiene conto, ad esempio, che per produrre le turbine eoliche occorre acciaio ed alluminio che, a loro volta, richiedono grandi consumi di energia per essere prodotti.

 

Senza volere andare troppo nello specifico di un dibattito già molto acceso (dove sono in grande crescita gli estimatori del nucleare, la fonte che emergerebbe come la più efficiente con un EROI di 70, rispetto ai meno di 3 del fotovoltaico), tutto ciò contribuisce a rendere molto complessa ed incerta la previsione del mix energetico dei prossimi anni.

 

Per rimanere ai nostri giorni, il rallentamento dell’economia, su ambedue le sponde dell’oceano, potrebbe riportare presto un maggiore equilibrio sul mercato ed una stabilizzazione e, successivamente, un ridimensionamento del prezzo del barile (e delle altre materie prime) e con questo del tasso di inflazione.

 

L’andamento dei prezzi al consumo è una delle maggiori preoccupazioni dei banchieri centrali che hanno nella custodia della loro stabilità una delle loro funzioni principali e che con la loro azione (decidendo, ad esempio, di aumentare i tassi di interesse) potrebbero complicare l’andamento dell’economia.

 

Il governatore della Banca centrale statunitense, Jerome Powell, in un discorso tenuto nei giorni scorsi, ha rinunciato a definire come “temporanea” l’attuale inflazione ed ha, invece, sottolineato come essa permarrà elevata anche nei primi mesi del nuovo anno, provocando un brivido nella schiena degli investitori.

 

Non è il caso di essere troppo pessimisti ma occorrerà prestare la massima attenzione e non farsi spaventare da eventuali reazioni scomposte da parte dei mercati finanziari.

 

La transizione verso un futuro più sostenibile comporterà, inevitabilmente, dei mutamenti che potranno provocare, per alcuni settori, conseguenze negative ma che creeranno, in tempi più lunghi, benefici ben superiori.

 

Dovremo fare i conti con i carburanti fossili ancora per molti anni ma la minaccia rappresentata dalle loro emissioni inquinanti (e dalle oscillazioni del loro prezzo) dovrebbe gradualmente ridursi, con effetti positivi anche in campo geopolitico (con una riduzione del potere esercitato dai Paesi produttori).

Il futuro, insomma, sarà un po’ meno nero…petrolio.

 

Prosperità e carbone

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Negli ultimi mesi è forte la sensazione che la Cina abbia deciso di riportare sotto il controllo statale molti comportamenti sociali ed attività economiche.

 

Lo scorso maggio era stato aumentato a tre il numero massimo di figli concesso alle famiglie cinesi, dopo essere stato elevato a due nel 2016, senza peraltro grandi risultati sulle nuove nascite.

 

Nei mesi successivi i fuochi d’artificio erano continuati.

 

A fine agosto il governo aveva annunciato il divieto per i minorenni di dedicare ai giochi elettronici più di tre ore la settimana: il giovedì, il venerdì e il sabato, dalle 20 alle 21.

 

L’agenzia di informazione governativa, la Xinhua, si era subito affrettata a precisare come questa misura volesse “proteggere la salute fisica e mentale dei giovani in un’era di grande rinnovamento della nazione”.

 

Già nel 2019 era stata introdotta una limitazione, a un’ora e mezza al giorno (tre durante le vacanze), ma evidentemente questo non era più ritenuto essere sufficiente per preservare l’integrità delle giovani generazioni.

 

Erano seguite, poi, le azioni decise nei confronti dei giganti della tecnologia cinese (in quanto fonti di eccessivo arricchimento personale e strategiche per il futuro del Paese) e del settore dell’educazione (ritenuta troppo costosa ed elitaria se lasciata nelle mani dell’iniziativa privata).

 

La matrice comune di tutte queste iniziative si può ricondurre allo slogan lanciato da Xi Jinping già nel 2017 ma diventato di dominio pubblico, ripetuto ossessivamente ad ogni uscita pubblica, solo nell’ultimo anno: “Prosperità Comune”, la vera e propria stella polare che deve guidare la navigazione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Questa nuova linea strategica dovrà condurre a una forte riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, anche tra le diverse regioni del Paese, e rappresenta una chiara rottura con il “Socialismo con caratteristiche cinesi” introdotto e diffuso da Deng Xiaoping.

