Il puntaspilli- Pagina 3

La Biblioteca di Babele

IL PUNTASPILLI di Luca Martina


Internet, il world wide web, la rete creata nel 1989 dall’informatico del CERN Tim Berners-Lee, che letteralmente avvolge il mondo delle comunicazioni, è una giungla non sempre così facile da esplorare.

Per fortuna esistono delle guide che ci aiutano a percorrerne i sentieri e che ci conducono alla nostra destinazione. 

Questi “sherpa” sono i motori di ricerca che, a partire dalla fine degli anni ’90, sono stati creati per consentire di rintracciare le pressoché infinite, e in perenne espansione, pagine di quella che assume sempre più le sembianze della biblioteca di Babele dell’omonimo racconto di Jorge Luis Borges. 

La battaglia che si è scatenata sin dagli albori dell’era digitale ha visto inizialmente competere AltaVista (creato dalla Digital Equipment Corporation di Palo Alto) e Yahoo (fondata da due studenti dell’università di Stanford, David Filo e Jerry Yang) ma è stato il terzo incomodo, Google, nel 1998, a rivoluzionare la appena nata ma già molto promettente industria. 

L’algoritmo elaborato dalla creatura di Larry Page e Sergey Brin ha sbaragliato in breve tempo la concorrenza grazie alla capacità di estrarre i risultati migliori tra tutti quelli possibili (sulla base del numero di link ricevuti da ogni pagina) per ogni domanda che gli veniva sottoposta. 

Non a caso il termine “Google” ha origine dalla parola inglese googol, che sta ad indicare 10 elevato alla centesima potenza e, per estensione, una grandezza incommensurabile, proprio come le informazioni presenti in rete.

Poco importa se, una volta deciso di utilizzare questo termine (coniato nel 1938 da Caroline, la nipote di nove anni del matematico americano Edward Kasner), al momento della registrazione fu erroneamente indicato come “Google”: la storia di uno dei più grandi colossi della tecnologia era iniziata. 

Il successo fu enorme e possiamo ben dire che è proprio grazie alla possibilità di muoverci in questo oceano pressoché infinito di pagine e di informazioni in modo rapido e senza il rischio di perdere la strada che internet è diventato così pervasivo nelle nostre attività quotidiane (lavorative e non). 

Basti pensare che in ogni singolo secondo di ogni santo giorno, Google processa circa 100.000 ricerche, più del 90% di quelle fatte nel web e il suo predominio non è stato mai seriamente messo a rischio nei 25 anni successivi alla sua nascita. 

Chi ci ha provato con più forza è stata la Microsoft, che nel giugno del 2009 ha lanciato il suo motore “Bing” riuscendo però a raccogliere, dopo quasi 14 anni, meno dell’8% delle ricerche della rete. 

Va anche detto, però, che non tutte le ricerche (gratuite per gli utilizzatori) sono ugualmente profittevoli: la benzina nei “motori” è versata generosamente dalle società che ricevono, grazie ai risultati suggeriti da Google & friends, la visita dei potenziali compratori. 

Si tratta degli introiti generati dagli annunci pubblicitari, tanto più preziosi quanto più precisamente indirizzati a coloro che sono potenzialmente più interessati (e che proprio per questo si trasformeranno con maggiore probabilità da ricercatori a compratori dei beni e dei servizi pubblicizzati) e questo è il lavoro che Google sa fare meglio di chiunque altro. 

Si stima che il 54% dei ricavi pubblicitari generati da tutti i motori di ricerca finiscano nelle casse di Google, in discesa dal 67% del 2016, erosi solo dalla crescita in questo settore di Amazon (con il 23% dei ricavi totali, generati dagli inserzionisti della sua enorme piattaforma di “eCommerce”). 

Quella di Jeff Bezos è un’altra storia di successo, in grado di produrre uno dei maggiori colossi di Wall Street, ma solo dopo avere cambiato il nome della sua azienda da “Cadabra”, dalla parola magica “abracadabra”, nome la cui assonanza con la parola “cadaver” non prometteva nulla di buono, a, per l’appunto, Amazon, dal Rio delle Amazzoni, il fiume con il più grande bacino idrografico del mondo. 

Tornando ai motori, ora la sfida sembra potrebbe davvero spostarsi ad un altro livello.

L’annuncio fatto nelle scorse settimane da Microsoft ha provocato forti scossoni nel settore: verrà presto lanciata una nuova versione di Bing che incorporerà “ChatGPT” (“Chat Generative Pre-trained Transformer”) e che dovrebbe consentire alla società di Redmond di fare quel balzo che per un decennio ha tentato inutilmente di fare.

Il nuovo e, per noi profani, criptico acronimo non è nient’altro che un avanzato “modello di linguaggio naturale” (che utilizza il nostro abituale modo di comunicare) che consente ricerche molto più elaborate e prive di quei vincoli che ancora limitano le potenzialità dei motori attuali e dei loro algoritmi.

L’importanza dell’innovazione uscita dai laboratori di OpenAi, società fondata nel 2015 da Sam Altman e Elon Musk, è tale che, secondo Bill Gates, il fondatore i Microsoft, potrebbe un giorno diventare potente quanto lo sono stati il Pc e lo stesso Internet. 

Nei soli primi due mesi dal suo lancio ChatGPT è stato utilizzato da più di 100 milioni di persone, diventando immediatamente l’applicazione con la crescita più veloce della storia, è stato valutato ben 29 miliardi di dollari (a fronte di ricavi che, ad oggi, sono pari a circa 80 milioni) e la stessa Microsoft ha investito 10 miliardi di dollari in OpenAi, la sua casa madre. 

La nuova creatura di “Elon Musk & friends” offrirà nelle prossime settimane il servizio in abbonamento a 20 dollari al mese ma c’è già chi si è sbizzarrito nell’interrogare la versione “jailbreak” (priva dei vincoli posti alla versione che sarà messa in commercio per limitarne i possibili utilizzi illegali) su quando avverrà il prossimo crollo dei mercati finanziari. 

E se la risposta fornita dalla versione ufficiale di ChatGPT era stata che “è impossibile prevedere un evento di questo genere” quella senza freni ha affermato, senza tanti complimenti, che il giorno del tracollo sarebbe stato lo scorso 15 febbraio (sospiro di sollievo e pericolo scampato, almeno per ora). 

La possibilità di navigare in modo più veloce, intuitivo, preciso e creativo ha sollevato dunque enormi interessi economici e morbose curiosità (sarà forse possibile un giorno delegare al software la scrittura di articoli, romanzi, poesie, barzellette, brani musicali ma già ora è in grado di svolgere compiti e sostenere le prove di molti esami universitari) e in pochi giorni sono state messe in campo le prime controffensive: Google ha annunciato di avere pronto al lancio il suo chatbot “Bard” mentre Baidu (la Google in salsa cinese) a marzo svelerà la sua creatura “Ernie”. 

Ma le opportunità che si svilupperanno potranno coinvolgere anche le piccole società, che spesso sono le prime a cavalcare le nuove tecnologie, e tra queste la Anthropic dell’italo-americano Dario Amodei, con il suo “Claude” 


Siamo solo all’inizio, ne sentiremo ancora molto parlare, e presto potremo sperimentare direttamente queste novità e capire se saranno davvero così rivoluzionarie e in grado di trasformare il mondo della rete. 

