Come vincere la partita a scacchi con il terrore?

A proposito dell’attentato di Manchester

Di Alessandro Continiello *

 

Il tragico evento di Manchester getta ulteriori ombre su quelle figure definite “lupi solitari”, “cellule dormienti” o “terrorismo molecolare”. Trattasi di soggetti cosiddetti di seconda generazione, cittadini di quello Stato ove risiedono stabilmente, che improvvisamente (rectius: con premeditazione) si attivano per perpetrare una strage e portare conseguentemente il terrore nella società, in ragione di una dottrina integralista, sotto l’egida di un fanatismo religioso-militante.

Il target scelto dal ventiduenne Salman Abed non a caso prevedeva il massimo risultato: un ordigno in apparenza non sofisticato, seppur fabbricato “con materiali difficili da reperire nel Regno Unito”, fatto deflagrare in una Arena, a due metri dall’uscita, al termine di un concerto gremito di giovani spettatori. Questo atto ha portato a due conseguenze: nell’immediatezza, mietere il più alto numero di giovani vittime (infedeli, kafir) –anche per le modalità con cui è stata fatta scoppiare la bomba-, immolandosi per la stessa “causa” (jihad); creare un ulteriore senso di insicurezza nelle persone, nella loro quotidianità, nelle abitudini al fine di modificarle. Lo scopo degli attentatori è proprio questo: inculcare nelle menti dei soggetti, noi, la paura che non si è più al sicuro in nessun posto. Le prime polemiche hanno coinvolto, oltre all’inevitabile sistema di sicurezza dell’Arena, anche l’operato prodromico della intelligence inglese e della polizia: sembra, infatti, che alcuni membri della famiglia di Salman Abedi avrebbero allertato le autorità britanniche sulla pericolosità dello stesso – ergo fosse un soggetto noto all’MI5 e da attenzionare-; e, dalla Francia, è pervenuta l’ulteriore notizia secondo cui Salman “avrebbe dato prova di suoi legami con l’Isis”.

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Il problema che attanaglia i Governi occidentali, ma non solo, è come fermare questa potenziale ed inevitabile ecatombe, come vincere la partita a scacchi con il terrore. La risposta al quesito può essere affrontata, pragmaticamente, su due piani di operatività: un’intensa attività prodromica di raccolta di dati e notizie, al fine di prevenire le mosse dell’avversario –e qui entra in gioco l’apparato di intelligence di quella specifica nazione-; ed una coordinamento tra le forze dell’ordine interne, con i mezzi previsti quali investigazioni ed intercettazioni, per porre fine a potenziali attacchi terroristici in corso ed arrestare gli attentatori, sotto l’egida della magistratura e delle garanzie del diritto. Il comune denominatore che le caratterizza prevede uno snodo politico non indifferente: l’utilizzo di risorse, di mezzi e personale per garantire tout court la sicurezza.

Si affermava già nella Relazione sulla Sicurezza in Svizzera del 2015 che: «Gli attentati terroristici di Parigi e Copenaghen..hanno evidenziato due aspetti: in primo luogo la guerra jihadista è potenzialmente in grado di minacciare gli abitanti di Paesi europei in modo concreto e imprevedibile; e, in secondo luogo, persino gli Stati che dispongono di ampie possibilità a livello giuridico e di personale, non possono individuare tempestivamente e impedire tutte le attività terroristiche. Entrambi gli aspetti offrono l’occasione su come intendiamo trattare questi insegnamenti e quali conseguenze dobbiamo trarre. Riguardo alla minaccia, occorre rilevare che possiamo ridurla soltanto in collaborazione con gli Stati interessati. Tra questi occorre enumerare segnatamente quei Paesi in cui il jihadismo si propaga, e includere soprattutto i musulmani che soffrono particolarmente a causa dei loro correligionari criminali. Essi rivestono un ruolo importante nell’individuare tempestivamente, contrastare o impedire l’insorgere di radicalizzazioni. Pertanto le società occidentali, ma anche i Paesi musulmani, dovranno sviluppare nei prossimi anni delle strategie per frenare congiuntamente la radicalizzazione e incoraggiare un Islam illuminato». 

