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Il puntaspilli- Pagina 2

Cime tempestose

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il risveglio repentino e rabbioso, dopo molti di letargo, dell’inflazione, doloroso effetto collaterale dell’uno-due COVID-guerra in Ucraina, ha provocato una tempesta perfetta sui mercati obbligazionari.

La salita degli indici dei prezzi degli ultimi due anni si è ripercossa violentemente sui tassi d’interesse con il conseguente fortissimo ribasso dei portafogli investiti in obbligazioni, ritenuti ancora da molti, erroneamente, privi di rischi…

La funzione dei tassi (e, con essi, delle cedole pagate) è proprio quella di proteggere i prestatori di denaro dal rischio di ricevere alla scadenza un capitale, comprensivo degli interessi incassati, con un minore potere di acquisto di quello iniziale, eroso dall’aumento dei prezzi dei beni e dei servizi (l’inflazione).

Le vette raggiunte dai tassi d’interesse di mercato, riflesso delle previsioni degli investitori sul loro andamento futuro, e da quelli ufficiali, frutto dell’azione delle banche centrali, rappresentano ora un pericoloso snodo per il futuro dell’economia.

L’aumento del costo del denaro si riflette, infatti, sui debitori, siano essi famiglie (con i loro mutui e finanziamenti), aziende o Paesi (con i titoli di Stato), costretti a destinare una crescente quota di reddito e risparmi al loro rimborso.

Ad oggi, va detto, l’effetto “restrittivo” si è fatto sentire pochissimo sulla principale economia mondiale, gli Stati Uniti, in grado di sconfiggere, grazie ai massicci aiuti provenienti dalle manovre del suo governo, le previsioni più negative che a inizio anno davano per certo un forte rallentamento e forse anche una moderata recessione.

Anche in Europa le cose sono andate, fortunatamente, meglio del previsto ma gli ultimi dati economici, in particolare quelli provenienti dalla Germania, sono tutt’altro che rassicuranti.

L’Asia, per inciso, fa storia a sé: la Cina fatica ancora a riprendersi, dopo le chiusure totali dovute alla pandemia ed ancora afflitta dalla crisi che coinvolge alcuni dei più importanti gruppi del settore immobiliare, mentre il Giappone sta beneficiando di un tasso d’inflazione moderato (e non è affatto una brutta notizia, dopo molti anni vissuti sull’orlo della deflazione), di tassi d’interesse molto bassi (inferiori all’inflazione) e di una valuta debole (che aiuta le esportazioni).

Tornando ai Paesi occidentali, si ha l’impressione che la stretta rappresentata dalle vette (ai massimi degli ultimi anni) dei tassi imposti dai banchieri centrali sia oggi più vicina a fare avverare le più fosche previsioni.

Le ultime mosse annunciate nelle settimane scorse dalle banche centrali, con la pausa dei tassi negli USA e l’aumento dello 0,25% nell’area Euro, sono state accolte, con i relativi commenti che li hanno seguiti, in modo cauto dai mercati finanziari, per i quali l’incertezza è il peggiore dei mali.

Ci si chiede, dunque, se sia all’orizzonte un’inversione, dopo quasi due anni di forti rialzi dei tassi, delle politiche adottate dalla Federal Reserve e dalla Banca Centrale Europea.

Su questo delicato e molto controverso argomento si è espresso qualche settimana fa Huw Pill, il capo economista della Bank of England.

Secondo Pill gli scenari per il futuro andamento dei tassi d’interesse si possono sintetizzare attraverso il profilo di due celebri rilievi montuosi: il Matterhorn (in nostro Cervino) e la Table Mountain.

Anche grazie alla sua riproduzione nel parco divertimenti di Disneyland, il profilo aguzzo del rilievo italo-svizzero è diventato l’esempio paradigmatico della montagna.

Lo scenario “Matterhorn” è quello che vede i tassi d’interesse scendere piuttosto velocemente, dopo la brusca salita degli ultimi anni, disegnando così un profilo simile a quello del rilievo alpino, e rappresenta anche il loro tipico andamento storico.

Normalmente, infatti, accade che i tassi vengono aumentati per fare fronte a un’eccessiva crescita economica, che finisce per fare salire i prezzi al consumo creando inflazione, per poi successivamente essere ridotti per consentire all’economia di riprendersi dal rallentamento/recessione provocato dal loro precedente incremento (o da altri eventi imprevisti).

L’altra strada possibile è quella che ricorda l’iconico monte sudafricano, la Table Mountain, piatto ed allungato, con tassi stabili ed elevati per un lungo periodo di tempo.

L’economista britannico propende per questo secondo scenario: i tassi hanno probabilmente smesso di salire (un’ottima notizia) ma ci vorrà molto tempo prima di vederli ritornare a scendere (una pessima notizia).

Per la verità il buon Pill non ha fatto altro che riportare il messaggio proveniente da qualche tempo dai banchieri centrali di tutto il mondo occidentale, dagli Stati Uniti all’Europa, dalla Svizzera al Regno Unito e alla Svezia.

Il timore è che l’aumento dei prezzi rallenterà, sta già avvenendo, ma in modo più lento di quanto è successo in passato perché oggi è assai meno accettabile, socialmente e politicamente, indurre una forte frenata dei consumi e, con essa, una recessione, da sempre la principale cura alla malattia dell’inflazione.

Quello che potrebbe riportare le banche centrali a più miti consigli, iniziando prima del previsto ad abbassare i tassi, sarebbe proprio un brusco rallentamento economico, accompagnato da un aumento della disoccupazione.

Paradossalmente questo scenario potrebbe diventare più probabile con il permanere dei tassi agli attuali livelli, anche considerato il fatto che, prima che gli aumenti passati dei tassi si traducano in un freno per l’economia, è stimato ci vogliano 18-24 mesi ed è proprio la posizione dove ci troviamo adesso (visto che i rialzi sono iniziati nel marzo del 2022)!

Come ricordato più sopra, sinora negli Stati Uniti a compensare l’effetto “frenante” di tassi ed inflazione ha contribuito la messa in campo di una serie di massicci piani di sostegno economico: l’ Infrastructure Investment and Jobs Act il CHIPS and Science Act e l’ Inflation Reduction Act, per complessivi 2.100 miliardi di dollari (pari all’8% del PIL nazionale).

Il rischio di un (eccessivo) rallentamento, e potenzialmente di una recessione, aumenterà però a partire dalla primavera quando i tassi d’interesse avranno iniziato a produrre pienamente i loro effetti.

Ci sarebbe allora il tempo per Biden per fare quanto in suo potere per arrivare alla scadenza elettorale del novembre del 2024 con un quadro economico sereno, il presupposto indispensabile per puntare ad una propria rielezione.

 

In conclusione, sono in pochi coloro che ritengono possibile che i tassi d’interesse continuino a salire e il futuro potrebbe, alla fine, dare ragione a chi ritiene troppo pericoloso (per l’economia) mantenerli ai livelli che hanno raggiunto.

La discesa dei tassi potrebbe quindi iniziare e questo renderebbe meno complicata la vita degli investitori in obbligazioni e titoli di Stato mentre sarebbero invece i mercati azionari a dovere prendere atto di una crescita degli utili, legata all’andamento dell’economia, da rivedere al ribasso.

Come sempre occorrerà non farci troppo influenzare dalle oscillazioni dei nostri investimenti, vendendo nei momenti peggiori, e ricordarci che l’uomo può arrampicarsi sulle vette più alte ma non può, sferzato dalle tempeste di neve, rimanervi a lungo.

Perché, in fondo, raggiungere la cima è facoltativo. Tornare indietro, invece, è obbligatorio, facendo però estrema attenzione a non scivolare…

Investimenti pazienti  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Le borse, luoghi un tempo fisici ed oggi mercati virtuali, telematici, dove si acquistano e vendono senza sosta quote di società reali (le “azioni”), salgono e scendono.

Sarebbe più corretto dire che di solito salgono e qualche volta, più raramente, scendono ma quando lo fanno devastano i portafogli e, ancor più, la psiche degli investitori che tendono, depressi e spaventati, a vendere nei momenti peggiori, consegnandosi all’impoverimento.

