CRIMINI & MISFATTI ALL'OMBRA DELLA MOLE

Il Caso Diabolich, assassino misterioso nella Torino Anni ‘50

Era il 14 febbraio 1958, l’ultimo giorno in cui Mario Giliberti, ventisettenne, dipendente Fiat che abitava in quel di Vanchiglia, storico quartiere di Torino, venne visto al bar del piccolo borgo ordinare due caffè. Undici giorni dopo si scoprì il suo cadavere, nella sistemazione trovata per lui da uno zio, nel retrobottega di un vecchio calzolaio, in via Fontanesi 20  Perché venne scelto proprio lui come vittima? Chi era Mario Giliberti? La risposta è sempre stata più o meno unanime: Mario Giliberti era un meridionale, arrivato a Torino l’anno prima. Aveva svolto qualche impiego saltuario per poi finalmente aver realizzato il sogno di molti dell’epoca: essere assunto in fabbrica.

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Schivo, silenzioso, un uomo che non amava l’attenzione su di sé. Con il proseguire delle

indagini,però, la sua figura si colorerà di mistero. Ma andiamo avanti con i fatti. Il corpo fu ritrovato il 25 febbraio, quando un dirigente della Fiat, preoccupato delle ripetute assenze sul posto di lavoro,si recò a casa del giovane per accertarsi che non fosse successo nulla di grave. Qualcosa di grave, invece, era successo: Mario giaceva sul letto in una pozza di sangue, con il segno di diciotto coltellate al petto. Con la scoperta del cadavere, cominciarono a delinearsi i pezzi di quel puzzle, la cui soluzione,per mesi e anni, assillò la polizia, i giornalisti, le strade, gli angoli dei bar, i ballatoi di periferia, le piazze e di cui, ancora oggi, si vocifera. Eh già, perché accanto al corpo, ormai maleodorante, fu ritrovato un biglietto con su scritto: “Troverete l’ASSINO”. Non è un errore di battitura, l’omicida aveva davvero scritto ASSINO. Altro pezzo di questo puzzle misterioso fu la telefonata arrivata, il giorno prima il ritrovamento del corpo, al quotidiano “Stampa Sera”. Una voce, con chiaro accento del Sud Italia, diceva:“Ho ucciso un uomo sulla via di Po”. I giornalisti non diedero peso a quella voce, troppo confusa, troppo vaga. Ma, fortunatamente, l’assassino era un tipo impaziente e quindi lo stesso 25 febbraio fece recapitare una lettera sia al giornale che al Commissariato di   Borgo Po.

Nel biglietto, fu proprio lui a fornire, nascosto tra le parole, l’indirizzo per il ritrovamento del corpo, firmandosi con il nome Diabolich. Di questa vicenda se n’è parlato a lungo. Il killer spietato di Via Fontanesi ha ispirato il famoso fumetto Diabolik, probabilmente ha ispirato anche il “collega” d’oltreoceano Zodiac, ma, soprattutto l’omicida ha fatto tanto parlare di sé per la bravura con cui si è preso gioco delle Forze dell’Ordine. Ma è stata davvero tutta bravura? Se Diabolich avesse compiuto oggi il suo “delitto perfetto” probabilmente non sarebbe stato così bravo.