La ricerca, in fondo, non è altro che l’atto di percorrere i vicoli per vedere se sono ciechi… e, se non lo sono, per fare molti, molti soldi. 

Le Fondamenta dei Regni  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Le prospettive economiche rimangono quantomai incerte ma da qualche tempo è iniziato a filtrare un certo ottimismo da parte degli investitori, degli analisti e degli economisti. 

Ultime, ma solo in ordine di tempo, sono giunte le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI). 

Secondo l’FMI il rallentamento sarà inferiore alle attese e si passerà da una crescita del PIL del 3,4% nel 2022 al 2,9%. 

A patire le peggiori conseguenze saranno i Paesi industrializzati, destinati nel loro complesso a dimezzare la crescita dal 2,7% all’1,2%. 

L’Europa, epicentro degli eventi scatenati dalla guerra in Ucraina, pagherà il prezzo più salato e l’area dell’euro sarà in virtuale stallo (+0,7%) per tutto l’anno appena iniziato. 

Note più liete sono riservate dall’FMI all’Asia emergente che, trainata dalla Cina dovrebbero crescere di più del 5%.

 

Ma se quanto sopra era in una certa misura atteso quello che sorprende forse di più sono le previsioni sulla Russia, vista in miglioramento (dopo una discesa del 2,2% nel 2022) sia quest’anno (+0,3%) che il prossimo (+2,1%). 

In effetti il regno di Putin ha sinora subito delle conseguenze tutto sommato modeste dall’embargo dei Paesi occidentali. 

Com’è possibile, ci si chiede, che un Paese che dipende quasi esclusivamente dall’esportazione di petrolio e gas naturale possa fare fronte alla perdita dei suoi più importanti clienti (i principali Paesi europei) senza subire un tracollo della sua economia. 

La risposta sta nei dati che consentono di fare luce sulla destinazione dei flussi di greggio: da questi appare evidente che a compensare il netto calo della domanda europea ci abbia pensato l’Asia. 

Basti pensare che, dall’inizio della guerra, un anno fa, le importazioni cinesi di petrolio russo sono quasi raddoppiate e sono pressoché esplose (moltiplicandosi di 14 volte) da parte dell’India (che ha quasi appaiato Pechino come primo cliente di Mosca).  

Non desta sorpresa, poi, che, sebbene assai meno importanti, anche la Turchia e la Bulgaria abbiano approfittato delle “offerte speciali” (greggio a prezzo scontato) del supermercato russo. 

Meno ovvia è stata la crescita delle importazioni di petrolio russo da parte del nostro Paese, raddoppiate nel corso del 2022. 

La situazione paradossale si spiega con la presenza della raffineria russa, della Lukoil, ad Augusta, in Sicilia.  

Prima della guerra, infatti, solo il 30% del petrolio raffinato in Italia dalla Lukoil era di provenienza russa ma dopo l’imposizione delle sanzioni le banche italiane hanno chiuso le linee di credito “costringendo” la raffineria ad approvvigionarsi al 100% con petrolio domestico (importato dalla Russia). 

Vedremo nei prossimi mesi se le misure ulteriormente restrittive sulle esportazioni di greggio via mare, a fine anno scorso, e di prodotti raffinati, dal 5 febbraio, finiranno per sortire gli effetti sperati (togliere ossigeno alla macchina da guerra russa). 

 

Per ora possiamo solo convenire con quanto sosteneva l’economista statunitense Jeremy Rifkin: “Il regno dei cieli potrà anche essere fondato sulla giustizia ma i regni terrestri sono fondati sul petrolio.”

Guida notturna (con nebbia) 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Larry Summers, segretario al tesoro degli Stati Uniti nell’ultimo periodo della presidenza Clinton, è ritenuto essere notoriamente un “falco” avendo sostenuto, per tutti gli ultimi due anni, la necessità di alzare i tassi d’interesse per potere combattere efficacemente l’inflazione.

Anche lui però sembra essere ormai convinto che, a causa dell’incertezza che pervade il quadro economico, non sia il caso di preannunciare ulteriori ritocchi al rialzo quando, mercoledì primo febbraio, la Federal Reserve si riunirà per aumentare i tassi ufficiali d’interesse dello 0,25% (questa la previsione degli analisti).

I dati economici pubblicati negli ultimi mesi sono, infatti sempre più contraddittori. 

Negli Stati Uniti i consumi stanno rallentando, i licenziamenti annunciati dalla grandi corporates del settore tecnologico si susseguono in modo preoccupante e l’inflazione sembra avere finalmente svoltato (l’aumento dei prezzi per le famiglie, pubblicato la scorsa settimana, è sceso al 3,9%, al di sotto del tasso ufficiale che è pari al 4,5%). 

Non che la locomotiva statunitense stia perdendo così rapidamente e pericolosamente (rischiando una dura recessione) velocità: il Pil dell’ultimo trimestre è salito del 2,9%, rallentando solo leggermente rispetto al +3,2% di quello precedente. 

Quello che disturba Summers è la mancanza di una direzione chiara e prevedibile del treno a stelle e strisce. 

In questo contesto il compito della Federal Reserve, la banca centrale USA, si fa difficile ed il rischio è quello di schiacciare troppo sul pedale del freno (innescando una recessione) o, al contrario, di lasciare viaggiare il convoglio ad una velocità che potrebbe provocarne un deragliamento inflazionistico (aiutato dalla forza dei consumi). 

L’immagine che utilizza Larry Summers nella sua recente intervista è molto esplicita: “La Fed sta guidando il suo veicolo in una notte molto, molto nebbiosa”. 

Malgrado ciò i tassi nell’era d.C. (dopo Covid) potrebbero assestarsi nei prossimi anni, secondo l’economista americano, ben al disopra delle previsioni attuali del 2,5% (lo 0.5% “reale”, una volta depurati i tassi ufficiali dell’inflazione “desiderata” del 2%). 

La preoccupazione non sembra essere però il sentimento principale che si percepisce in questo periodo nei mercati finanziari. 

L’ottimismo emerso dagli incontri del World Economic Forum di Davos nelle scorse settimane è stata benzina sul fuoco dei listini, felici di iniziare l’anno su toni opposti a quelli con i quali avevano concluso il 2022. 

Al pacchetto delle buone notizie si sono aggiunte ultimamente la cancellazione delle restrizioni in Cina (la fine della “tolleranza zero” nei confronti dei contagi Covid) e la discesa dei prezzi delle fonti energetiche (il gas è sceso del 70% rispetto ai picchi di fine agosto ed è tornato ai livelli pre-guerra). 

Le famiglie americane, poi, dispongono ancora di ampi risparmi parcheggiati sui conti correnti (o su investimenti monetari, a scadenza brevissima) pronti ad essere spesi (supportando la crescita) o investiti sui mercati finanziari. 

Ma nella notte nebbiosa nella quale stiamo brancolando anche le timide luci possono provocare delle ombre poco rassicuranti: per potere davvero riportare l’inflazione ai livelli desiderati (individuati universalmente nel 2%) i numi tutelari della moneta (le banche centrali) richiedono la presenza di chiari segni di rallentamento (e borse meno ottimiste sul futuro prossimo dell’economia). 

