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Il giovane (Paese) favoloso

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La settimana che abbiamo alle spalle ha riservato agli economisti ed agli investitori una serie di buone (e, in qualche caso, inattese) buone notizie provenienti dagli Stati Uniti.

 

La camera dei rappresentanti ha finalmente approvato, con il voto congiunto di Democratici e Repubblicani dopo mesi di aspre negoziazioni, il pacchetto di investimenti in infrastrutture da 1.200 miliardi di dollari.

 

L’esito è stato di reciproca soddisfazione pur ridimensionando (come era d’altronde prevedibile sin dall’inizio) la proposta iniziale del presidente, l’“American jobs plan”, di 2.250 miliardi.

Lo scandalo che ha coinvolto nei mesi scorsi alcuni membri della Federal Reserve (la banca centrale statunitense), accusati di avere utilizzato (in modo legale ma non eticamente ineccepibile) le informazioni a loro disposizione per speculare sui mercati finanziari, sembrava avere messo seriamente a rischio la rinomina dell’attuale governatore, Jerome Powell (creando così incertezza sulla guida futura della politica monetaria) ma negli ultimi giorni la probabilità di una conferma del mandato (in scadenza a febbraio) sono aumentate significativamente, tranquillizzando così gli investitori.

 

Lo stesso Powell ha nei giorni scorsi rassicurato i mercati in merito alle evoluzioni del tasso di inflazione (uno dei maggiori rischi alla prosecuzione del cammino di crescita dell’economia) ed alla “pazienza” nei suoi confronti da parte della Fed (non certo intenzionata ad aumentare, ancora, i tassi di interesse), dopo averne atteso ed auspicato il ritorno per molti anni.

 

In campo sanitario, poi, i risultati dei test delle pillole antivirali per le persone affetta da Covid pubblicati da parte di Pfizer sono stati molto confortanti, mostrando una riduzione di quasi il 90% dei ricoveri ospedalieri e dei decessi.

 

Meno efficaci (con un ridimensionamento del 50% dei casi più gravi) ma promettenti sembrano essere le cure in sperimentazione da parte della Merck, un’altra casa farmaceutica statunitense.

 

La settimana scorsa erano inoltre attese con curiosità le elezioni dei governatori in Virginia e nel New Jersey che hanno alla fine confermato la perdita di consenso del Presidente Biden e del partito democratico (pur mantenendo il proprio governatorato nel New Jersey).

 

Questo rende più probabile che tra un anno, alle elezioni di metà mandato, i repubblicani possano tornare a controllare la camera dei rappresentanti (mentre il senato potrebbe rimanere in mano ai democratici); un simile scenario non dispiace affatto ad economisti ed analisti finanziari in quanto potrebbe limitare gli eccessi di spesa proposti dal presidente e rendere più equilibrata la gestione della spesa pubblica nella seconda parte del suo mandato.

 

Malgrado una sempre maggiore rifocalizzazione sulla politica economica domestica, iniziata da Trump e non certo smentita da Biden, rimane cruciale il comportamento dell’economia statunitense (dove si produce un quarto circa del PIL mondiale) anche per le sorti del nostro vecchio continente (in special modo in una fase storica che si sta caratterizzando per il ridimensionarsi della crescita economica cinese) ed i segnali positivi fanno ben sperare.

Gli Stati Uniti, d’altronde, sono forse il solo luogo al mondo dove il miracolo economico non ha mai smesso di rinnovarsi e possiamo ben dire, citando Thomas Wolfe, che “… è un paese favoloso, l’unico paese favoloso, l’unico posto dove i miracoli non solo avvengono, ma dove accadono ogni momento”.

Ciò non può naturalmente fare dimenticare come i prossimi mesi saranno molto delicati, in special modo per i colli di bottiglia ancora presenti nel sistema produttivo (responsabili in buona parte dell’aumento dei prezzi di beni, materie prime e servizi ai quali stiamo assistendo) e per una possibile ripresa, stagionale, dei contagi ma, se queste difficoltà saranno superate senza troppi affanni, potremo poi assistere, dalla prossima primavera, alla continuazione di un ciclo economico positivo ed ancora nella sua fase iniziale.

 

La ripresa mondiale (rinata dalle ceneri della pandemia) è ancora molto giovane proprio come lo è l’America secondo Bruce Chatwin: “Giovane, innocente e crudele”.

Celeste Impero e cieli azzurri

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La ventiseiesima Conferenza delle parti (Conference Of Parties, COP26) che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, trattato nel cui ambito è stato siglato l’Accordo di Parigi ha iniziato domenica i suoi lavori a Glasgow, in Scozia.

 

Si tratterà di trovare un accordo tra i principali Paesi per ridurre l’inquinamento ed arrestare il trend in corso (di fatto dalla rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo) al surriscaldamento del pianeta.

 

L’obiettivo esigerà una azione decisa su più versanti: dalla riduzione dell’utilizzo del carbone all’arresto della deforestazione, dall’utilizzo di veicoli elettrici al massiccio investimento nelle risorse energetiche rinnovabili.

 

Durante gli incontri preparatori durante il G20 di Roma non si sono fatti sostanziali passi avanti al di là dell’accordo a non finanziare i progetti di produzione energetica basati sul carbone al di fuori dei propri confini (ma non all’interno, come fatto recentemente dalla Cina).

 

Cruciale sarà il ruolo dei Paesi emergenti che contribuiscono ai due terzi delle emissioni di CO2 e che necessiteranno dell’aiuto economico dei Paesi più industrializzati.

 

La sola Cina si stima che sia il principale responsabile, con il 28% del totale, della produzione di anidride carbonica, pur essendo solo al tredicesimo posto nelle emissioni pro-capite.

 

Il Paese più popoloso del mondo ha aderito alla richiesta di procedere alla riduzione delle sostanze inquinanti ma la data della “neutralità” (“net zero emissions”) che ha fornito, ”entro  il 2060”, è lontana da quella proposta dagli altri Paesi (il 2050).

 

L’impressione è che l’attenzione della leadership cinese sia in questo momento rivolta più ad un consolidamento politico interno che a perseguire un impegno deciso sul fronte del riscaldamento globale (rinunciando ad una fonte energetica ancora fondamentale per il paese asiatico come il carbone).

 

Il 7 novembre inizierà, infatti, l’assemblea plenaria del Comitato Centrale Cinese ed avrà come piatto forte una nuova “Risoluzione sulla storia”.

 

Si tratterà della terza “risoluzione” in cent’anni di storia del gigante asiatico e precederà di un anno esatto la terza riconferma di Xi Jinping a capo del Partito, nel 2022.

