ARTE- Pagina 39

“Nomade con radici” Indimenticato musicista e cantautore, ma anche poeta e pittore

Il grande Augusto Daolio è sapientemente ricordato allo “Spazio Musa” di Torino

Dal 12 aprile al 12 maggio

Lui stesso amava definirsi: “Nomade con radici”. Ossimoro clamoroso. Ma a lui concesso, per l’onesta maestria con cui seppe cavalcare, nella sua breve vita, entrambe le situazioni.

Lui “vagabondo” per cuore ed istinto, sempre in “fuga – raccontava – alla ricerca di luoghi migliori …”, ma saldamente ancorato, un tutt’uno inestricabile con le radici di quella sua padana Novellara (o Nualera in dialetto reggiano) che gli diede i natali il 18 febbraio del 1947 e lo vide lasciare questo mondo – contro cui non di rado si era impegnato a lanciare canori strali nei suoi concerti – il 7 ottobre del 1992, all’età di soli 45 anni.

Voce unica ed inconfondibile. Rocciosa e delicata. Graffiante e poetica. Ad Augusto Daolio, leader carismatico e fondatore nel 1963, insieme a Beppe Carletti, de “I Nomadi” (inizialmente “I Monelli”), fra i Gruppi più longevi ed importanti della musica beat (ma anche pop e rock) italiana, il torinese “Spazio Musa” dedica da venerdì 12 aprile a domenica 12 maggio – a trentadue anni dalla sua prematura scomparsa – la mostra “Augusto Daolio: uno sguardo libero”, che già ebbe a riportare un grande successo a Reggio Emilia nel 2022 e che illustra, accanto alla storia del musicista, i “talenti multiformi” di un artista che fu anche pittore e scultore di grande interesse.  Artista “a tutto tondo”, simbolo canoro  delle proteste giovanili degli anni ’60 e ’70 (da “Come potete giudicar” a “Noi non ci saremo” alla gigantesca “Dio è morto” del ’67, scritte dall’amico e futuro cantante Francesco Guccini, fino al brano più rappresentativo del Gruppo, quell’“Io vagabondo” del ’72, ancora oggi manifesto esemplare di un’indomita ricerca di “libertà” e di quel  motto “sempre nomadi” che tuttora ispira Carletti e i suoi “nuovi” compagni), Augusto è ricordato e omaggiato nella rassegna allo “Spazio Musa” grazie ad una serie di materiali (molti dei quali assolutamente inediti), tra cui disegni, dipinti(una sessantina), schizzi, manoscritti (una quarantina con abbozzi di canzoni e poesie), taccuini di viaggio, fotografie, manifesti e video, la maggior parte messi a disposizione dagli archivi personali di Rosanna Fantuzzi, per 23 anni compagna di Daolio e presidente dell’Associazione “Augusto Per La Vita” da lei fondata per utilizzare al meglio le offerte devolute da amici e fan dopo la scomparsa dell’artista.