Il mix di dati economici migliori del previsto e delle previsioni, da parte delle imprese e degli economisti, di un forte rallentamento nel prossimo futuro è a livelli mai visti negli ultimi cinquant’anni e la possibilità che alla fine l’atterraggio sia più morbido di quanto temuto non è, fortunatamente, da scartare. 

Sarebbe una gradita sorpresa e sancirebbe la ripartenza del ciclo economico senza avere subito una fase “ciclica” recessiva. 

La risposta non la conosceremo con certezza ancora per qualche mese e l’indicatore che andrà osservato attentamente (e certamente lo farà la Fed) è quello della disoccupazione. 

I licenziamenti stanno accelerando negli Stati Uniti e presto ne vedremo le conseguenze (temperate dal nostro stato sociale) anche in Europa. 

Sebbene non si tratti certamente di una buona notizia, un aumento dei disoccupati ridurrebbe la pressione agli aumenti dei salari, consentirebbe alle aziende di tagliare i costi (come avvenne nel 2009, dopo la “Grande recessione” degli anni precedenti), rafforzerebbe il trend al ribasso dell’inflazione e rappresenterebbe il segnale ultimo che i mercati aspettavano per aprire una nuova fase di rialzi delle quotazioni. 

Rimaniamo quindi con lo sguardo attento a scrutare nella notte, certi che quando scomparirà la nebbia torneremo a riveder le stelle. 

Per aspera ad astra. 

 

L’età dell’incertezza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La fase storica che stiamo attraversando mi ha riportato alla mente una vecchia, ma ancora molto piacevole ed istruttiva, lettura.  

Cinquant’anni fa, più precisamente nell’estate del 1973, l’economista canadese, naturalizzato americano, John Kenneth Galbraith veniva contattato dalla BBC per realizzare una serie di trasmissioni divulgative sulla storia del pensiero economico.  

Lo studioso racconta, con il suo ben noto sarcasmo, che gli era spesso richiesto dal rettore dell’università di Harvard, dove era professore, di manifestare pubblicamente entusiasmo per l’insegnamento e come questa consuetudine fosse per lui vieppiù pesante e poco sincera (col passare degli anni si rendeva conto di provare un malcelato fastidio nei confronti dei giovani studenti).  

L’impegno televisivo, durato tre anni, lo riconciliò con il mondo accademico, rinverdì i rapporti con i partecipanti ad i suoi corsi e gli fornì il materiale per scrivere uno dei suoi libri di maggior successo: “L’età dell’incertezza”.  

La tesi, in estrema sintesi, espressa nelle pagine del volume del 1977 è quanto mai attuale: le grandi aziende del sistema capitalistico occidentale, contribuiscono all’incertezza sul futuro dei sistemi sociali ed economici in quanto perseguono obiettivi che non sono compatibili con gli interessi generali ed il bene comune.  

Winston Churchill, in uno dei suoi aforismi più fulminanti, sosteneva che “il capitalismo è un’ingiusta ripartizione della ricchezza mentre, per contro, il comunismo è una giusta distribuzione della miseria” e la storia non può che confermarlo ma quello che è avvenuto nei rapporti con la Cina e la Russia ci rende oggi più che mai consapevoli dei rischi che il nostro sistema ha accettato di correre, per mancanza di lungimiranza politica e a causa di un sempre maggiore e pervasivo potere delle grandi multinazionali.  

L’età dell’incertezza si riflette naturalmente anche sulla capacità di prevedere il futuro dell’economia, in balia di potenti quanto imprevedibili correnti.  

La pandemia ci ha ricordato la vulnerabilità di un mondo circumnavigabile ormai in una piccolissima frazione degli ottanta giorni narrati da Jules Verne, nel suo omonimo romanzo, nel 1872.  

La sensazione di insicurezza che ci pervade da tre anni è stata poi drammaticamente rafforzata dall’esplosione di un conflitto che, così vicino al nostro continente, epitome del “mondo civilizzato”, non immaginavamo potesse più avvenire.  

Le forze che si sono scatenate hanno sgretolato il vaso di Pandora nel quale era rimasto rinchiuso per molti anni (uno degli effetti benefici della globalizzazione) il demone dell’inflazione e messo a repentaglio il fragile equilibrio che si stava ricreando dopo la fase più acuta della diffusione del coronavirus.  

Di tutto ciò non potevano certo disinteressarsi i mercati finanziari che rimangono sospesi tra l’incudine dell’inflazione e dei tassi di interesse in salita e il martello della recessione incombente.  

D’altro canto, è risaputo che ciò che più detestano gli investitori non sono tanto le notizie negative certe e ben definite quanto l’indeterminatezza che caratterizza i cambiamenti imprevisti.  

L’incertezza, dunque, è la peggiore iattura che possa affliggere gli investimenti.  

Meglio, allora, cercare di comprendere quando e come una ormai probabile recessione si materializzerà, perché solo allora l’”aggiustamento” dei prezzi, che sempre la precedono come abbiamo già dolorosamente visto nel 2022, potrà completarsi e si inizierà a pensare ad un futuro dove l’obiettivo non sarà più quello di riportare l’inflazione sotto controllo ma di fare ripartire la crescita economica e, con essa, le borse mondiali.  

Va ricordato che non è certo un caso che si parli di “ciclo economico”: la ruota economica girando velocemente sviluppa energie positive (grazie alla innata capacità dell’uomo di generare innovazioni e maggiore ricchezza globale, secolo dopo secolo) fino a che la pedalata frenetica non provoca la rottura della catena, le inevitabili recessioni, o, molto più raramente, rovinose cadute, le depressioni.  

L’età dell’incertezza ci sta portando a ripensare a un modello consolidato, quello derivato dalla globalizzazione, caratterizzato da un trentennio di crescita economica completamente priva di inflazione (cancellata dallo spostamento della produzione in Paesi a basso costo e sempre più in competizione tra loro). 

L’apertura indiscriminata dei mercati internazionali delle merci e dei capitali seguita alla caduta della cortina di ferro, nel 1989, ha completamente trascurato le sue potenziali future conseguenze geopolitiche, rafforzando oltre misura gli avversari storici del mondo occidentale.  

Le parole dell’economista francese del XIX secolo Frédéric Bastiat, “Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”, hanno guidato negli ultimi decenni le strategie europea e statunitense, trascinate anche dall’interessato entusiasmo delle grandi corporations, prime beneficiarie del nuovo verbo.

Ora che gli eserciti si sono rimessi in moto siamo in attesa di comprendere quale sarà il nuovo equilibrio. Il progresso mondiale certamente non si arresterà ma, memore di quanto sta accadendo, sarà forse più sostenibile e meno incerto. Forse… 

Conigli, orsi e riccioli d’oro

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’anno che abbiamo da pochi giorni messo alle spalle è stato, per noi poveri investitori, di un’insolita durezza. 

 

Una saggia e ben diversificata gestione del patrimonio, bilanciata dalla presenza di prudenti obbligazioni e ben più rischiose azioni, ha garantito per molti anni (una quarantina per i risparmiatori statunitensi e almeno una decina per gli europei) risultati positivi o vicini allo zero. 