 

Il leader indiscusso del Paese tra il 1978 ed il 1992, ricordato in occidente per i tragici fatti di piazza Tienanmen, è stato anche colui che ha portato la Cina ad aprirsi alle riforme “capitaliste” su proprietà privata (promuovendo la decollettivizzazione della terra e di fatto abolendo le comuni) ed impresa, sull’onda del “lasciate che qualcuno possa diventare ricco affinché poi ad arricchirsi sia tutto il Paese”.

 

Per Deng il perseguimento del fine ultimo della “Prosperità comune” era un obiettivo di lungo termine da raggiungere attraverso la privatizzazione di un’ampia parte dell’economia e la contemporanea creazione di una solida classe media.

 

Il risultato è stato quello di una Cina che si è presentata al nuovo millennio più aperta nei confronti del mondo e forte economicamente ma con enormi squilibri interni.

 

L’era inaugurata da Xi dal suo insediamento, nel 2013, è quella di un Paese che vuole elevare la qualità della vita del maggior numero possibile di cinesi, anche a discapito della sua crescita economica (non a caso ridimensionatasi nell’ultimo decennio).

 

Il messaggio è stato annunciato negli ultimi anni a chiare lettere pur se accompagnato dalla rassicurazione che ciò non significa certo “uccidere i ricchi per aiutare i poveri”, come ha ricordato recentemente Han Wenxiu, un alto ufficiale del partito.

 

Si tratta di ridurre drasticamente i privilegi dei più abbienti (ma senza porre a rischio l’esistenza delle loro attività imprenditoriali) e di investire con decisione nei servizi pubblici rendendoli accessibili per tutti.

 

Il costo di un simile cambiamento di rotta era ben chiaro alla dirigenza del partito e non a caso il governo ha alternato l’utilizzo del bastone, nei confronti delle grandi imprese private, con quello della carota, sottolineando la loro importanza ma anche la necessità che contribuiscano con più generosità alla crescita della società e del Paese.

 

Questo “incoraggiamento” ha portato, secondo quanto riportato dall’agenzia di informazione statunitense Bloomberg, ben 73 società cinesi quotate in borsa ad annunciare un loro contributo finanziario volontario alla “Prosperità Comune”.

 

Tra le aziende più attive e generose ci sono state quelle tecnologiche, le più penalizzate dal nuovo corso: Tencent investirà in progetti legati alla “Prosperità Comune” 50 miliardi di Reminbi (pari a 6,5 miliardi di euro) e Alibaba più del doppio.

 

A loro volta i fondatori di Xiaomi (cellulari e prodotti avanzati dell’elettronica di consumo) e Meituan (il più grande operatore cinese delle consegne a domicilio) hanno donato privatamente oltre 10 miliardi di Reminbi (1,3 miliardi di euro) in azioni delle loro società.

 

Il risultato finale dovrebbe essere quello di portare ad una maggiore “prosperità”, con una distribuzione della ricchezza più equilibrata ed un aumento massiccio della classe media.

 

Sono queste ultime le aree dove è stato più evidente il fallimento di Deng, in grado di fare crescere enormemente le dimensioni economiche del Paese a vantaggio, però, solo di una ristretta cerchia di super-ricchi.

 

La critica appare a noi occidentali forse troppo dura ed ingenerosa; sotto Deng vi è stata una importante riduzione della povertà (grazie ad una accelerata industrializzazione ed urbanizzazione della popolazione) e la classe media, quasi inesistente all’inizio del suo mandato, annovera ora circa mezzo miliardo di persone.

 

Malgrado ciò è indubbio che molto resta da fare.

 

Va ricordato, infatti, che in Cina esistono ancora 600 milioni di persone (su un totale di 1,4 miliardi) che vivono con meno di 1.000 Reminbi (130 euro) al mese e che rappresentano un perenne rischio alla sua stabilità sociale.