“Il diario è la mostra e la mostra è il diario”, sottolineano gli organizzatori. “Esattamente come egli stesso usava fare nel corso dei viaggi – trattenendo tutto il possibile sui suoi taccuini stracolmi di cartoline, foglietti, biglietti di musei, adesivi, scarabocchi, fotografie rubate alla quotidianità, pensieri riportati a biro su ogni genere di supporto – si è cercato di riassemblare materiali eterogenei all’interno di un allestimento che riprende la logica del diario, dove il valore delle singole opere non sta tanto nel loro peso specifico, ma piuttosto nel dialogo che creano tra loro”. “Nove grandi pagine aperte”, in cui vola alta, e oggi più che mai attuale, la voce (il suo ultimo concerto fu a Masone, alle porte di Genova, due mesi prima di morire) e la lezione di Augusto. Delle sue tante canzoni portatrici di messaggi pacifisti e di rifiuto d’ogni forma di guerra e sopruso o dei suoi molto dipinti e disegni dal tratto deciso e d’impronta surrealista che ritraggono “una natura metamorfica che si fonde con l’elemento umano”. Già la pittura! Pagina, forse meno conosciuta (rispetto a quella musicale) dell’artista Daolio. E ciò nonostante le varie personali susseguitesi alla prima allestita nella sua Novellara nel 1991, Augusto (allievo del maestro reggiano Vivaldo Poli, scomparso nel 1982) ancora in vita. La natura e, con essa, l’uomo sono le sue costanti fonti d’ispirazione, attori “spaesati” in “paesaggi spaesati”, dove larghi cuori battono forte per dar fiato a robusti tronchi o dove le radici della terra (della sua terra) si fanno sottile verticaleggiante e rada chioma a corpi dubbiosi e “alieni”, che paiono interrogarsi del loro essere lì, in mondi “altri” nuovi e sconosciuti. Immagini attraverso le quali Daolio indaga ciò che egli stesso chiamava “il piccolo grande mistero delle cose, degli oggetti e dei sentimenti”. Quel “mistero” e quel “cuore” che sempre sono stati “guida” al suo “fare arte”.

Nel canto: “Se canti solo con la voce – diceva – prima o poi dovrai tacere. Canta con il cuore, affinché tu non debba mai tacere”. Nella pittura: “Non disegno per riempire un vuoto, ma per vuotare un pieno che è dentro di me”. E che forte si palesava nella sua voce e, ancora oggi, nei suoi racconti per immagini. Irripetibile, unico e grande Augusto!

Gianni Milani

“Augusto Daolio. Uno sguardo libero”

Spazio Musa, viadella Consolata 11/E; tel.393/3377799 o www.spaziomusa.net

Fino al 12 maggio

Orari: mart. ven. 14,30/19,30; sab e dom. 16/19,30

Nelle foto: Immagine guida; Beppe e Augusto; Augusto e Rosanna; Dipinti “Senza titolo”, 1986

‘Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi’ a palazzo Barolo

 

 

Fino al 30 giugno prossimo Palazzo Barolo ospita la prima mostra in Italia sull’arte degli shinhanga, letteralmente “la nuova xilografia”.

L’esposizione si intitola “Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi”, curata da Paola Scrolavezza, esperta di cultura e letteratura giapponese e docente presso il Dipartimento di lingue, letterature e culture Moderne dell’università di Bologna,  con la consulenza artistica di Marco Fagioli, collezionista e storica autorità nell’arte giapponese.

Lo shinhanga è  un movimento nato ufficialmente nel 1916 grazie all’opera di artisti come Ito Shinsui e Kawase Hasui che si allontanarono gradualmente dai soggetti dell’ukiyoe, cominciando a raffigurare scorci caratteristici della provincia rurale o dei sobborghi cittadini, non ancora raggiunti dalla modernizzazione, come rovine, templi antichi, immagini campestri, scene notturne illuminate dalla luna piena e dalle luci dei lampioni. A queste vedute si aggiunsero i ritratti femminili,i bijinga, dedicati alle donne dei tempi moderni, ritratte nella loro quotidianità,  mentre si truccavano o si acconciavano i capelli.

Sono oltre ottanta le opere espositive provenienti da collezioni private e dalla Japanese Gallery Kensington di Londra,  accompagnate da kimono, fotografie storiche e oggetti d’arredo, con l’intento di mostrare come questo movimento shinhanga abbia saputo mantenere le tecniche tradizionali dell’incisione su legno, pur introducendo oltreoceano prospettive nuove.