 

Le “risoluzioni” hanno sempre caratterizzato in Cina dei momenti di snodo, storicamente rilevanti, e sono state utilizzate per rafforzare la leadership al governo e per porre fine alle lotte di potere al vertice della politica cinese.

 

La prima venne elaborata da Mao Zedong nel 1945, per affermare la sua leadership unica sul partito e sbarazzarsi senza tanti scrupoli dei suoi rivali interni, e la seconda da Deng Xiao Ping nel 1981, con l’ammissione degli errori della Rivoluzione culturale, l’adozione di una politica di apertura, senza rinnegare il pensiero del “Grande timoniere”, e l’introduzione di un’economia di mercato (al fianco di quella governata dallo Stato).

La risoluzione che verrà discussa la prossima settimana non potrà che riaffermare l’importanza di Xi Ping e della politica della “Prosperità comune”  (della quale ho parlato nell’articolo: https://iltorinese.it/2021/10/19/prosperita-e-carbone/) nella storia del Paese.

 

L’obiettivo finale, più volte dichiarato, è quello di costruire entro il 2049, il centesimo anniversario della Cina Moderna, un grande e moderno Paese socialista capace di inaugurare una nuova fase del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

 

Anche in questa occasione la pianificazione sui tempi lunghi rimane una delle caratteristiche della Cina e non a caso un suo celebre detto recita: “ci vuole un decennio per coltivare gli alberi, ma un secolo per coltivare gli esseri umani”.

 

E’ molto forte, quindi, la sensazione che gli interessi del Celeste impero saranno, almeno per il momento, posti di fronte a quelli, globali, di avere cieli più azzurri ed una crescita più sostenibile.

 

Sperando ardentemente di essere smentito, consiglio di seguire con attenzione gli sviluppi della politica cinese cercando di individuarne le evoluzioni ed i mutamenti, qualche volta lenti e quasi impercettibili.

 

D’altronde, come diceva Confucio, non importa quanto lentamente vai finché non ti fermi.

 

Nel frattempo saranno i Paesi occidentali che dovranno guidare il cambiamento e mantenere viva la speranza di un mondo migliore.

 

Eppur si muove…

Nero petrolio

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il prezzo del petrolio ha toccato negli ultimi giorni dei livelli che non si vedevano dal 2018. 

 

Sembra lontanissimo il ricordo di quando, appena 18 mesi orsono, nell’aprile del 2020, incamerando un barile di petrolio, consegnato a fine maggio, si poteva incassare fino a 40 dollari (non sapendo dove depositare il greggio acquistato tramite i contratti “future”, gli investitori erano disposti a pagare pur di sbarazzarsene).

La forte, e per molti inattesa, ripresa dell’economia nella seconda parte del 2020 ha rappresentato uno shock che ha rapidamente fatto impennare il prezzo del carburante che ora può nuovamente fregiarsi del titolo di “oro nero”.

 

Non si tratta certamente del primo caso: più volte in passato le oscillazioni del combustibile hanno sorpreso per la loro violenza.

 

Ma questa volta si inserisce un nuovo elemento.

 

La pandemia, oltre ai drammatici riflessi umani ed economici, ha prodotto un accresciuto interesse verso l’ambiente ed i rischi legati al cambiamento climatico indotto dall’uomo.

 

Il gap delle emissioni di CO2 rispetto al livello fissato durante gli Accordi di Parigi del 2015 rimane molto ampio.

 

Il rallentamento economico del 2020 ha prodotto solo una modesta, del 7%, riduzione delle emissioni inquinanti ed abbondano gli inviti ad un’azione più decisa per ridurre l’utilizzo di combustibili fossili.

 

Le fonti rinnovabili rappresentano oggi quasi la metà della produzione di energia elettrica in Europa e poco meno di un terzo negli Stati Uniti.

 

Non si tratta di una quota trascurabile ma occorre considerare come i due terzi dei consumi petroliferi siano dovuti ai trasporti e la loro riconversione sarà graduale e richiederà parecchi anni.

 

Per rendersene conto basta pensare allo “strano caso” della Norvegia.

 

Nel Paese scandinavo, il tredicesimo produttore al mondo di petrolio, le vendite di autovetture elettriche costituivano già il 60% nel 2020 ed a settembre di quest’anno erano ulteriormente salite al 78% del totale.

 

Ciò nonostante i consumi norvegesi non si sono minimamente ridotti.

 

I nuovi veicoli elettrici, infatti, costituiscono ancora solo una piccolissima parte del parco auto circolante (per lo più alimentato a benzina).

 

A livello mondiale le vendite di veicoli elettrici sono oggi circa il 3% del totale e l’obiettivo di raggiungere il 60% entro il 2030 appare molto ambizioso.

 

Di fronte a queste incertezze i giganti del settore energetico hanno congelato o ridimensionato i nuovi investimenti, nel timore che un brusco rallentamento nella domanda di greggio possa, tra qualche anno, renderli non più convenienti.

 

L’IEA (l’Agenzia internazionale dell’energia, un’organizzazione internazionale intergovernativa fondata nel 1974 in seguito allo shock petrolifero dell’anno precedente) stima che i consumi scenderanno, entro il 2030, del 29% e provocheranno così una discesa del prezzo a 35 dollari (dagli 85 attuali).

 

Avviene così che l’apertura di nuovi pozzi e gli investimenti in nuovi impianti vanno a rilento e l’estrazione fatica a tenere il passo della domanda.

 

Non va peraltro trascurato il fatto che anche la produzione proveniente dalle fonti rinnovabili comporta un notevole dispendio di risorse inquinanti (e di petrolio).

 

Un recente studio della società di consulenza indipendente Alpine Macro (“The chaotic energy transition”, 12 ottobre 2021) ha messo a confronto i valori del rapporto tra energia prodotta (e immagazzinata) ed energia consumata per la sua produzione per le principali fonti energetiche (l’ EROI, Energy Return on Investment).

 

Questo calcolo tiene conto, ad esempio, che per produrre le turbine eoliche occorre acciaio ed alluminio che, a loro volta, richiedono grandi consumi di energia per essere prodotti.

 

Senza volere andare troppo nello specifico di un dibattito già molto acceso (dove sono in grande crescita gli estimatori del nucleare, la fonte che emergerebbe come la più efficiente con un EROI di 70, rispetto ai meno di 3 del fotovoltaico), tutto ciò contribuisce a rendere molto complessa ed incerta la previsione del mix energetico dei prossimi anni.