Normalmente, infatti, la crescita economica favorisce le borse (le società quotate beneficiano del miglioramento degli utili) e lascia al palo i titoli di Stato (con la crescita arriva anche l’aumento dei tassi che provoca la discesa delle obbligazioni) mentre i rallentamenti hanno effetti diametralmente opposti sugli investimenti. 

 

Accade, quindi, che azioni e obbligazioni si muovano in direzioni opposte, compensando (in un portafoglio che le contenga entrambe) i loro effetti e riducendo così le oscillazioni complessive. 

 

Dopo anni di crescita “anomala” (senza inflazione) e di risultati positivi il 2022 si è comportato in modo completamente diverso. 

 

Il ciclo economico, rilanciato nel 2021 dagli investimenti e delle riaperture, seguite alle chiusure messi in atto all’esplosione della pandemia ad inizio 2020, sembrava proiettato e dispiegare i suoi benefici effetti ma la decisione della Russia di andare fino in fondo nell’invasione della vicina Ucraina ha scombinato le carte e dato il via ad una spirale inflazionistica, attraverso la salita incontrollata dei prezzi delle materie prime energetiche. 

 

L’inflazione è spesso il frutto amaro della fioritura economica: la “troppa” crescita (e l’eccessivo ottimismo) porta (ciclicamente) a una domanda di beni e servizi in eccesso rispetto alla loro produzione e questo ne fa salire i prezzi. 

 

Ma questa volta la storia si è dipanata in un modo diverso che ha, a buon diritto, ricordato quanto avvenuto negli anni 70 quando lo “shock” fu provocato, ancora una volta, da una guerra: l’attacco di Egitto e Siria ad Israele durante la festività ebraica dello Yom Kippur (giorno di digiuno e di astensione dal lavoro e di massima vulnerabilità per il Paese) del 1973. 

 

A questo seguì l’intervento, al fianco d’Israele, degli Stati Uniti e, come ritorsione nei confronti di Washington, l’embargo dell’OPEC dell’esportazione di petrolio il cui prezzo in poco tempo triplicò, da 23 a 71 dollari al barile. 

 

Qualche anno dopo, nel 1978, arrivò una seconda crisi, ancora una volta originata in Medio Oriente con la rivoluzione iraniana, che portò ad una brusca riduzione del greggio prodotto dal Paese che da allora in poi sarebbe stato definito “degli Ayatollah” (titolo ottenuto dagli esperti di studi islamici quale riconoscimento dell’autorità di guida spirituale). 

A fare le spese dell’ulteriore raddoppio del prezzo del petrolio, che superò i 140 dollari, fu ancora una volta la crescita economica mondiale: l’inflazione (la più iniqua delle tasse, come ricordava Luigi Einaudi) provocò una recessione lunga e molto dolorosa. 

Solo a partire dal 1982 i massicci tagli dei tassi e la riduzione dei prezzi del carburante consentirono alla crescita di ripartire. 

 

La situazione oggi ci appare, per fortuna, molto diversa sebbene gli editori del dizionario Collins English abbiano proclamato “Permacrisis” (un periodo lungo di instabilità ed insicurezza) la parola dell’anno, ulteriore sottolineatura ad un periodo, il terzo dall’insorgere del Covid, davvero difficile.

 

La crisi “geopolitica” è certamente seria ma molto più localizzata (nei territori dell’ex Unione Sovietica) e gli schieramenti, “ferrei” ed impenetrabili, in piena guerra fredda, di cinquant’anni fa si sono gradualmente ammorbiditi (e in alcuni casi liquefatti). 

 

I rapporti politici e commerciali (esportazioni di armi, a causa della pessima esibizione di sé nella guerra in corso, e di petrolio, venduto a sconto ai Paesi amici dai russi, in particolare) della Russia con il Medio Oriente si sono deteriorati a favore di Cina e, in minore misura, Stati Uniti. 

 

Non a caso un vecchio modo di dire nel mondo della diplomazia recita: “Gli americani hanno alleati mentre russi e cinesi hanno clienti” … 

 

I cambiamenti generati dai drammatici eventi ucraini non mancheranno comunque di fare sentire i loro effetti nel prossimo futuro, costringendo ad un radicale ripensamento del processo di globalizzazione che aveva guidato negli ultimi trent’anni l’espansione economica occidentale e la rinascita di un’antica superpotenza come la Cina. 

 

Ma l’economia “due punto zero” di questo millennio è ben lontana da quella che fu strangolata dalle crisi petrolifere descritte sopra. 

 

Il cambiamento del modello dei consumi energetici che sta maturando, con un più massiccio utilizzo delle fonti rinnovabili ed un rapido cambiamento delle rotte di approvvigionamento del gas da parte dei Paesi europei, ci rende meno vulnerabili e in grado di tornare ad un percorso di crescita sostenibile in tempi, probabilmente, brevi. 

 

Si tratta di quanto stanno già iniziando a scontare i mercati finanziari che hanno affrontato il nuovo anno con una baldanza che non si vedeva da molti mesi. 

 

Le previsioni di una recessione ormai prossima rimangono plebiscitarie in Europa ma per gli Stati Uniti si sta facendo strada la speranza che si tratterà di un semplice rallentamento. 

 

Oltreoceano la frenata dell’inflazione è evidente (sebbene molta strada si debba ancora fare per tornare ad un livello “sano”, intorno al 2%) e non si sta accompagnando né ad un aumento dei salari (che alimenterebbe la spirale dei prezzi) né a un crollo della domanda. 

 

Analisti ed economisti sono concordi nel prevedere una prima metà dell’anno caratterizzata da dati economici negativi (soprattutto in Europa) alla quale seguirà una stabilizzazione e un ritorno alla crescita, stimolata da un cambio di direzione delle banche centrali (dopo la stagione dei rialzi sarà tempo di tagliare i tassi d’interesse). 

 

La riapertura della Cina (con la ferma intenzione della sua leadership di rendere l’”anno del Coniglio” un anno da leoni…) e uno scenario “riccioli d’oro” (dove la crescita si mantiene su livelli positivi e in grado di consentire il contenimento dei prezzi al consumo) per la locomotiva statunitense darebbero corpo alle attese di un 2023 speculare al 2022 (quando sia le obbligazioni che le azioni hanno registrato perdite pesantissime). 

 

A gettare acqua sul fuoco potrebbero però essere, ancora per qualche tempo, le banche centrali, quantomai determinate a chiudere la partita con l’inflazione e a non lasciare che si generi un eccessivo (e ingiustificato) ottimismo tra gli investitori. 

 

Un altro rischio, per i mercati azionari, è dato dal fatto che le previsioni sugli utili, pur essendo state ridotte negli ultimi mesi, rimangono ancora piuttosto elevate; ne sono un esempio gli Stati Uniti, dove, in un anno potenzialmente recessivo, si prevede ancora una loro crescita del 10%.

 

Il 22 gennaio, infine, si festeggia il Capodanno cinese e questa festività metterà in moto, internamente e all’estero, un gran numero di cinesi (nel 2019, anno in cui esplose il Covid furono più di 700 milioni) e la fine dell’inverno potrebbe coincidere con un colpo di coda della pandemia (seppur ora molto meno letale del passato). 