Le borse non sono per tutti e la cosa peggiore sarebbe leggere queste righe come un invito a investire.

Provare a raggiungere dei risultati superiori a quelli consentiti dalla propria, del tutto soggettiva, soglia del dolore finanziario (il livello di perdita che conduce a liquidare i propri investimenti) è una battaglia tanto inutile quanto dannosa.

Le riflessioni che vorrei condividere riguardano tutti, anche coloro che, per ragioni professionali, dovrebbero essere immuni da un eccesso di emotività da perdita in borsa.

Le borse, dicevo, per lo più salgono ma il timore che queste possano prima o poi scendere porta a perdere buona parte del viaggio che porterebbe alla felicità finanziaria.

Il 2022 sembrava potere sorgere sulle più rosee prospettive ma queste non potevano conto dello scoppio di una guerra. Disattesa la possibilità di proseguire il ciclo economico positivo nato sulle ceneri della pandemia, con l’inflazione in ascesa incontrollata (frutto dell’aumento dei prezzi delle materie prime), le borse non potevano che innescare la retromarcia.

Succede quando le recessioni si affacciano all’orizzonte e questo può rappresentare l’inizio di un periodo, anche molto lungo, di scarsissimi risultati e profonde frustrazioni per i risparmiatori.

Questo era certamente il timore che aleggiava ancora all’inizio del 2023, quando le previsioni economiche erano decisamente funeste: la guerra non dava (e così purtroppo è ancora oggi) segni di volere cessare, l’inflazione era del tutto comparabile ai livelli degli anni ’70 e le banche centrali manifestavano tutta la loro insofferenza promettendo nuovi rialzi dei tassi (che avrebbero dovuto “raffreddare” la domanda di beni e servizi e con essa anche l’indice dei prezzi).

Lo spavento dell’”annus horribilis” 2022 aveva nel frattempo spinto non pochi risparmiatori ad abbandonare la beccheggiante barca degli investimenti azionari nel timore di un possibile naufragio.

Ma l’economia è una scienza sociale: un modo elegante per dire che è dedicata allo studio della soddisfazione dei bisogni degli individui e le cui previsioni dipendono, di conseguenza, dai comportamenti umani.

Prevedere l’imprevedibile può essere frustrante e certamente lo è stato quest’anno per analisti ed economisti: la recessione, data per scontata a inizio anno, ancora non ha fatto capolino e questo è vero in special modo per gli Stati Uniti, che, mantenendo il loro passo di crescita, hanno sostenuto anche l’economia del vecchio continente.

Spiegare l’equazione apparentemente impossibile di inflazione elevata, autorità monetarie severamente impegnate a rallentare la crescita ed economia americana pervicacemente solida è compito arduo.

Certamente ha aiutato il cambiamento di direzione dell’andamento dei prezzi al consumo, tornati a crescere a ritmi molto più contenuti (negli Stati Uniti l’ultimo dato era del 4% non più così lontano dalla media dello scorso decennio) per merito della discesa dei prezzi delle materie prime (rientrato lo choc provocato dalla guerra e depresse, poi, dalla crescita inferiore alle attese della Cina, il Paese energivoro per eccellenza).

Ma a questo non basterebbe a spiegare l’imperturbabilità dei consumatori americani e la solidità dei loro consumi.

Per arrivare a una delle spiegazioni più convincenti occorre tenere conto della politica economica (attuata attraverso la spesa pubblica) messa in campo da Biden.

L’amministrazione USA, infatti, ha approvato negli ultimi 18 mesi una serie di massicci piani di sostegno economico,  l’ Infrastructure Investment and Jobs Act il CHIPS and Science Act e l’ Inflation Reduction Act, per complessivi 2.100 miliardi di dollari (pari all’8% deL PIL nazionale).

Seppure gli effetti di questi enormi programmi di spesa si dispiegheranno nell’arco di più anni, gli investimenti effettuati nel corso degli ultimi 12 mesi sono stati già pari al 4% del PIL.

Ecco quindi che sembra avere più senso l’andamento dell’economia americana, del tutto immune dalla zavorra dei tassi d’interesse (e dei maggiori costi sostenuti, a causa di questo, dal governo sul proprio debito pubblico).

In parallelo, a beneficiare maggiormente di quanto descritto sono stati mercati borsistici (sensibili innanzitutto all’andamento dei profitti aziendali, strettamente legati a quello del PIL) mentre deludenti sono stati quelli obbligazionari (convinti che alla fine un rallentamento arriverà ma ancora non persuasi che l’inflazione tornerà presto al livello desiderato dalle autorità monetarie).

Gli analisti, attori anch’essi della scienza economica, spiazzati dal positivo ed inatteso andamento dei mercati, si trovano ora a rivedere le loro aspettative.

Dei 23 “strategists” delle principali case d’investimento, ben 18 prevedono una discesa dell’indice Standard and Poor entro la fine dell’anno, e ciò malgrado quasi tutti abbiano cercato di adeguare le loro stime ai rialzi avvenuti negli ultimi mesi!

Ma se tutto ciò spiega il progresso, ormai alle nostre spalle, delle borse poco ci può suggerire sul loro futuro.

I rialzi dei tassi, sinora inefficaci, grazie, come detto, all’azione dei governi ma anche al fatto che per dispiegare i propri effetti richiedono tempi lunghi (tra i 12 e i 24 mesi), potrebbero iniziare presto a incidere sulla crescita economica ma, per contro, la rapida discesa dell’inflazione, se continuasse, avrebbe l’effetto di indurre le autorità monetarie ad arrestare i rialzi dei tassi, rinvigorendo così l’umore degli investitori.

La bellezza e il fascino dell’economia risiedono forse, proprio nella sua natura, legata ai comportamenti di noi esseri umani, ma questo rappresenta anche uno dei suoi limiti più evidenti, rendendola uno straordinario strumento di analisi e monitoraggio a discapito però delle sue capacità predittive.

Come ricordava Isaac Newton, uno scienziato senza se e senza ma, possiamo misurare il moto dei corpi ma non l’umana follia…

Forse solo la pazienza può aiutare ad affrontare serenamente gli alti e bassi dei mercati, senza dimenticare che, come il coraggio di manzoniana memoria, “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.

La cavalcata, interrotta, delle Valchirie 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Le origini del nome del Gruppo mercenario Wagner, sebbene ancora in parte avvolte nel mistero, farebbero riferimento alla passione del suo fondatore, Dmitry Utkin, per l’ideologia nazista e per Richard Wagner, il compositore preferito da Adolf Hitler.

La cavalcata di Yevgeny Prigozhin e delle sue Valchirie, per rimanere nel mondo del “Mago di Bayreuth”, si è interrotta sabato a 200 km dal Valhalla/Mosca.

Il grande interrogativo è ora se quanto avvenuto minerà, come molti sembrano sostenere, la leadership ed il futuro politico di Vladimir Putin.

La storia recente sembrerebbe indicare il contrario: i colpi di Stato tentati in Turchia nel 2016 e in Venezuela nel 2019 hanno visto emergere i rispettivi presidenti, Erdogan e Maduro, più forti e solidi di prima.

Anche rimanendo alla Russia, Pietro il grande, Caterina la grande, Nicola primo e secondo (nel 1905) e Lenin affrontarono con successo delle rivolte militari ai loro danni.

L’unico a non sopravvivere agli ammutinamenti dell’esercito fu Nicola secondo nel 1917, durante la Prima guerra mondiale.

E’ dunque possibile che gli eventi degli ultimi giorni non comporteranno significativi cambiamenti neanche sullo scenario di guerra, soprattutto dopo gli scarsi effetti sortiti dalle controffensive ucraine.

Dal punto di vista economico, poi, le conseguenze potrebbero farsi sentire solo qualora il conflitto si inasprisse ulteriormente, limitando l’afflusso di materie prime (acqu8istate ormai quasi esclusivamente dai Paesi amici di Mosca) e provocandone così l’aumento dei prezzi (e l’aumento delle pressioni inflazionistiche).