 

Per rimanere ai nostri giorni, il rallentamento dell’economia, su ambedue le sponde dell’oceano, potrebbe riportare presto un maggiore equilibrio sul mercato ed una stabilizzazione e, successivamente, un ridimensionamento del prezzo del barile (e delle altre materie prime) e con questo del tasso di inflazione.

 

L’andamento dei prezzi al consumo è una delle maggiori preoccupazioni dei banchieri centrali che hanno nella custodia della loro stabilità una delle loro funzioni principali e che con la loro azione (decidendo, ad esempio, di aumentare i tassi di interesse) potrebbero complicare l’andamento dell’economia.

 

Il governatore della Banca centrale statunitense, Jerome Powell, in un discorso tenuto nei giorni scorsi, ha rinunciato a definire come “temporanea” l’attuale inflazione ed ha, invece, sottolineato come essa permarrà elevata anche nei primi mesi del nuovo anno, provocando un brivido nella schiena degli investitori.

 

Non è il caso di essere troppo pessimisti ma occorrerà prestare la massima attenzione e non farsi spaventare da eventuali reazioni scomposte da parte dei mercati finanziari.

 

La transizione verso un futuro più sostenibile comporterà, inevitabilmente, dei mutamenti che potranno provocare, per alcuni settori, conseguenze negative ma che creeranno, in tempi più lunghi, benefici ben superiori.

 

Dovremo fare i conti con i carburanti fossili ancora per molti anni ma la minaccia rappresentata dalle loro emissioni inquinanti (e dalle oscillazioni del loro prezzo) dovrebbe gradualmente ridursi, con effetti positivi anche in campo geopolitico (con una riduzione del potere esercitato dai Paesi produttori).

Il futuro, insomma, sarà un po’ meno nero…petrolio.

 

Prosperità e carbone

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Negli ultimi mesi è forte la sensazione che la Cina abbia deciso di riportare sotto il controllo statale molti comportamenti sociali ed attività economiche.

 

Lo scorso maggio era stato aumentato a tre il numero massimo di figli concesso alle famiglie cinesi, dopo essere stato elevato a due nel 2016, senza peraltro grandi risultati sulle nuove nascite.

 

Nei mesi successivi i fuochi d’artificio erano continuati.

 

A fine agosto il governo aveva annunciato il divieto per i minorenni di dedicare ai giochi elettronici più di tre ore la settimana: il giovedì, il venerdì e il sabato, dalle 20 alle 21.

 

L’agenzia di informazione governativa, la Xinhua, si era subito affrettata a precisare come questa misura volesse “proteggere la salute fisica e mentale dei giovani in un’era di grande rinnovamento della nazione”.

 

Già nel 2019 era stata introdotta una limitazione, a un’ora e mezza al giorno (tre durante le vacanze), ma evidentemente questo non era più ritenuto essere sufficiente per preservare l’integrità delle giovani generazioni.

 

Erano seguite, poi, le azioni decise nei confronti dei giganti della tecnologia cinese (in quanto fonti di eccessivo arricchimento personale e strategiche per il futuro del Paese) e del settore dell’educazione (ritenuta troppo costosa ed elitaria se lasciata nelle mani dell’iniziativa privata).

 

La matrice comune di tutte queste iniziative si può ricondurre allo slogan lanciato da Xi Jinping già nel 2017 ma diventato di dominio pubblico, ripetuto ossessivamente ad ogni uscita pubblica, solo nell’ultimo anno: “Prosperità Comune”, la vera e propria stella polare che deve guidare la navigazione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Questa nuova linea strategica dovrà condurre a una forte riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, anche tra le diverse regioni del Paese, e rappresenta una chiara rottura con il “Socialismo con caratteristiche cinesi” introdotto e diffuso da Deng Xiaoping.

 

Il leader indiscusso del Paese tra il 1978 ed il 1992, ricordato in occidente per i tragici fatti di piazza Tienanmen, è stato anche colui che ha portato la Cina ad aprirsi alle riforme “capitaliste” su proprietà privata (promuovendo la decollettivizzazione della terra e di fatto abolendo le comuni) ed impresa, sull’onda del “lasciate che qualcuno possa diventare ricco affinché poi ad arricchirsi sia tutto il Paese”.

 

Per Deng il perseguimento del fine ultimo della “Prosperità comune” era un obiettivo di lungo termine da raggiungere attraverso la privatizzazione di un’ampia parte dell’economia e la contemporanea creazione di una solida classe media.

 

Il risultato è stato quello di una Cina che si è presentata al nuovo millennio più aperta nei confronti del mondo e forte economicamente ma con enormi squilibri interni.

 

L’era inaugurata da Xi dal suo insediamento, nel 2013, è quella di un Paese che vuole elevare la qualità della vita del maggior numero possibile di cinesi, anche a discapito della sua crescita economica (non a caso ridimensionatasi nell’ultimo decennio).

 

Il messaggio è stato annunciato negli ultimi anni a chiare lettere pur se accompagnato dalla rassicurazione che ciò non significa certo “uccidere i ricchi per aiutare i poveri”, come ha ricordato recentemente Han Wenxiu, un alto ufficiale del partito.

 

Si tratta di ridurre drasticamente i privilegi dei più abbienti (ma senza porre a rischio l’esistenza delle loro attività imprenditoriali) e di investire con decisione nei servizi pubblici rendendoli accessibili per tutti.

 

Il costo di un simile cambiamento di rotta era ben chiaro alla dirigenza del partito e non a caso il governo ha alternato l’utilizzo del bastone, nei confronti delle grandi imprese private, con quello della carota, sottolineando la loro importanza ma anche la necessità che contribuiscano con più generosità alla crescita della società e del Paese.

 

Questo “incoraggiamento” ha portato, secondo quanto riportato dall’agenzia di informazione statunitense Bloomberg, ben 73 società cinesi quotate in borsa ad annunciare un loro contributo finanziario volontario alla “Prosperità Comune”.

 

Tra le aziende più attive e generose ci sono state quelle tecnologiche, le più penalizzate dal nuovo corso: Tencent investirà in progetti legati alla “Prosperità Comune” 50 miliardi di Reminbi (pari a 6,5 miliardi di euro) e Alibaba più del doppio.

 

A loro volta i fondatori di Xiaomi (cellulari e prodotti avanzati dell’elettronica di consumo) e Meituan (il più grande operatore cinese delle consegne a domicilio) hanno donato privatamente oltre 10 miliardi di Reminbi (1,3 miliardi di euro) in azioni delle loro società.

 

Il risultato finale dovrebbe essere quello di portare ad una maggiore “prosperità”, con una distribuzione della ricchezza più equilibrata ed un aumento massiccio della classe media.