 

Alla gestione di Deng, Xi imputa anche una crescita endemica della corruzione e, sin dall’inizio del suo mandato, per combatterla, ha punito o epurato, secondo i dati ufficiali, più di quattro milioni di membri del partito.

 

La Prosperità Comune è inoltre così importante da giustificare deroghe (o passi indietro) a quanto sembrava già avviato e definito.

 

E’ il caso della produzione di energia dove, dopo avere pianificato la loro riduzione, la Cina ha annunciato nei giorni scorsi di volere costruire nuove, più efficienti, centrali a carbone, spostando in avanti gli obiettivi legati alla riduzione di emissioni inquinanti e allontanando così le speranze di un accordo globale al prossimo COP26 (la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ) che si terrà a Glasgow a fine ottobre.

 

Il carbone ha avuto un improvviso risveglio a causa dell’aumento di prezzo del petrolio e, a peggiorare le cose, c’è stato l’anno scorso il bando della Cina alle importazioni di carbone dall’Australia, quale ritorsione per una disputa che andava dalla critiche ricevute sulla gestione dell’esplosione della pandemia, alla sempre più netta scelta di campo occidentale (con l’adesione al QUAD con USA, India e Giappone) di Canberra.

Questa scelta si è trasformata in un clamoroso autogol: la dipendenza della Cina dal carbone è ancora elevata e le forniture, dal Kazakhstan, devono percorrere ben 30 giorni in mare (con costi elevatissimi) prima di arrivare a destinazione.

 

Il Natale che si sta avvicinando farà contenti, con i suoi regali, molti bravi bambini, pur con le difficoltà legate alla pressoché certa congestione delle consegne, ma anche i più monelli potrebbero essere, per una volta, soddisfatti di ricevere qualche chilo di nero, preziosissimo, carbone.

Il cielo sopra Torino

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

Nel film “Il cielo sopra Berlino” si racconta la storia di due angeli, Damiel e Cassiel, che si aggirano per la città con lo scopo di ascoltare i pensieri dei vivi.

Uno di loro si affeziona così tanto alla città ed alla sua gente che decide di diventare umano e di abbandonare la sua esistenza spirituale.

A questo mi ha fatto pensare la “Italian Tech Week” tenutasi a Torino il 23 e 24 settembre.

L’evento ha ospitato molti “angeli” che per due giorni si sono aggirati nella nostra città per osservarla e coglierne le potenzialità.

Si sono succeduti sul palco giovani imprenditori (“startuppers”) e meno giovani esperti e visionari, a testimoniare il nostro dinamismo e la capacità di innovare senza lasciarsi scoraggiare dalle tante difficoltà poste dal nostro ecosistema.

Non è certo difficile innamorarsi del nostro Paese e la stessa Torino possiede un grande fascino ma perché esso possa sfociare in vero amore occorre una maggiore consapevolezza delle nostre potenzialità ed un progetto concreto che lo possa sostenere.

La due-giorni di respiro internazionale (tra gli ospiti, in diretta dalla sede di SpaceX nel Texas, anche Elon Musk) ha fatto da virtuale introduzione alla settimana che ha condotto alle elezioni del prossimo sindaco.

Chi prenderà il testimone di Chiara Appendino dovrà sostenere il fardello di rilanciare il ruolo della prima capitale italiana, più che mai in cerca di una sua nuova identità (dopo la crisi del settore automobilistico che l’aveva sostenuta nel secolo scorso).

Ma il peso sulle spalle del nuovo primo cittadino potrebbe anche tramutarsi in un paio di possenti ali se saprà gestire il suo incarico con una chiara visione del futuro e la volontà (e capacità) di coinvolgere le, per fortuna numerose, eccellenze cittadine.

Tra queste possiamo già annoverare, dopo il successo della sua seconda edizione, proprio la Tech Week che ha acceso i riflettori sulla nostra città, mettendo bene in luce come le nuove iniziative, le “startups”, possano diventare un importantissimo volano di crescita.

Forse non è davvero un caso che i soggetti privati che aiutano, investendo il proprio denaro, le imprese nascenti siano chiamati “angel investors” (o “business angels”): proprio come gli esseri che nel film di Wim Wenders vigilano su Berlino, si innamorano delle storie (aziendali) umane più interessanti e le accompagnano nel loro percorso.