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Se si vuole alzare il livello di sicurezza, si deve peraltro rinunciare, come contraltare, ad una parte della nostra tanto conclamata privacy. In merito alle misure urgenti di protezione civile di cui si può disporre, senza dubbio risultano efficaci le telecamere posizionate presso obiettivi sensibili e non; scanner ai tornelli presso luoghi di aggregazione nonché tutti quegli strumenti elettronici sofisticati che possano neutralizzare, ab origine, i potenziali mezzi usati dagli attentatori (anche i jamming, ad esempio, potrebbero essere utili con tutti i pro et contra). È notizia di questi giorni una nuova linea imposta dal nostro Capo della Polizia in merito agli eventi pubblici secondo cui “verranno affidate alle Forze dell’Ordine tutti i servizi di controllo e verifica con ispezioni e bonifiche ove si svolgono eventi e agli organizzatori il compito di creare un servizio di vigilanza privata che si affianchi”: cosiddetta “gestione partecipata alla sicurezza”. Ma qui sorgono due ulteriori rilievi: in primis il tutto dipende dai costi sostenibili da quel Governo per l’acquisto degli strumenti e dal personale che si può e deve utilizzare per mantenere alto il livello di allerta. Ormai molte nazioni hanno affiancato alle Forze di Polizia, nello svolgimento della loro attività, l’esercito. Il motivo è duplice: un aumento del personale sul campo e la possibilità di usare le armi da guerra in loro dotazione per contrastare i potenziali attacchi. Si è, infatti, visto come gli atti terroristici sono stati commessi con modalità sempre più “ricercate”, per ottenere il risultato voluto. Se l’autore impugna una pistola, ci si può contrapporre con la medesima arma da sparo; ma se ruba un tir -come ariete-, è inevitabile che la semplice pistola potrebbe non bastare, ergo la necessità di fucili d’assalto. Se l’attacco poi si compie con una bomba controllata a distanza, l’uso di disturbatori radio sarebbe utile; ma se trattasi di una bomba rudimentale, come a Manchester, il jamming è inefficace, inutile e dannoso per altri aspetti.

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Ecco che ci avviluppa nel problema. Ed allora come poter quantomeno cercare di prevenire gli attentati terroristici? Solo con una libertà di azione, di mezzi e di uomini dei Servizi Segreti è possibile, potenzialmente, bloccare alla radice eventuali attacchi. Così come lo scambio di informazioni tra intelligence risulta oggigiorno inevitabile, anche a costo di superare quell’anacronismo secondo cui, dicitur, “in momenti critici potrebbe essere effettivamente utile condividere informazioni tra Servizi. Ma esiste anche una sacra regola nei due o tre Servizi più famosi nel mondo occidentale: condividere potrebbe anche risultare una operazione pericolosissima. Un “amico” di oggi potrebbe essere un terribile “nemico” domani..”. Ebbe a dire Benedetto Croce alla Costituente, il 24 luglio del 1947, nel suo celebre discorso contro il trattato di pace: <<La guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che dica o lo sa troppo bene>>.

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Come difendersi, quindi, da questa nuova modalità di guerra cosiddetta asimmetrica o non convenzionale? Con l’aumento –si ripete- delle risorse investite per la sicurezza passiva (acquisto, come indicato, di telecamere, scanner, apparecchiature elettroniche) ed attiva (più uomini, più specialisti del web) per il controllo del territorio, nelle carceri –ove il rischio di radicalizzazione è tangibile-, nei centri di accoglienza –con le stesse modalità “sotto copertura”- e per il controllo della immigrazione. A cui aggiungere, volens ac nolens, scelte di politica di aggregazione per coloro che sono stati già accolti e/o divenuti cittadini di uno Stato, per evitare l’emarginazione di questi soggetti in specifiche zone cittadine. Ma tutto questo potrebbe non bastare se non ci si affida, come visto, agli stessi Paesi musulmani, al fine di “frenare congiuntamente la radicalizzazione e incoraggiare un Islam illuminato”.  Una strana ma inquietante coincidenza: Norway attack: 22 luglio 2011; Woolwich attack: 22 maggio 2013; Brussels attack: 22 marzo 2016; Munich attack: 22 luglio 2016; London attack: 22 marzo 2017; Manchester attack: 22 maggio 2017”.

 

 

*Avvocato del Foro di Milano e Presidente del Comitato locale della LIDU

Foto: Andy Rain/EPA – The Guardian