 

Sono queste ultime le aree dove è stato più evidente il fallimento di Deng, in grado di fare crescere enormemente le dimensioni economiche del Paese a vantaggio, però, solo di una ristretta cerchia di super-ricchi.

 

La critica appare a noi occidentali forse troppo dura ed ingenerosa; sotto Deng vi è stata una importante riduzione della povertà (grazie ad una accelerata industrializzazione ed urbanizzazione della popolazione) e la classe media, quasi inesistente all’inizio del suo mandato, annovera ora circa mezzo miliardo di persone.

 

Malgrado ciò è indubbio che molto resta da fare.

 

Va ricordato, infatti, che in Cina esistono ancora 600 milioni di persone (su un totale di 1,4 miliardi) che vivono con meno di 1.000 Reminbi (130 euro) al mese e che rappresentano un perenne rischio alla sua stabilità sociale.

 

Alla gestione di Deng, Xi imputa anche una crescita endemica della corruzione e, sin dall’inizio del suo mandato, per combatterla, ha punito o epurato, secondo i dati ufficiali, più di quattro milioni di membri del partito.

 

La Prosperità Comune è inoltre così importante da giustificare deroghe (o passi indietro) a quanto sembrava già avviato e definito.

 

E’ il caso della produzione di energia dove, dopo avere pianificato la loro riduzione, la Cina ha annunciato nei giorni scorsi di volere costruire nuove, più efficienti, centrali a carbone, spostando in avanti gli obiettivi legati alla riduzione di emissioni inquinanti e allontanando così le speranze di un accordo globale al prossimo COP26 (la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ) che si terrà a Glasgow a fine ottobre.

 

Il carbone ha avuto un improvviso risveglio a causa dell’aumento di prezzo del petrolio e, a peggiorare le cose, c’è stato l’anno scorso il bando della Cina alle importazioni di carbone dall’Australia, quale ritorsione per una disputa che andava dalla critiche ricevute sulla gestione dell’esplosione della pandemia, alla sempre più netta scelta di campo occidentale (con l’adesione al QUAD con USA, India e Giappone) di Canberra.

Questa scelta si è trasformata in un clamoroso autogol: la dipendenza della Cina dal carbone è ancora elevata e le forniture, dal Kazakhstan, devono percorrere ben 30 giorni in mare (con costi elevatissimi) prima di arrivare a destinazione.

 

Il Natale che si sta avvicinando farà contenti, con i suoi regali, molti bravi bambini, pur con le difficoltà legate alla pressoché certa congestione delle consegne, ma anche i più monelli potrebbero essere, per una volta, soddisfatti di ricevere qualche chilo di nero, preziosissimo, carbone.

Il cielo sopra Torino

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

Nel film “Il cielo sopra Berlino” si racconta la storia di due angeli, Damiel e Cassiel, che si aggirano per la città con lo scopo di ascoltare i pensieri dei vivi.

Uno di loro si affeziona così tanto alla città ed alla sua gente che decide di diventare umano e di abbandonare la sua esistenza spirituale.

A questo mi ha fatto pensare la “Italian Tech Week” tenutasi a Torino il 23 e 24 settembre.

L’evento ha ospitato molti “angeli” che per due giorni si sono aggirati nella nostra città per osservarla e coglierne le potenzialità.

Si sono succeduti sul palco giovani imprenditori (“startuppers”) e meno giovani esperti e visionari, a testimoniare il nostro dinamismo e la capacità di innovare senza lasciarsi scoraggiare dalle tante difficoltà poste dal nostro ecosistema.

Non è certo difficile innamorarsi del nostro Paese e la stessa Torino possiede un grande fascino ma perché esso possa sfociare in vero amore occorre una maggiore consapevolezza delle nostre potenzialità ed un progetto concreto che lo possa sostenere.

La due-giorni di respiro internazionale (tra gli ospiti, in diretta dalla sede di SpaceX nel Texas, anche Elon Musk) ha fatto da virtuale introduzione alla settimana che ha condotto alle elezioni del prossimo sindaco.

Chi prenderà il testimone di Chiara Appendino dovrà sostenere il fardello di rilanciare il ruolo della prima capitale italiana, più che mai in cerca di una sua nuova identità (dopo la crisi del settore automobilistico che l’aveva sostenuta nel secolo scorso).

Ma il peso sulle spalle del nuovo primo cittadino potrebbe anche tramutarsi in un paio di possenti ali se saprà gestire il suo incarico con una chiara visione del futuro e la volontà (e capacità) di coinvolgere le, per fortuna numerose, eccellenze cittadine.

Tra queste possiamo già annoverare, dopo il successo della sua seconda edizione, proprio la Tech Week che ha acceso i riflettori sulla nostra città, mettendo bene in luce come le nuove iniziative, le “startups”, possano diventare un importantissimo volano di crescita.

Forse non è davvero un caso che i soggetti privati che aiutano, investendo il proprio denaro, le imprese nascenti siano chiamati “angel investors” (o “business angels”): proprio come gli esseri che nel film di Wim Wenders vigilano su Berlino, si innamorano delle storie (aziendali) umane più interessanti e le accompagnano nel loro percorso.

A fare il punto sulla situazione  del settore è stato l’intervento di Yoram Wijngaarde, il fondatore di @Dealroom.co, un formidabile archivio di dati globale che punta ad intercettare (investendoci) ed a seguire le aziende più promettenti.

L’imprenditore olandese ha ben sottolineato il contributo economico ed occupazionale che possono fornire le aziende innovative.

Negli Stati Uniti le startups, principalmente tecnologiche, sono già il maggiore generatore di occupazione, con il 24% del totale.

Nella Baia di San Francisco (nei dintorni della quale si trova la “Silicon Valley”) quasi il 70% dei posti di lavoro sono creati da aziende di nuova costituzione.

In Italia oggi il loro peso è pressoché inesistente ed anche il numero di potenziali “unicorni” (imprese innovative con un valore stimato superiore al miliardo di dollari), 12 in tutto, impallidisce di fronte quello britannico, 213, francese, 104, tedesco, 94, e spagnolo, 25.

La buona notizia è che l’Italia sta crescendo e si trova nella stessa posizione della Francia 7 anni fa o della Spagna 4 anni orsono.

E’ confortante, inoltre, sapere che nella tecnologia una strategia vincente può consentire di bruciare le tappe e scalare le classifiche con estrema velocità.

Si tratta, ad esempio, di quanto è successo alla Germania, con l’affermazione di Berlino come una delle capitali mondiali dell’innovazione, negli ultimi anni.