Il percorso espositivo trova il proprio fulcro centrale nel terremoto del Kanto del primo settembre 1923, il peggiore della storia del Giappone. Seguito da violenti incendi che divamparono per ben due giorni, alimentati dai venti di un tifone, questo terremoto causò  oltre 100 mila morti e rase al suolo un’area molto vasta della capitale. Nasceva dalle ceneri una nuova Tokyo, proiettata sempre più verso il futuro. La produzione delle incisioni Shinhanga dopo questo funesto episodio si sarebbe intensificata. Agli scorci caratteristici si aggiunsero angoli metropolitani con strade deserte, case da cui filtrava un’illuminazione artificiale e densa. Le xilografie prodotte dopo il sisma esprimevano un senso di smarrimento e di solitudine dell’uomo di fronte alla fragilità dell’esistenza. Nei bijinga si affievolisce del tutto o quasi il legame con il mondo notturno tipico dell’ukiyoe. Le ragazze immortalate nelle opere sono donne comuni, che iniziano a muoversi anche fuori dalle mura domestiche, nelle vie e nei locali dei quartieri alla moda. Sono cameriere,  insegnanti, dattilografe e infermiere, giovani indipendenti, istruite e  emancipate pronte a cogliere le opportunità che il Giappone offre loro.

Lo shinhanga si afferma a partire dal secondo decennio del Novecento fino agli anni Quaranta. Si tratta del riflesso artistico di un periodo che per il Giappone contemporaneo era caratterizzato da un’atmosfera di estrema libertà e fermento culturale. Le città principali diventano lo sfondo di un’arte e di una cultura sempre più alla portata di tanti, aprendosi alla nuova borghesia  e al nuovo pubblico che dalla provincia approdava alla metropoli, attratto dalle nuove prospettive economiche e dallo stile di vita moderno e anticonformista.

Alcuni stampatori ed editori illuminati, quali Watanabe Shozaburo, diedero impulso allo sviluppo del movimento,  realizzando un’arte innovativa e autoctona, ma servendosi dell’hanmoto, ovvero l’atelier, dove l’artista si occupava dell’ideazione e del disegno, affidando all’incisore, al tipografo e all’editore le fasi successive della produzione e diffusione delle stampe.

“Shinhanga. La nuova onda delle stampe giapponesi” ricrea un’atmosfera densa di aspettativa e di nostalgia di inizio secolo, presentando al pubblico un’incredibile corrente artistica ancora sconosciuta in Italia e narrandola in maniera coinvolgente, dipingendo, attraverso di essa, uno spaccato intenso e vivido del Giappone tra le due guerre. Vi compaiono stampe dominate dai toni più cupi del blu, dove l’unica nota di luce è  la luna, marine bagnate dal sole al tramonto o dalle lanterne delle imbarcazioni, fino alle pagode che svettano sui ciliegi in piena fioritura. Ciò che emerge è un paesaggio ideale, emozionale e simbolico, uno sfondo sul quale spiccano le silhouettes femminili, icone malinconiche e inquiete della conquista della modernità.

 

Mara Martellotta

“Jacopo Benassi. Autoritratto criminale” le opere dell’eclettico, imprevedibile artista spezzino

 

In mostra alla “Wunderkammer” della “GAM” (per l’occasione, solo “Wunder”)

Fino al 1° settembre

All’ingresso del sotterraneo della “GAM”, in via Magenta a Torino, della consueta dicitura “Wunderkammer”, è rimasto solo “Wunder”, cancellato “Kammer”. “Meraviglia” e basta! E di “meraviglia” (“mirabilia” su cui spronare occhi e mente) ben s’avvertono, infatti e da subito, i sentori e gli intrighi mettendo piede nelle sale d’accesso alla mostra “Autoritratto criminale” di Jacopo Benassi, curata da Elena Volpato e visibile fino a domenica 1 settembre.

