Il puntaspilli- Pagina 5

Atterraggio difficile 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Tutti coloro che hanno avuto modo di effettuare un viaggio aereo avranno ben presente la sensazione di leggero disagio che accompagna l’annuncio dell’atterraggio. 

Le cinture vanno allacciate, i sedili riportati in posizione e le bevande vengono ritirate dagli assistenti di volo: occorre evitare che nel momento nel quale i carrelli toccheranno la pista le vibrazioni provochino dei danni ai viaggiatori.

Molto raramente il ritorno a terra si può autenticamente definire come un “atterraggio morbido”, dove non si avverte nessuna differenza tra l’attimo prima e quello immediatamente successivo all’impatto.

La capacità del pilota di limitare i sobbalzi al momento del contatto viene spesso premiata dagli applausi dei passeggeri, finalmente sollevati.

Simili applausi, seppure in senso metaforico, saranno certamente riscossi dai banchieri centrali (Jerome Powell negli Stati Uniti e Christine Lagarde nell’area euro) se riusciranno a fare approdare l’economia su di una pista piuttosto accidentata, senza generare spiacevoli incidenti.

Il dibattito sulla probabilità che ciò possa accadere si è particolarmente animato nelle ultime settimane.

Alcuni dei maggiori esponenti del mondo finanziario hanno rilasciato dichiarazioni molto pessimiste, che lasciano poco spazio a manovre che possano evitare le peggiori conseguenze.

L’amministratore delegato della banca d’affari statunitense JP Morgan, Jamie Dimon, teme l’arrivo di un “uragano economico”; il vulcanico fondatore della Tesla, Elon Musk, esprime una “fortissima sensazione negativa”; Larry Fink, al timone di BlackRock, prevede “inflazione altissima per molti anni” e, per chiudere in bellezza, John Waldron, presidente di Goldman Sachs, mette in guardia sulla presenza di una quantità mai vista prima di potenziali shocks…

Si tratta di esternazioni che preoccupano e che lasciano ben poche speranze al futuro immediato dell’economia mondiale, avviata, secondo costoro, verso una recessione molto severa.

Esistono però anche degli elementi che possono rendere possibile un rallentamento graduale, senza troppi violenti impatti sul duro terreno, della crescita.

I dati più confortanti provengono dagli Stati Uniti, come sempre precursori delle fasi di svolta economica. L’ultima indagine congiunturale (la ISM) ha mostrato un rallentamento sia dell’industria che dei servizi ma ambedue i settori si sono mantenuti al di sopra del livello (pari a 50) al di sotto del quale scatta l’allarme (il rischio di recessione).

Il rallentamento è una condizione indispensabile per raffreddare l’inflazione in quanto la riduzione della domanda di beni e servizi provoca la riduzione dei loro prezzi (o della loro salita).

Un altro fenomeno da seguire con attenzione è il surriscaldamento del mercato del lavoro dove il numero di posti richiesti dalle aziende è attualmente superiore alle persone in cerca di occupazione.

Questo squilibrio potrebbe innescare una spirale prezzi-salari.

La richiesta di aumenti degli stipendi per compensare la perdita del potere di acquisto è uno dei maggiori timori della Fed, la banca centrale statunitense: le aziende, per proteggere i loro bilanci, sarebbero indotte poi a scaricare i maggiori costi sui prezzi dei loro prodotti (acquistati grazie anche ai maggiori salari) producendo così ulteriore inflazione.

Per fortuna qualche elemento di conforto si può anche in questo caso trovare: la disoccupazione è solo ora tornata agli stessi livelli (recuperando quanto perso) pre-pandemia e anche le pressioni provenienti dai salari, saliti meno dell’inflazione, sono per il momento contenute.

Simili considerazioni possono valere anche per il nostro continente che, per la sua maggiore dipendenza dalle importazioni di risorse energetiche, sta affrontando una congiuntura più difficile di quella americana.

Insomma, non è ancora tutto perduto e un atterraggio complicato, ma in grado di evitare l’irreparabile, è ancora possibile.

I passeggeri/investitori dovranno senza dubbio ancora affrontare delle forti turbolenze e i piloti avranno il loro bel daffare per riportarci a casa spaventati ma indenni.

Per conservare il buon umore consiglierei di rivedere il film Sully, tratto dalla storia vera del capitano Chesley Sullenberger, in grado di fare atterrare un aereo della US Airways, con ambedue i motori danneggiati dall’impatto con uno stormo di uccelli, sul letto del fiume Hudson e di portare in salvo tutte le persone a bordo.

Naturalmente non prima di avere ben allacciato le cinture!

Ombre cinesi 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Negli ultimi mesi un’ombra si sta allungando minacciosa sulla Cina che ci appare oggi come un’autentica tigre in gabbia. Il rallentamento dell’economia era previsto ma l’ultimo dato, una discesa dell’11% delle vendite al dettaglio, ha rappresentato un campanello d’allarme da non sottovalutare. 

 

Proveremo allora per un attimo ad ignorare l’avvertimento di Ennio Flaiano, per il quale “capire la Cina è non soltanto impossibile ma inutile”, e cercheremo di comprendere cosa stia avvenendo nel Celeste Impero, unificato dalla dinastia Qin (dalla quale deriva il nome del Paese) due secoli prima di Cristo.

 

Va ricordato innanzitutto come Xi Jinping, durante i suoi dieci anni di presidenza, abbia riportato indietro con decisione le lancette della storia: la spinta riformistica (con vaste aperture all’iniziativa privata), iniziata quarant’anni fa da Deng Xiao Ping con la creazione del “Socialismo con caratteristiche cinesi”, ha subito una brusca frenata e lo Stato, controllore, imprenditore e pianificatore, è tornato, con una pericolosa inversione di marcia, pienamente protagonista.

Dopo avere dato il maggiore contributo alla crescita dell’economia mondiale per quasi vent’anni (seppure con minore impeto nell’ultimo decennio), quest’anno il gigante asiatico potrebbe non riuscire a centrare l’obiettivo ufficiale (recentemente riconfermato) di un progresso del PIL del 5,5% e crescere meno degli Stati Uniti.