L’auspicio è che la nuova amministrazione cittadina possa consentire a Torino di (tornare a) giocare, per l’Italia, lo stesso ruolo trainante nelle tecnologie assunto dalla capitale tedesca.

Le OGR (Officine Grandi Riparazioni) che hanno ospitato la Tech Week sono un simbolo vivente, e molto vitale, di come si possa rigenerare un luogo abbandonato e mi piace reinterpretare la sigla come un imperativo, che ben si confà alla nostra città: “Ogni Giorno: Rinascere!”

Dal cielo sopra Torino gli angeli ci guardano ma dovremo essere noi a fare il massimo per convincerli a scendere… e ad aiutarci a volare.

La ricerca e la felicità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi il National Bureau of Statistics of China, l’omologo del nostro ISTAT, insieme al ministero della scienza e a quello delle finanze, ha pubblicato il “Communiqué on National Expenditures on Science and Technology in 2020”.

 

Si tratta di un dettagliato rapporto sull’andamento della spesa nazionale in ricerca e sviluppo.

 

La crescita, superiore al 10%, ha ancora una volta superato quella dell’economia cinese, portando gli investimenti in ricerca al 2,4% del PIL.

 

In valore assoluto i cinesi investono oggi nella ricerca il doppio dei giapponesi, più di due volte e mezzo dei tedeschi e la metà degli americani.

 

Le cifre assumono una dimensione ancora più significativa (ed esprimono più correttamente l’impegno finanziario) se aggiustate per il loro potere di acquisto (con la stessa somma si possono acquistare quantità diverse degli stessi beni, a seconda del loro prezzo, nei diversi Paesi): emerge così che le somme investite dalla Cina eguagliano ormai quelle degli USA, sono 3 volte il Giappone e 5 volte la Germania.

 

Non a caso lo stesso giorno il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha pubblicato il piano strategico quindicennale per trasformare la Cina in una superpotenza nella proprietà intellettuale.

 

La cosa può apparire sorprendente viste le cruente battaglie combattute per anni tra le aziende occidentali e le autorità di Pechino per ottenere il riconoscimento dei brevetti, violati o copiati dalle imprese cinesi.

 

Si tratta di un altro segnale del cambiamento di marcia della politica economica sotto la guida di Xi Jinping.

 

Dopo la stretta sulle multinazionali private e quella sul settore immobiliare (che sta portando al fallimento controllato del colosso nazionale China Evergrande) appare sempre più chiaro che il timone della corazzata cinese stia puntando con decisione sull’innovazione di Stato e sulla riduzione della speculazione e della corruzione.

Il settore immobiliare costituisce più di un quarto del PIL cinese (negli USA è intorno al 6-7%) ed è stato uno dei motori che ne hanno maggiormente sostenuto la crescita negli ultimi 30 anni ma questo ha generato una bolla fatta di prezzi elevatissimi, debiti esorbitanti ed enormi investimenti improduttivi (intere città create e rimaste desolatamente disabitate).

 

Basti pensare che per acquistare un appartamento in una grande capitale occidentale servono tra le 13 (a San Francisco) e le 22 volte il reddito medio annuo mentre a Pechino occorre destinare all’acquisto l’equivalente di 50 stipendi.

 

Anche la ulteriore stretta appena annunciata dal governo cinese, sull’utilizzo delle criptovalute per i pagamenti, può essere ricondotta alla campagna di riduzione delle operazioni speculative, di un maggiore controllo dei flussi finanziari e, di non trascurabile importanza, del contenimento delle emissioni inquinanti.

 

La Cina sta da tempo cercando di proporsi come paladina delle energie rinnovabili (è la sede dei maggiori produttori di impianti fotovoltaici) con l’obiettivo di uscire dalla lista dei Paesi più inquinanti del pianeta.

 

La produzione dei bitcoin comporta, infatti, enormi consumi di energia che in estate è fornita, a basso costo, dai molti impianti idroelettrici che, foraggiati dalle abbondanti piogge, hanno un eccesso di produzione, ma che nella stagione secca fanno ricorso a inefficienti, inquinanti e spesso abusive e pericolose, miniere di carbone ancora presenti in tutta la Cina centrale.

 

A questo proposito va sottolineato come sin dalla prima violenta presa di posizione del Comitato del Partito, lo scorso maggio, i grandi “minatori” stanno spostando i loro attrezzi (enormi computer, trasportati da altrettanto imponenti autotreni) verso Paesi più accoglienti ed il Texas sta diventando una delle destinazioni preferite.

 

Ad inizio anno i tre quarti dell’“estrazione” complessiva di bitcoin veniva fatta nel celeste impero e si stima che oggi si sia più che dimezzata.

Più in generale, il ruolo del mercato privato in Cina rimarrà importante ma circoscritto alle aree non ritenute strategiche e funzionali alla crescita del benessere nazionale.

 

Lo standard, il livello di innovazione, richiesto per competere nei mercati internazionali sta crescendo con sempre maggiore rapidità e rimanere indietro oggi vorrà dire trovarsi soli, nel deserto, senza viveri né acqua, domani.

 

L’ Italia investe in ricerca e sviluppo circa l’1,47% del Pil (di cui lo 0,93% da parte delle imprese private, dati ISTAT 2019): la Germania e gli Stati Uniti quasi il 3% e la media dei primi 40 Paesi l’ 1,75%.

 

La buona notizia per la nostra regione è che il Piemonte si trova (secondo il rapporto ISTAT pubblicato un anno fa) al vertice con il un il 2,17% del PIL speso in ricerca.

 

C’è un lungo cammino da percorrere ma prima bisognerà costruire strade sicure (come le infrastrutture digitali) che ci possano consentire di tornare a correre.

 

Le nostre nuove generazioni di imprenditori stanno mostrando, con le loro “startup”, una grande vivacità come testimoniato nella, appena terminata a Torino, seconda edizione della Italian Tech Week.

 

Questo importante evento (che merita un prossimo “Puntaspilli” ad hoc) ha riunito nella nostra città innovatori di tutto il mondo, lanciando importanti segnali sulle opportunità che ci vengono offerte dalle nuove tecnologie.

 

Risulta perciò chiaro come nella “ricerca della felicità” (economica) la parola chiave potrebbe proprio essere la prima.

 

La speranza in un futuro dove le grandi potenzialità del nostro Paese possano tornare a dare i loro frutti ha quindi tutti gli elementi per essere alimentata.