 Gli investigatori dell’epoca non avevano gli strumenti tecnici per poter analizzare accuratamente le prove, avevano sì l’intuito, ma se questo si plasma all’interno di una cultura chiusa e perbenista, diventa difficile seguirlo. On line ci sono molti articoli che parlano di questo delitto; Maurizio Ternavasio ha scritto anche un libro interessantissimo su questa vicenda. In questa sede proviamo a farci una semplice domanda: perché l’assassino non è mai stato catturato? Aldo Cugini fu arrestato e per ben quattro mesi e mezzo rimase in prigione come presunto colpevole di questa brutale uccisione. La sua colpa fu quella di aver fatto il militare con la vittima, e di avergli scritto una dedica su di una foto che li ritraeva entrambi sorridenti e che fu ritrovata nel portafogli di Mario Giliberti. Si è supposta una relazione omosessuale tra i due avvalorata anche dalla scoperta di un vasetto di vasellina sulla scena del crimine e dal soprannome con cui i due, più una terza persona mai identificata, venivano chiamati dai compagni d’armi: le tre monachelle. Ma mentre Cugini era in carcere, Diabolich continuò a spedire lettere, in cui non solo cercava di scagionare l’uomo che avevano arrestato, ma attraverso le quali voleva farsi scoprire. Ma, facciamo un piccolo passo indietro. La vittima. Chi era? Mario Giliberti aveva “firmato”un bel po’ di volte. I ragazzi dell’epoca, senza occupazione, giravano di caserma in caserma e nel frattempo, oltre a dare il proprio Servizio alla Nazione, avevano pure vitto e alloggio gratuito. Fu scoperto, però, che il ragazzo di origini foggiane, aveva un bel gruzzoletto da parte e sulla scena del crimine vennero ritrovati dei buoni postali tagliuzzati e gettati sul pavimento, il cui ammontare era di circa 200 mila lire. Il ragazzo schivo e riservato aveva sempre una catenina al collo, mai più ritrovata e una fidanzata, residente a Lodi, di cui nessuno ha mai parlato se non con un accenno. L’assassino, nella sua prima lettera, parla di un torto subito. Con molta probabilità i due si conoscevano molto bene e di sicuro non è da escludere che avessero anche una relazione amorosa. Ma se il torto fosse stato non legato alla gelosia? La pista seguita dagli inquirenti dell’epoca e il movente attribuito ad Aldo Cugini fu, appunto, quello di un diverbio finito “molto”male perché il presunto assassino non voleva che la vittima raccontasse della loro tresca. Inoltre Aldo Cugini era una persona benestante, quindi con molta probabilità era anche ricattato economicamente dalla vittima. Le conoscenze odierne in ambito psico-criminologico ci suggeriscono che i delitti d’impeto, dettati dalla rabbia, dal tentativo di rivalsa sull’altro non hanno un modus operandi così lucido. Per quanto Aldo Cugini fosse stato in grado di premeditare il tutto, il grado di coinvolgimento nella storia e la preoccupazione dettata dagli scheletri che continuavano a popolare il suo armadio nonostante l’ingombrante presenza di un morto, non gli avrebbero permesso di essere così sprezzante e temerario tanto da instaurare un gioco con la polizia ed i giornali. Il killer è estremamente lucido, narcisista. Sente il bisogno inconscio di dire “Ci sono, e mi sto prendendo gioco di voi”. L’unica impronta non appartenente alla vittima ritrovata sulla scena del crimine, con molta probabilità seppur inserita nei database odierni della Polizia, non troverebbe nessun riscontro, perché una personalità come quella di Diabolich è poco ipotizzabile abbia ucciso nuovamente. In una sua lettera è proprio lui a dirlo: “Il mio delitto non è un gioco da ripetersi”. Come molti colleghi ed esperti hanno precisato, di sicuro l’intero piano delittuoso si è ispirato al libro di Italo Fasan, Uccidevano di Notte, pubblicato nel 1957. Ma dalla semplice riproduzione di una trama ispiratrice, l’intera vicenda si è trasformata in qualcosa di più grande. Diabolich non è più l’uomo vendicativo che cerca di dissetare la propria sete di sangue. I crimini, il cui movente è la vendetta, solitamente rappresentano il culmine, il punto finale in cui si vuole arrivare. Ma il delitto di via Fontanesi ha rappresentato per Diabolich il punto di partenza. Ci troviamo di fronte ad un uomo fortemente comunicativo che, attraverso le sue missive, racconta al mondo della sua bravura, della sua audacia. Questo ricalcare continuamente la “perfezione” dell’intero piano omicida attuato, potrebbe far pensare ad un uomo le cui potenzialità non sono mai state espresse o riconosciute nella quotidianità della vita. Un uomo che necessita di ribadire più volte quanto sia intelligente. Un uomo che di sicuro è intelligente e furbo, ma che ha bisogno di dirlo, probabilmente perché nessuno glielo ha mai detto. E probabilmente il primo a non averlo fatto è stato proprio Mario Giliberti. Analizzando il primo biglietto da lui inviato (riportato nell’immagine) si evince dal suo modo di scrivere che l’estetismo, il modo in cui “si appare” è un aspetto da lui molto curato. La tendenza a distaccare le lettere (con molta probabilità dettata anche dal fatto di voler essere chiaro agli occhi di chi leggeva) potrebbe nascondere un alto grado di diffidenza verso il prossimo, nonché precisione maniacale. L’ulteriore sottolineatura al proprio ego si evince dall’aver voluto scrivere le parole “Mio Delitto” entrambe con lettera maiuscola. Sono numerose le indicazioni che l’occhio attento e critico può riscontrare leggendo semplicemente i suoi scritti , acquisendo così ulteriori elementi al fine di delineare un profilo dell’omicida che, all’epoca, avrebbe permesso di prevedere le sue mosse. Uno dei motivi per cui, con molta probabilità, Diabolich non è mai stato catturato è perché in lui ha vinto la voglia di perfezione al gioco, ha vinto l’ombra alla luce e si è fermato. Inizialmente, dall’iter messo in atto, è visibile il desiderio di essere catturato per dimostrare al mondo chi era e cosa era in grado di fare, ma resta comunque l’uomo che sulla scena del crimine ha gettato sul pavimento molte foto della vittima con accanto una persona senza volto. Gli inquirenti dedussero che quell’uomo senza volto era Diabolich. Probabilmente sì, quasi certamente il motivo principale di quei tagli era il non farsi scoprire, ma la scelta di evidenziare la sua figura in quel modo nasconde il bisogno di farsi riconoscere come un’identità esistente. I poliziotti dell’epoca non hanno mai identificato il terzo uomo, l’altra figura delle “tre monachelle”. Strano, Aldo Cugini ed il resto del commilitone avrebbero dovuto averlo un nome. La domanda, alla luce di quanto detto fin ora, sorge in automatico: e quella persona nell’ombra? Chi era? Non si vuole trovare qui un colpevole, ma si vuole porre un dubbio. All’epoca non si avevano le conoscenze criminologiche adatte per effettuare indagini adeguate. Avere un profilo del criminale permette agli investigatori di non cadere nell’errore di seguire strade chiuse. Di strada chiuse questo caso ne è stato pieno.