Mostra strana, questa dell’artista spezzino. “Strana” in tutti i sensi più positivi del termine: insolita, inconsueta, singolare, curiosa, speciale, bizzarra, stramba, balorda … e chi più ne ha più ne metta! Capace perfino di sbrecciare muri e far fuori quel “Kammer” (di cui sopra) per far entrare in mezzo alle sue opere il “gesso” – che non poteva non esserci con i legni che ne tengono insieme la struttura, ormai fragile e frantumata! – di Leonardo Bistolfi, realizzato nel 1910 dal grande scultore casalese, per il monumento all’amico medico-antropologo Cesare Lombroso. La fotografia, in prima battuta (un’autentica venerazione per Ando Gilardi, “il primo a occuparsi di fotografia segnaletica e criminale”), ma anche la pittura, la scultura – calchi in gesso, l’installazione e la performance, Benassi arriva ad esporre alla torinese “GAM” dopo l’acquisizione per le Collezioni del Museo, da parte della “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, della sua opera “Panorama di La Spezia” (2022): un autoritratto – sostiene – che “autoritratto” (nel senso letterale del termine) proprio non é. Lui, né altre persone, vi compaiono. Vi compaiono, invece, foto di piante scattate nel buio della notte accanto ad alcuni angoli della città ligure “dipinti con vago sapore ottocentesco” e, a terra, una scaletta a due gradini con appoggiate – presenza non rara nelle opere di Benassi – due ciabatte (reminiscenze di vita) imbrattate. E tutto questo è lui. La realtà per l’artista è nascondimento, la “parte non visibile delle cose”, quella che “resta custodita – sottolinea la curatrice – tra una cornice e l’altra, tra un’immagine e l’altra, quello che si può solo immaginare o desiderare”. Dunque, un’installazione “paravento”, dietro cui compare “Serie di ritratti appesi” (2024), opera che esaspera il concetto di “cancellazione”, presentando, montati – avviluppati in forti e pesanti cinghie “simboli insieme di forza e di fragilità” – come fossero un “pesante sandwich di cornici di cui si vedono solo due retri”, ritratti fotografici di personaggi famosi (da Valentino a Nan Goldin da John Wayne a Biancaneve) e alcuni autoritratti fra cui l’immagine-guida della mostra, in cui Benassi pare sfidarci osservandoci quasi minaccioso dietro una lunga acconciatura femminile e un voluto travestimento dai contorni inquietanti.

 

“Un mascheramento veritiero e una mascherata verità”: si tratta in qualche modo, ancora Elena Volpato “di un autoritratto criminale, non solo perché potrebbe idealmente appartenere alla triste tradizione che voleva i travestiti, fino a pochi decenni fa, effettivamente schedati e fotografati, ma anche perché presenta i codici tipici dei ritratti segnaletici che Benassi mette in gioco in quella immagine e in molte altre, sin dai suoi inizi, grazie all’insegnamento di Sergio Fregoso e alla lettura di ‘Wanted!’ di Ando Gilardi, sillabario di estetica della fotografia giudiziaria”. E, su questa linea, fra gli stilemi di Gilardi e le memorie di Lombroso, un altro ritratto “spicca” (in obnubilante oscurità) in rassegna, quello del più grande criminale della storia, richiamato in scena, tentandone un’improbabile cancellazione sotto uno spesso strato di vetri, insufficiente “velo” ai mostruosi crimini che il ritratto di Hitler, anche quello scattato da Benassi al suo fantoccio al “Museo delle cere” di Londra, porta con sé.

“Nonostante siano le fattezze di una maschera– conclude Volpato – nonostante sia la rappresentazione di una rappresentazione, nonostante il numero ingente di vetri frapposti, la nota effige continua a emergere. E così si riavvia il ciclo vitale dell’immagine che continuamente sparisce per riapparire, tra rumore visivo e profondo silenzio, fra sovraesposizione e buio. In Benassi, tutto ciò che affiora affonda, e tutto ciò che affonda riaffiora”.

Gianni Milani

“Jacopo Benassi. Autoritratto criminale”

GAM-Galleria cIvica d’Arte Moderna e Contemoranea, via Magenta31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 1° settembre

Orari: da mart. a dom. 10/18; chiuso il lunedì

 

Nelle foto:

–       “Bistolfi” e “Serie di ritratti appesi”, ph. Perottino

–       “Panorama di La Spezia”, ph. Perottino

–       “Autoritratto truccato da femmina”, 2007

–       Adolf Hitler”, ph. Perottino

 

La raccolta di fotografie di Guido Bertero, un patrimonio da non disperdere

Nelle sale dell’Ersel di piazza Solferino, sino al 14 giugno

“Ho girato tutta l’Italia, di fotografo in fotografo, alla ricerca di ciò che non c’era più, o stava scomparendo.”