 

D’altronde, come ha ricordato l’ospite d’ onore della kermesse torinese, Elon Musk, è sempre meglio essere ottimisti e sbagliare qualche volta che essere pessimisti ed avere sempre ragione.

 

 

Per aspera ad astra

IL PUNTASPILLI di Luca Martina  

 

La missione spaziale INSPIRATION4, appena rientrata dopo 3 giorni in orbita a 575 km sulla Terra, è stata la prima ad ospitare a bordo solo dei “civili” (quattro “turisti spaziali”) e, nello stesso tempo, ad essere completamente finanziata da un’ azienda privata (SpaceX, un’altra creatura del fondatore di Tesla, Elon Musk).  

 

Il (salatissimo) prezzo dei biglietti è stato pagato interamente dal comandante della missione, il miliardario americano Jared Isaacman, fondatore della società Shift4 Payments, appassionato ed esperto pilota, attraverso una donazione di $200 milioni di dollari all’ospedale per bambini St Jude, nel Tennessee.

 

Il costo di 50 milioni di dollari a testa si confronta con i 28 milioni pagati da un anonimo acquirente (poi costretto a rimandare la sua partecipazione rinviandola a una futura missione) per volare per complessivi 10 minuti, dei quali ben 4 a disposizione per fluttuare liberamente nella capsula, sulla Blue Origin di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon), a 100 km di altezza, il 20 luglio.

 

A venire incontro alle legittime aspirazioni astronautiche dei meno abbienti ci aveva pensato qualche giorno prima, l’11 luglio, la Virgin Galactic di Richard Branson che per soli 250.000 dollari aveva consentito di imbarcarsi per la sua missione, durata 71 minuti, a 80 km di distanza dalla terra.

 

Curiosamente proprio durante il viaggio “low cost” della Virgin si sarebbe accesa nell’abitacolo una luce rossa che poteva indicare un serio (potenzialmente fatale) problema e che, non essendo stata dichiarata all’ Agenzia statunitense per l’aviazione, ha provocato la sospensione del prossimo volo (che avrebbe ospitato una missione scientifica dell‘Aeronautica militare italiana e del Consiglio nazionale delle ricerche).

 

Quello che è certo è che la “Space economy” sta volando: secondo le stime della banca d’affari americana Morgan Stanley, nel 2020 ha generato circa 350 miliardi di dollari di fatturato ed entro il 2040 il giro d’affari dovrebbe superare i 1.000 miliardi.

 

Scienza, non fantascienza…

 

Non si tratta, naturalmente, di solo “turismo spaziale” che, anzi, ne costituirà, anche in futuro, solo una parte molto limitata.

 

I tre quarti del totale sono costituiti dalla connessione a banda larga satellitare che consente di trasmettere i dati (che continueranno la loro crescita esponenziale) e di comunicare senza necessità di cavi od altre infrastrutture a terra.

 

Il moltiplicarsi delle missioni private consentirà, dal suo canto, di rendere sempre più efficienti gli spostamenti nello spazio, per fini commerciali e scientifici, esplorandone ulteriormente le infinite potenzialità.

 

La parte del leone l’hanno fatta sino ad oggi, come si può facilmente immaginare, gli Stati Uniti, con quasi due terzi del totale degli investimenti.

 

L’Europa ricopre, comunque, un ruolo tutt’altro che marginale: un terzo dei satelliti mondiali sono infatti fabbricati nel nostro continente, impiegando 230.000 tecnici specializzati.

 

A testimonianza di ciò, ad aprile il Parlamento Europeo ha approvato un ambizioso piano che investirà nel comparto spaziale, tra il 2021-2027, quasi 15 miliardi di euro.

 

Questo programma consentirà una gestione più efficiente del traffico, riducendo le emissioni inquinanti, incrementando l’utilizzo di droni per le consegne e migliorando gli spostamenti aerei (evitando così ritardi e cancellazioni).

 

Il settore è senza alcun dubbio un pilastro cruciale per mantenere il nostro continente competitivo e capace di esercitare un ruolo di innovatore in uno scenario internazionale sempre più complesso.

 

Si tratta di una sfida da cogliere anche per il nostro territorio che ha maturato una solida tradizione nel settore aerospaziale.

 

Non sarà semplice e le difficoltà da superare (a partire dalla capacità di attrarre nuovi investimenti) sono molte ma…Per aspera ad astra…

L’altra metà del cielo

IL PUNTASPILLI

di Luca Martina

 

Un recente studio della rivista The Economist dimostra come i Paesi che discriminano le donne abbiano una più elevata probabilità di essere violenti ed instabili.

 

I 20 Paesi più fragili e turbolenti del pianeta dal punto di vista sociale, economico e politico, come classificati da Fund for Peace (un’organizzazione senza fini di lucro con sede a Washington), praticano, ad esempio, tutti la poligamia.

 

Tra questi figura la Guinea (oggetto di un colpo di Stato da parte dei militari lo scorso 5 settembre) dove il 42% delle spose tra i 15 e i 49 anni fanno parte di unioni poligame.

 

Alquanto diffuso in questi Paesi è il fenomeno delle “spose bambine”: un quinto delle donne del mondo si sono sposate prima dei 18 anni (il 5% prima dei 15) vivendo in uno stato di semi-schiavitù e buona parte di queste sono concentrate nei Paesi in via di sviluppo.

 

In molti Stati inoltre è ancora praticato l’aborto selettivo dei feti femminili e ciò conduce, tra le altre cose, ad un pericoloso squilibrio (esasperato dalla poligamia) tra giovani uomini e donne che spesso si traduce in una feroce violenza (fisica e psicologica) nei confronti di queste ultime.

 

L’Afghanistan, dove, fino al ritorno dei talebani, quasi l’80% delle ragazze erano arrivate a frequentare la scuola primaria (a nessuna era consentito farlo prima del 2001), è oggi oggetto di grande attenzione e ci fa riflettere (anche) su questi temi; occorrerà non abbassare la guardia anche quando il Paese centro asiatico scomparirà dalle copertine e dalle prime pagine dei giornali.

 

Va anche ricordato che, come emerso da un’analisi del 2006 (sempre condotta da The Economist), la principale forza dietro i progressi economici degli ultimi decenni sia stata proprio la crescita dell’occupazione femminile.

 

Sono passati quasi 130 anni da quando Zelanda, nel 1893 concesse, per prima, il voto femminile (negli Stati Uniti arrivò nel 1920 ed in Italia nel 1945) ma in alcune aree del mondo questo diritto fondamentale viene tuttora negato.

