Prosperità e carbone

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Negli ultimi mesi è forte la sensazione che la Cina abbia deciso di riportare sotto il controllo statale molti comportamenti sociali ed attività economiche.

 

Lo scorso maggio era stato aumentato a tre il numero massimo di figli concesso alle famiglie cinesi, dopo essere stato elevato a due nel 2016, senza peraltro grandi risultati sulle nuove nascite.

 

Nei mesi successivi i fuochi d’artificio erano continuati.

 

A fine agosto il governo aveva annunciato il divieto per i minorenni di dedicare ai giochi elettronici più di tre ore la settimana: il giovedì, il venerdì e il sabato, dalle 20 alle 21.

 

L’agenzia di informazione governativa, la Xinhua, si era subito affrettata a precisare come questa misura volesse “proteggere la salute fisica e mentale dei giovani in un’era di grande rinnovamento della nazione”.

 

Già nel 2019 era stata introdotta una limitazione, a un’ora e mezza al giorno (tre durante le vacanze), ma evidentemente questo non era più ritenuto essere sufficiente per preservare l’integrità delle giovani generazioni.

 

Erano seguite, poi, le azioni decise nei confronti dei giganti della tecnologia cinese (in quanto fonti di eccessivo arricchimento personale e strategiche per il futuro del Paese) e del settore dell’educazione (ritenuta troppo costosa ed elitaria se lasciata nelle mani dell’iniziativa privata).

 

La matrice comune di tutte queste iniziative si può ricondurre allo slogan lanciato da Xi Jinping già nel 2017 ma diventato di dominio pubblico, ripetuto ossessivamente ad ogni uscita pubblica, solo nell’ultimo anno: “Prosperità Comune”, la vera e propria stella polare che deve guidare la navigazione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Questa nuova linea strategica dovrà condurre a una forte riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, anche tra le diverse regioni del Paese, e rappresenta una chiara rottura con il “Socialismo con caratteristiche cinesi” introdotto e diffuso da Deng Xiaoping.

 

Il leader indiscusso del Paese tra il 1978 ed il 1992, ricordato in occidente per i tragici fatti di piazza Tienanmen, è stato anche colui che ha portato la Cina ad aprirsi alle riforme “capitaliste” su proprietà privata (promuovendo la decollettivizzazione della terra e di fatto abolendo le comuni) ed impresa, sull’onda del “lasciate che qualcuno possa diventare ricco affinché poi ad arricchirsi sia tutto il Paese”.

 

Per Deng il perseguimento del fine ultimo della “Prosperità comune” era un obiettivo di lungo termine da raggiungere attraverso la privatizzazione di un’ampia parte dell’economia e la contemporanea creazione di una solida classe media.

 

Il risultato è stato quello di una Cina che si è presentata al nuovo millennio più aperta nei confronti del mondo e forte economicamente ma con enormi squilibri interni.

 

L’era inaugurata da Xi dal suo insediamento, nel 2013, è quella di un Paese che vuole elevare la qualità della vita del maggior numero possibile di cinesi, anche a discapito della sua crescita economica (non a caso ridimensionatasi nell’ultimo decennio).

 

Il messaggio è stato annunciato negli ultimi anni a chiare lettere pur se accompagnato dalla rassicurazione che ciò non significa certo “uccidere i ricchi per aiutare i poveri”, come ha ricordato recentemente Han Wenxiu, un alto ufficiale del partito.

 

Si tratta di ridurre drasticamente i privilegi dei più abbienti (ma senza porre a rischio l’esistenza delle loro attività imprenditoriali) e di investire con decisione nei servizi pubblici rendendoli accessibili per tutti.

 

Il costo di un simile cambiamento di rotta era ben chiaro alla dirigenza del partito e non a caso il governo ha alternato l’utilizzo del bastone, nei confronti delle grandi imprese private, con quello della carota, sottolineando la loro importanza ma anche la necessità che contribuiscano con più generosità alla crescita della società e del Paese.

 

Questo “incoraggiamento” ha portato, secondo quanto riportato dall’agenzia di informazione statunitense Bloomberg, ben 73 società cinesi quotate in borsa ad annunciare un loro contributo finanziario volontario alla “Prosperità Comune”.

 

Tra le aziende più attive e generose ci sono state quelle tecnologiche, le più penalizzate dal nuovo corso: Tencent investirà in progetti legati alla “Prosperità Comune” 50 miliardi di Reminbi (pari a 6,5 miliardi di euro) e Alibaba più del doppio.

 

A loro volta i fondatori di Xiaomi (cellulari e prodotti avanzati dell’elettronica di consumo) e Meituan (il più grande operatore cinese delle consegne a domicilio) hanno donato privatamente oltre 10 miliardi di Reminbi (1,3 miliardi di euro) in azioni delle loro società.

 

Il risultato finale dovrebbe essere quello di portare ad una maggiore “prosperità”, con una distribuzione della ricchezza più equilibrata ed un aumento massiccio della classe media.

 

Sono queste ultime le aree dove è stato più evidente il fallimento di Deng, in grado di fare crescere enormemente le dimensioni economiche del Paese a vantaggio, però, solo di una ristretta cerchia di super-ricchi.

 

La critica appare a noi occidentali forse troppo dura ed ingenerosa; sotto Deng vi è stata una importante riduzione della povertà (grazie ad una accelerata industrializzazione ed urbanizzazione della popolazione) e la classe media, quasi inesistente all’inizio del suo mandato, annovera ora circa mezzo miliardo di persone.

 

Malgrado ciò è indubbio che molto resta da fare.

 

Va ricordato, infatti, che in Cina esistono ancora 600 milioni di persone (su un totale di 1,4 miliardi) che vivono con meno di 1.000 Reminbi (130 euro) al mese e che rappresentano un perenne rischio alla sua stabilità sociale.

 

Alla gestione di Deng, Xi imputa anche una crescita endemica della corruzione e, sin dall’inizio del suo mandato, per combatterla, ha punito o epurato, secondo i dati ufficiali, più di quattro milioni di membri del partito.

 

La Prosperità Comune è inoltre così importante da giustificare deroghe (o passi indietro) a quanto sembrava già avviato e definito.

 

E’ il caso della produzione di energia dove, dopo avere pianificato la loro riduzione, la Cina ha annunciato nei giorni scorsi di volere costruire nuove, più efficienti, centrali a carbone, spostando in avanti gli obiettivi legati alla riduzione di emissioni inquinanti e allontanando così le speranze di un accordo globale al prossimo COP26 (la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ) che si terrà a Glasgow a fine ottobre.

 

Il carbone ha avuto un improvviso risveglio a causa dell’aumento di prezzo del petrolio e, a peggiorare le cose, c’è stato l’anno scorso il bando della Cina alle importazioni di carbone dall’Australia, quale ritorsione per una disputa che andava dalla critiche ricevute sulla gestione dell’esplosione della pandemia, alla sempre più netta scelta di campo occidentale (con l’adesione al QUAD con USA, India e Giappone) di Canberra.

Questa scelta si è trasformata in un clamoroso autogol: la dipendenza della Cina dal carbone è ancora elevata e le forniture, dal Kazakhstan, devono percorrere ben 30 giorni in mare (con costi elevatissimi) prima di arrivare a destinazione.

 

Il Natale che si sta avvicinando farà contenti, con i suoi regali, molti bravi bambini, pur con le difficoltà legate alla pressoché certa congestione delle consegne, ma anche i più monelli potrebbero essere, per una volta, soddisfatti di ricevere qualche chilo di nero, preziosissimo, carbone.

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