 

Teresa De Magistris

Si può smettere di uccidere? Giancarlo Giudice: il Mostro di Torino

giancarlo-giudice-killer-modificaErano gli anni ’80, gli anni in cui tutto era lecito. Gli anni in cui il crimine passava spesso inosservato. Era una vita piena: c’era chi sguazzava nell’agio degli anni d’oro, chi tirava a campare arrangiandosi con quel che poteva. Ma erano anche gli anni in cui il boom delle droghe cominciava a mietere vittime. Tutto aveva il suo posto negli anni Ottanta. Ma nessuno, né negli anni ’80 né in qualsiasi altra epoca, meriterebbe che il suo posto sia a terra, mangiato dai i vermi, qualsiasi scelta di vita abbia mai attuato. Nove prostitute, nove donne uccise brutalmente. Un unico colpevole: Giancarlo Giudice. In libertà da otto anni. Classe 1952 e una storia di abbandono alle spalle. Spesso l’infanzia infelice, marchiata da una serie di traumi, è il background che accumuna gli adulti che decidono di uccidere. Non che questo li giustifichi, ma è giusto precisare che si diventa sempre ciò che ci hanno insegnato o privato di essere. Il piccolo Giancarlo Giudice fu spedito in collegio in tenera età, seppe della morte di sua madre solo dopo che i funerali ebbero atto. Aveva 13 anni e dopo aver ricevuto questa brutta notizia, in modo quasi naturale, decise di uccidersi. Il tentativo di suicidio, però, fallì. Il padre, alcolista, già assente per tutta l’infanzia, lo abbandonò nuovamente trasferendosi in Calabria con una nuova compagna, con la quale si sposò solo dopo due anni dalla morte della moglie.

 

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Giancarlo era rimasto solo. Lo era sempre stato in realtà. Abbandonato in più occasioni. Abbandonato dalla madre, la prima volta quando lo spedì in collegio, la seconda quando “decise” di morire. Abbandonato dal padre, che continuava a vivere la sua vita fregandosene dei bisogni del figlio. È con questi sentimenti negativi che logorano dall’interno che il nostro futuro serial killer comincia la sua vita da adulto. Una vita fatta di microcriminalità e di eccessi. Lui che ama le droghe e, non a caso quelle eccitanti, come cocaina e allucinogeni. Lui che ama la velocità, ama correre senza freni. Come ogni assassino seriale, Giancarlo è un narcisista. Il narcisista innalza il proprio ego, idealizza se stesso, nel tentativo di nascondere i sentimenti di vergogna che riserva dentro di sé. Una patologia che si sposa bene con l’atto di uccidere, di prendere la vita dell’altro. Perché il narcisista nasconde un grande vuoto e il modo migliore per colmarlo e “prendere”, “possedere” qualcosa che viene dall’esterno. È tutto un gioco di proiezioni e identificazioni. Io mi sento marcio, vuoto, proietto polizia-bnall’esterno questo mio malessere e quindi sarà l’altro a diventare marcio e vuoto. Ma allo stesso tempo ho bisogno di colmarlo quel vuoto, quindi decido di appropriarmi di ciò che credo possa essere in grado di farlo e mentre me ne approprio, per giustificare il mio gesto, lo accuso di essere malvagio, meritevole di qualsiasi azione io decida di compiere. Così funziona la psiche di un narcisista patologico. Ora cerchiamo di capire, nello specifico, come ha funzionato quella di Giancarlo. Il nostro assassino faceva il camionista. Tante ore da solo, lungo strade più o meno conosciute. I suoi compagni di viaggio erano le sue droghe.