 

Insomma, sembra assolutamente ragionevole aspettarsi un anno meno complicato di quello appena trascorso ma faremo bene a non lasciarci troppo influenzare dall’euforia o dall’eccessivo pessimismo che periodicamente faranno capolino sui mercati finanziari. 

 

Per lo zodiaco orientale il Coniglio è un simbolo di fortuna e buon auspicio e possiamo solo sperare che sia così deciso e determinato da mettere in fuga gli orsi (*) (all’inseguimento di Riccioli d’oro) che da un anno a questa parte scorrazzano nei mercati. 

 

 

(*) Nel gergo finanziario “orsi” sono coloro che spingono le borse al ribasso (“Mercato orso”) in contrapposizione ai “tori”, ottimisti sull’andamento delle quotazioni (“Mercato toro”). 

Il Futuro imperfetto

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Thomas Carlyle, nel 1849, definì l’economia come “la scienza triste”, “the dismal science”, per sottolineare il pessimismo (frutto delle teorie di Malthus, che aveva una visione tetra del futuro, con povertà carestie, dovuto alla crescita esponenziale della popolazione ben superiore a quella dei beni di sussistenza) degli economisti suoi contemporanei.  

Nel tempo la “tristezza” dell’economia è stata in vario modo interpretata e una delle critiche che possiamo oggi senza timore di smentita attribuirle è quella della sua incapacità di fornire previsioni certe. A differenza della fisica, governata da leggi precise ed immutabili, l’economia e con lei la finanza sono infatti governate dai comportamenti delle persone. 

Richard Feynman, il celebre fisico, disse una volta: Immaginate quanto più difficile sarebbe la fisica se gli elettroni avessero dei sentimenti. Gli investitori, come tutti gli esseri umani, hanno dei sentimenti ed è difficile prevedere cosa faranno sulla sola base di ciò che hanno fatto in passato. 

Questa premessa ci dovrebbe già mettere in guardia sulle previsioni (che quasi mai si sposano perfettamente con quello che sarà il nostro futuro) e, cosa ancora più importante, da noi stessi.  

Due, in particolare, sono i rischi che, più o meno consapevolmente, corriamo: 

  • Il primo ha a che fare con la pianificazione di un futuro incerto e imprevedibile. È spesso difficile e faticoso staccarci dal presente, prestare attenzione a quello che potrebbe accadere e riflettere su ciò del quale potremmo avere necessità. C’è una sorta di tirannia del presente, hic et nunc, che ci fa spendere oggi più di quanto dovremmo per cose delle quali non avremmo strettamente bisogno (Oscar Wilde diceva che non c’è nulla di più indispensabile del superfluo) e, per sottrazione, risparmiare meno di ciò che dovremmo per il nostro futuro. Il risparmio è, infatti, la nostra polizza assicurativa sugli eventi imprevisti ma, come spesso avviene, ci rendiamo conto della sua importanza solo nel momento nel quale ne abbiamo bisogno. Su questo, va detto che noi italiani siamo ben posizionati e che la nostra capacità di risparmio è di gran lunga superiore a quella della maggiore potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, dove il cittadino medio dichiara di non essere in grado di fronteggiare una spesa imprevista di soli 500 dollari! 

 

  • Il secondo rischio risiede nella nostra atavica incapacità di mettere in pratica un piano realizzabile e coerente per raggiungere i nostri obiettivi finanziari. Avere compreso la fondamentale importanza del risparmio non è, infatti, sufficiente per assicurarsi un futuro tranquillo quando si verifica un evento lavorativo traumatico, causato ad esempio da una ristrutturazione aziendale, un grave problema di salute o, semplicemente, ci si accorge, troppo tardi, che al momento del pensionamento il nostro stipendio verrà sostituito da una ben più misera rendita pensionistica. 
     

L’investimento maturato gradualmente, negli anni, allocato coerentemente con la propria capacità di sopportarne le oscillazioni, è certamente il primo elemento da mettere in conto per evitare cattive sorprese, accontentandoci di quanto possiamo permetterci (non solo dal punto di vista finanziario). 

Non vale mai, infatti, la pena di rischiare tutto: se ci propongono di giocare alla roulette russa le probabilità sono a nostro favore ma credo che converrete con me che il rischio non vale il potenziale guadagno, non importa quanto grande… 

Può essere interessante ricordare un aneddoto sul denaro raccontato da John Bogle, il fondatore di Vanguard (una delle più grandi società finanziarie al mondo): a una festa organizzata da un miliardario, lo scrittore Kurt Vonnegut informa l’amico Joseph Heller che il loro anfitrione, un gestore di hedge fund, ha guadagnato più soldi in un giorno solo di quanti lui ne abbia guadagnati con il suo celebre romanzo “Comma 22”. Heller risponde: “Sì, ma io ho qualcosa che lui non avrà mai: abbastanza”.

D’altro canto già Sant’Agostino ci ricordava che “La felicità è desiderare quello che si ha”…

 

Il capitalismo moderno è abilissimo a fare due cose: generare ricchezza e suscitare invidia. Così negli investimenti accontentarsi di ciò che, soggettivamente, è “abbastanza” rappresenta un altro indispensabile passo nella giusta direzione. 

Per fare ciò occorre, però, fare qualcosa che è molto, molto difficile: conoscere perfettamente, profondamente, noi stessi. 

Dobbiamo comprendere cosa vogliamo raggiungere (ad esempio una tranquilla vecchiaia garantita da un modesto patrimonio), qual è la tolleranza al dolore generato dal vedere i nostri investimenti scendere (poco rileva la gioia alla loro salita, presto dimenticata quando la fortuna cambia direzione) e gli strumenti per tradurre in pratica i nostri proponimenti. 

Senza farla troppo lunga, ciò di cui abbiamo bisogno è qualcuno che comprenda come siamo e che, con grande onestà intellettuale (e professionale), ci aiuti a perseguire i nostri obiettivi, aiutandoci a non cambiare strada nei momenti sbagliati (rischiando pericolosi incidenti di percorso). 

Un buon investimento non è necessariamente quello che ottiene i risultati più alti, legati a rischi non sempre sopportabili. Il segreto è, semmai, ottenere buoni rendimenti che si possano mantenere il più a lungo possibile. E più si è disposti ad aspettare (senza farsi assillare dai movimenti quotidiani dei mercati finanziari e dalle notizie negative) maggiore sarà la probabilità di non subire perdite. 

I buoni investimenti non provengono da scelte tutte corrette nel tempo ma dalla costanza e dalla capacità di non commettere sciocchezze (vendendo quando le cose sembrano davvero volgere al peggio e comprando quando tutto sembra essere perfettamente a posto). 

Sono stati scritti moltissimi volumi su come il finanziere statunitense Warren Buffet sia stato capace di diventare uno degli uomini più ricchi del mondo ma poco rilievo viene dato alla cosa probabilmente più importante: non si è fatto prendere dal panico e non ha venduto tutto durante le ben quattordici recessioni che ha attraversato durante la sua carriera. 

 

 

Buffet, stimatissimo investitore di lungo corso, ricorda sempre che occorre essere avidi quando gli altri sono spaventati e spaventati quando gli altri sono avidi. 