 

Una grande responsabilità è da attribuire alla politica della “tolleranza zero” nei confronti della pandemia di Covid19 (con le chiusure di molte città, porti e centri produttivi). Dietro una la scelta così draconiana e per certi versi incomprensibile ci sono gli inconfessabili timori di una nuova ondata aiutata dall’adozione di un vaccino nazionale, il CoronaVac della cinese Sinovac, poco efficace di fronte alle variazioni del virus e dalla scarsissima copertura della popolazione raggiunta con la terza dose.

L’obiettivo di Xi è quello di presentarsi quale unico candidato possibile al ventesimo congresso del Partito Comunista Cinese (il PCC) del prossimo novembre, con le carte in regola per ottenere la terza riconferma (sino al 2027) ma di fronte alle difficoltà economiche stanno emergendo sempre più chiaramente due fazioni contrapposte.

 

Da un lato c’è la linea della “prosperità comune” e del capitalismo di Stato, il “nuovo concetto di sviluppo” secondo le parole di Xi, che mira a ridurre le diseguaglianze esistenti all’interno del Paese reprimendo i monopoli delle aziende private ed i redditi “irragionevolmente” elevati e redistribuendo la ricchezza dalle ricche regioni costiere a quelle, molto più povere, dell’interno. La Cina dovrebbe così affrancarsi dagli investimenti stranieri e dagli enormi gruppi di proprietà degli odiati “magnati assetati di profitti” (che controllano buona parte dei settori più innovativi), riducendo la sua dipendenza dalle esportazioni e privilegiando i consumi interni, ed emergere più forte che mai in settori strategici come la tecnologia, le telecomunicazioni e l’aerospaziale.

 

Gli strumenti adottati dall’attuale governo hanno rappresentato, specie negli ultimi due anni, una vera e propria terapia d’urto che ha avuto effetti drammatici sul settore tecnologico e dell’educazione, sottoposti a regolamentazioni severissime ed ora in forte contrazione (anche dal punto di vista borsistico, con il crollo delle loro quotazioni).

Persino peggiore è stata la sorte del settore immobiliare, pari al 20% del PIL, dove l’intento di prevenire maggiori problemi futuri, causati da una eccessiva salita speculativa dei prezzi delle case, ha provocato il fallimento “controllato”, per evitare il panico degli investitori cinesi, di alcuni dei più importanti operatori ed il crollo delle vendite di case (ad aprile -47% rispetto ad un anno prima). Anche la gestione della crisi russo-ucraina, dopo un iniziale totale allineamento con l’ “amico Putin”, ha suscitato malumori all’interno del partito che il presidente non ha potuto ignorare completamente e che hanno condotto ad una maggiore prudenza nei confronti dell’alleato.

Dall’altro versante ha preso forza lo schieramento, critico nei confronti di Xi e coerente con le aperture e le riforme dei precedenti leader, che annovera tra gli altri il primo ministro Li Keqiang e Han Zheng, uno dei setti membri del Comitato esecutivo del Politburo (il vertice composto dai più influenti esponenti del governo). L’opposizione, condotta all’interno del Comitato centrale, difende gli interessi delle regioni costiere, responsabili di gran parte della crescita degli ultimi decenni, e sostiene l’importanza dei rapporti internazionali, il ruolo ricoperto dalle esportazioni e dagli investimenti esteri ed un minore interventismo dello Stato in ambito economico.

Non c’è dubbio sul fatto che ambedue gli schieramenti puntino a riportare la Cina ad un ritmo elevato di crescita ma le strategie, come abbiamo visto, sono radicalmente diverse.

 

Il ruolo (e la rielezione) del “Nuovo timoniere” (così viene soprannominato richiamando il “Grande Timoniere” Mao Tse-Tung) non è certamente in discussione. L’esperienza maoista, che con un approccio patriarcale ed accentratore condusse alle nefaste conseguenze della “Rivoluzione culturale”, ha dimostrato l’importanza di una gestione collegiale del potere e proprio per questo il presidente si trova ora in una posizione di debolezza all’interno del PCC. Al prossimo convegno il presidente potrebbe non ottenere mano libera nella nomina degli altri componenti del Politburo e uscirne perciò depotenziato.

 

Questa situazione dovrebbe portare nel prossimo futuro Xi a mostrarsi più conciliante, ammorbidendo l’intransigenza dimostrata sinora sia sul fronte del Covid che su quello delle aziende private (e della lotta alla corruzione, che gli ha procurato molti nemici).

 

Novembre non è ancora alle porte ma il tempo per riportare la locomotiva asiatica sul giusto binario è limitato e Xi Jinping ne è sicuramente cosciente.

Il percorso è molto stretto e ritardi o errori di manovra determinerebbero gravi conseguenze, non solo per la Cina, in un momento storico già molto incerto e difficile da decifrare.

 

I prossimi mesi dovrebbero aiutare a rischiarare l’orizzonte e ricordarci che, a pensarci bene, “tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce” (Lev Tolstoj).

QUATTRO ragioni per una recessione alle porte ed UNA per non doverci deprimere 

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina 

La difficile situazione che stiamo attraversando ci porta a concentrarci ossessivamente sul presente (incerto e foriero di sviluppi economici negativi); questo ci rende poco lucidi e riflessivi, abbatte sgradevolmente il nostro umore (insieme ai nostri investimenti…) e ci impedisce di mettere il tutto in prospettiva.

Lungi da me l’idea di minimizzare gli effetti di una guerra e di quanto ne consegue. Si tratta, però, di una storia che non è per nulla nuova (cambia l’ordine degli addendi ma non il risultato finale) e che riassumerei in due brevi atti.


PRIMO ATTO (IN CORSO)

1-     L’inflazione riduce il potere di acquisto dei redditi (è l’equivalente di una tassa);

2-     La guerra tocca da vicino i nostri interessi economici (costringendoci a pagare risorse energetiche, materie prime e prodotti agricoli molto più cari degli anni scorsi);

3-     In Cina Xi Jinping dopo avere messo in discussione il sistema pseudo capitalista propugnato dai suoi predecessori (con conseguenze drammatiche sulle società private del settore tecnologico) ha ulteriormente premuto il freno con le chiusure anti-covid;

4-     Le banche centrali si trovano a fronteggiare un’inflazione che non si vedeva dagli anni ’80 e per farlo dovranno rallentare velocemente la domanda di beni e servizi (alzando i tassi di interesse).