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I colleghi dicevano di lui che fosse uno stacanovista, ma non erano a conoscenza dell’uso smodato di cocaina che assumeva e che gli permetteva di non sentire la stanchezza. Era un uomo ossessionato dal sesso. Nel suo appartamento, quello che poi si scoprì essere luogo di alcuni dei suoi omicidi, furono ritrovate migliaia di riviste porno. Il degrado in cui riversava la casa, aggiunse ulteriore squallore alla sua figura. Era un uomo ossessionato dal sesso o dall’amore? Non lo conosceva l’amore lui, non era mai stato amato, né da una mamma né da un padre. I suoi impulsi, la sua rabbia incontrollabile erano dettati dalla mancanza, nella sua vita, di persone in grado di accettarlo e amarlo. Il sesso diventava un atto necessario, un atto da cui dipendere, assieme alle altre cose, perché la scarica sessuale gli permetteva di riequilibrare la tensione interiore. Non a caso il giorno che fu arrestato, fu trovato in macchina a compiere atti autoerotici e solo quando la polizia si avvinò per dirgli di smetterla, si accorse che il sedile al fianco del guidatore era colmo di sangue fresco. Vi erano anche due pistole e un asciugamano intriso di sangue, il sangue di quella che fu la sua ultima vittima: Maria Rosa Paoli. Dirà mole-torino-2delle sue vittime che le ha uccise perché gli ricordavano la sua matrigna, donna che odiava. Le vittime erano tutte prostitute sulla quarantina. Donne oggettivamente poco attraenti, trasandate. Altra frase detta da lui stesso “erano vecchie, grasse e poco curate”. È probabile che quest’associazione inconscia lo abbia spinto ad uccidere, ma è anche probabile che esse rappresentino il rancore verso sua madre e l’odio che provava nei suoi confronti per averlo abbandonato, ma che era “molto più accettabile” per la sua labile psiche affermare che questi gesti così brutali erano compiuti a causa di una matrigna non benvoluta.

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È comune che gli assassini seriali scelgano, per le loro uccisioni, persone ai margini della società. Questo per evitare di essere scoperti in quanto è più difficile che una persona che vive nell’ombra, nei sobborghi di una città in cui ci si chiude gli occhi e tappa la bocca, venga cercata dalla polizia. Che poi, la paura di essere scoperti in realtà lotta sempre con la voglia di esserlo. Perché solo così possono raccontare la loro storia. Solo così possono essere ascoltati. Un pubblico che resti attonito, un pubblico terrorizzato che non può far a meno di distogliere l’attenzione dai loro racconti. È questo l’applauso che bramano. Inoltre il rapporto con una donna che di mestiere fa la prostituta è spesso marchiato da un pregiudizio che anche le menti non patologiche si portano dietro. Una donna che sceglie di vendersi non merita rispetto. Questo pregiudizio inserito nella mente delirante di un uomo freddo, psicopatico, che non conosce sentimenti e che non è in grado di provarne, rende lecito qualsiasi comportamento. Nove vittime. La prima Anna Pecoraro, il cui riconoscimento è avvenuto solo grazie all’arresto dell’uomo che parlando di lei alla polizia disse “Risulta scomparsa, ma non siete mai riusciti a identificarla perché vi ho fatto trovare il cadavere completamente sfigurato. Doveva essere tolta di torno, portava “un volgare reggiseno a fiori”, per farla rantolare bastava stringerla con le sue stesse calze di nailon. Ho forzato le portiere di una macchina con il tagliaunghie e ho portato il torino bncadavere in un campo. Lì ho deciso di bruciarlo. Un po’ di benzina e poi il fuoco”. Era il 1983 quando cominciò. E il 25 agosto 1986, per puro caso, fu catturato. Tre anni in cui sei donne sono state strangolate, due freddate con colpi di arma da fuoco, una sgozzata. Giancarlo Giudice fu condannato all’ergastolo in primo grado e ritenuto totalmente capace di intendere e volere.

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La pena fu poi ridotta a trenta anni e venne rivista la sua eventuale infermità conferendogli, in aggiunta alla pena, altri tre anni da passare in un ospedale psichiatrico giudiziario che abbandonò definitivamente nel 2008. Da allora Giancarlo è libero e vige di un regime di protezione che ne permette di mantenere preservata la privacy. Il titolo di quest’articolo lancia un quesito: si può smettere di uccidere? Ora che Giancarlo è di nuovo in libertà potrà nuovamente commettere questi reati? La risposta a questa domanda non è facile. È certamente più corretto rispondere di si, perché con le giuste cure, il giusto percorso terapeutico e l’accettazione dei propri limiti e dei desideri più ombrosi, il riuscire a vivere il senso di colpa e trasformarlo in forza per risollevarsi e intraprendere strade di vita più sane, anche chi si è macchiato dei delitti più atroci può salvarsi. Si può smettere di uccidere solo quando si avrà capito che quel vuoto che c’è nell’animo non potrà mai colmarsi, ma lo si accetta e lo si elabora. Che un narcisista smetta di esserlo questo è un po’ più difficile. E che gli anni di galera, seppur tanti, possano portare giovamento alle vittime, resta, però, sempre impossibile.

