Era un laico che aveva fatto della crociana “religione della libertà”il suo riferimento. Era però anche un intellettuale impegnato che si batteva per un’Italia più libera e meno provinciale

Mario Pannunzio cinquant’anni dopo

di Pier Franco Quaglieni

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A Cinquant’anni dalla morte diventa difficile ricordare Pannunzio che appare piuttosto dimenticato dopo che in occasione del centenario della nascita nel 2010 era stato oggetto di ricordi un po’ in tutta Italia soprattutto per iniziativa del Centro che, unico in Italia, ne ricorda il nome per volontà di Arrigo Olivetti, di Mario Soldati e di chi scrive che nel 1968 era diventato appena maggiorenne. Si è anche assistito ad una sorte di beatificazione laica di Pannunzio che non ha consentito la sua storicizzazione soprattutto ad opera di chi si vantava di una eredità quasi del tutto abusiva, come scrisse Pierluigi Battista. Pannunzio fu in effetti un uomo complesso e semplice nello stesso tempo,capace di scelte fermissime e di dubbi laici che lo portavano a considerare come sue le valutazioni dei suoi avversari.In questo senso fu un liberale nell’accezione più ampia e più vera del termine. Pannunzio fu davvero un discepolo non banale di Benedetto Croce che fu l’ispiratore più alto del suo giornale e su maestro in campo etico e politico,come dimostra il Carteggio Croce-Pannunzio che pubblicai nel 1998 e che non fu possibile completare per la morte di Alda Croce che,sola,sapeva decifrare la calligrafia a volte illeggibile del padre. Leo Longanesi chiamava scherzosamente Mario Pannunzio “piede lavato” per evidenziare un tratto del suo carattere compassato e un po’ freddo,che in effetti celava un’innata timidezza. Arrigo Benedetti,che fu il suo amico più intimo,lo definì “un laico direttore di coscienze” per il rigore morale e civile che caratterizzò il suo impegno culturale e politico. Indro Montanelli non ha esitato a scrivere che Pannunzio “non dovette aspettare i capelli grigi per diventare maestro” in quanto tutti gli attribuirono ”naturaliter” un’autorità morale e intellettuale che ci fa pensare al giovane Gobetti: uomini come Croce, Salvemini ed Einaudi “lo riconoscevano direttore d’orchestra e si mettevano volentieri sotto la sua bacchetta”. Lo stesso Montanelli,ridimensionando un giudizio che potrebbe sembrare un po’ retorico,se non rispondesse alla pura verità,annotò che Pannunzio”all’osteria, ai caffè e con le ragazze,beveva e peccava gagliardamente”. Nato a Lucca il 5 marzo 1910, Pannunzio si trasferì a Roma ragazzo,seguendo il padre, un avvocato abruzzese di idee comuniste,costretto dai fascisti ad abbandonare la città toscana.