NON DIMENTICHIAMO PERO’ CHE le recessioni sono una delle normali fasi di un ciclo economico (se ne parlava già nella Bibbia, nel libro della Genesi, nella storia del sogno di Giuseppe delle sette vacche grasse divorate poi da quelle magre) e, a differenza delle fasi espansive, sono solitamente molto violente ma di breve durata (pochi mesi o trimestri).

SECONDO ATTO

1-     La recessione è la (seppur involontaria) miglior medicina per sconfiggere l’inflazione;

2-     Dopo la guerra ci sarà la ricostruzione (le maggiori crescite economiche seguono spesso i grandi conflitti);

3-     La Cina riaprirà presto le sue città e c’è da scommetterci che per il Congresso Nazionale del Partito Comunista del prossimo novembre, fondamentale per Xi Jinping e la sua leadership, l’economia sarà ripartita;

4-     Le banche centrali proseguiranno il loro cammino nei prossimi mesi ma una recessione conclamata insieme al calo dell’inflazione porranno fine alla stretta (o la renderanno più morbida).

Coscienti del fatto che a scommettere sulla fine del mondo non si è mai arricchito nessuno, non ci resta allora che accettare il consiglio di Albert Einstein: “molto meglio essere ottimisti ed avere torto che essere pessimisti ed avere ragione”.

Terra, Luna e buchi neri

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Può capitare che dopo più di trent’anni di seria ed appassionata professione nell’ambito dei mercati finanziari ci si possa sentire uno stupido.

Non sorprenderà certo sapere che è una sensazione che ho provato più di una volta ma l’occasione nella quale, più delle altre, ho temuto di essere ormai incapace di cogliere tutte le sfumature di un mondo in continua e repentina trasformazione è stata quella che vi sto per raccontare.

La “finanza decentralizzata” (Decentralized Finance o, in breve, DeFi), la tecnologia applicata al mondo della finanza allo scopo di eliminare costosi ed inutili (ma non così tanto…) intermediari (quali le banche), è un tema di grandissimo interesse e sul quale si stanno investendo enormi quantità di denaro.

Tra coloro che si proponevano di “portare la DeFi alle masse” (come dichiarato nel loro sito web) ci sono i fondatori dell’ Anchor Protocol.

Si tratta di una piattaforma in grado di fornire servizi di deposito, pagamento ed investimento della liquidità, in una criptovaluta “stabile” (una “stablecoin”) creata ad hoc, senza ricorrere, come già accennato, ad un intermediario bancario.

Le “stablecoin” sono delle criptovalute il cui valore è legato ad una o più altre valute a corso legale e questo dovrebbe garantirne un andamento strettamente legato quello di queste ultime. Nel caso in oggetto si tratta della Terra (la UST), agganciata al dollaro statunitense.

Senza volere troppo complicare le cose (nella complessità si finisce per perdersi e per sentirsi sciocchi) occorre ancora dire che la tipologia specifica è in questo caso quella delle “stablecoin algoritmiche”: ciò significa che a garantire la stabilità dalle UST rispetto al dollaro (ovvero che il valore di 1 UST corrisponda sempre a 1 Dollaro) è un’altra criptovaluta, la Luna, creata appositamente.

Il cambio della Luna, secondo le rassicurazioni dei suoi creatori, avrebbe sempre consentito di trasformarsi in un UST in modo da mantenere il suo valore pari a quello del dollaro (ad esempio se il cambio Luna/Dollaro fosse stato di 10 con 10 Lune si sarebbe potuto acquistare un UST).

Sì lo so, ve lo dicevo, è complicato…

Ma il nocciolo della questione, ai miei occhi indecifrabile, era come fosse possibile che a coloro che investivano nell’ UST fosse garantito un rendimento (una cedola) del 20%.

Mi trovo quotidianamente a raccontare di un mondo afflitto da piccoli numeri (i rendimenti delle obbligazioni) e da grandi rischi (tipici dei mercati azionari ma ormai estesi anche ai titoli a reddito fisso) e leggere di rendimenti, privi di rischio, a doppia cifra (il 20%!) era per me ben oltre il confine del possibile (in realtà esistono delle spiegazioni, nelle quali non mi dilungo per non annoiare troppo).

Il gioco, per me inspiegabile, è andato avanti per un paio di anni, dopo la sua creazione, nel 2020, da parte di due coreani, Daniel Shin e Do Kwon.

Pochi giorni fa però tutto si è pressoché volatilizzato nel giro di poche ore.

Una settimana orsono esistevano 343 milioni di Luna (convertibili in UST) per un valore di 26,5 miliardi di dollari; venerdì scorso si erano moltiplicati sino a 6.500 miliardi, per un valore ridotto a soli 540 milioni di dollari (del tutto teorico in quanto nessuno sarebbe disposto oggi ad acquistare ingenti quantità di Luna).

Una valuta concepita per essere intrinsecamente sicura (stabile nei confronti del dollaro) è crollata riducendo quasi a zero il suo valore!

L’inizio della fine sembra sia stato dovuto ad un massiccio disinvestimento (pari a 350 milioni di dollari) che, non trovando sufficienti compratori sul mercato, ha fatto scendere il valore dell’UST al di sotto della parità col dollaro.

Nulla è più rischioso di uno strumento che nasce e viene acquistato come privo di rischio (è questo il caso delle stablecoin come UST) e una volta rotto il rapporto di stabilità i disinvestimenti si sono moltiplicati (come sempre avviene quando si perde la fiducia in uno strumento finanziario).

Il prezzo dell’UST è ora pari a meno di 18 centesimi di dollaro mentre quello della sua valuta satellite (Luna) è passato in pochi giorni da 80 dollari a 0,000023 centesimi!

Terra e Luna si sono alla fine universalmente rivelati per quello che realmente sono: un buco nero (non si tratta di una previsione sul futuro, qualora ne foste in possesso, ma la sola descrizione di quanto avvenuto).

La morale della storia è particolarmente semplice: quando ci viene offerta una possibilità di guadagno elevato, che nessuno prima ci aveva mai menzionato, e non riusciamo a comprendere come ciò sia possibile, beh, lasciamola a qualcuno più intelligente di noi.

Scopriremo, prima o poi, che conviene preservare i nostri investimenti accettando di sentirci stupidi, che bruciarli in modo (apparentemente) molto astuto ma incomprensibile.