D’altronde anche Napoleone definiva il genio come “l’uomo capace di fare qualcosa di semplicissimo mentre tutti intorno a lui perdono la testa”. 

Viene in mente un vecchio modo di dire dei piloti d’aereo, per i quali il loro lavoro è “ore e ore di noia inframmezzate da istanti di terrore puro”. È così anche per gli investitori. 

Per fortuna esistono strumenti finanziari per tutti i gusti e per tutti gli stomaci, dai più rischiosi a quelli più prudenti, ed essere accompagnati alla loro comprensione, senza dimenticare i (troppo spesso ignorati) “effetti collaterali”, è la prima mossa per essere preparati a qualunque evenienza. 

La nostra legislazione fiscale, ad esempio, incentiva la costruzione di una opportuna integrazione alla futura pensione (che sarà in grado di coprire nel 2030 non più del 65% del reddito dipendente e solo il 45% di quello autonomo) con degli sgravi fiscali (la deduzione, sino a 5.164 euro l’anno, dal reddito dichiarato dell’accantonamento volontario) che è decisamente un peccato non sfruttare. 

Per tutti gli altri eventi che possono materializzarsi prima del pensionamento esistono, poi, forme di investimento che consentono di preservare il patrimonio, per sé e per i propri eredi, in modo efficiente e con rischi commisurati alla propria propensione al rischio. 

Queste considerazioni valgono in modo rafforzato nei casi nei quali la discontinuità di un percorso lavorativo produce, oltre ad una comprensibile frustrazione, una liquidazione che dovrà consentire di fronteggiare serenamente l’incertezza degli anni che seguiranno. 

Il mercato immobiliare ha smesso da anni di essere uno strumento efficace di diversificazione dei nostri investimenti: ne possediamo, mediamente, già troppi (è più che sufficiente la casa di abitazione), subiscono il calo della domanda dovuto all’invecchiamento della popolazione, potrebbero patire un ulteriore inasprimento della loro tassazione e, dulcis in fundo, sono difficilmente vendibili, in tempi rapidi ed al prezzo che vorremmo, al momento del bisogno. 

L’inflazione che molti si trovano oggi per la prima volta a fronteggiare (erano troppo giovani o non ancora nati negli anni 70-80) rappresenta una nuova sfida che richiede un supplemento di competenza, esperienza ed attenzione nella gestione del proprio patrimonio. 

Ogni cosa ha un prezzo, ma non tutti i prezzi sono scritti sull’etichetta. Per noi poveri investitori il prezzo è la volatilità, la paura, il dubbio, l’incertezza e il rimpianto: tutte cose facili da sottovalutare finché non ce le troviamo davanti.

Il gruzzoletto, intascato o accumulato faticosamente negli anni, andrà quindi amministrato tenendo bene a mente tutto quanto detto in precedenza: conosci bene te stesso, definisci quanto è “abbastanza” ed investi di conseguenza. 

Oltre le nuvole

IL PUNTASPILLI    di Luca Martina 

 

Può sembrare strano il momento che stiamo vivendo e la stridente dicotomia tra quanto avviene nel mondo reale e quello che osserviamo nei mercati finanziari.

Le nuvole continuano ad addensarsi sulle economie mondiali avviate verso una ormai inevitabile recessione o, ed è il caso della Cina, un rallentamento che potrebbe mettere a rischio la pace sociale (con l’aumento della povertà e della disoccupazione). 

I mercati finanziari, dal loro canto, sembrano da qualche settimana festeggiare (forse con troppo anticipo) le conseguenze virtuose di uno scenario economico molto fosco: l’inflazione sta probabilmente iniziando la sua discesa (grazie alla riduzione della domanda di beni e servizi frutto dell’incertezza) e questo condurrà (forse) presto le banche centrali a essere meno severe (mettendo fine al ciclo di rialzo dei tassi d’interesse). 

Lo scenario rimane ancora difficile da decifrare ma se l’inflazione attuale ci riporta alla mente i nefasti anni ’70 (sino alla prima metà degli ’80), quando venne imposta una severissima stretta creditizia da parte del governatore della Fed Paul Volcker e si precipitò in una violenta recessione, è pur vero che le prospettive sembrano essere oggi meno drammatiche.

Non ci sono, infatti, a differenza di mezzo secolo fa, tracce evidenti di un’estrapolazione dell’aumento dei prezzi per gli anni a venire: i rinnovi salariali hanno finora risposto con moderazione (non innescando la classica, in passato, spirale prezzi-salari) e la discesa dei prezzi delle materie prime dovrebbe scoraggiare ulteriori revisioni al rialzo dei listini delle aziende. 

Potremmo dunque trovarci ben presto (alla fine del primo trimestre del 2023) in recessione ma con le banche centrali (con quella americana, la Federal Reserve, in prima fila) pronte a invertire la rotta, tagliando i tassi d’interesse ufficiali e aiutando l’economia ad uscire dalle secche nelle quali si trova ora incagliata. 

Su questo scenario le borse stanno iniziando a sperare, seppure con periodiche correzioni dovute alla revisione degli utili delle aziende (le stime attuali sono certamente ancora troppo ottimistiche) e alla volontà dei signori della moneta di non consentire che il ritorno troppo prematuro dell’ottimismo conduca a rialzi delle quotazioni ingiustificate e rallenti il percorso, in discesa, dell’inflazione. 

Qualche preoccupazione desta però quanto sta accadendo in Cina.  

Il gigante asiatico è stato sicuramente il maggior beneficiario della crisi russo-ucraina (dalla quale ha colto i frutti di forniture energetiche rafforzate e a prezzi di favore) e con l’ultimo congresso del partito comunista ha consolidato la leadership del presidente Xi Jinping. 

Non tutto ciò che luccica sul tetto delle pagode cinesi è però oro puro… 

Il rallentamento della crescita cinese è stato peggiorato dalla “tolleranza zero” nei confronti dell’epidemia di COVID (con chiusure di vaste aree del paese) ed il Pil del terzo trimestre è cresciuto solo del 3%, lontano dall’obiettivo del 5,5%. 

Le riaperture delle principali città facevano già pensare ad un graduale ritorno alla normalità ma l’esplosione del numero di nuovi casi, più di 40.000 lo scorso fine settimana, ha provocato un nuovo inasprimento delle misure imposte dal governo. 

Nell’ultimo mese le proteste degli operai (costretti a saltare i turni di lavoro rinunciando al loro salario e ai bonus previsti) sono cresciute e hanno fatto notizia, in particolare, gli scontri presso gli stabilimenti del più grande produttore di “iPhone”, la Foxconn, a Zhengzhou.

In tutto questo si è innestato il grave incidente che a Urumqi (città di 2,1 milioni di abitanti, capitale della Regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest del Paese) ha provocato una decina di vittime. 

L’incendio nel grattacielo è stato domato solamente dopo più di tre ore e il ritardo nei soccorsi è stato dovuto proprio alle restrizioni (porte bloccate da catene e sbarre) imposte per mantenere la città in lockdown allo scopo di contenere i contagi. 

Nella regione abitano più di dieci milioni di uiguri, la minoranza mussulmana che si dichiara da molti anni vittima di discriminazione, già in agitazione contro le misure di reclusione nelle proprie case alle quali è sottoposta da più di tre mesi. 