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Studiò a Roma e fin dagli anni dell’Università,dove si laureò in legge,svolse attività culturali e giornalistiche rifiutando,per ragioni estetiche ed etiche,prima ancora che politiche,la retorica fascista. Collaborò con Longanesi alla redazione di “Omnibus”,il primo rotocalco italiano. In quegli anni Pannunzio si dedicò anche alla pittura e al cinema.Ma la sua vera passione erano il giornalismo e la letteratura. Partecipò alla Resistenza insieme a Carandini, Libonati e Cattani e diresse il quotidiano clandestino “Risorgimento Liberale” su cui solo Gerardo Nicolosi e Mirella Serri hanno finora condotto un’ adeguata ricerca storica. Fu rinchiuso per alcuni mesi a Regina Coeli,rischiando di finire alle Fosse Ardeatine; ma a chi gli ricordava quei mesi drammatici affrontati con coraggio,replicava accendendo una sigaretta,con un gesto vago e affrettandosi a cambiar discorso. Il capolavoro di Mario Pannunzio fu il settimanale “Il Mondo”,fondato nel 1949 e da lui diretto fino all’ultimo numero ( 8 marzo 1966 ). Con “Il Mondo”- come ha scritto Ennio Ceccarini-il giornalismo avanzato e moderno cessava di identificarsi con Longanesi e prendeva il nome di Pannunzio. Bisognerebbe tornare a domandarci cosa sia stato effettivamente “Il Mondo” soprattutto dopo aver letto un profilo biografico di Pannunzio sul dizionario Treccani che appare non adeguato. Il giornale fu un’iniziativa paragonabile,nella storia della cultura, a “L’Unità” di Salvemini, alle riviste gobettiane, alla “Voce” di Prezzolini.  E’ stato sicuramente il giornale culturale più significativo del nostro secondo dopoguerra. Tutti i nomi più importanti del giornalismo e della cultura di quegli anni e di quelli successivi scrissero su “Il Mondo”. Vanno almeno ricordati i nomi di Croce, Salvemini ed Einaudi(che Mario Soldati ha definito”i padri ideali”del”Mondo”) e quelli di Ernesto Rossi,Carlo Antoni e Vittorio De Caprariis, che furono le “colonne” del giornale. “Attorno a Mario Pannunzio- ha scritto Rosario Romeo- si riunì un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia del nostro Paese”. E Alberto Moravia ricordò che”in Italia,in quegli anni,c’erano i comunisti e loro, senza alternative”. Pannunzio scriveva pochissimo,ma era l’ispiratore diretto di molti articoli,il regista di tutto il giornale di cui sceglieva personalmente anche le fotografie. “Il Mondo”esprimeva un gusto e un’eleganza che purtroppo non hanno fatto scuola. Uno dei motivi della caduta verticale dei settimanali italiani è anche il loro involgarimento: un prodotto giornalistico molto distante da quello di Pannunzio. L’eleganza grafica di Pannunzio oggi appare del lutto scomparsa.

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Si dice che Pannunzio fosse pigrissimo,che il suo problema più assillante fosse quello di trovare parcheggio all’automobile di cui si serviva anche per andare a comprare le sigarette. A questa apparente indolenza corrispondevano una vivacità intellettuale,una capacità creativa ed un rigore nel lavoro che non lasciavano spazio all’improvvisazione. Era,come ha osservato Giovanni Ferrara,”amante delle piccole comodità d’ogni giorno,ma praticante e teorico della grande scomodità della dissidenza di tutta la vita”. Nel 1962 non esitò a separarsi da Ernesto Rossi e da altri amici,tra cui Parri,pur di rimanere fermo su certi princìpi irrinunciabili. L’intransigenza di Pannunzio era assoluta. Da aristocratico qual era da parte di madre,discendente di una delle più vecchie famiglie lucchesi,disprezzava ogni forma di compromesso e di favori;la sua vita fu quindi punteggiata da continui e dolorosi distacchi e da una profonda solitudine,mitigata solo dall’affetto della moglie Mary e di pochissimi amici. Eppure in quest’uomo,che assumeva a volte i toni duri del moralista laico,c’era una profonda,sofferta umanità, venata dal metodo del dubbio con cui era solito procedere nella sua vita e nella cultura. A cinquant’anni dalla sua morte,ecco un passo d’una lettera che inviò nel 1966 a Ernesto Rossi:”Non dimenticherò mai i nostri lunghi anni di amichevole concorde collaborazione e le tue coraggiose libere campagne che hai combattuto sul”Mondo””.Essa dimostra come Pannunzio, al di là delle amare contingenze che provocarono la frattura con Rossi,era davvero uomo superiore che non serbava rancore a nessuno. Era un raffinatissimo letterato che amava Proust e Gide,un laico che aveva fatto della crociana “religione della libertà”il suo riferimento. Era però anche un intellettuale impegnato che si batteva per un’Italia più libera e meno provinciale,più avanzata socialmente,pur sentendo il fascino della tradizione liberale e risorgimentale. Volle come ultimo compagno nella bara i”Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. In quell’anno era iniziato il ’68 e i contestatori avrebbero idealmente e forse materialmente bruciato quel grande libro che il laico Pannunzio volle con sé nell’ultimo viaggio. Un motivo di riflessione su cosa significhi per davvero essere laici.