Al momento i mercati finanziari sembrano non credere assolutamente ad un cambiamento repentino della situazione e il lunedì non ha assunto le tinte, scurissime, di altri eventi improvvisi del passato.

Una Russia preda del caos non sarebbe certamente nell’interesse dei Paesi occidentali, per non parlare della Cina che si troverebbe ad affrontare una situazione di incontrollabile instabilità ai suoi confini.

Presto capiremo meglio la portata degli ultimi accadimenti ma per ora l’”Anello del potere” sembra ancora saldamente al dito dello zar Volodya* e l’impressione è che non sarà per nulla facile sfilarlo….

*La saga del “Signore degli Anelli”, di Tolkien, ha pescato a piene mani dalle antiche leggende nordiche che hanno ispirato Richard Wagner nella sua “Tetralogia del Nibelungo” (“La Valchiria” rappresenta il secondo dei quattro drammi musicali)  .

  L’Impero di mezzo (al guado) 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Da qualche settimana la Cina non è più il Paese più popoloso del mondo.

Il sorpasso da parte dell’India, previsto da tempo dagli studiosi di demografia, è la plastica rappresentazione del cambiamento profondo che sta attraversando il gigante asiatico.

L’invecchiamento della popolazione non è stato (e non lo sarà certo in futuro con l’aumento del benessere) intaccato dalla politica del figlio unico (e preferibilmente maschio) attuata tra il 1979 ed il 2015 per contenere la crescita della popolazione cinese.

Nel 2035 il 30% dei cinesi, 400 milioni di persone, avrà più di 60 anni e nel 2022, per la prima volta dal 1961, il numero di decessi ha superato le nascite.

Entro la fine del secolo la popolazione scenderà quindi dagli attuali 1,4 miliardi a 800 milioni (quella dell’India sarà praticamente doppia).

Nel 2100 saranno perciò molto diversi i rapporti di forza dettati dal peso demografico: la Cina passerà dalle 4 volte al doppio della popolazione statunitense che sarà quindi, con ogni probabilità, ancora una superpotenza economica in grado di mettere sotto scacco la Cina.

I trend dettati dall’evoluzione della demografia sono difficilmente disattesi e per questo vanno esaminati con attenzione per valutare per tempo le contromisure.

Le sfide per il Partito Comunista Cinese sono di non semplice soluzione e richiedono visioni di lungo termine, che vanno ben al di là dei piani quinquennali, utilizzati dal 1953 per guidare il Paese verso i suoi obiettivi sociali ed economici.

La prima sfida, forse più urgente, riguarda lo squilibrio che sta maturando tra la popolazione in grado di lavorare e gli anziani.

L’ultimo dato disponibile indica il rapporto di 2,26 persone in età lavorativa (tra i 16 ed i 60 anni) per ogni ultrasessantenne, un valore molto simile a quello italiano, pari a 2,36.

Nel 2050, poi, la situazione sarà di assoluta emergenza con poco più di un lavoratore per ogni pensionato.

Già oggi però la Cina si trova in difficoltà nella creazione di occasioni soddisfacenti per i, sempre più scolarizzati, giovani che si affacciano sul mercato del lavoro; basti pensare che il tasso di occupazione giovanile (tra i 16 ed i 24 anni)  è attualmente del 20,4% e che nel solo 2021 le università cinesi hanno sfornato ben 4,3 milioni di laureati.

L’economia cinese, cresciuta anche grazie ad una forza lavoro abbondante, priva di competenze e preparazione specifiche e a basso costo, non riesce ancora a generare opportunità in linea con le aspettative di decine di milioni di giovani ingegneri e dottori pronti a riscattare la povertà dei propri genitori (a loro volta con elevate aspettative per i loro giovani virgulti).

La Cina si trova così in mezzo al guado: da Paese emergente a elevatissima crescita e aumento vertiginoso della sua importanza sullo scacchiere mondiale a potenziale potenza in declino, incapace di superare con successo la transizione demografica ed economica richiesta dalla sua situazione.

Attraverso la lettura di questi venti potenzialmente contrari si può leggere meglio la politica di costruzione di alleanze sempre più estese e ramificate, in grado di sopperire alle tendenze demografiche sfavorevoli, e il massiccio sforzo in campo tecnologico, l’unico settore in grado di creare, irradiandosi in tutti i tessuti dell’economia e della pubblica amministrazione, posti di lavoro in linea con le attese dei brillanti laureati.

Vale le pena ricordare come una delle iniziative di maggior successo sia stata, a partire dal 2013, quella della Via della Seta, la Belt and Road Initiative (Bri), con la quale il governo cinese ha varato progetti di investimento in infrastrutture (ponti, strade, ferrovie, porti) coinvolgendo 150 Paesi.

La BRI coinvolge oggi buona parte dei Paesi africani ed asiatici (ma non l’India), parte dell’Europa (per lo più orientale) e del Sudamerica; l’Italia è l’unico Paese dei G7 ad avere dato, nel 2019, la sua adesione ed il nostro governo sta valutando proprio in questi giorni l’opportunità di sfilarsi prima del rinnovo automatico per 5 anni nel marzo del 2024.

Quanto le pressioni percepite dai leader cinesi potranno accelerare un’azione di forza su Taiwan, quanto mai strategica, con la sua tecnologia, per la Cina del futuro, è difficile dirlo; questo aggiungerebbe ulteriori criticità alla pianificazione del futuro dell’Impero, sempre più in mezzo ad un profondissimo guado.

Debito e nuvole  

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Le due crisi economiche innescate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno provocato un massiccio intervento di sostegno da parte dei governi e, con questo, un ulteriore aumento del già elevato livello del debito mondiale.

Ma ad essere indebitati non sono solo i governi ma anche le famiglie e le aziende e a fare il punto della situazione, mettendo a confronto i debiti diversi paesi, ci ha pensato il recente rapporto, il Global Debt Monitor, dall’ Institute of International Finance.

La, piccola, buona notizia è che sebbene il debito globale rimanga, sia in valore assoluto che in rapporto al PIL, enorme (305.000 miliardi di dollari, il 333,2% del PIL) il suo valore è sceso nel 2022 di 4.000 miliardi ed è la prima volta dal 2015.

La cattiva notizia, sottolineata dal sibillino titolo del rapporto dell’IIF “Crepe nelle fondamenta”, è che quest’anno il trend di crescita è ripreso con forza con 8.300 miliardi aggiunti nei soli primi tre mesi del 2023 ed è ora 45.000 miliardi più alto del livello pre-pandemico.

Proviamo allora a comprendere come il debito sia diventato una costante presente in tutti i settori dell’economia mondiale e come potrebbe evolversi la situazione futura.

Cominciamo con il dire che il nostro pianeta ha da sempre offerto nuovi territori e nuove popolazioni da esplorare, conoscere e, qualche volta sfruttare (con i rischi che tocchiamo ormai con mano ogni giorno).

L’ingegno dell’uomo ha contribuito al progresso generando costanti, e nell’ultimo secolo in particolare, accelerate innovazioni.

Così facendo, nuove risorse, popolazioni e tecnologie hanno fatto progredire l’economia ed il benessere (in particolare in quella parte del mondo, l’occidente, che prima si è attrezzata per questa avventura).

Ma in un contesto che offriva così grandi opportunità perché accontentarsi di quanto si ha a propria disposizione? Perché limitarsi ai propri, spesso scarsi, mezzi?

Il debito è stato così una delle innovazioni che più hanno plasmato il mondo nel quale oggi viviamo.

Il fuoco, la ruota, la scrittura sono state invenzioni che hanno avuto un impatto sull’umanità ben più evidente (e risaputo) ma la possibilità di fare leva sulle proprie idee e sulla lungimiranza (non priva, spesso, di cinici calcoli) di chi fornisce un capitale per poterle sviluppare, ha costituito un prepotente acceleratore di crescita e di opportunità.

L’origine del debito si può fare risalire ai mercanti che nell’antica Mesopotamia, 3.500 anni prima di Cristo, pochi secoli dopo la comparsa della scrittura, scrivevano su tavolette di argilla, marchiate con il sigillo del debitore, i loro crediti.