Teresa De Magistris

Una commedia all’italiana tinta di noir: l’amore criminale di Ballerini-Pan

pan-balleriniCorreva l’anno 1972. Erano gli anni dell’amore libero, della spregiudicatezza, della libertà. Torino in quel periodo cominciava ad essere poliedrica: da un lato i signorotti borghesi con molte ricchezze e che ostentavano “il giusto”, dall’altro gli operai che da ostentare avevano il posto fisso, dall’ altro ancora gli “anticonvenzionali” che ostentavano i propri diritti e, infine, i criminali, ladruncoli e spacciatori che non avevano niente, ma ostentavano tutto. Troppo. In quello specifico anno, precisamente il primo giorno d’estate, una bella ragazza di poco più di vent’anni, lancia un allarme, dando così inizio ad uno dei casi giudiziari più tragicomici mai esistiti in Italia.

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Lei si chiama Franca Ballerini, si trova in montagna insieme alla madre e alla figlioletta. Cerca di contattare invano il marito, un commerciante di mobili di ventotto anni di nome Fulvio, rimasto a Torino, nella loro villetta alla Pellerina. La donna, allarmata, contatta il suocero, ma anche lui non aveva nessuna notizia del figlio. Rientrata in città e notando che in casa mancava la valigia e qualche vestito, la donna si convince che il marito l’abbia abbandonata scappando con l’amante.

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Che stranezza, un comportamento del tutto inaspettato dalla famiglia dello scomparso:” lui, cosi innamorato della moglie, così ligio ai suoi doveri, così stacanovista”. Passano i mesi, Franca, non molto disperata per quell’assenza, si da alla bella vita. Spende soldi, esce spesso, frequenta uomini. In questo frangente entra in scena un altro personaggio, il padre di Fulvio. L’uomo non è molto incline a credere alla versione della giovane nuora; ha sempre avuto il sospetto che lei avesse sposato il figlio solo per avere una sicurezza economica, ma che non lo amasse sul serio. Mosso da questa forte motivazione l’uomo si improvvisa Sherlock Holmes e comincia in maniera autonoma e un po’ grossolana ad investigare. Scoprirà, tra inseguimenti vari ed interrogatori improvvisati, che Franca frequenta un uomo, un certo Paolo Pan, malvivente che traffica in auto rubate e capo di una piccola banda del quartiere, e che questa relazione dura da tempo, ancor prima della scomparsa di Fulvio. Inoltre, proprio in concomitanza conballerini-pan-mole queste sue indagini private, arriva improvvisamente una telefonata anonima di una donna che dice che Fulvio sta bene, ma non vuole essere cercato. I tasselli del puzzle cominciano pian piano ad intersecarsi, ad acquisire una forma, ad avere un senso. Qualche giorno dopo l’improvvisa scomparsa, infatti, l’auto e la moto del figlio erano magicamente sparite ed il fatto che l’amante della nuora commerciasse proprio in quel “settore” conduce l’uomo nel baratro dei sospetti più oscuri. Di lì a poco, Paolo Pan sarà fermato alla frontiera per aver mostrato un documento falso e insieme a lui, in auto, oltre a esserci un borsone pieno di soldi rubati ci sarà pure la bella Franca. Questo episodio condurrà l’ impavido papà a recarsi dai Carabinieri. Siamo nei primi giorni del 1973. Si apre un’indagine, ma gli elementi per procedere sono davvero irrisori fin quando, però, undici mesi dopo, arriva alle forze dell’Ordine una testimonianza inaspettata.