A fare il punto sulla situazione  del settore è stato l’intervento di Yoram Wijngaarde, il fondatore di @Dealroom.co, un formidabile archivio di dati globale che punta ad intercettare (investendoci) ed a seguire le aziende più promettenti.

L’imprenditore olandese ha ben sottolineato il contributo economico ed occupazionale che possono fornire le aziende innovative.

Negli Stati Uniti le startups, principalmente tecnologiche, sono già il maggiore generatore di occupazione, con il 24% del totale.

Nella Baia di San Francisco (nei dintorni della quale si trova la “Silicon Valley”) quasi il 70% dei posti di lavoro sono creati da aziende di nuova costituzione.

In Italia oggi il loro peso è pressoché inesistente ed anche il numero di potenziali “unicorni” (imprese innovative con un valore stimato superiore al miliardo di dollari), 12 in tutto, impallidisce di fronte quello britannico, 213, francese, 104, tedesco, 94, e spagnolo, 25.

La buona notizia è che l’Italia sta crescendo e si trova nella stessa posizione della Francia 7 anni fa o della Spagna 4 anni orsono.

E’ confortante, inoltre, sapere che nella tecnologia una strategia vincente può consentire di bruciare le tappe e scalare le classifiche con estrema velocità.

Si tratta, ad esempio, di quanto è successo alla Germania, con l’affermazione di Berlino come una delle capitali mondiali dell’innovazione, negli ultimi anni.

L’auspicio è che la nuova amministrazione cittadina possa consentire a Torino di (tornare a) giocare, per l’Italia, lo stesso ruolo trainante nelle tecnologie assunto dalla capitale tedesca.

Le OGR (Officine Grandi Riparazioni) che hanno ospitato la Tech Week sono un simbolo vivente, e molto vitale, di come si possa rigenerare un luogo abbandonato e mi piace reinterpretare la sigla come un imperativo, che ben si confà alla nostra città: “Ogni Giorno: Rinascere!”

Dal cielo sopra Torino gli angeli ci guardano ma dovremo essere noi a fare il massimo per convincerli a scendere… e ad aiutarci a volare.

La ricerca e la felicità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi il National Bureau of Statistics of China, l’omologo del nostro ISTAT, insieme al ministero della scienza e a quello delle finanze, ha pubblicato il “Communiqué on National Expenditures on Science and Technology in 2020”.

 

Si tratta di un dettagliato rapporto sull’andamento della spesa nazionale in ricerca e sviluppo.

 

La crescita, superiore al 10%, ha ancora una volta superato quella dell’economia cinese, portando gli investimenti in ricerca al 2,4% del PIL.

 

In valore assoluto i cinesi investono oggi nella ricerca il doppio dei giapponesi, più di due volte e mezzo dei tedeschi e la metà degli americani.

 

Le cifre assumono una dimensione ancora più significativa (ed esprimono più correttamente l’impegno finanziario) se aggiustate per il loro potere di acquisto (con la stessa somma si possono acquistare quantità diverse degli stessi beni, a seconda del loro prezzo, nei diversi Paesi): emerge così che le somme investite dalla Cina eguagliano ormai quelle degli USA, sono 3 volte il Giappone e 5 volte la Germania.

 

Non a caso lo stesso giorno il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha pubblicato il piano strategico quindicennale per trasformare la Cina in una superpotenza nella proprietà intellettuale.

 

La cosa può apparire sorprendente viste le cruente battaglie combattute per anni tra le aziende occidentali e le autorità di Pechino per ottenere il riconoscimento dei brevetti, violati o copiati dalle imprese cinesi.

 

Si tratta di un altro segnale del cambiamento di marcia della politica economica sotto la guida di Xi Jinping.

 

Dopo la stretta sulle multinazionali private e quella sul settore immobiliare (che sta portando al fallimento controllato del colosso nazionale China Evergrande) appare sempre più chiaro che il timone della corazzata cinese stia puntando con decisione sull’innovazione di Stato e sulla riduzione della speculazione e della corruzione.