Ma la nascita del debito nella sua forma “organizzata” (con persone ed istituzioni dedicate a farne una vera e propria attività: le banche) ci riporta all’epoca del Rinascimento e guerre, conquiste ed esplorazioni si sono succedute grazie, anche, ad esso per secoli.

Negli ultimi 60-70 anni, però, il gioco, riservato in passato ad “élite” (Stati, teste coronate, nobili, avventurieri e qualche geniale e convincente inventore) ha fatto un salto di qualità ed è diventato fruibile a tutti.

Non a caso negli anni ’50, negli Stati Uniti, cominciano a comparire le prime carte di credito: è finalmente possibile spendere quello che non si ha.

La democratizzazione del debito è stata certamente un apprezzabile sottoprodotto della fine dei totalitarismi e del dilagante entusiasmo per il libero mercato.

Grazie ad esso non servivano più capitali accumulati dalle generazioni precedenti per acquistare la casa dove abitare o, più modestamente, la nuova automobile.

Idee e opportunità, ampiamente disponibili, diventavano finalmente raggiungibili grazie alle banche, prima, e, successivamente, all’universo in continua espansione degli investitori pronti a prestare il loro denaro (a governi e società) per una adeguata remunerazione.

E, sia detto chiaramente: non è certo un problema contrarre un debito per perseguire un progetto che genererà (per sé o per il Paese) una ricchezza ben maggiore del suo costo.

Senza debito occorre accontentarsi di quanto si ha a disposizione e la crescita tecnologica procede a ritmo modesto per mancanza di adeguate risorse finanziarie.

Il debito crea nuovi consumi (di risorse e di prodotti) e nuova occupazione (per produrre e sviluppare prodotti e servizi).

Tutto bene dunque? Per un po’ di tempo abbiamo certamente potuto ammirare, rilassati nelle nostre poltrone, solo il lato illuminato della luna.

L’indebitamento è andato accumulandosi alimentando così la crescita dell’economia, dell’occupazione e, in ultima analisi della prosperità.

Negli Stati Uniti il debito complessivo (pubblico e privato) è salito dal 160% del PIL (più di una volta e mezza la ricchezza prodotta nell’anno) del 1979 a circa il 350% attuale.

In Europa siamo arrivati a livelli superiori al 365% ed in Giappone al 610%: tra le 4 e le 6 volte il prodotto di questi Paesi.

Ma, si dirà, poco male: il debito genera ricchezza e prosperità… o no?

Il problema del debito è che fino a che se ne fa un utilizzo avveduto, generando, con il suo utilizzo, risultati superiori a quanto si dovrà restituire (comprensivo degli interessi pagati) il circolo è virtuoso.

L’equilibrio diventa precario quando il debito viene utilizzato in modo poco efficiente: è come se il corpo (l’economia) si fosse assuefatto al suo effetto stimolante e ne chiedesse sempre di più senza però riuscire a tornare più in piena forma.

Questa situazione si verifica perché le opportunità di investimento col tempo e la scomparsa di nuovi territori e popolazioni da sfruttare, e, quel che è peggio, la stagnazione della crescita demografica, tendono a diventare meno abbondanti ed una certa quantità di debito, accumulato quando le condizioni erano più favorevoli (e per questo con minore prudenza), diventa più difficile da rimborsare.

Se non si è iniziato a ripagare il proprio debito quando se ne aveva la possibilità diventa più difficile quando la situazione è meno propizia.

Il ciclo del debito è ritenuto per questo da molti economisti come una delle principali cause dei “cicli economici” (le oscillazioni da situazioni di estremo benessere a quelle di crisi).

Si arriva periodicamente ad un punto dove i creditori chiedono di riavere i denari che avevano prestato e questo riduce le possibilità di spesa e di investimento dei debitori, complica la vita alle banche che, non essendo in grado di rientrare delle somme prestate, smettono di concedere credito e ci si trova, senza quasi capirne il motivo, nel mezzo di una recessione. 

L’allarme rosso scatterebbe, secondo alcuni economisti, quando il debito complessivo supera il 250% del Pil.

Nel 2008 il meccanismo sembrava essere sul punto di generare una crisi simile a quella del 1929 ma le banche centrali, acquistando le obbligazioni (il “debito”), evitando così che perdessero valore o che portassero al fallimento i debitori, e concedendo denaro a basso costo al sistema bancario, hanno reso possibile un riassestamento ordinato della situazione.

L’indebitamento si è così, per qualche anno, stabilizzato ma non, ridotto (ad eccezione, per un breve periodo, degli Stati Uniti).

Il debito ha cambiato, dunque, nel tempo la propria natura: da lievito in grado di fare crescere economie e benessere (passando attraverso sanguinosi conflitti) a una zavorra che oggi rappresenta un potente freno alla crescita futura.

Non è detto che tutto ciò condurrà, alla fine, al baratro (come pensano i più pessimisti) ma potrebbe venire a mancare nei prossimi anni quel propellente che ha consentito all’economia mondiale, per molti decenni, di crescere al di sopra delle proprie possibilità.

Il noto investitore e filantropo Ray Dalio ha descritto molto bene quanto potrebbe avvenire nei prossimi 10 anni (più complesso e frutto del caso è fare previsioni di più breve termine).

Nel suo studio “Productivity and Structural Reform: Why Countries Succeed & Fail, and What Should Be Done So Failing Countries Succeed” effettua una attenta ed acuta disamina dei fattori di successo (e di insuccesso) dei principali Paesi mondiali delineando così quali saranno, anche dal punto di vista degli investimenti, quelli che con maggiori probabilità raccoglieranno i frutti, sempre più rari e meno succosi, della crescita.

La “formula della felicità” della crescita dipenderebbe da due fattori: il livello di indebitamento e la crescita della produttività.

Il debito influenzerebbe di più il futuro immediato (ma nel tempo gli effetti positivi e quelli negativi dovrebbero compensarsi) mentre la produttività ha effetti più duraturi, nel lungo termine. 

Ray Dalio ha stimato in questo modo la crescita economica dei principali Paesi nei prossimi 10 anni ed il nostro Paese si trova al penultimo posto (peggio di noi solo la Grecia).

Ad essere favoriti saranno i Paesi che hanno un minor debito in rapporto al loro reddito ed una sua crescita inferiore a quella del prodotto nazionale (il PIL).

Ma questo non basta: nel tempo entrano in ballo altre variabili fondamentali come la popolazione in età lavorativa e la produttività.

Una minore disponibilità di persone in grado di dare il loro contributo ai processi produttivi limita la crescita economica (il lavoro è uno dei “fattori di produzione”) ma d’altro canto non è sufficiente disporre di una forza lavoro abbondante se questa non è adeguatamente preparata e pronta a rispondere alle richieste delle imprese, se non è, in altre parole, “produttiva”.

Il debito, dunque, è solo la punta di un pericoloso iceberg che minaccia la navigazione dell’economia mondiale e, in particolare, dell’Italia.

Proprio in questi giorni, per finire in bellezza, oltreoceano crescono le preoccupazioni legate al raggiungimento del tetto del debito *.

Occorrerà un non semplice accordo bipartisan tra il partito del Presidente e l’opposizione repubblicana, per potere elevare il livello della spesa, spazzando via le nuvole che si sono accumulate negli ultimi mesi.

Il cielo tornerà probabilmente presto azzurro ma le nubi in lontananza non potranno essere per sempre ignorate. E neanche le crepe che si intravedono nelle fondamenta…

*    https://iltorinese.it/2023/05/16/il-tetto-che-scotta/

Il tetto che scotta 

IL PUNTASPILLI  di Luca Martina 

Ai problemi che il presidente Joe Biden si trova ad affrontare si è aggiunta nelle ultime settimane un’altra gatta da pelare.

Si tratta del raggiungimento del tetto massimo di spesa.

Il Congresso degli Stati Uniti ha fissato un “Debt ceiling”, un limite al debito che il Governo può creare, sin dal 1917.