Una lunga strada, quasi una missione, un patrimonio ricco di vent’anni di storia e di circa duemila immagini, raccolte nelle aste come nei piccoli studi di fotografi, sperduti nelle città e nei più lontani angoli di provincia, quando tutti gli chiedevano perché si fosse messo in mente quella ricerca e il perché di quei pretesi acquisti. Una collezione che Guido Bertero – nato a Torino, classe 1938, imprenditore che per amore e per passione dal 1999 colleziona fotografie e che dal 2015 è vicepresidente di Camera Centro Italiano per la Fotografia di Torino, un uomo che strenuamente difende l’interezza di questo suo patrimonio e continua a chiedersi perché in maniera concreta nessuna istituzione di casa nostra (come al contrario avviene per lo stato francese, ad esempio) si sia ancora fatta avanti per renderlo a tutti gli effetti una ricchezza pubblica: il Tate londinese e il Moma di New York e il Getty Museum hanno mostrato un certo interesse ma perché, ad esempio tra i tanti da noi, si diceva l’altro ieri durante la conferenza stampa, la Reggia di Venaria non potrebbe ritagliare un proprio angolo per far luogo ad un tale lascito permanente? – presenta nelle sale dell’Ersel di piazza Solferino 11 – la sede di una delle più prestigiose società di gestione patrimoni, nata nel 1936 e oggi guidata dalla famiglia Giubergia, che dal 2002 fa della cultura e dell’arte uno dei propri tratti distintivi, vivacemente vicina a quanto di importante succede in città nel campo artistico -, raccogliendo cento esemplari della propria collezione: “Guido Io” recita il titolo della mostra, con un bel gioco di parole, curata da Chiara Massimello e Marco Sobrero, visitabile sino al 14 giugno, uno dei punti di maggior interesse del programma di “Exposed Extended”, primo Festival Internazionale di fotografia proposto in città e contenitore di oltre venti mostre temporanee.

Un tratto di vita focalizzata sulla fotografia del dopoguerra, ricordata attraverso i tanti nomi dei maestri italiani e arricchita nel tempo da incursioni nella grande fotografia internazionale. Un lungo elenco, da Giuseppe Cavalli a Mario Gabinio con le antiche istantanee di una Torino scomparsa (“Il canale dei Molassi” del 1923) a Riccardo Moncalvo e Luigi Veronesi, da Pietro Donzelli a Federico Patellani alle battagliere Letizia Battaglia e Lisetta Carmi e Carla Cerati, da Gabriele Basilico a Mario Cresci e Franco Fontana e Mario Giacomelli, da Luigi Ghirri a Mimmo Jodice (surreali le sue “Presenze” del 1980) e Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin alla Sicilia di Mario De Biasi sulla metà del secolo scorso, senza passare sotto silenzio le grandi firme di William Klein e David Seymour (“Domenica in campagna”, 1950) e Henri Cartier Bresson (“Contadino al rientro dalla campagna”, 1952, un angolo forse romano di un’Italia tutta da costruire), di Paul Strand e Robert Capa. Nel susseguirsi di scatti, senza tempo è, di quest’ultimo, “Verso Palermo” (1943), là dove il contadino indica la direzione con il lungo bastone a tre o quattro soldati a stelle e strisce, immagine acquistata in Giappone come la consorella con il carro armato e l’asino.