Si tratta, come spesso avviene, di una favola senza lieto fine: “Molti per desiderio di avere sempre di più, perdono anche quello che hanno”. Parola di Esopo.

La coda del brontosauro 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Nell’estate del 2007 il leggendario investitore britannico Jeremy Grantham si diceva fortemente preoccupato per quanto stava avvenendo sui mercati: le nubi nere che avrebbero condotto alla crisi finanziaria dei mutui “sub-prime” si stavano addensando e i mercati finanziari venivano da lui paragonati a dei brontosauri. 

Il gigantesco sauropode del Giurassico Superiore una volta subito un morso alla punta della sua smisurata coda sarebbe stato in grado di reagire solo con estrema lentezza, il tempo necessario per fare arrivare l’impulso, dopo avere percorso tutta l’estremità, il robusto corpo e il lunghissimo collo, al suo piccolissimo cranio.

Così quindici anni fa i mercati avevano impiegato parecchi mesi prima di iniziare ad indebolirsi, incorporando quanto già era conosciuto (o conoscibile) da parecchi mesi.

La stessa immagine viene evocata oggi. Dopo molti mesi di inflazione salita ad un livello molto più elevato di quello considerato fisiologico (il 2%) dai banchieri centrali, da qualche tempo il messaggio di allarme è penetrato con forza anche nelle menti degli investitori.

L’immagine è suggestiva, non manca certo di arguzia e non è probabilmente troppo distante dalla realtà, ma, ad onor del vero, occorre ammettere come il “morso” iniziale (una inattesa pandemia di portata globale) sembrava potesse essere curabile e non causare così un dolore/inflazione duraturo.

Quello che ha cambiato le carte in tavola è stata una forte ripresa economica frenata (ma non ancora abbastanza) dalle conseguenze di una guerra che non può essere, come tante altre in giro per il mondo negli ultimi anni, ignorata perché coinvolge pesantemente il funzionamento delle economie occidentali.

Il peso specifico rappresentato dalla Russia e, in misura inferiore, dall’Ucraina, sui mercati delle materie prime ha scatenato una corsa al loro accumulo (nel fondato timore che presto il conflitto avrebbe creato dei problemi al loro approvvigionamento) ed il loro prezzo ha trascinato rapidamente l’inflazione a livelli mai visti negli ultimi quarant’anni.

Il brontosauro ha finalmente ricevuto il segnale e ora si agita, in modo nervoso e scomposto, per il dolore.

La parola proibita, R*********, esorcizzata dagli analisti economici e politici, incomincia a comparire nei commenti ufficiali. Negli scorsi giorni il governatore della Bank of England, Andrew Bailey, ha detto senza peli sulla lingua che la ineludibile missione di sconfiggere l’inflazione potrebbe presto condurre l’economia britannica ad una Recessione (ah, la parola…!).

Le recessioni (così come le, più durature e gradite, espansioni) rappresentano una delle “normali” fasi di un ciclo economico ma la sofferenza (economica e sociale) che portano con loro le rende assai indigeste (inaccettabili) per gli investitori (ed i politici).

L’azione dei “protettori della moneta” (le banche centrali) ha come obiettivo primario quello di uccidere l’idra inflazionistica e spetterà ai governi trovare un faticoso equilibrio che consenta di evitare le conseguenze peggiori (innanzitutto un aumento della disoccupazione) della caccia grossa.

Il cervello del brontosauro, così come quello degli investitori, sta ancora cercando di metabolizzare quanto sta avvenendo.

Il gigantesco rettile non a caso è andato incontro, da moltissimi anni, alla sua estinzione.

Gli investitori, se avranno pazienza, potranno sopravvivere…anche se con dolore.

Il mese più crudele

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Il 2022 è, secondo il calendario cinese l’anno della tigre, un segno caratterizzato da un segno da grande innovazione, cambiamento e rinnovamento ma anche impulsività e azione.

 

Per il mondo e per i mercati finanziari però i primi quattro mesi sono trascorsi sotto il segno dell’orso (che è utilizzato per rappresentare i periodi negativi mentre per quelli favorevoli è utilizzato il Toro).

 

L’orso russo si è rumorosamente destato dal proprio letargo, dal quale aveva già dato da tempo segnali di un sonno agitato da progetti bellicosi, scatenando una guerra dalle conseguenze e dalla durata imprevedibile.

 

Anche sulle piazze internazionali l’orso è imperversato: si è trattato infatti del peggior inizio d’anno da quarant’anni a questa parte per i mercati obbligazionari (deputati storicamente a rendere stabili i portafogli degli investitori) mentre per quelli azionari, prendendo come riferimento quello statunitense, bisogna ritornare ai primi quattro mesi del 1939 per assistere a un esordio d’anno più negativo.

 

La Terra ci appare da un qualche di tempo davvero desolata, proprio come la descriveva, pochi anni dopo la fine della Prima guerra mondiale, Thomas Stearns Eliot nel suo poema “Wasteland”, ferita com’è da malattie (la pandemia) e da un conflitto che pensavamo non più possibile nel nostro continente.

 

Possiamo allora ben dire che aprile è stato, per parafrasare il poeta americano, il mese più crudele avendo assistito ad una discesa del 10% dell’indice Standard and Poor e del 15% del Nasdaq.

 

Non mancano certo gli argomenti che possono aiutarci a comprendere meglio quanto avvenuto.

 

L’inflazione, risuscitata dopo molti anni dalla ripresa seguita alla prima ondata pandemica e resa più pervicace dall’aumento delle materie prime provocato dalla guerra in Ucraina, ha provocato l’aumento dei tassi di interesse (la cui funzione è quella di proteggere il potere di acquisto delle somme prestate fino al momento della loro restituzione) e questo, per la nota relazione inversa, si è tradotto in pesanti perdite per i titoli obbligazionari.

 

L’aumento dei prezzi si sta riflettendo nel rallentamento della crescita (così ben avviata nel 2021) e, conseguentemente, degli utili futuri delle società quotate in borsa ed in particolare di quelle che, grazie alle loro promettenti prospettive, godevano di valutazioni molto elevate e che sono perciò state punite con pesantissimi ribassi.