Prima di allora ogni debito assunto dal Governo andava autorizzato dalle due Camere ma l’ingresso degli USA nel primo conflitto mondiale rese necessaria una maggiore flessibilità e velocità di azione e fu così previsto un ammontare, un tetto, sino al quale non era più necessario attraverso il voto di deputati e senatori.

Va detto che non si tratta assolutamente di un fatto inusuale: il Congresso ha autorizzato l’innalzamento del debito per ben 78 volte dal 1960 (l’ultima nel 2021) e quasi sempre questo è avvenuto senza che fossero necessarie estenuanti negoziazioni tra il partito del Presidente e quello all’opposizione.

Questo nuovo modus operandi ha però sicuramente contribuito ad una violenta crescita del debito pubblico nel nuovo millennio, quando si è passati dai 5 mila miliardi, nel 2000, ai 31.400 miliardi dollari, all’inizio di quest’anno, arrivando a toccare per l’ennesima volta il tetto prestabilito.

La crescente polarizzazione tra i due schieramenti, Democratici e Repubblicani, dell’ultimo decennio ha complicato ulteriormente la vita dei governi, costringendoli più volte negli ultimi 15 anni a prove di forza che hanno fatto temere il “default” tecnico (una, solo temporanea, incapacità di fare fronte agli impegni assunti).

E’ stato in particolare sotto la presidenza di Barack Obama che si sono verificati due momenti di altissima tensione, nel 2011 e nel 2013, che, pur conducendo sull’orlo di una “crisi del debito” (pari a quel tempo a 16,4 mila miliardi di dollari), non arrivarono però, per fortuna, a generare un vero e proprio default in quanto un accordo in extremis venne sempre raggiunto.

Il danno provocato dall’incertezza si fece comunque sentire: i mercati finanziari vissero settimane di grande volatilità e anche il costo del debito americano (gli interessi sui titoli di Stato) ne pagò le spese, aumentando di più di un miliardo di dollari nei 12 mesi immediatamente successivi all’introduzione del nuovo tetto.

La situazione attuale è del tutto simile a quanto avvenuto un decennio fa.

Anche oggi la presidenza è democratica e la negoziazione, in atto con il partito di Trump, che controlla la Camera dei Rappresentanti, è quanto mai difficile.

La richiesta repubblicana di approvare un aumento di 1,500 miliardi, impegnando però il Governo a ridurre le spese in settori quali quello dell’istruzione e dei servizi sociali, con l’obiettivo, nei prossimi 10 anni, di tagliare la spesa pubblica del 14%, ha trovato sinora una fiera opposizione da parte del Presidente.

Che si tratti di un muro contro muro, molto più politico ed opportunista che ideologico, lo possiamo chiaramente comprendere dal fatto che il partito repubblicano, ora paladino del contenimento della spesa, abbia esso stesso approvato aumenti durante la presidenza Trump pari a 3,800 miliardi dollari.

Le conseguenze sui mercati finanziari di questa “impasse” non sono state sinora così evidenti.

Le borse, ferme o leggermente calanti da un mese a questa parte, sembrano in attesa di capire meglio quale direzione indicheranno i prossimi dati economici (su inflazione, occupazione e crescita) e come questi influenzeranno la politica delle banche centrali (che sembrano essere ormai vicine ad una pausa del ciclo di aumento dei tassi d’interesse) e non particolarmente interessate alle schermaglie in atto a Capitol Hill.

Più nervoso è il comportamento del mercato obbligazionario statunitense, dove il rischio di un default (anche se di pochi giorni) potrebbe impedire il pagamento delle cedole e, sebbene più difficilmente, il rimborso dei titoli in scadenza inducendo così le agenzie di rating a rivedere i loro giudizi (attualmente fermi al massimo dei voti, la tripla A, con l’eccezione di Standard and Poor con un lusinghiero AA+) al ribasso, con effetti molto negativi per i detentori dei titoli pubblici (e con un deciso aumento dei tassi).

Le trattative tra Repubblicani e Dem procedono intanto freneticamente anche perché, pur non essendo possibile dire con precisione fino a quando le risorse finanziarie saranno sufficienti per pagare gli stipendi degli statali e pensioni ciò potrebbe avvenire già nelle prime settimane di giugno, secondo quanto ha dichiarato recentemente la segretaria del Tesoro, Janet Yellen.

La mancanza di un accordo potrebbe arrestare l’erogazione di molti servizi pubblici (alcuni stimano che il 30-40% sarebbero a rischio) ed aprire la porta ad infiniti contenziosi in quanto si imporrebbe una scelta dei dipendenti e dei fornitori da pagare e di quelli per i quali ciò non sarà possibile.

Questo scenario non mancherebbe, poi, di avere ripercussioni sul dollaro, nel quale sono accumulate la metà delle riserve valutarie mondiali, con scosse che si avvertirebbero ben al di là delle sponde statunitensi.

Il rischio, seppur remoto, è che il rallentamento dell’economia, necessario per riportare l’inflazione sotto controllo, possa materializzarsi troppo velocemente e che l’inchiodata possa rendere eccessivi gli ultimi aumenti dei tassi di interesse da parte della Fed, provocando così una vera e propria recessione.

Ecco spiegato perché la questione del tetto (del debito) è davvero scottante e dobbiamo solo sperare che oltre oceano prevalga (com’è molto probabile) il ben noto pragmatismo e si eviti così un incendio in grado bruciare le, ancora elevate, possibilità di uscire non troppo malconci dall’ondata inflattiva (frutto del doppio tsunami pandemia-guerra in Ucraina).

Aggiungiamo dunque alle nostre preghiere per la fine del conflitto anche un pensiero per una rapida soluzione di questa nuova potenziale incognita perché “Quando brucia il tetto non serve né pregare né lavare il pavimento. Comunque pregare è molto più pratico.”

Mona Lisa smile

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Inflazione in calo (ma sempre elevata) e disoccupazione ancora molto bassa (al 3,5%), anche se stanno aumentando i disoccupati (specie nel settore delle tecnologie).

La medicina della Fed (che da ormai due anni ha iniziato ad aumentare i tassi d’interesse) sta producendo i suoi effetti (rallentare l’economia ed i prezzi al consumo) ma più lentamente di quanto voluto e questo riduce al minimo la possibilità di un cambio della politica monetaria a breve termine, come era stato invece rapidamente scontato dai mercati finanziari dopo i fallimenti bancari di marzo (dalla Silicon Valley Bank a Credit Suisse).

Niente tagli dei tassi, dunque, sebbene il “pivot”, il livello massimo dei tassi d’interesse ufficiali, sia ormai molto vicino: i tassi potrebbero assestarsi per qualche tempo, in attesa che l’indice dei prezzi si raffreddi, prima di potere tornare nuovamente a scendere (nel 2024).

Inoltre, il mercato immobiliare statunitense, dove l’aumento degli interessi sui mutui scoraggia nuovi acquisti, sta subendo un brusco rallentamento (superiore al 20% rispetto al 2022) con una conseguente discesa dei prezzi (dopo la forte salita degli ultimi anni).

Anche il dollaro, una delle vie di fuga preferite dagli investitori in presenza di situazioni incerte, è tornato ad indebolirsi.

Ma se i mercati obbligazionari ed immobiliari riflettono abbastanza fedelmente la situazione non si può certo dire la stessa cosa dei mercati azionari.

Da un lato gli investitori nel reddito fisso si attendono che il ciclo dei rialzi sia vicinissimo al capolinea, possibile solo in presenza di un forte rallentamento economico, e dall’altro le quotazioni delle borse sembrano suggerire una tenuta degli utili delle società, incompatibile con una, seppur moderata, recessione.

Questa apparente dicotomia rappresenta un rebus di difficile soluzione.

La risposta può forse essere trovata nel pessimismo che pervade da un anno e mezzo i mercati; gli investitori temono da tempo un rallentamento degli utili e dell’economia che sinora non si è materializzato e quindi la mancanza di notizie univocamente negative ha giovato ai listini (che pur oscillando ampiamente non sono deragliati).