Il tempo trascorso, le immagini che ci rendono lo spirito di un’epoca, i decenni che forse ci siamo dimenticati, le curiosità che possono ritornare. I curatori hanno anche saggiamente dato forma a dei raggruppamenti, il divertimento, le coppiette appartate (di Mario Cattaneo, “L’idroscalo”, lui lei e la Vespa), l’Hollywood sul Tevere e serate in via Veneto (e allora Walter Chiari che si avventa su Tazio Secchiaroli, e l’inseguimento di Ava Gardner; e poi il viso di Sophia Loren, un primo piano bellissimo e mediterraneo, alla ricerca del partner Mastroianni non inquadrato, e Vittorio De Sica che impartisce istruzioni prima di un si gira, in pienissima atmosfera Neorealismo). Per arrivare al viso di Patty Pravo, cantante giovanissima del Piper.

Non ultimo, un nome forse troppo dimenticato tra i maghi dell’obiettivo, Piergiorgio Branzi, fotografo che aveva collaborato all’esperienza editoriale de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dal ’62 volto e voce per la tivù italiana prima da Mosca (fu il volere di Enzo Biagi) e da Parigi poi: qui è raccolto soltanto un solo esempio dei complessivi quattordici che riguardano il “Miracolo di SanGennaro” (1957), un perfetto intrico tra chiaroscuri di visi e di mani e di ampolle a narrare un momento tra superstizione e credenza religiosa. Nomi conosciutissimi e quelli che rappresentano una nicchia, Bertero li ha cercati e conosciuti e apprezzati tutti quanti, indistintamente, alla ricerca sempre di quelle stampe che “se possibile, dovevano essere ‘vintage’, cioè stampate al momento della realizzazione dello scatto (o poco dopo). Ogni fotografia porta con sé una storia e immortala un momento di quell’epoca”. Un viaggio in Italia, avrebbe chiamato quel percorso Roberto Rossellini, in pieno Neorealismo, un ricordo di oggi per andare ancora una volta alla ricerca delle nostre radici. Un patrimonio, soprattutto, da preservare, da rispettare, assolutamente da non smembrare. E da offrire all’avvedutezza delle istituzioni. Ce ne saranno?

Elio Rabbione

Nelle immagini: Mimmo Jodice, “Presenze”, 1980; David Seymour, “Domenica in campagna”, 1950; Mario Cattaneo, “L’Idroscalo”, 1972; Carla Cerati, “Inaugurazione del negozio di Nucci Valsecchi e Willi Rizzo”, 1970.

Giorgio Griffa. Una linea, Montale e qualcos’altro

La colorata, poetica “visionarietà” dell’ artista torinese in mostra al “Castello di Miradolo”

Fino al 25 dicembre

San Secondo di Pinerolo (Torino)

Molti anni dopo la sua prima mostra negli Stati Uniti, nel dicembre del 2012 una sua personale (“Fragments 1968 – 2012”) presso la “Casey Kaplan Gallery” di New York, gli fece guadagnare la definizione di “una delle dieci riscoperte più emozionanti dell’anno”, tanto che sul “ New York Times” la critica d’arte Roberta Smith ebbe allora a scrivere che “la sua arte merita un posto nella storia mondiale dell’astrattismo”. E’ proprio vero. Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi. E il concetto non è mai passato di moda. Vedi, appunto, Giorgio Griffa (Torino, 29 marzo 1936), allievo di Filippo Scroppo nei primi anni Sessanta e sicuramente fra i principali esponenti, a livello internazionale, della ricerca pittorica contemporanea, nominato “Artista dell’Anno 2024” da “Il Giornale dell’Arte”… eppure artista cui, inspiegabilmente, la “Torino dell’arte” non ha ancora tributato i doverosi massimi onori toccati, invece, ad altri suoi illustri colleghi come lui ruotanti, fra gli Anni Sessanta e i primi Settanta – sotto l’egida non univoca – dell’“Arte Povera” attorno alla prestigiosissima Galleria torinese di “Gian Enzo Sperone. Non faccio nomi.