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Un corniciaio torinese avverte i Carabinieri che un delinquentello un po’ sbruffone gli aveva confidato di aver aiutato suo fratello e la fidanzata di quest’ultimo ad uccidere il marito di lei e ad occultare il cadavere. Il nome di quest’uomo, dalla lingua lunga e dalla poca furbizia, è: Tarcisio Pan. Complice qualche bicchiere di vino di troppo e un registratore nascosto, Tarcisio fornirà non solo la versionecarabinieri-pan definitiva (almeno per la fase delle indagini) di quella tragica giornata di inizio estate, ma svelerà anche il luogo dove il cadavere è nascosto. Da qui in poi avrà inizio la fase processuale, contraddistinta da accuse reciproche, smentite, colpi di scena. In prima grado Franca Ballerini e Paolo Pan verranno entrambi condannati all’ ergastolo, in secondo grado tale condanna verrà confermata solo per l’uomo, mentre la donna verrà scagionata del tutto. Ma in Cassazione le carte si rimescoleranno e l’accusa proporrà nuovamente l’ergastolo anche per la Ballerini, che però ne uscirà vincitrice con la piena assoluzione. L’unico colpevole, in ultimo grado resterà solo Paolo, graziato dal Presidente Scalfaro dopo soli 22 anni di carcere. Fin qui si è voluta fornire una spiegazione dettagliata degli eventi per permettere al lettore di avere un quadro esaustivo di ciò che è accaduto, ma la cosa che personalmente mi preme mettere in luce è il modo in cui l’ amore criminale si manifesti nella sua semplicità e banalità, lontano dagli aspetti romanzati che spesso adornano e idealizzano quel legame. Paolo e Franca, due personalità ben distante, ma simili. Entrambi narcisisti, amanti del bello, entrambi privi di moralità e giudizio. Due persone estremamente pianificatrici. La cronaca li ha definiti gli “amanti diabolici”, io preferisco chiamarli “gli amanti vuoti”. Nei dieci anni di processo l’amore non è mai stato un tema rilevante, eppure ci si riferiva a loro con il termine amanti. Beh si, rapporti intimi li avevano; tra l’altro uno dei colpi di scena più eclatanti si è verificato in aula di tribunale quando la bella Franca ha rivelato al mondo, e di conseguenza anche ai disperati e sconvolti ex suoceri, che la figlioletta di due anni di Fulvio, era in realtà la figlia di Paolo. Gesto privo di morale e completamente strumentale perché nasconde il desiderio di mettersi in torino-bn-castellomostra e di creare un’aura idilliaca ad un rapporto che di idilliaco non aveva niente, nonché totalmente incurante del benessere della figlia, la cui paternità (mai confermata durante il processo perché all’epoca non esisteva ancora l’esame de DNA) era improvvisamente caduta nelle mani di un ergastolano. Gli amori criminali, nel 90% dei casi sono così. Vuoti. Quello che si confonde per amore è il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di spingersi oltre un limite, ma quando quel limite viene raggiunto si decade inevitabilmente. Perché viene a mancare il senso. Così cominciano le accuse l’uno nei confronti dell’altro, diventa necessario salvarsi e salvaguardarsi. Bonnie e Clayde rabbrividirebbero di fronte a tanta vacuità. Perché il narcisismo non si sposa bene con l’ amore se non con quello verso se stessi. Bonnie e Clayde condividevano, progettavano, avevano degli obiettivi comuni. Franca e Paolo si facevano compagnia, erano ognuno il capriccio dell’altro. E come ogni capriccio, prima o poi si esaurisce. Ma cosa avviene nella mente di così forte, tanto da far sembrare convincente e giustificata l’idea di compiere un omicidio? La cronaca ci fornisce numerosi esempi, che non sto qui ad elencare, di coppie che uccidono insieme. Perché non scegliere di lanciarsi con il paracadute o di svolgere qualsiasi sport estremo? Perché il limite da raggiungere deve essere Torino vecchia“uccidere”? Ogni coppia basa la propria esistenza su un tacito accordo: ” ci sta bene che sia così”; il così lo scelgono i tratti della personalità e le sfumature, più o meno patologiche, delle due parti in gioco. La coppia criminale trova, nella maggioranza dei casi, il suo incastro perfetto nel ” riempimento” del vuoto interiore, nei sentimenti di rivalsa e nel desiderio di appagare un costante stato di insoddisfazione. In questi casi, la reciprocità non sta nel desiderare il benessere dell’altro, ma nel constatare l’utilità dell’altro. Paolo e Franca non si sono mai amati, ma si erano utili. Uccidere era necessario perché utile. Due genitori affranti dal dolore e morti senza avere giustizia per il proprio figlio, un uomo graziato che verrà beccato in Sud America con un grande quantitativo di droga ed espatriato in Italia per essere nuovamente chiuso in carcere, una bella signora che sceglierà di vivere lontana dai riflettori, più per grande capacità di calcolo che per ritrovata integrità morale e una bambina, ormai donna, senza un padre. Questo è ciò che rimane di un amore criminale. Il vuoto.

Teresa De Magistris

Un’amicizia crudele, un affetto negato, il desiderio di essere amata: la storia di Deborah

Una donna che ha conosciuto la sofferenza da piccola e da cui non è mai riuscita a scappare

Quando l’affetto diventa possesso, spesso, si trasforma in omicidio. Questa è la storia di una ragazza di appena vent’anni, Deborah. Una storia struggente e straziante, brutale e crudele. È la storia di tanti bambini, più di quanti, purtroppo, se ne immagini: trascurati, maltrattati, lasciati alla deriva. Il corpo di Deborah fu ritrovato senza vita un giorno di settembre, in una casa umile, in un quartiere periferico di Torino. Era l’anno 2006, di lì a pochi giorni, la ragazza avrebbe compiuto gli anni. Affianco al corpo quella che fu ritenuta immediatamente l’arma del delitto: un ferro da stiro. La gola tagliata.