Una riprova è data dall’ultimo sondaggio tra gli investitori professionali elaborato da Bank of America che ha mostrato un pessimismo molto vicino ai livelli toccati durante la grande crisi finanziaria del 2007-8 e una conseguente allocazione dei portafogli prudente (con meno azioni e più titoli obbligazionari).

Un’ulteriore recente analisi condotta da un’altra importante istituzione finanziaria, la JP Morgan, indica che ben due terzi dei gestori azionari si attendono che l’anno in corso terminerà con un calo delle borse superiore del 10% rispetto ai livelli attuali.

I mercati, recita un vecchio adagio di Wall Street, si arrampicano sui muri dell’incertezza e delle preoccupazioni: più le pareti sono ripide ed elevate, maggiore è la salita degli indici.

Ed è esattamente quanto sta avvenendo.

La crisi delle banche regionali americane è troppo recente (e forse non ancora completamente alle nostre spalle) per poterne valutare appieno gli effetti sul credito bancario (la volontà delle banche di continuare a finanziare privati ed imprese) e sull’economia.

L’economia del vecchio continente, poi, è ben lontana dalla forza di quella statunitense ma, paradossalmente, l’inflazione da noi sta scendendo in modo meno rapido scoraggiando così anche la BCE da un repentino cambiamento di rotta (i tassi saliranno ancora).

Insomma, il compito degli investitori si conferma tutt’altro che semplice e il quadro che ci si trova ad analizzare è sempre più simile, come ci ricorda un recente articolo del The Economist, alla Monna Lisa.

Grazie al genio di Leonardo e alla sua straordinaria capacità nell’utilizzo dello “sfumato” la Gioconda, infatti, restituisce allo spettatore un’espressione misteriosa e indecifrabile ed il sorriso, che ci appare al primo impatto, sembra dissolversi dopo un suo più attento esame per poi ripresentarsi, sornione, al successivo sguardo.

La pensa così anche il Fondo Monetario Internazionale che nel suo recente rapporto menziona la parola “incertezza” per ben 60 volte!

A tutto ciò ha certamente contribuito la nuova era, siamo nel terzo anno D.C. (dopo Covid), con il mutamento delle abitudini e dei comportamenti: le analisi congiunturali, ad esempio, richiedono la partecipazione (rispondendo ai questionari) di uno spaccato della popolazione e sembra ormai assodato che molti di coloro che abitualmente fornivano le loro risposte (ad esempio sullo stato del loro reddito e sulle attese sul futuro) abbiano smesso di farlo, falsandone così i risultati e la loro comparabilità con il passato.

A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge quanto sta avvenendo in Cina dove il governo, dopo la ormai completa riapertura del Paese e senza il problema dell’inflazione, bassissima nel Celeste Impero, sta spingendo senza esitazione sull’acceleratore.

Il gigante asiatico ha sorpreso gli analisti con una crescita nel primo trimestre dell’anno superiore alle attese, alimentata dai consumi domestici e non, come avveniva in passato, dagli investimenti (necessari per aumentare la capacità produttiva finalizzata alle esportazioni) e punta per quest’anno su un progresso del PIL del 5%, più del doppio del dato globale.

A ben vedere questa dinamica, fortemente voluta dal governo per consentire un riequilibrio all’interno del Paese ed un aumento della “prosperità comune”*, se verrà in futuro confermata, renderà la Cina assai meno trainante per la crescita globale rispetto al passato e questo lo si può già osservare 0dall’andamento asfittico dei prezzi delle materie prime negli ultimi mesi.

Non ci resta, quindi, che rimanere ad osservare con attenzione tutte le sfumature che continuerà a mostrare il quadro economico, sperando che esso si dimostri un po’ meno sfuggente ed indecifrabile dell’enigmatica, bellissima, espressione della Monna Lisa…

https://www.pannunziomagazine.it/la-pedalata-dellelefante-di-luca-martina/

Il Terrore corre sul Web 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Le banche sono indispensabili alla crescita dell’economia. 

Raccogliendo il denaro in eccesso (non utilizzato per vivere, dalle famiglie, o per essere investito da parte delle imprese), attraverso i depositi, e rendendolo disponibile a chi ne ha necessità (per acquistare una casa o per finanziare la propria azienda) un sistema finanziario efficiente consente all’economia di allocare al meglio le proprie risorse, distribuendole a seconda delle necessità e delle capacità di utilizzarle. 

Nella realtà il meccanismo può incepparsi per una serie di motivi. 

Innanzitutto i clienti che hanno affidato la loro liquidità ai conti correnti bancari possono improvvisamente decidere di riavere indietro il proprio denaro e questo, come visto nelle ultime settimane, può fare precipitare le banche coinvolte in una severa crisi di liquidità e, in ultimo, costringerle al fallimento (o al salvataggio in extremis, come avvenuto in Svizzera con il gruppo Credit Suisse). 

Un altro brutto incidente che può funestare la vita di una banca è l’incapacità dei propri debitori di ripagare i finanziamenti ed i mutui ricevuti: la crescita incontrollata delle insolvenze e dei crediti “incagliati” rappresenta spesso uno degli effetti collaterali delle recessioni.  

Gli azionisti/investitori, poi, possono perdere la fiducia (o anche solo la pazienza) nelle banche e iniziare a venderne le azioni causandone così il loro crollo, con la conseguente impossibilità di ottenere nuovi capitali per fronteggiare le situazioni di difficoltà. 

La crisi attuale è del primo tipo (con il conseguente crollo dei titoli in borsa) e riguarda, per ora, essenzialmente le banche statunitensi. 

La riduzione dei depositi è iniziata quando i tassi d’interesse offerti dai titoli governativi sono tornati ad essere positivi, dopo essere rimasti inchiodati allo zero per diversi anni, grazie all’aumento inaugurato dalla Fed un anno fa ma la fuga si è fatta precipitosa solo negli ultimi mesi. 

In sostanza il “parcheggio” infruttuoso sui conti correnti ha perso completamente il suo appeal (le somme possono essere utilizzate in qualunque momento senza dovere effettuare dei disinvestimenti) quando il tasso a breve termine (direttamente legato a quello ufficiale stabilito dalla Federal Reserve) si è avvicinato al 4%. 

A quel punto l’attrazione esercitata dai titoli di stato, privi di rischio, è diventata irresistibile e i deflussi dei conti correnti si sono moltiplicati. 

Le banche non sono attrezzate a fronteggiare prelievi massicci dai propri clienti e questo fenomeno può risultare letale per quelle che non sono in grado di rendere liquidi, o lo possono fare solo con pesanti perdite, gli investimenti nei quali hanno investito il denaro dei risparmiatori. 

Le più colpite sono state le banche locali americane, meno solide e meno controllate dei grandi gruppi, che stanno fronteggiando una violentissima ondata di prelievi a favore dei fondi monetari (investiti in titoli governativi a breve termine) e delle banche maggiori (ritenute più solide ed affidabili per accogliere la liquidità). 

Il fenomeno non è certamente nuovo: la fuga dei clienti è storicamente il principale fattore che conduce, alla fine, persa la fiducia dei propri clienti, alla scomparsa delle banche. 

Il fattore di novità è la velocità con la quale ciò può avvenire.  

Il fattore tempo è diventato sempre più cruciale in tutte le attività economiche: compriamo ormai sempre di più “online” senza doverci alzare dalla nostra sedia per spostarci negli affollati centri commerciali (o, sempre più raramente, nel nostro negozio di fiducia) e, similmente, utilizziamo questa modalità anche per movimentare, spinti anche dalle banche (colpevolmente inconsapevoli del rischio che corrono), i nostri conti correnti. 

Diventa così estremamente facile svuotare il nostro conto con un semplice click. 

Se poi a questo aggiungiamo il fatto che nell’era dei social network il passaparola/terrore corre sul WEB/filo, è facile immaginare come la situazione possa avvitarsi molto, molto rapidamente. 

L’amministratore delegato di Citigroup, una delle maggiori banche americane ha così sintetizzato il dramma della Silicon Valley Bank (SVB):  “Ci sono stati un paio di tweet e poi c’è stata una accelerazione come mai visto prima nella storia. In passato si aveva più tempo per rispondere a problemi di questo genere. Francamente penso che i regolatori abbiano fatto un buon lavoro nel rispondere rapidamente”. 