Ma ben si conoscono. Nomi iconici delle “Avanguardie” internazionali (meritevoli, per carità!), nel cui gruppone troppo poco e inspiegabilmente (oltreché ingiustamente) si legge il nome di un artista altrettanto “grande” come Giorgio Griffa. Lodevole, dunque, l’iniziativa di dedicargli, fors’anche in occasione del suo 88° genetliaco (fra un paio di giorni; tanti auguri, Maestro!) una ricca personale nella prestigiosa location del settecentesco “Castello di Miradolo”, antica dimora della famiglia Cacherano di Bricherasio e, dal 2008, sede della “Fondazione Cosso”. In programma fino al giorno di Natale, mercoledì 25 dicembre, la rassegna (“Una linea, Montale e qualcos’altro”) si articola in diverse tappe espositive, articolate lungo le quattro stagioni, in un percorso che abbraccia oltre mezzo secolo di pittura dell’artista, coinvolgendo tutti gli spazi interni del “Castello” di San Secondo di Pinerolo e del suo “Parco storico”. Prodotta dalla “Fondazione Cosso” e dalla “Fondazione Giorgio Griffa”, la mostra, curata da Giulio Caresio e Roberto Galimberti, è stata ideata e progettata con lo stesso Giorgio Griffa, che ha anche realizzato, appositamente per l’occasione, alcune opere site specific, studiate per essere inserite armoniosamente nel contesto ambientale.

E in linea con quel suo operare assolutamente singolare, “suo” e solo “suo”, partecipe inizialmente ai sussulti post-informali dell’“Arte Povera” (cui è stato spesso accostato) o “minimalista” o “analitica”, ma ben deciso a lavorare attorno all’iniziale ciclo dei “segni primari” che da sempre hanno accompagnato la “sua” arte. “Io non rappresento nulla, io dipingo”, dice lo stesso Griffa, fedele a ritmi cromatici tesi a sottolineare e a fondersi, in una sorta di “scrittura zen” (alla Natalie Goldberg), con l’ambiente naturale e spirituale e con la vita di cui è parte trasognante e trasognata. “La sua – è stato scritto– è una pittura fatta di segni spogliati di significato … memoria della pittura che si sovrappone alla memoria personale dell’artista”. Un “costante non finito”, come “fermare un pensiero a metà frase”. Così, fra interni ed esterni, l’iter ci porta dai “Sei colori” (tre tele con colori complementari esposte all’esterno e ai segni più o meno rancorosi del tempo), a “Una linea” (serie di ceramiche bianche e blu che collegano una gigantesca farnia caduta nel 2020 con l’architettura del “Castello”) e a “Un filo” (corde bianche parallele simili a a linee spezzate nel canneto di bambù gigante). Per proseguire, via via, con “Canone Aureo 980” (18 tele che scandiscono i 36 metri della serra, metafora – secondo gli antichi principi propri della “sezione aurea” – a “conoscere l’inconoscibile e a dire l’indicibile”), con “Montale” (dalla poesia “Arte Povera” dove il poeta ironizzava sulla sua attività pittorica), fino a “Bianchi” (realizzati un’estate anni ’70, in cui l’artista sopraffatto dal “verde” di un bosco, decide di mettersi a dipingere affidandosi solo al “bianco”) e a “Venti frammenti” (dipinto nell’’80, installato temporaneamente in una Sala del “Castello”, in occasione della mostra “Oltre il giardino. L’abbecedario di Paolo Pejrone”, e lì lasciato in maniera permanente). Ad accompagnare l’esposizione un’inedita “installazione sonora” a cura del progetto “Avant-dernière pensée”, che indaga assonanze e analogie con la pittura di Griffa “sottolineando – spiegano gli organizzatori – gli itinerari e le linee di differenti strumenti e, insieme, li ricompone come unità”.