deborah-polizia

E insieme a quella giovane vita, l’omicida si portò via anche quella di un bambino che la vita ancora doveva viverla. Deborah era incinta ed era al quinto mese di gravidanza. Pochi istanti d’ira e due anime innocenti svanite. Le mani sporche di sangue, sono le stesse mani che da anni accarezzavano il volto della vittima e che spesso sentivano il bambino calciare; sono le mani di Giulia: la migliore amica di Deborah. Ma cos’è successo la sera del 16 settembre in quell’appartamento tanto da indurre ad un gesto così immorale? La risposta a questa domanda è ancora cupa e nebbiosa nelle menti di chi ha seguito le indagini ed il processo; di sicuro, però, il passato di queste due giovani donne ci fornisce indizi non poco irrilevanti per poterci avvicinare il più possibile ad averla. Nello speciale proposto nel 2010 da “Amore Criminale”, trasmissione di Rai Tre, la ricostruzione dei fatti di quella tragica sera e delle storie di vita dei deborah-rossiprotagonisti, è davvero coinvolgente.

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Una madre/futura nonna distrutta per la perdita di una figlia il cui legame è da sempre stato in bilico, messo a dura prova dalla precarietà della vita e dalle scelte sbagliate, ma sempre forte e tenace. Una madre che racconta sua figlia. E questo racconto squarcerebbe l’animo anche di chi non conosce sensibilità. Chi era Deborah? Deborah è figlia di genitori separati e come spesso succede in questi casi contesa e sballottata. Deborah è una donna che ha conosciuto la sofferenza da piccola e da cui non è mai riuscita a scappare. All’età di quasi sei anni fu affidata al padre e allontanata dall’amore della madre. In questi anni imparerà cos’è la violenza, maltrattata e picchiata ripetutamente dalla compagna del padre fin quando, finalmente la madre riuscirà a riaverla con sé, salvandola da questo primo carnefice. Ma la nuvola grigia le seguirà ancora. In quel periodo la madre aveva cominciato una nuova relazione, dalla quale aveva avuto altre due bambine. Tutta la famiglia, compresa Deborah, decise di trasferirsi a Venaria in una casa fatiscente, ma potenzialmente bellissima, immersa in un giardino enorme in cui le bambine avrebbero potuto crescere a contatto con la natura. L’idea era di ristrutturarla, ma i soldi fin da subito mancavano.

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La casa splendida, era in realtà fredda perché senza riscaldamento, decadente. L’incubo ricominciò. Il compagno della madre trattava Deborah come una schiava; le faceva fare cose umilianti e degradanti, come ad esempio, svuotare la vasca delle anatre con la bocca. Questi soprusi divennero di giorno in giorno più accesi e sadici, tanto da indurre la ragazzina (all’epoca di più o meno 10 anni) a tentare il suicidio. Una bambina che aveva un futuro davanti a sé che non riconosceva, una bambina che a quell’età avrebbe dovuto guardare il mondo con gli occhi sognanti che solo l’infanzia ha, quella bambina decise di svuotare la boccetta di antidepressivi. Per cercare di tutelare la figlia, la madre decise di portarla in una comunità. Con la presenza di educatori esperti e lontana da quelle mura domestiche che le avevano portato solo vittorio piazzadistruzione, sua figlia poteva salvarsi. Ma non fu così. In quella comunità gli abusi diventarono più profondi e lesero ancora di più quell’animo fragile. Quattro ragazze la violentarono, ma Deborah reagì, raccontò tutto. Già allora era chiara la personalità di quella ragazza: una piccola “adulta” fragile, ma con una tenacia interiore che le permetteva di superare ogni ostacolo. Seguirono anni più felici, Deborah andò a vivere dai nonni all’Isola d’Elba, dove trascorse parte della sua adolescenza in tranquillità e serenità. Complice una vacanza estiva con la sua amata madre, a circa 17 anni decise di ritornare in quella casa a Venaria. Voleva essere forte, voleva aiutare la mamma ad emanciparsi da quell’uomo che la teneva stretta a sé in una morsa soffocante. La madre non aveva né un lavoro né tantomeno i soldi per sentirsi libera di scappare con le sue figlie e la sua primogenita decise di darle il suo aiuto. Cercarono entrambe un lavoro. Nel frattempo Deborah cominciò anche la scuola per diventare cuoca ed è proprio tra quei fornelli che conobbe la sua assassina. Giulia, personaggio controverso, manipolatrice, anaffettiva, sadica. Giulia è forte, una ragazza autonoma, proveniente da una famiglia medio borghese, da cui fugge spesso POLIZIA CROCETTAe in cui poi si rintana. Giulia non sa amare, Giulia possiede. È bramosa di emozioni, le cerca negli altri , nelle situazioni, nelle cose perché da sola è incapace di provarne. Deborah, da subito, fu del tutto dipendente da questa personalità così prorompente che l’ammaliava, manipolava la sua mente a suo piacimento. Cominciarono ad avere una vita al limite, si drogavano, frequentavano brutta gente, scomparivano per giorni e giorni. Giulia fu capace di farsi ospitare dall’amica e cominciare una relazione con il compagno della madre della ragazza sotto gli occhi di tutta la famiglia. Giulia usava le persone per sentirsi viva, ma teneva lei le redini di tutti i rapporti e nessuno era in grado di sottrarsi al suo volere.