Per fortuna le autorità si sono mosse con grande rapidità e la crisi di liquidità è stata fronteggiata rendendo disponibili tutto quanto necessario per fronteggiare le richieste dei clienti terrorizzati e questo potrebbe riportare la calma sui mercati e la fiducia nel settore (i tremori si sono avvertiti anche da noi). 

L’acquisto “pilotato” dalla banca centrale svizzera di Credit Suisse da parte di UBS (ad una minuscola frazione del valore che la banca aveva pochi mesi fa) e quello, spinto dal tesoro statunitense, dei prestiti e dei depositi della SVB da parte della First Citizens BancShares  vanno nella direzione auspicabile per evitare che la situazione vada fuori controllo.  

Uno degli sgraditi effetti degli ultimi eventi è stato infatti l’aumento del costo al quale le banche possono finanziarsi sul mercato, emettendo obbligazioni, o dai propri depositanti (che chiedono a gran voce di essere remunerati per quanto dispongono sui conti correnti) e questo porterà certamente ad una stretta creditizia che contribuirà a rafforzare il rallentamento economico già in atto.  

Ma se una riduzione della crescita è esattamente quanto desiderato dalle banche centrali per potere ridurre l’inflazione (la minore domanda di beni e servizi si traduce in un abbassamento del loro prezzo) altra cosa sarebbe l’arresto brusco e disordinato del credito bancario, in grado di produrre una vera e propria recessione, dalle conseguenze difficilmente immaginabili. 

Di tutto questo sono consapevoli i governatori delle banche centrali che continueranno a fare quanto è nelle loro possibilità per fornire al sistema bancario liquidità a sufficienza e per evitare che questa stagione sia ricordata solo come una maledetta (e terribilmente siccitosa) primavera. 

Il Bastone e la Carota

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La sequela dei buoni dati economici pubblicati negli ultimi mesi hanno convinto, gli investitori che la recessione non è poi così probabile, specie negli USA, favorendo un inizio d’anno molto positivo per i mercati finanziari. 

Quelle che potrebbero sembrare ottime notizie hanno però avuto l’effetto (scontato) di rinfocolare l’attenzione, e la conseguente preoccupazione, della banca centrale americana. 

La prima funzione degli istituti nazionali è quella di proteggere il valore (il potere d’acquisto) della moneta, messo seriamente a rischio dall’ancora elevata inflazione. 

L’aumento dei prezzi, infatti, riduce la capacità di spesa dei redditi: quello che riusciamo ad acquistare oggi è inferiore a quanto potevamo fare un anno fa. 

Per calmierare la dinamica inflazionistica le principali banche centrali hanno da tempo ricominciato ad alzare i tassi d’interesse, rendendo così più costosi i prestiti (per famiglie ed aziende) con lo scopo di ridurre la domanda di beni e servizi e, in questo modo, calmierare i loro prezzi. 

La Federal Reserve statunitense, in particolare, ha aumentato in meno di dodici mesi i tassi ufficiali dallo zero (dove erano rimasti inchiodati per due anni) al 4,5% ma l’economia statunitense ne ha sinora risentito assai poco. 

Possiamo quindi facilmente comprendere la frustrazione dei signori della moneta di fronte all’ apparente inefficacia della stretta posta in essere.

Questo stato d’animo è stato chiaramente espresso dal capo della Fed, Jerome Powell, che una settimana fa ha rovesciato acqua gelata sugli investitori mettendo in chiaro che la sua missione non si potrà ritenere compiuta sino a quando l’inflazione non scenderà al livello desiderato (fissato, convenzionalmente, nel 2%). 

Il messaggio è stato che la carota/taglio dei tassi d’interesse sventolata per anni davanti al cavallo/economia è stata ormai sostituita dal bastone/aumento dei tassi e gli investitori non possono fare altro che prenderne atto con dispiacere. 

Le borse, meccanismi che riflettono il valore delle società quotate sulla base dei loro utili futuri attualizzandoli con tassi di sconto più elevati, hanno quindi lasciato sul terreno in pochi giorni buona parte dei risultati accumulati nei primi due mesi dell’anno. 

Lo stesso è avvenuto per i mercati obbligazionari, vittime della ben nota relazione inversa tra i tassi d’interesse (in risalita) ed i loro prezzi (in discesa). 

La nostra Europa aveva per la verità risentito sino ad agli ultimi giorni molto poco di questi scossoni “americani”. 

Nel nostro continente prevale ancora, a differenza degli Stati Uniti, una grande prudenza: l’inflazione è anche qua elevata ma il suo calo è supportato da un quadro economico ancora estremamente incerto e quindi sembra essere assai meno giustificato un “animus pugnandi”, a voler mulinare il bastone, da parte delle BCE.  

In questo contesto si è appena profilata all’orizzonte la sagoma inconfondibile di quello che Nassim Nicholas Taleb avrebbe definito un “cigno nero”; un evento non previsto, poco probabile ma dalle conseguenze potenzialmente disastrose. 

Nella ricchissima California la banca delle start up e di molte delle aziende più dinamiche ed innovative, la Silicon Valley Bank, si candida ad essere la prima vittima illustre del repentino aumento dei tassi d’interesse. 

Occorre ricordare che durante la pandemia, tra il 2020 e il 2021, la liquidità affluita alle banche statunitensi è stata enorme e solo in minima pare è stata utilizzata per concedere prestiti: il grosso è stata “parcheggiata” in emissioni obbligazionarie.  

Le regole contabili prevedono due possibili metodi di valorizzazione di questi titoli nei bilanci bancari: al loro prezzo di acquisto (“held-to-maturity”, HTM, detenute cioè fino alla loro naturale scadenza) o a quello di mercato (“available-for-sale”, AFS, attività che possono essere rivendute prima del loro rimborso). 

A fine 2021 molte banche americane hanno in buona parte scelto di valutare le obbligazioni a più lunga scadenza (più rischiose perché più sensibili alla variazione dei tassi) come HTM (evitando così di dovere mettere a bilancio le possibili perdite di valore dovute al rialzo dei tassi), riducendo la componente AFS dal 75% al 50%. 

Come spiegato precedentemente, la risalita dei tassi d’interesse ha prodotto il peggior calo delle obbligazioni degli ultimi quarant’anni e, con esso, l’erosione degli attivi investiti in essi delle banche, il cui valore è in buona parte “mascherato” dalla loro valutazione a prezzi di acquisto (ben inferiori a quelli reali).

Il caro denaro ha creato inoltre seri problemi proprio alle aziende più innovative e alle startups che nella loro fase di lancio non dispongono di mezzi finanziari e non sono in grado di produrre utili (gli investimenti iniziali sono ingenti e richiedono spesso molti anni prima di essere ripagati dai risultati) 

Il prezzo dato al tempo e alla pazienza dei finanziatori (l’interesse da pagare alle banche), che era nullo solo un anno fa, è tornato ad essere un onere insostenibile per tante società della “valle del silicio” ponendole a serio rischio di fallimento e riducendo la liquidità presso le loro banche. 

A farne le spese è stata la SVB che, dopo avere subito per quattro trimestri consecutivi un calo dei depositi dei propri clienti, è stata costretta a fare liquidità e a vendere (in perdita) parte dei titoli (quelli trattati come AFS) in portafoglio. 

Questo non è stato però sufficiente e la SVB si è ritrovata priva di capitali e con l’impossibilità di vendere altri titoli (gli HTM vanno conservati sino a scadenza) o di ottenere la fiducia dei mercati finanziari (per niente intenzionati a finanziare un aumento di capitale) e, quindi, costretta a chiudere.

Ora i mercati temono che la banca californiana possa non essere stata la sola a patire di questa venefica accoppiata di tassi in rialzo e massicce perdite degli investimenti obbligazionari e certamente non ha aiutato il fatto che altre due banche, la Silvergate, specializzata in criptovalute, e Signature Bank, che investiva nelle valute virtuali, abbiano dichiarato bancarotta negli stessi giorni. 