 

Ne sono un esempio il poker di titoli più amati, almeno sino a poco tempo fa, dagli investitori, i cosiddetti FANG (Facebook/Meta, Amazon, Netflix e Google/Alphabet), che hanno lasciato sul terreno negli ultimi sei mesi circa il 70% del loro valore.

 

Come se non bastasse, la pandemia non è stata ancora debellata, sebbene si manifesti ora fortunatamente con minore gravità, e la Cina, con la sua tolleranza zero, sta trascinando la propria economia in una fase di pericoloso (anche per il resto del mondo) stallo.

 

Il rischio che tutto ciò ci stia conducendo ad una severa recessione è ora quantomai reale.

 

Le banche centrali sono impegnate nella missione di spegnere le scintille (ormai tramutatesi in incendi) inflazionistiche a costo di fare annegare la ormai fragilissima crescita economica; il Fondo Monetario Internazionale prevede ancora per il 2022 uno scenario positivo per il PIL americano, +3,7%, ed europeo, intorno al +2% ma presto verrà quasi certamente rivista ulteriormente al ribasso.

 

Oggi e domani i signori del denaro della Federal Reserve si riuniranno a Washington per decidere il prossimo aumento dei tassi di interesse; l’opinione più diffusa è che sarà dello 0,5% ma l’attenzione sarà in gran parte rivolta al messaggio del governatore Jerome Powell che, come d’uso, accompagnerà la decisione per cogliere, dall’analisi attenta del testo, quali pensieri si aggirano nella sua preoccupatissima mente e le sue intenzioni sulle mosse future.

 

Le preoccupazioni sono state rafforzate anche dai dati pubblicati la scorsa settimana sul PIL statunitense: la discesa dell’1,4% ha rappresentato uno shock ma occorre considerare che la discesa (evento piuttosto raro e spesso anticamera di una recessione) è da attribuire al peggioramento degli scambi commerciali con l’estero (che ha un andamento molto erratico) e quello dell’accumulo delle scorte (salite tantissimo l’anno scorso, per il riapprovvigionamento delle aziende dopo le chiusure dovute alla pandemia).

 

Il “cuore” dell’economia americana nel primo trimestre, escludendo le esportazioni nette e le scorte, è cresciuto invece di un non disprezzabile 3%.

 

La situazione è quantomai in bilico ma potrebbe ancora tradursi in un rallentamento che, non appena lo stato di emergenza cinese sarà stato rimosso (come avvenuto nel 2020), la crisi Ucraina stabilizzata (si spera con un cessate il fuoco ed un accordo equilibrato tra le parti in causa) e le banche centrali più caute sulle future restrizioni monetarie, non degeneri in una pesante stagflazione (situazione ben più grave, dove l’inflazione si accompagna ad un forte aumento della disoccupazione ed alla recessione).

 

Qualche speranza viene proprio dal gigante asiatico dove il Presidente Xi Jinping ha annunciato al Politburo, tenutosi venerdì scorso, la volontà di sostenere l’obiettivo di una robusta crescita, pari al 5,5%, per quest’anno (al momento pare piuttosto ambizioso e per essere raggiunto sarà necessario riaprire presto tutte le città e le attività economiche attualmente in quarantena).

 

Con i se ed i con ma non si fa certo la storia ma quello che è certo è che concentrarsi eccessivamente sugli avvenimenti, giorno per giorno, può fare perdere la prospettiva (e la lucidità) complessiva.

L’orso potrebbe presto stancarsi e prendersi una pausa, soddisfatto dello scompiglio che ha portato in pochi mesi (il rallentamento della crescita potrebbe essere sufficiente ad interrompere  la spirale innescata dalla salita delle materie prime), oppure continuare ad aggirarsi famelico e nervoso ancora per qualche tempo.

 

Ci conforta ricordare che il maestoso plantigrado non resta mai troppo lontano dalla sua tana (le recessioni sono relativamente rare e di durata più breve delle fasi economiche positive) e che reagire in modo scomposto, arrivati a questo punto, non sembrerebbe la scelta migliore.

 

L’anno che sembrava iniziare sotto i migliori auspici, con la pandemia che stava riducendo la sua pericolosità ed ampi piani di rilancio economico, è stato sinora avarissimo di soddisfazioni.

 

Quanto è successo ci ricorda come le previsioni non sono per nulla difficili: la cosa complicata è, piuttosto, azzeccarle.

 

Prevedo che i prossimi mesi saranno molto, molto interessanti.

 

 

Una storia semplice

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La storia della Russia è legata indissolubilmente a quella delle repubbliche oggi indipendenti (almeno formalmente) che la circondano.

La necessità di creare un cuscinetto difensivo dalle potenze europee (Germania in testa) ed un accesso al Mar Nero è sempre apparsa come una assoluta priorità dei suoi governanti.

Ai nostri giorni la minaccia percepita da Mosca non è forse tanto la NATO o la Comunità europea quanto il loro sistema socio-economico che, termine di confronto costante per i sui abitanti, ha prima logorato e poi definitivamente fatto crollare la Cortina di ferro.

La forza attrattiva dell’Europa occidentale, con le sue variegate libertà (di pensiero, di stampa, di voto ma anche, non di minore importanza, di consumo), ha sempre rappresentato una minaccia che Vladimir Putin ha avuto ben chiara sin da quando ha varcato la soglia del Cremlino.

Va ricordato come alla fine del secolo scorso la Russia si trovava in una situazione estremamente difficile.

Dopo il dissolvimento dell’impero sovietico (il giorno di Natale del 1991) gli anni successivi avevano visto un presidente, Boris Eltsin, del tutto inadatto a gestire un Paese dove la povertà, la criminalità e la corruzione pubblica crescevano a dismisura.

Sin dal suo insediamento a capo del governo nell’agosto del 1999 Putin si è accreditato nei confronti del suo paese come l’uomo forte indispensabile necessario alla Russia per potere risorgere dalle proprie ceneri.

Durante il suo primo mandato presidenziale il PIL russo è cresciuto del 72% in otto anni e la sua popolarità è aumentata di pari passo.

Una volta stabilizzato il fronte interno l’attenzione del “piccolo zar” si è concentrata nel consolidamento e nell’accentramento presso di sé delle principali leve del potere.