Il settore immobiliare costituisce più di un quarto del PIL cinese (negli USA è intorno al 6-7%) ed è stato uno dei motori che ne hanno maggiormente sostenuto la crescita negli ultimi 30 anni ma questo ha generato una bolla fatta di prezzi elevatissimi, debiti esorbitanti ed enormi investimenti improduttivi (intere città create e rimaste desolatamente disabitate).

 

Basti pensare che per acquistare un appartamento in una grande capitale occidentale servono tra le 13 (a San Francisco) e le 22 volte il reddito medio annuo mentre a Pechino occorre destinare all’acquisto l’equivalente di 50 stipendi.

 

Anche la ulteriore stretta appena annunciata dal governo cinese, sull’utilizzo delle criptovalute per i pagamenti, può essere ricondotta alla campagna di riduzione delle operazioni speculative, di un maggiore controllo dei flussi finanziari e, di non trascurabile importanza, del contenimento delle emissioni inquinanti.

 

La Cina sta da tempo cercando di proporsi come paladina delle energie rinnovabili (è la sede dei maggiori produttori di impianti fotovoltaici) con l’obiettivo di uscire dalla lista dei Paesi più inquinanti del pianeta.

 

La produzione dei bitcoin comporta, infatti, enormi consumi di energia che in estate è fornita, a basso costo, dai molti impianti idroelettrici che, foraggiati dalle abbondanti piogge, hanno un eccesso di produzione, ma che nella stagione secca fanno ricorso a inefficienti, inquinanti e spesso abusive e pericolose, miniere di carbone ancora presenti in tutta la Cina centrale.

 

A questo proposito va sottolineato come sin dalla prima violenta presa di posizione del Comitato del Partito, lo scorso maggio, i grandi “minatori” stanno spostando i loro attrezzi (enormi computer, trasportati da altrettanto imponenti autotreni) verso Paesi più accoglienti ed il Texas sta diventando una delle destinazioni preferite.

 

Ad inizio anno i tre quarti dell’“estrazione” complessiva di bitcoin veniva fatta nel celeste impero e si stima che oggi si sia più che dimezzata.

Più in generale, il ruolo del mercato privato in Cina rimarrà importante ma circoscritto alle aree non ritenute strategiche e funzionali alla crescita del benessere nazionale.

 

Lo standard, il livello di innovazione, richiesto per competere nei mercati internazionali sta crescendo con sempre maggiore rapidità e rimanere indietro oggi vorrà dire trovarsi soli, nel deserto, senza viveri né acqua, domani.

 

L’ Italia investe in ricerca e sviluppo circa l’1,47% del Pil (di cui lo 0,93% da parte delle imprese private, dati ISTAT 2019): la Germania e gli Stati Uniti quasi il 3% e la media dei primi 40 Paesi l’ 1,75%.

 

La buona notizia per la nostra regione è che il Piemonte si trova (secondo il rapporto ISTAT pubblicato un anno fa) al vertice con il un il 2,17% del PIL speso in ricerca.

 

C’è un lungo cammino da percorrere ma prima bisognerà costruire strade sicure (come le infrastrutture digitali) che ci possano consentire di tornare a correre.

 

Le nostre nuove generazioni di imprenditori stanno mostrando, con le loro “startup”, una grande vivacità come testimoniato nella, appena terminata a Torino, seconda edizione della Italian Tech Week.

 

Questo importante evento (che merita un prossimo “Puntaspilli” ad hoc) ha riunito nella nostra città innovatori di tutto il mondo, lanciando importanti segnali sulle opportunità che ci vengono offerte dalle nuove tecnologie.

 

Risulta perciò chiaro come nella “ricerca della felicità” (economica) la parola chiave potrebbe proprio essere la prima.

 

La speranza in un futuro dove le grandi potenzialità del nostro Paese possano tornare a dare i loro frutti ha quindi tutti gli elementi per essere alimentata.

 

D’altronde, come ha ricordato l’ospite d’ onore della kermesse torinese, Elon Musk, è sempre meglio essere ottimisti e sbagliare qualche volta che essere pessimisti ed avere sempre ragione.