 

Dare la possibilità alle donne di ottenere un adeguato livello di istruzione e libero accesso al mondo del lavoro può trascinare fuori dalla povertà intere famiglie e comunità dei Paesi poveri, dove grava soprattutto su di loro la spesa per l’alimentazione, l’educazione e la salute dei figli.

 

Anche per il nostro Paese (che occupa secondo l’ultimo rapporto Global Gender Gap del World Economic Forum un ben poco dignitoso settantaseiesimo posto su 153 Paesi), un miglioramento del livello dell’occupazione femminile (ed una sua più equa valorizzazione) rappresenta una delle maggiori risorse a nostra disposizione per accelerare la crescita economica nei prossimi anni.

 

Ne ha fatto menzione anche il primo ministro Mario Draghi promettendo che, nell’ambito del PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), almeno 7 miliardi di euro saranno investiti, entro il 2026, per la promozione dell’uguaglianza di genere.

 

Dietro una profonda e sacrosanta questione di civiltà ci sono dunque anche degli importanti riflessi economici che, a loro volta, possono contribuire a ridurre le diseguaglianze tra i sessi.

 

Christine Lagarde, l’attuale presidente della Banca Centrale Europea, è stata, nel 2007, la prima donna dei Paesi G8 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada e Russia) a ricoprire un incarico ministeriale (ministra francese dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego) e può autorevolmente farsi portavoce di queste istanze.

 

Risulta quindi fin troppo evidente come solo la forza delle donne potrà rendere meno fragile (“antifragile”, per usare il neologismo, coniato nel suo omonimo libro, da Nassim Taleb) questo nostro pianeta.

 

Perché le donne sono l’altra metà del cielo: quella più azzurra.

 

Pane e talebani

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Da alcune settimane le notizie provenienti dall’Asia centrale sono il pane quotidiano di tutti gli analisti, anche di quelli che si concentrano sulle sue ripercussioni economiche.

 

Dopo la presa del potere da parte dei talebani la Cina si è detta subito disponibile a intraprendere con loro relazioni “cooperative ed amichevoli” e l’agenzia di comunicazione ufficiale di Pechino ha sottolineato come ora l’ Afghanistan potrà finalmente beneficiare degli investimenti previsti dalla “Nuova via della seta”, la “Belt and Road Initiative (BRI)”.

 

Si tratta dell’ imponente progetto che viene descritto per esteso nel sito governativo cinese come “Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road”.

 

​La “cintura (belt)” è costituita dalla rete di collegamenti via terra tra la Cina e l’Europa mentre la “strada (Road)” circumnaviga le terre emerse, dal Mare Cinese meridionale al Mediterraneo.

 

Alcuni analisti lo ritengono un tentativo di esportare la globalizzazione in stile cinese assumendo il controllo economico di regioni sempre più ampie.

E’ curioso come ad innescare questa iniziativa siano stati proprio i loro attuali maggiori critici, gli Stati Uniti, quando nel 2011 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton propose la creazione di una Nuova Via della Seta con al centro proprio l’Afghanistan.

 

Pungolata (e irritata) da una intrusione in quella che percepiva la propria area di influenza, la leadership cinese decise proprio allora di unire i singoli progetti intrapresi in giro per il mondo in una strategia ad ampio respiro.

 

Due anni dopo, nel 2013, il presidente Xi Jinping, annunciava ufficialmente la BRI, un gigantesco progetto di rafforzamento dei collegamenti e delle comunicazioni che andava ben oltre la regione euroasiatica, estendendosi sino al continente africano (al centro da tempo degli interessi del Celeste impero, sempre alla ricerca di fonti di approvvigionamento di materie prime per le proprie industrie).

 

L’obiettivo dichiarato, dettato da una visione globale del mondo che consentirà, a progetto completato, di dotare delle infrastrutture fondamentali (strade, oleodotti, ferrovie, ponti…) i Paesi in via di sviluppo, sarebbe quello di consentire una riduzione della povertà e delle disuguaglianze.

 

Inoltre saranno ridotti i costi ed i tempi richiesti al trasporto e questo si tradurrà in una maggiore crescita economica.

 

Pur se non esplicitamente menzionati innumerevoli sono i vantaggi per la stessa Cina che sarà così in grado di beneficiare, con le proprie aziende, di grandi commesse (finanziate in buona parte dai Paesi coinvolti) per i progetti da realizzare, potrà aprire nuovi mercati per la proprie aziende (sempre alla ricerca di nuovi mercati di sbocco che ne riducano la dipendenza da quello americano) ed avrà accesso all’esplorazione di vasti bacini di risorse naturali (delle quali è il principale consumatore mondiale).

 

Proprio questo ultimo aspetto risulta un evidente corollario del passaggio del testimone a Kabul.

Negli ultimi vent’anni le ricche miniere afghane hanno prodotto per il governo locale ingenti perdite (qualche centinaia di milioni di dollari ogni anno) e la precaria sicurezza (atti di violenza e intimidazione hanno impedito la messa in produzione della maggior parte delle miniere) ha scoraggiato gli investitori internazionali (con l’eccezione della Cina).

 

Il mese scorso il co-fondatore (con il mullah Mohammed Omar, morto di tubercolosi nel 2013) del ricostituito Emirato islamico dell’Afghanistan e Presidente de facto di quest’ultimo, Abdul Ghani Baradar, ha incontrato il ministro degli esteri cinesi Wang Yi.

 

Uno dei temi del vertice sino-talebano è stato sicuramente la “normalizzazione” della situazione afghana e la messa in sicurezza delle attività minerarie (la cinese Metallurgical Corporation of China, MCC, è il principale operatore del settore nel Paese) oltreché la garanzia di non intervenire in aiuto della minoranza islamica uigura in Cina.

 

Si preannuncia per i Paesi occidentali una sempre più sgradita dipendenza nelle preziose “terre rare”, indispensabili per la produzione di prodotti ad alta tecnologia (dai superconduttori ai motori per veicoli elettrici), dalla Cina (principale produttore) e dai suoi alleati.

 

A volere riscuotere il dividendo talebano c’è poi, oltre alla “solita” Russia (storicamente molto attiva nella regione) anche il Pakistan (Paese che, pur ricevendo enormi quantità di denaro dagli Stati Uniti, si è dimostrato assai poco affidabile nel contenere il terrorismo internazionale), nelle cui “madrase” hanno studiato molti dei nuovi governanti afghani, che già nel 1996 aveva fornito il suo supporto al governo degli “studenti” e questo potrebbe tradursi in accresciute tensioni con l’odiato vicino: l’India.