Per Xi si tratta di una situazione non certo semplice da maneggiare: l’allentamento delle misure (la “tolleranza zero”) farebbe molto bene alla crescita economica ma il prezzo da pagare in termini di vite umane (solo una piccola parte della popolazione ha ricevuto un vaccino efficace, dopo il fallimento di quello prodotto inizialmente in casa) e di una pressione insostenibile sul sistema sanitario sarebbe troppo elevato (e porterebbe a sua volta a delle proteste di piazza). 

L’inverno si profila molto freddo e a scaldare i cuori degli investitori potrebbero non bastare le notizie sul raffreddamento (appunto…) dell’inflazione. 

La prossima primavera dovrebbe essere il momento giusto per tornare a vedere spiragli di sole penetrare l’attuale spessa coltre di nubi. 

Forse, davvero, dobbiamo imparare ad amare le nuvole perché ci ricordano come sia bello il sole. 

Polvere di stelle e buchi neri

IL PUNTASPILLI     di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi è stata emessa da un tribunale della California la sentenza di condanna nei confronti di Elizabeth Holmes. 

La geniale “imprenditrice” statunitense era stata definita un’autentica “Steve Jobs” e, come il fondatore di Apple, era considerata una stella di prima grandezza e compariva sulla copertina di fine 2014 di Forbes in dolcevita nero (in un’intervista a Glamour ha dichiarato di possederne ben 150 uguali) e posa ieratica. 

Elizabeth raccontava in un’intervista come i prelievi di sangue avessero sempre spaventato, causandole anche degli svenimenti, lei e i suoi genitori. 

Questo l’aveva spinta a lasciare gli studi, brillantemente avviati a Stanford, per fondare a soli 19 anni, nel 2004, Theranos, la start up che prometteva rapidi e precisissimi esami con solo poche gocce di sangue prese dalla punta di un dito (senza l’utilizzo di fastidiose siringhe).

L’accesso ad analisi a bassissimo costo (una decina di dollari) avrebbe salvato, “democratizzando l’assistenza sanitaria”, molte vite umane e consentito, “ça va sans dire”, alla bionda di Washington di guadagnare miliardi di dollari. 

La stampa la osannava e importanti personaggi pubblici, del tenore di Henry Kissinger e Bill Clinton, arrivarono a sostenerla e ad essere suoi soci nella Theranos. 

La cosa incredibile è che non venne mai fornita una prova concreta dell’efficacia delle analisi millantate dalla Holmes. 

Abilissima comunicatrice, “Eagle one” (nome in codice con la quale era identificata dalla sua scorta) è stata capace di raccogliere dagli investitori centinaia di milioni di dollari senza fornire loro alcuna certificazione dell’apparecchio, il “Theranos Edison”, che avrebbe dovuto analizzare il plasma. 

Alle domande in proposito rispondeva trincerandosi dietro ad un segreto che non poteva rivelare per non difendersi dal rischio che le grandi imprese del settore potessero approfittarne. 

Nella realtà si rivelò impossibile estrarre tutte le informazioni necessarie da una così piccola quantità di sangue e alla fine lo strumento utilizzato per le analisi, “preso in prestito” dalla Siemens, non fu in grado di fornire analisi attendibili. 

Le bugie hanno normalmente le gambe corte ma quelle di Elizabeth le hanno consentito di correre per 10 anni prima che, nell’ottobre del 2015, un articolo del Wall Street Journal chiamasse il clamoroso bluff. 

All’incriminazione è seguito un lungo processo che ha portato nei giorni scorsi alla sentenza di condanna ad 11 anni di carcere. 

Della stella ormai esplosa rimane ora solo la polvere e un buco nero che ha inghiottito moltissimo denaro, danneggiato i pazienti (con diagnosi errate) e causato il suicidio di Ian Gibbons, il capo scienziato della Theranos. 

La storia è paradigmatica di come la mancanza di seri controlli possa condurre a gigantesche truffe  

Ma la vicenda della bella Elizabeth, con l’evaporazione di un valore che, prima che colasse a picco, era stimato in 9 miliardi di dollari, impallidisce di fronte al recentissimo fallimento della FTX, la società da più di 30 miliardi di dollari che costituiva una delle principali piattaforme di scambio di criptovalute (dove queste vengono acquistate, vendute e depositate). 

Improvvisamente, lo scorso 8 novembre, la società con sede alle Bahamas aveva sospeso i prelievi dei suoi clienti senza fornire spiegazioni. 

Il suo fondatore, Sam Bankman-Fried, che un anno fa si era piazzato al venticinquesimo posto della classifica degli uomini più ricchi d’America (in precedenza solo Zuckerberg ci era riuscito alla stessa età di 29 anni), aveva provato a tranquillizzare (con dei messaggi su Twitter) il mercato dichiarando che il denaro dei clienti era al sicuro e che presto la situazione si sarebbe normalizzata. 

Ma, indovinate un po’? Anche la stella FTX è esplosa, dichiarando nei giorni scorsi il fallimento, tramutandosi così nell’ennesimo buco nero. 

 

Si tratta di un altro finale da incubo per gli investitori e anche in questo caso il disastro è stato consentito dalla mancanza di una seria vigilanza che, peraltro, nel settore delle criptovalute è la regola più che l’eccezione. 

Per il bene dei risparmiatori e degli investitori, ormai non più solo spettatori ma parti attive nel mondo decentralizzato (privo di un ente regolatore di controllo) reso popolare da Satoshi Nakamoto con la creazione, nel 2008, del Bitcoin, ci si augura che la lezione sia d’insegnamento. 

Imparare dai propri errori sarebbe davvero una bellissima novità… e non solo un pio desiderio da esprimere di fronte alla prossima stella cadente. 

 

L’acqua e il fuoco

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La scorsa settimana la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha alzato per l’ennesima volta i tassi di interesse ufficiali. 

Le elezioni di metà mandato della scorsa settimana hanno sorpreso molti analisti e smentito i sondaggi che davano come molto probabile l’arrivo di una potente “onda rossa” (il colore del partito repubblicano) che avrebbe travolto, conquistandole, le due camere (quelle dei rappresentanti ed il senato). 

Il risultato ha invece visto i democratici perdere, di misura, la camera dei rappresentanti ma riconquistare una (risicata) maggioranza al Senato. 

La mancata “vittoria per distacco” viene attribuita al comportamento dell’ex presidente Trump e a riprova di ciò si sottolineano le solenni bastonature subite da alcuni dei suoi fedelissimi canditati governatori (36 su 50 sono stati eletti nella stessa tornata).

A gioire, seppur sommessamente, è il partito democratico che temeva di doversi trovare di fronte ad un pesante voto di sfiducia nei confronti di Joe Biden che ne avrebbe indebolito l’azione nei prossimi due anni. 

Il rischio di un’”anatra zoppa” incombeva e lo scampato pericolo è attribuito ai timori degli americani sul futuro della loro democrazia, sotto continuo attacco da parte di The Donald, a partire dal rifiuto ad accettare il risultato delle urne alle ultime presidenziali. 