 

 

Per aspera ad astra

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

 

La missione spaziale INSPIRATION4, appena rientrata dopo 3 giorni in orbita a 575 km sulla Terra, è stata la prima ad ospitare a bordo solo dei “civili” (quattro “turisti spaziali”) e, nello stesso tempo, ad essere completamente finanziata da un’ azienda privata (SpaceX, un’altra creatura del fondatore di Tesla, Elon Musk).  

 

Il (salatissimo) prezzo dei biglietti è stato pagato interamente dal comandante della missione, il miliardario americano Jared Isaacman, fondatore della società Shift4 Payments, appassionato ed esperto pilota, attraverso una donazione di $200 milioni di dollari all’ospedale per bambini St Jude, nel Tennessee.

 

Il costo di 50 milioni di dollari a testa si confronta con i 28 milioni pagati da un anonimo acquirente (poi costretto a rimandare la sua partecipazione rinviandola a una futura missione) per volare per complessivi 10 minuti, dei quali ben 4 a disposizione per fluttuare liberamente nella capsula, sulla Blue Origin di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon), a 100 km di altezza, il 20 luglio.

 

A venire incontro alle legittime aspirazioni astronautiche dei meno abbienti ci aveva pensato qualche giorno prima, l’11 luglio, la Virgin Galactic di Richard Branson che per soli 250.000 dollari aveva consentito di imbarcarsi per la sua missione, durata 71 minuti, a 80 km di distanza dalla terra.

 

Curiosamente proprio durante il viaggio “low cost” della Virgin si sarebbe accesa nell’abitacolo una luce rossa che poteva indicare un serio (potenzialmente fatale) problema e che, non essendo stata dichiarata all’ Agenzia statunitense per l’aviazione, ha provocato la sospensione del prossimo volo (che avrebbe ospitato una missione scientifica dell‘Aeronautica militare italiana e del Consiglio nazionale delle ricerche).

 

Quello che è certo è che la “Space economy” sta volando: secondo le stime della banca d’affari americana Morgan Stanley, nel 2020 ha generato circa 350 miliardi di dollari di fatturato ed entro il 2040 il giro d’affari dovrebbe superare i 1.000 miliardi.

 

Scienza, non fantascienza…

 

Non si tratta, naturalmente, di solo “turismo spaziale” che, anzi, ne costituirà, anche in futuro, solo una parte molto limitata.

 

I tre quarti del totale sono costituiti dalla connessione a banda larga satellitare che consente di trasmettere i dati (che continueranno la loro crescita esponenziale) e di comunicare senza necessità di cavi od altre infrastrutture a terra.

 

Il moltiplicarsi delle missioni private consentirà, dal suo canto, di rendere sempre più efficienti gli spostamenti nello spazio, per fini commerciali e scientifici, esplorandone ulteriormente le infinite potenzialità.

 

La parte del leone l’hanno fatta sino ad oggi, come si può facilmente immaginare, gli Stati Uniti, con quasi due terzi del totale degli investimenti.

 

L’Europa ricopre, comunque, un ruolo tutt’altro che marginale: un terzo dei satelliti mondiali sono infatti fabbricati nel nostro continente, impiegando 230.000 tecnici specializzati.

 

A testimonianza di ciò, ad aprile il Parlamento Europeo ha approvato un ambizioso piano che investirà nel comparto spaziale, tra il 2021-2027, quasi 15 miliardi di euro.

 

Questo programma consentirà una gestione più efficiente del traffico, riducendo le emissioni inquinanti, incrementando l’utilizzo di droni per le consegne e migliorando gli spostamenti aerei (evitando così ritardi e cancellazioni).

 

Il settore è senza alcun dubbio un pilastro cruciale per mantenere il nostro continente competitivo e capace di esercitare un ruolo di innovatore in uno scenario internazionale sempre più complesso.

 

Si tratta di una sfida da cogliere anche per il nostro territorio che ha maturato una solida tradizione nel settore aerospaziale.

 

Non sarà semplice e le difficoltà da superare (a partire dalla capacità di attrarre nuovi investimenti) sono molte ma…Per aspera ad astra…