 

Dal punto di vista economico le conseguenze immediate di tutto ciò sono limitate ma l’ombra degli eventi di questi giorni si allungherà sicuramente nei prossimi anni ed è opportuno valutarle sin da ora per poterne prevenire gli effetti.

 

Nei giorni e mesi che verranno il principale rischio è quello umanitario e occorrerà che tutti i Paesi si attivino affinchè non si ripetano i fenomeni che hanno portato in passato allo sterminio e alla sottomissione di tutti coloro che si opponevano al regime.

 

L’Afghanistan ha una vasta superficie, pari a quella dell’Italia e della Germania, per lo più montuosa e desertica, insieme ed una popolazione (circa 38 milioni) di poco superiore ad un quarto alla nostra sommata a quella tedesca.

La capitale Kabul ha calamitato negli ultimi anni una fetta crescente di afghani sino agli attuali 5 milioni, che sono anche quelli più “occidentalizzati” e proprio perciò a rischio più elevato di subire persecuzioni e ritorsioni.

 

Solo uno stretto controllo della situazione da parte del mondo civilizzato, in questo momento alla finestra, potrà mantenere alta l’attenzione ed evitare le conseguenze più estreme.

 

Fondamentale sarà la pressione nei confronti della Cina: essendo l’unico Paese ad avere le carte in grado di influenzare l’esito della partita dovremo scongiurare il rischio che decida di tenerle in mano, giocandole solo quando lo riterrà ed a proprio unico vantaggio.

 

Non sarà certo un compito facile perché, come amava dire il segretario di Stato americano Henry Kissinger:  “I Cinesi, avendo fatto a meno di noi per 5.000 anni, pensano di potere continuare a farne a meno.”

 

Papaveri (da oppio) e papere (geopolitiche)

 IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’offensiva talebana in Afghanistan ha subito una grande accelerazione negli ultimi mesi.

 

Il suo obiettivo è quello di arrivare all’inizio dell’inverno (quando l’azione militare dovrà ridursi drasticamente per ragioni climatiche) con la maggior parte del Paese sotto il proprio controllo e sembra più vicino ora che anche la capitale Kabul ha ceduto agli “studenti” (questo il significato in Pashtu, la lingua iranica parlata anche in Pakistan, della parola “talebani”).

 

Il disimpegno americano (con il ritiro totale fissato entro l’11 settembre) non avrebbe dovuto, automaticamente, riconsegnare il paese ai vecchi governanti, spodestati nella guerra intrapresa all’indomani dell’attentato terroristico che distrusse, nel 2001, le torri gemelle di New York.

 

Più di 2.300 miliardi di dollari sono stati spesi complessivamente dagli Stati Uniti nel Paese asiatico e una importante parte di questa somma è stata destinata all’assunzione e alla formazione delle truppe locali.

 

Sulla carta l’esercito e la polizia afghana conterebbero su 300.000 effettivi, ben superiori alle forze talebane, che si aggirerebbero intorno ai 60.000 combattenti alle quali si aggiungono milizie per un totale di 200.000 persone.

 

La endemica corruzione ha però generato un esercito impreparato, poco leale e motivato e di dimensioni probabilmente molto inferiori ai dati ufficiali.

 

Quando il “generale inverno”, a dicembre, imporrà il cessate il fuoco il Paese potrebbe essere ormai completamente sotto il controllo talebano e pronto ad esportare, oltre alla droga (la principale fonte non ufficiale di valuta forte), incertezza e instabilità al resto del mondo.

 

Basti pensare che nel 2007 si stimava che il 93% degli oppiacei circolanti nel mondo era stato coltivato in Afghanistan, con introiti superiori ai 4 miliardi di euro.

 

Poco importa che la coltivazione dei papaveri da oppio e la sua raffinazione sia stata in larga parte creata negli anni 70 con la poco lungimirante complicità della CIA statunitense, in ottica antisovietica: il cane rabbioso, si sa, una volta recisa la catena si avventa, mordendola, sulla mano che lo nutre.

 

L’Afghanistan, una volta riunito sotto un unico governo talebano, sarebbe in grado di riattivare le tantissime (circa 1400) miniere presenti sul suo territorio: si tratta di carbone, rame, oro, ferro, gas naturale, petrolio e altre preziose risorse.

 

Questo enorme fiume di denaro servirebbe poi, con ogni probabilità, anche ad alimentare una miriade di gruppi terroristici legati al mondo islamista radicale, con effetti destabilizzanti sulla regione (e non solo).

 

La speranza è che i negoziati, iniziati a Doha nel 2018 e mai completamente interrotti, possano produrre dei risultati positivi e che il Paese, situato proprio nel cuore dell’Asia Centrale, possa rinverdire i fasti legati alla “Via della seta”.

 

L’Afghanistan è stato il crocevia di importanti traffici commerciali sin dal 2500 avanti Cristo quando il suo lapislazzuli (la preziosa, dal suo etimo latino-arabo, “pietra azzurra”) andava ad impreziosire le arpe in avorio che accompagnavano le sepolture dei sovrani di Ur, in Iraq.

 

La massima fioritura si ebbe tra il primo secolo a.C. ed il secondo secolo della nostra era quando le sue strade erano percorse dalla seta proveniente dalla Cina, spezie, avorio e crisolito (usato per produrre abiti resistenti al fuoco) dall’ India, oggetti di argento dall’impero persiano e prodotti in oro, vetro, terracotta, statue ed anfore da Roma ed il suo impero.

 

Fu solo lo sviluppo delle tecniche navali, nel XVI e XVII secolo, che rese più semplici gli spostamenti via mare, a consegnare all’oblio la via della seta e con essa lo stesso territorio afghano.

 

Oggi la crescita economica e demografica del continente asiatico rappresenta una grande opportunità per il Paese e lo pone al centro di importanti intrecci geopolitici ai quali, al ruolo storico della Russia, si sono aggiungi negli ultimi decenni prima gli Stati Uniti e, in tempi più recenti, la vicina Cina.

 

Proprio la Cina, d’altronde, condivide con l’Afghanistan un, pur sottile, di 76 chilometri, confine ed è perciò molto attenta all’evoluzione della situazione per poterne, a tempo debito, cogliere i frutti.

 

La partita che si gioca avrà dunque impatti economici e politici molto importanti e sarà l’ennesimo banco di prova della sfida che contrappone il mondo occidentale alla Cina e alla Russia.

 

Speriamo di non doverci trovare un giorno a rimpiangere il, forse troppo prematuro, ritiro del contingente americano e nella scomoda situazione di avere a che fare con una nuova, ma potenzialmente ben più rilevante, Corea del Nord. ​