Nel frattempo, il piano di riconquista dei territori sovietici persi ha iniziato a prendere corpo. Per potere avere successo un simile progetto non poteva certo prescindere da una maggiore integrazione delle federazione russa con i giganti economici europei, con l’obiettivo di renderli alla fine dipendenti dalle proprie risorse naturali.

L’ingresso, nel 2012, nel WTO (l’organizzazione mondiale del commercio) che ha consentito alla Russia di entrare pienamente negli scambi internazionali, ne è stato un chiaro esempio.

Un aiuto insperato è arrivato, poi, dalla decisione degli Stati Uniti (ancora sotto la presidenza Obama) di ridurre la propria presenza in Europa per concentrarla sul fronte asiatico.

I legami con la Germania sono presto diventati la potente testa di ponte russa in occidente e l’occasione ghiottissima dell’annuncio della chiusura delle centrali nucleari (nel 2011, dopo il disastro dell’impianto giapponese di Fukushima) ha consentito alla Russia di offrire il proprio gas su un vassoio d’argento, con un gasdotto, il Nord Stream 1, progettato nel 1997 e inaugurato giusto in tempo per tranquillizzare i tedeschi orfani dell’atomo.

Per l’imponente opera infrastrutturale, fondamentale per distribuire le enormi quantità di gas naturale necessarie ai Paesi europei (con la Germania e l’Italia in prima fila), furono coinvolti in ruoli attivi, utilissimi per ottenere le necessarie autorizzazioni, politici di spicco del nostro continente: a capo figurava l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder e tra i consulenti gli ex primi ministri finlandese ed italiano.

Ma l’abbraccio inestricabile dell’orso russo non si è limitato al super gasdotto, poi raddoppiato con il benestare tedesco, con il Nord Stream 2. A capo della maggiore banca russa, la Sberbank, veniva chiamato un altro ex primo ministro finlandese, alle ferrovie nazionali ed alla Lukoil (la più grande compagnia petrolifera nazionale) due ex cancellieri austriaci.

Gli “amici” russi resero anche inutile, portando al suo abbandono, il disegno, ormai ad uno stato avanzato di studio, che si prefiggeva di rendere navigabile il Danubio collegando così l’Europa Centrale al Mar Nero.

Il lungo volo della “falena pallida” (uno dei soprannomi di Putin) non si è però limitato a toccare l’Europa occidentale. I legami con Cina, India, Africa e Medio Oriente sono stati negli ultimi vent’anni coltivati con estrema cura.

Non poteva infine certo mancare una organizzazione che riavvicinasse, riunendoli in una organizzazione internazionale, alcuni dei gioielli della corona sovietica ed infatti nel 2011 Putin annunciava la creazione dell’Unione economica eurasiatica (UEE).

Sono tutte queste alleanze che stanno rendendo assai poco efficaci le sanzioni poste in atto contro Mosca.

A pensarci bene, è una storia semplice ed è così che è maturata, sottotraccia ma certamente non in modo invisibile, la crisi che ha condotto alla guerra.

Non c’è nessuno di così cieco di chi non vuole vedere e la guerra sta facendo ritornare la vista a molti di coloro che hanno colpevolmente per troppi anni chiusi i propri occhi.

Se un cieco si mette a guidare un altro cieco, entrambi cadono nella fossa, recitava Gesù nel vangelo di Matteo.

Riacquisita la vista si tratterà di farne in futuro buon uso e di non lasciarci più accecare dalla nostra cupidigia.

Non dovremmo mai dimenticare che, come ricordava un grande giornalista, Tiziano Terzani, “la Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti ma non certo per l’ingordigia di tutti”.

Armi, acciaio, malattie ed inflazione

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Per economisti e banchieri centrali la crescita degli ultimi 13 anni (prima della crisi provocata dalla pandemia) registrava un grande assente: l’inflazione. 

 

Storicamente (quantomeno dopo i due conflitti mondiali) le fasi positive del ciclo economico si sono sempre accompagnate a una salita dei prezzi di beni e servizi.

Il meccanismo è semplice: l’ottimismo sul futuro e la bassa disoccupazione conducono ad aumentare i propri acquisti e, prima o poi, i loro prezzi iniziano a salire (più un bene è ambito più diventa caro, specie se, vista la piena occupazione, non si è in grado di produrne in quantità sufficiente e nei tempi richiesti).

 

La violenta crisi che ha colpito i Paesi emergenti nel 1997, ha provocato una potentissima ondata deflazionistica (attraverso la svalutazione delle proprie valute e forti riduzioni dei prezzi delle loro esportazioni ai Paesi occidentali) che ha lambito le sponde di tutto il mondo nei due decenni successivi.

 

Se a questo si aggiunge la crescente “globalizzazione” (spostamento della produzione nei Paesi a basso costo ed incremento dei commerci internazionali) che ha accompagnato questo fenomeno, non è difficile comprendere il perché della scomparsa dell’inflazione.

 

Neanche la massiccia creazione di nuova moneta da parte delle banche centrali di tutto il mondo negli ultimi anni aveva stanato l’animale spaventato.

 

Negli anni seguiti alla crisi finanziaria del 2007 le economie di tutto il mondo (trainate dagli Stati Uniti) sono tornate a crescere (seppure a ritmi ridotti rispetto ai decenni precedenti), anche grazie all’azione concertata degli istituti centrali.

 

Ma la liquidità messa a disposizione è rimasta in larga misura “inattiva”, investita in buona parte in titoli obbligazionari, non spingendo, così, al rialzo i prezzi dei nostri acquisti bensì il valore dei portafogli investiti.

 

Uno dei massimi desideri, più volte dichiarati dai banchieri, era quello di tornare ad una situazione di “normalità”, dove un’inflazione moderata (il tasso identificato è quello del 2%) stimola a non differire gli acquisti (se penso che i prezzi aumenteranno acquisto oggi anziché aspettare future occasioni migliori) e consente alle aziende di incrementare i propri fatturati.

 

Il quadro è cambiato radicalmente negli ultimi due anni: la crisi pandemica e la guerra in Ucraina hanno provocato colli di bottiglia (dovuti alla ripresa economica post pandemica) e aumenti violentissimi dei prezzi delle materie prime.

Il ritorno, tanto agognato, dell’inflazione si è così improvvisamente materializzato ma il sogno ha assunto rapidamente i colori di un incubo per le banche centrali e per gli investitori.