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Deborah si sentiva però amata da questa donna così energica, così decisa nel prendersi ciò che desiderava. Si sentiva protetta, ma era completamente in balia di una mente perversa. Questa è la storia di due ragazze che a modo loro si volevano davvero bene. Questa è la storia che racconta come un bambino maltrattato continuerà ad esserlo tutta la vita se non si interrompe il ciclo. Questa è la storia di come il degrado della società chiude gli occhi di fronte a ciò che non può cambiare, o che ha paura di cambiare. È un caso di cronaca nera, sì. Abbiamo un corpo senza vita e tante persone che lo piangono, una donna in galera per vent’anni. Ma prima di tutto è “l’ennesimo caso che si ripete”. La storia di chi ha avuto solo calci dalla vita che cercherà conforto solo in chi sarà in grado di darle nuovi calci. Una coazione a ripetere inarrestabile. Perché si sceglie sempre ciò che si conosce. Una madre succube, una figlia bisognosa d’affetto, un carnefice mascherato da messia. Le vite delle due ragazze, nel periodo antecedente il triste giorno del delitto, si stavano pian piano separando. Deborah si era innamorata di un uomo, di cui sapeva ben poco, ma le bastava vedere la tenerezza con cui la trattava. Quell’uomo ben presto diventò suo marito e padre di quel bambino mai nato. Quell’uomo, però, gentile e amorevole, di notte spacciava stupefacenti e in un blitz della polizia venne arrestato, lasciando la giovane moglie incinta a dover badare a se stessa. Ma Deborah era forte e innamorata. Cominciò a lavorare tanto. In quella famiglia vedeva il suo riscatto. Suo figlio sarebbe cresciuto amato, con un padre che presto mole giardini2sarebbe tornato da loro. Giulia, nel frattempo, “possedeva” un ragazzo. Un certo Tony. Ingenuo e completamente inebriato da quella donna che “sa il fatto suo”. Una donna che lo “costringe”, manipolando la sua mente, a picchiare e derubare un fattorino delle pizze. Una coppia strana che si scambia regali d’amore ancora più strani: Tony regalerà a Giulia un coltellino a serramanico e lei regalerà a lui una mazza da baseball con un’incisione che inneggia alla violenza. E fu proprio la presenza di Tony a scatenare quell’ira impetuosa che portò all’uccisione di Deborah. Dai racconti a posteriori di quella sera, Tony dirà che Deborah provò a baciarlo e che probabilmente la vista di quella scena fece infuriare Giulia. Oppure la furia di Giulia nasceva dal fatto che l’amica stava prendendo la sua strada, e questa volta guidava da sola?

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Non si sa ancora cosa sia successo in quelle ore tragiche; i tre ragazzi avrebbero dovuto raggiungere degli amici ad una festa, era una sera tranquilla come tante altre. Giulia e Tony furono incastrati dalla “furbizia” della prima che, dopo aver ucciso con le proprie mani la sua migliore amica, ebbe la lucidità di spegnere e portare via con sé dalla scena del crimine il cellulare della vittima. Lo riaccenderà, poco dopo, nel tentativo di crearsi un alibi, ovvero mandare a quegli amici, che ormai li stavano aspettando da ore, un messaggio dal cellulare di Deborah in cui diceva che non sarebbe andata all’appuntamento, come avrebbe fatto una persona ancora viva. Ma fu proprio quella psicopatica lucidità ad incastrarla in quanto il cellulare della vittima, di nuovo acceso, risultava essere PO VITTORIO LUCIA GRANDEnello stesso luogo del cellulare di Giulia. Per quanto riguarda Tony, dopo una prima condanna di 19 anni e sei mesi, in Cassazione è stato definitivamente scagionato. Ho scelto di voler raccontare questa storia, più che per la lettura criminologica del caso, per la semplice e, allo stesso tempo, dura realtà che si porta dietro. I vissuti abbandonici, di abuso e di maltrattamento lasciano una scia inarrestabile di sofferenza. La vera sfida del nostro secolo deve essere l’interruzione di questa catena di terrore. Se la madre di Deborah avesse avuto più aiuti economici da parte dei Servizi addetti, se ci fosse attiva sul territorio una rete di supporto alle donne in difficoltà, donne fragili e bisognose di affetto , se ci fossero scuole preparate a fronteggiare il drop out scolastico, se ci fosse più informazione, se ci fosse più comprensione, se ci fosse una visione d’insieme…Fortunatamente qualcosa si sta muovendo e giorno dopo giorno questa dura lotta ha sempre più voce. Una voce sempre più acuta, sempre più alta. È la voce di Deborah e di tutte le donne come lei.

Teresa De Magistris