Ma per il Great Old Party non tutte le notizie sono negative: ad uscire fortemente rafforzato è stato il suo governatore della Florida, Ron De Santis che ha surclassato di venti punti percentuali ((60% contro il 400%) il suo rivale democratico, Charlie Crist. 

Ad accorgersi di questo cambiamento sono stati immediatamente gli scommettitori e gli analisti politici ed ora il candidato più credibile per la Casa Bianca nel 2024 è diventato proprio il 44enne di origine italiane (i suoi otto bisnonni provengono da Abruzzo, Campania e Molise). 

Nel frattempo, sul fronte economico, l’ultimo dato sull’inflazione statunitense ha generato una reazione molto positiva dei mercati finanziari. 

Per la prima volta da molti mesi si è registrato un rallentamento nella cavalcata dei prezzi e potrebbe essere solo l’inizio di quella discesa che ricreerebbe le condizioni per la ripresa del ciclo economico (ora in evidente rallentamento) forse già a partire della seconda parte del 2023. 

Proprio l’economia è la principale responsabile dei cambiamenti politici.  

E’ passato alla storia lo slogan “It’s the economy, stupid” (“Ciò che conta è l’economia”) coniato nel 1992 da James Carville, lo stratega artefice della vittoria, che solo un anno prima sembrava impossibile (il consenso del presidente in carica era al 90%), di Bill Clinton (un modesto governatori dell’Arkansas) nei confronti di George W. Bush. 

Un miglioramento dello scenario economico, con un’espansione che potrebbe prendere corpo proprio nell’anno elettorale, sarebbe la migliore cura alla perdita di consenso subita dai democratici nei primi due anni di presidenza e capovolgere gli attuali (ancora poco probanti) pronostici. 

Nel frattempo, Biden, corroborato dal pericolo scampato ha incontrato il leader cinese, rafforzato a sua volta dall’investitura ricevuta nell’ultimo plenum del partito comunista cinese. 

I due hanno espresso l’intenzione di collaborare per la soluzione della crisi russo-ucraina e per una normalizzazione delle loro relazioni (evitando una riedizione della “guerra fredda”). 

Nel faccia a faccia tenutosi ieri a Bali il presidente statunitense ha però anche ribadito a Xi Jinping i timori degli Stati Uniti nei confronti di una possibile escalation dei toni nei confronti di Taiwan. 

La risposta di Xi è stata netta: “Taiwan è al centro dei pensieri e degli interessi cinesi e rappresenta una linea rossa che non può essere superata nei nostri rapporti. L’indipendenza di Taipei è incompatibile con la pace e la stabilità della regione come l’acqua e il fuoco”.

Forse sarebbe bene ricordare a tutti che non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco e, quindi, non si può combattere il male con il male.

Speriamo bene. 

Controvento

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

La scorsa settimana la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha alzato per l’ennesima volta i tassi di interesse ufficiali.

Si tratta del prezzo del denaro che viene utilizzato dalle banche quando prestano soldi tra di loro e, di conseguenza, il riferimento per i finanziamenti, i mutui e le cedole pagate dai titoli di Stato (che rappresentano pur sempre un debito da rimborsare a scadenza).

La brutta notizia non è tanto, l’attesissimo, rialzo dei tassi (dello 0,75%) quanto le parole che il governatore, Jerome Powell, ha utilizzato nel commentare la sua decisione: “Abbiamo ancora del cammino da fare (per poter dire di essere arrivati al livello dei tassi d’interesse desiderato n.d.r.) e i dati economici ci suggeriscono che il livello al quale dovremo arrivare sarà più elevato di quanto pensavamo”.

Insomma, la strada si preannuncia più lunga, tortuosa e con il vento contrario (dato da un’economia ancora troppo forte, con una disoccupazione bassissima) di quanto si poteva sperare.

Il mercato azionario, reduce da un paio di settimane tranquille nella irragionevole aspettativa che presto la Federal Reserve si sarebbe accontentata di quanto già fatto negli ultimi mesi, alzando i tassi dallo zero (fino al primo aumento dello scorso marzo) all’attuale 4%, ha innescato una brusca retromarcia.

La determinazione della banca centrale statunitense a indurre un rallentamento dell’economia che freni, per poi invertirlo, l’attuale trend inflazionistico non può più essere messa in dubbio.

Per raggiungere questo obiettivo la Fed è pronta a tenere a freno gli spiriti bollenti degli investitori finanziari, rovesciando secchiate gelate sulle loro teste non appena queste si rialzano.

Mercati finanziari forti, infatti, collidono con l’obiettivo di frenare l’economia (solo una recessione può riuscire ad arrestare i rialzi dei prezzi di beni e servizi) in quanto, con la loro salita e il conseguente arricchimento degli investitori, rappresentano un supporto non richiesto (e attualmente non benvenuto) all’economia statunitense.

La lezione dello scorso luglio, quando le parole di Powell a corredo di un aumento dei tassi, “non abbiamo ancora deciso se in futuro dovremo ritoccare i tassi in modo più aggressivo”, era stata interpretata in modo troppo ottimistico (“forse sta pensando di sospendere gli aumenti del costo del denaro…”) da Wall Street, con una salita nei giorni successivi di più del 10%.

Beninteso: la Fed non ha nulla di personale nei confronti dei mercati azionari, semplicemente non può permettere che la loro forza scoraggi gli americani dal ridurre i loro consumi (rallentando così le pressioni sui prezzi e l’inflazione).

Non tutto il male viene per nuocere, però.

La certezza che la banca centrale statunitense (e con lei, al traino, di quella europea) farà tutto ciò che necessario per stroncare l’inflazione, riportandola sotto controllo, potrebbe alla fine rassicurare gli investitori obbligazionari, che beneficiano di una riduzione dei timori sull’inflazione futura.

Il rendimento dei titoli obbligazionari dovrebbe proteggere il potere d’acquisto della moneta dall’inflazione (attuale e futura) e si muove perciò nella sua stessa direzione.

La relazione tra le quotazioni ed i rendimenti è tale che quando questi ultimi scendono (per il timore di una recessione) le prime salgono, per la gioia degli investitori.

Esattamente il contrario di quanto avvenuto negli ultimi due anni quando la salita dei tassi, frutto dell’impennata dei prezzi al consumo, ha provocato ai risparmiatori perdite superiore a quanto visto negli ultimi quarant’anni (bruciando i guadagni di molti anni).

Per le azioni, infine, non è il caso di disperarsi troppo: la possibilità che si sia già toccato il fondo si è assottigliata ma più che a nuovi crolli dovremo abituarci ad un andamento ondivago, con rimbalzi/eccessi di ottimismo e correzioni/prevalenza del realismo, sino a quando il traguardo, recessione più inflazione in discesa, non si profilerà all’orizzonte e le stime sugli utili aziendali saranno state ridimensionate dai livelli ancora troppo ottimistici.

Ci vorranno ancora alcuni mesi da percorrere in salita e con il vento contrario in faccia ma alla fine rivedremo la discesa: a quel punto il rallentamento economico avrà fatto il suo lavoro e sarà nuovamente tempo per i signori della moneta di ridurre i tassi di interesse e di stimolare l’economia.

Perché, dopo tutto, Dio fornisce il vento ma è l’uomo che deve alzare le vele!