E’ stato subito chiaro a tutti che il rischio “sistemico”, di un allargamento a macchia d’olio dei fallimenti, andava evitato a qualunque costo e lo schieramento compatto di governo americano, Federal Reserve e Fdic (la Federal Deposit Insurance Corporation, che assicura il rimborso dei clienti sino ai 250.000 dollari) ha garantito immediatamente che i clienti coinvolti non perderanno nessuno dei circa 300 miliardi di dollari depositati. 

Com’è noto, infatti, il maggior rischio per gli istituti finanziari è la fuga dei propri clienti che si affollano agli sportelli per richiedere la restituzione del loro denaro che le banche non hanno materialmente a disposizione (detenendone solo una piccola parte, in contanti, per i prelievi).

Nel caso della SVB durante la sola giornata del 9 marzo un quarto del totale dei depositi, pari a 43 miliardi di dollari su 173 totali, erano stati prelevati dai correntisti presi dal panico ed il rischio era quello di vedere ripetersi la scena per molte altre banche per il semplice (ingiustificato) timore di non essere in grado di tornare in possesso del proprio denaro. 

Vedremo nei prossimi giorni se le misure annunciate saranno sufficienti a fare tornare la calma.  

Per ora a prevalere è il nervosismo e a trascinare al ribasso i listini sono proprio le azioni delle banche e le scosse di questo terremoto si sentono con forza anche nelle piazze europee. 

E’ presto per dire se davvero si tratta di un cigno nero, segnale di allarme sugli effetti di un (troppo) repentino aumento dei tassi dopo molti anni di (troppo) bassi tassi d’interesse, o solo di episodi isolati di cattiva gestione (provocati da operazioni speculative e mancanza di adeguati controlli). 

ln quest’ultimo caso l’esito finale sarebbe quello di avere “ripulito” i mercati dall’eccesso di ottimismo con il quale avevano iniziato l’anno per poi tornare a brillare una volta chiaro che il rallentamento economico (già in atto, seppure ancora sottotraccia) ha definitivamente invertito la corsa dei prezzi. 

Per qualche tempo il bastone sarà probabilmente messo a riposo, così da consentire alla situazione di stabilizzarsi e di porre le basi per una ripartenza del ciclo economico nella seconda metà dell’anno. 

Nel frattempo, gli effetti della stretta creditizia sull’economia reale e sull’inflazione (ci vogliono normalmente almeno 18-24 mesi dall’inizio del ciclo di rialzo dei tassi) potrebbero dispiegarsi rimettendo così le cose a posto. 

Nella speranza che le bastonate ricevute possano diventare un utile insegnamento per il futuro, in grado di farci apprezzare meglio le gustosissime e salutari carote. 

La scoperta del capitano

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IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

Il capitano Cook nella seconda metà del ‘700 allargò la conoscenza del mondo. 

 Arruolandosi nella Royal Navy il suo obiettivo era non soltanto quello di viaggiare «…al di là di dove chiunque è andato prima, ma fin dove è possibile per un uomo andare». 

Fu il primo ad approdare, con la nave da ricerca Endeavour, in Australia e la pubblicazione dei suoi diari, dove raccontava i propri viaggi e le loro scoperte scientifiche, gli guadagnarono una enorme popolarità.

Durante il terzo dei suoi lunghi viaggi scoprì le Isole Sandwich, ora note come Hawaii.  

Quest’ultima esplorazione finì per costargli cara: dopo essere ripartito il mare in burrasca danneggiò gravemente l’albero di prua e, costretto a tornare all’isola, fu ucciso dagli indigeni inferociti per motivi ancora oggi non completamente chiariti. 

Dagli scritti del buon capitano si legge anche di un’altra, meno letale per lui, scoperta: “L’inflazione rende i ricchi ancora più ricchi e le masse più povere”.  

Eh sì anche un uomo assai poco avvezzo alle speculazioni economiche aveva compreso come l’aumento indiscriminato dei prezzi provochi conseguenze nefaste nella distribuzione della ricchezza. 

Proviamo a riassumere brevemente i meccanismi tramite i quali si realizza questa distorsione. 

I percettori dei redditi più bassi ne spendono una larga parte in beni e servizi “essenziali” per la propria sopravvivenza (e quindi difficili da ridurre in tempi di crisi): si tratta del cibo, delle bollette e del carburante (anche se è pur vero che, almeno in parte, questo potrebbe essere sostituito da un maggiore ricorso ai mezzi pubblici).  

Si tratta proprio dei beni e servizi che hanno subito i maggiori rincari, aumentandone così l’aggravio per tutti, in valore assoluto, ma in termini relativi (in percentuale sul reddito) in particolare per i meno abbienti.  

Un altro elemento che provoca un allargamento delle distanze rispetto a coloro che hanno redditi più elevati è dato dall’utilizzo dei risparmi: quando il loro ammontare è piccolo sono spesso detenuti sui conti correnti, senza alcuna remunerazione, e perciò si deprezzano a causa dell’inflazione (l’utilizzo futuro consentirà di acquistare minori quantità di prodotti e servizi, che nel frattempo saranno stati resi più cari dall’aumento dei loro prezzi).

I maggiori patrimoni hanno, invece, la possibilità di essere investiti in forme più remunerative (seppur rischiose) che (almeno nel lungo termine) proteggono meglio dall’inflazione. 

Le argomentazioni addotte sono nel complesso convincenti anche se non trovano immediata applicazione quando l’animale dell’inflazione esce dalla sua gabbia (spaventando gli investitori). 

Può infatti accadere che, come durante l’anno passato, i timori legati ai rincari dei prezzi possano gravare pesantemente sui mercati finanziari (dove sono investiti grandi e piccoli patrimoni) provocando danni in modo molto “democratico” e risparmiando solo il valore nominale, ma non certo quello reale, delle somme mantenute liquide sui conti. 

E’ pur vero che nel lungo termine gli investimenti più rischiosi (le azioni in particolare) sono quelli che danno i migliori frutti ma occorre non farsi spaventare ed avere tanta pazienza: in caso contrario la redistribuzione della ricchezza premierà solo i più “coraggiosi”. 

E la pazienza è un po’ come il coraggio di don Abbondio: se non lo si ha non ce lo si può certo dare… 

Bisogna a questo punto ricordare che i veri e indiscussi trionfatori in tempi di inflazione sono coloro che devono ripagare i propri debiti ad un tasso fisso. 

E’ questa la situazione di chi ha sottoscritto mutui e finanziamenti ad un tasso di interesse predefinito ma è soprattutto il caso dei più grandi debitori del pianeta: gli Stati sovrani. 

La storia ci insegna che la riduzione dei più grandi debiti (come quelli contratti per finanziare i costi dei conflitti mondiali del secolo scorso) si raggiunge solo grazie ad un tasso di inflazione che sale ben al di sopra del loro costo (gli interessi da pagare) erodendone così il loro valore reale. 

Va anche detto che la tendenza ad una maggiore concentrazione della ricchezza in una minore frazione della popolazione sembra disinteressarsi dell’inflazione ed è più legata alla progressiva perdita di potere contrattuale della forza lavoro, alla “globalizzazione e alla maggiore capacità dei grandi risparmiatori di fare fruttare i propri patrimoni, anche perché le loro oscillazioni non ne mettono a rischio lo standard di vita costringendoli a disinvestire nei momenti meno propizi.

 

Rimane il fatto che l’inflazione, come ricordava Luigi Einaudi, è “la più iniqua delle tasse” ed i suoi effetti si riverberano in modo incontrollato, aumentando il senso di incertezza sul futuro e innescando fenomeni speculativi (i prezzi vengono in qualche caso aumentati anche senza una reale motivazione). 

Ecco perché dobbiamo augurarci, una volta di più, che possano presto venire meno le ragioni che ci hanno condotto a navigare in acque così agitate, prima di essere costretti a tornare, proprio come avvenne al capitano Cook, ad approdi molto scomodi e pericolosi (come ci ha insegnato l’”austerity” degli anni settanta).