 

La salita dei tassi di interesse ha prodotto forti perdite ai portafogli obbligazionari, ponendo anche dei dubbi sulla sostenibilità dei rialzi messi a segno dai mercati azionari (ed in particolare dei settori a maggiore crescita futura quale la tecnologia).

 

I maggiori rendimenti dei titoli di Stato potrebbero renderli più attraenti (dopo molti anni di vacche/interessi magrissimi) e convincere gli investitori azionari a spostarsi verso questi (meno rischiosi) investimenti.

 

Nello stesso tempo i tassi di interesse più elevati renderanno più costoso ripagare i debiti delle società e meno interessante la crescita futura degli utili, ridimensionando le prospettive dei mercati azionari.

 

Il livello dei tassi di interesse si trovava ai minimi degli ultimi 500 anni e una sua risalita non dovrebbe certo sorprendere ma si sa che i mercati non amano i cambiamenti e le incertezze che ne conseguono.

 

Il governatore della banca centrale statunitense, Jerome Powell, sembra deciso a fronteggiare la situazione adottando il “metodo Ferber”, ignorando i pianti e gli strepiti degli investitori impauriti.

 

D’altro canto “colui che vuole condurre un’orchestra, deve voltare le spalle al pubblico”.

Una maggiore gradualità dovrebbe accompagnare la politica adottata dalla BCE, impegnata a fronteggiare, oltre all’inflazione, anche un conflitto che vede l’Europa in prima linea (per la sua vicinanza geografica e per gli impatti diretti sui prezzi delle fonti energetiche importate dalla Russia).

 

L’inizio shock (specie per i mercati obbligazionari) dell’anno ci ricorda che non esistono “pasti gratis”.

 

Il prezzo da pagare per ottenere buoni risultati è quello di accettare di affrontare le (spiacevoli) conseguenze di eventi avversi, inattesi (epidemie e guerre) o meno (le periodiche fasi di rallentamento o le recessioni), senza lasciarsi trascinare dalle emozioni nella gestione dei propri risparmi.

 

Le banche centrali corrono il rischio di uccidere, con l’inflazione, anche la crescita economica ma esiste la concreta possibilità di un “normale” rallentamento ciclico che costituisca solo una dolorosa pausa per gli investitori avveduti (poco emotivi e con un portafoglio ben diversificato).

 

Il nuovo ordine mondiale, meno globalizzato, ci obbligherà probabilmente ad adeguarci al nuovo paradigma (che sa più di ritorno al passato) dove i miglioramenti dell’economia sono seguiti da una salita di inflazione e tassi di interesse.

 

Una volta allenati alla nuova situazione, dopo qualche lacrima, dovremmo essere in grado, ancora una volta, di riaddormentarci sui nostri investimenti.

Sereni come un bambino.

Sogni, universi, metaversi ed altre amenità

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’universo è in continua ed inarrestabile espansione. Il fisico Adam Riess, premio Nobel per la fisica nel 2011, sostiene che la velocità di espansione dell’Universo è pari a 73,2 chilometri al secondo per megaparsec ed a questo ritmo la distanza fra due oggetti nello spazio è destinata a raddoppiare in “appena” 9,8 miliardi di anni.

Mentre il nostro universo si allarga, senza che noi comuni mortali possiamo realmente apprezzarne gli effetti nelle nostre attività quotidiane, altri universi stanno nascendo e possiamo già ora iniziare a valutare gli effetti della loro crescita.

La curiosità nei confronti di questo nuovo fenomeno è enorme ed in continua ascesa: basti pensare che l’anno scorso le ricerche effettuate su internet della parola “Metaverso” sono state di 70 volta superiori al 2020.

La creazione del termine è da attribuire a Neal Stephenson nel suo romanzo, pubblicato nel 1992, “Snow Crash”.

Nell’opera di Stephenson il metaverso era descritto come un mondo digitale nel quale gli abitanti di un’America ridotta da una grave crisi economica mondiale in una situazione anarco-capitalista, governata dalle grandi aziende private, possono rifugiarsi.

Il protagonista, Hiro, un fattorino che consegna le pizze, sarà impegnato nell’impresa di fermare un potente virus, lo “snow crash”, che danneggia irrimediabilmente i cervelli degli utilizzatori (che lo popolano tramite i loro cloni digitali, gli “avatar”) del metaverso.

Il termine ha iniziato a circolare con forza solo l’anno scorso quando Mark Zuckerberg ha deciso di rinominare la sua creatura, Facebook, in “Meta”.

Per usare le parole di Zuck: “La prossima piattaforma sarà ancora più immersiva (rispetto all’attuale esperienza di condivisione di testi e video tramite PC e cellulari), un internet incarnato dove saremo parte dell’esperienza e non semplici spettatori. Noi lo chiamiamo “metaverso” e riguarderà ogni prodotto che noi costruiremo. Nel metaverso potremo fare qualunque cosa che saremo in grado di immaginare”.

Il video visibile su https://www.youtube.com/watch?v=Uvufun6xer8&t=1277s può essere molto utile per farsi un’idea di quanto ci aspetta.

Si ha, insomma, l’impressione che di fronte ad un mondo “reale” destinato ad un rapido deterioramento potremo presto rifugiarci e prendere cittadinanza in un universo parallelo, un mondo ideale plasmabile e personalizzabile secondo i nostri desideri ed i nostri sogni.

Non possono non tornarmi alla mente, allora, le parole che Shakespeare mette in bocca a Prospero, nel quarto atto de “La tempesta”:

“Ferdinando, ti vedo assai turbato, come sgomento: non aver paura. I giochi di magia son terminati. Come t’avevo detto, quegli attori erano solo spiriti dell’aria, ed in aria si son tutti dissolti, in un’aria sottile ed impalpabile. E come questa rappresentazione – un edificio senza fondamenta – così l’immenso globo della terra, con le sue torri ammantate di nubi, le sue ricche magioni, i sacri templi e tutto quello che vi si contiene è destinato al suo dissolvimento; e al pari di quell’incorporea scena che abbiam visto dissolversi poc’anzi, non lascerà di sé nessuna traccia.

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.”

Il metaverso promette di farci sognare ad occhi aperti, in modo cosciente, ed allargare così i confini della nostra breve vita, poco importa se “l’immenso globo della terra (…) è destinato al suo dissolvimento”.

Fuor di metafora non possiamo (né potremo farlo neanche in un futuro dove ci reincarneremo in un “avatar”, cittadini del metamondo) ignorare quanto sta avvenendo intorno a noi ma neanche disinteressarci ad un fenomeno che potrebbe andare ben al di là di una moda passeggera, alimentata dalla segregazione alla quale siamo stati obbligati dalla pandemia negli ultimi anni.

Coloro che già stanno cavalcandone le opportunità (di divertimento, di lavoro, d’investimento e di vere e proprie attività imprenditoriali) sono ancora una sparuta minoranza, concentrata per lo più nelle nuove generazioni (quella zeta, nati tra il 1995 ed il 2010, e quella dei “millenials”, venuti al mondo tra il 1980 ed il 1994).

La visione di Stephenson si è rivelata, come spesso accade per i più grandi scrittori di fantascienza, preveggente ed oggi esistono già molti universi paralleli pronti ad accogliere i novelli pionieri.

Il più importante tra questi nuovi mondi è Decentraland, nato nella mente di due informatici argentini, Esteban Ordano e Ariel Meilich, nel 2015, che a inizio anno contava su 800.000 “abitanti” impegnati a esplorare e ad acquistare a peso d’oro terreni (5 metri quadrati sono stati venduti recentemente per 618.000 Mana, 1,8 milioni di euro), edifici e tutto quanto potevano desiderare, utilizzando il “Mana” una criptovaluta creata ad hoc.

Si tratta però ancora di ben poca cosa rispetto alla popolazione dei più importanti giochi della rete, frequentati da milioni di “gamers” alla conquista dei quali si stanno lanciando i nuovi costruttori di universi.

Oggi i 350 milioni di giocatori iscritti al gioco Fortnite (la superpotenza dei videogames online) e quelli Roblox, 200 milioni, non sono in grado di comunicare tra loro né di svolgere attività diverse da quelle previste dalle rigide regole previste dai giochi stessi ma il futuro potrebbe essere diverso se verranno create delle piattaforme (dei “ponti”) che consentiranno a questi “universi” di interagire creando così nuove opportunità di sviluppo.

E’ facile comprendere come i grandi numeri di utenti/clienti rappresentino una potentissima calamita per i cacciatori di profitti e non sorprende che nel solo 2021 i “venture capitalists” (fondi che investono nelle start up innovative nella loro fase iniziale di sviluppo) abbiano già dedicato al nuovo universo più di 10 miliardi di dollari.

Le aziende destinate a beneficiare della crescente attenzione di investitori e grandissime imprese (sempre più potenti, proprio come vaticinato da Stephenson) saranno quelle impegnate a costruire le infrastrutture (fatte di computer ed accessori elettronici sempre più potenti e funzionali per consentire di vivere e godere appieno delle meraviglie della realtà virtuale) e a creare contenuti ed esperienze.

Già oggi aggirandoci tra le strade e le piazze di Decentraland possiamo trovare un’infinita varietà di “contenuti” da utilizzare con il proprio “avatar” (l’alter ego dei meta-cittadini): mostre d’arte ed “NFT” (Non-fungible tokens, la nuova frontiera del collezionismo), giochi, viaggi, negozi di abbigliamento e accessori dei principali marchi della moda, musica, concerti ed altri eventi dal vivo (si fa per dire…).

Comprendere quanto sta avvenendo non è certamente semplice e qualche volta ci si sente impotenti di fronte alle gigantesche ondate che le nuove tecnologie ci costringono ad affrontare.

Occorrerà affrontarle tenendo a mente il monito del grande storico inglese Edward Gibbon: Venti e onde sono sempre dalla parte dei navigatori più abili.

La dura lotta per la sopravvivenza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

I timori che la fase storica nella quale siamo immersi ci riporti per un po’ ad un mondo più piccolo (ne ho scritto qualche giorno fa https://www.linkedin.com/posts/luca-martina_la-fine-della-globalizzazione-activity-6915332559522410496-YQ5V?utm_source=linkedin_share&utm_medium=member_desktop_web), difficile da esplorare e con minori scambi commerciali, sono assolutamente fondati.

 

Vi è però anche il rischio di sopravvalutare i (tanti) rischi di questa situazione (meno globalizzazione e maggiori nazionalismi) innescatasi con la crisi finanziaria del 2007 e rafforzata poi dal cambio di marcia imposto alla Cina da Xi Jin Ping (con una fortissima attenzione al riequilibrio delle tensioni sociali interne, alla “prosperità comune”, a discapito della crescita ad ogni costo perseguita dai suoi predecessori).

 

La grave recessione che negli anni 70 aveva funestato il mondo presenta dei tratti comuni con la nostra attualità che ci rendono inquieti: elevata inflazione (con petrolio e materie prime alle stelle) e bassissima crescita economica (la temutissima “stagflazione”).

 

La storia tende a non ripetersi ma a presentare dei tratti comuni che però, per complicare le cose, spesso si riassemblano in modo diverso generando trasformazioni non sempre in linea con le attese.

 

La selezione naturale non fa sconti e, come ricordava Charles Darwin, non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.

 

A confortarci è il fatto che i sistemi economici di 50 anni fa erano molto più dipendenti dall’industria manufatturiera, la più colpita dall’aumento del prezzo delle materie prime, mentre oggi i servizi la fanno da padrone, e dai consumi di petrolio (il cui peso sul PIL era più che doppio di quello attuale).

 

Avremmo quindi avere la possibilità (oltreché la necessità vitale) di dimostrarci, per usare un termine abusato, più resilienti e “antifragili” del passato ed il ritorno alla normalità potrebbe alla fine sorprenderci positivamente (pur senza renderci immuni dai danni e dalle difficoltà del caso).

 

Il primo ministro inglese Benjamin Disraeli amava dire che nulla è più educativo che una avversità e qualche anno dopo era un altro grande cancelliere britannico, Winston Churchill, a recitare il suo monito: “Mai lasciare che una buona crisi vada sprecata”.

 

Pur non volendo eccedere con l’ottimismo, potremmo chiudere con la dichiarazione di Mark Twain, apparsa per smentire l’errata pubblicazione del suo necrologio, sul New York Journal il 2 giugno 1897: “Le notizie sulla mia morte sono una grossolana esagerazione”.