Gianni Milani

 

“Giorgio Griffa. Una linea, Montale e qualcos’altro”

“Castello di Miradolo”, San Secondo di Pinerolo (Torino); tel. 0121/502761 o www.fondazionecosso.com

Fino al 25 dicembre

Orari: sab. dom. e lun. 10/19

Nelle foto di Giulio Caresio: Giorgio Griffa al lavoro in studio; Canone aureo”, water color on paper, 2015 e “Tre linee con arabesco”, pastel on paper, 1991

Le “Immagini danesi” di Birgitte Lykke Madsen

Mostra alla Galleria Pirra, sino al 19 maggio

Per la terza volta le sale della Galleria Pirra (corso Vittorio Emanuele II, 82) ospitano la pittura dell’artista danese Birgitte Lykke Madsen – Odense, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e dove vive e lavora, e dove è nata nel 1960. Un’artista che guarda avanti nella propria tecnica e altresì dentro il passato in questo impressionismo rivisto con gli occhi del Mare del Nord e del Mar Baltico, con i venti freddi, con le spiagge pochissimo frequentate, con gli isolotti che si mescolano alle onde che giungono sino a riva. Non siamo più di fronte all’arcata della scogliera di Etretat o ai poetici spazi d’acqua e alle ninfee di Monet, accanto alla casa di Giverny, non siamo più di fronte alle distese impazzite di fiori del Sud della Francia: i cieli i profumi i colori sono altri ma appieno mantengono la stessa irremovibile poesia. Le persone sono altre, bagnanti ragazzi donne di un’età indefinita, moderne, colti tutti nei loro costumi, negli abiti, nei movimenti, distesi nell’acqua o a nuotare o a chiacchierare in un momento di libertà. A confondersi con il mare.

Questa volta ci stanno di fronte le tele, di una certa grandezza o di dimensioni decisamente più ridotte che sono il frutto del progetto “Danske Billeder” – “Immagini danesi” (ovvero “Acqua e sabbia”; la mostra rimarrà aperta sino al 19 maggio, lunedì-sabato 10 / 12,30 – 15,30 /19, apertura domenica mattina, tel. 011 543393, galleriapirra.it: rischiando anche di essere prolungata, considerando l’interesse di pubblico nei primissimi giorni – nato nel 2020 a confronto di una pandemia che obbligava ognuno di noi nel chiuso della propria casa. La risposta era il bisogno intimo di evadere, la necessità fisica di lasciarsi toccare da un’altra aria, vera, integra, profumata, la necessità di liberarsi di quelle mura. Ed ecco l’artista infilarsi frettolosamente, ansiosamente, un paio di scarpe da trekking ai piedi e armarsi di un blocco da disegno per riempirlo di schizzi da sviluppare poi in studio, nel ritornato chiuso del suo studio. Ne nasce un viaggio – oli, più o meno una trentina, dove l’occasione si riallaccia pure a prove precedenti ma di eguale sentimento – fatto di più o meno piccole tappe, concepite con la mente e con il cuore allo stesso tempo, una ricerca di momenti e di paesaggi, di scorci d’acqua e di terra, tangibili realtà e magnifiche suggestioni, uno per tutti “Mare dei Wadden”, 140×140 cm: un viaggio in cui la natura e il corpo umano dialogano ancora con spazi ben definiti o si fanno tutt’uno nella stretta armonia dei verdi e dei blu. O – sulla sinistra della sala d’entrata, nelle sequenza di una decina di piccole opere – il corpo viene come risucchiato dalla liquidità dell’elemento, sino quasi a sparire, ad essere annientato. In un ambiente pressoché surreale. Dove la natura ha preso il sopravvento, in una tavolozza di colori sfacciatamente forti e arditi.

Nascono istanti carichi di bellezza. Forse di rifugio, forse di protezione cercata, forse di difesa dal frastuono della città. Istanti che chi guarda può considerare anche soltanto accenni, e in seguito riviverli nella loro completezza. La barca distesa con ampie pennellate nello sfondo verde, i ragazzi sulla spiaggia, la donna immersa nell’acqua o le altre riprese a passeggiare sulla battigia (“Figura a passeggio nel mare”, “Passeggiata nell’acqua bassa”, 30×30 cm), i corpi che fluttuano indisturbati sul fondale marino: un percorso lungo, al suo termine un fotogramma nettamente suddiviso a metà, il cielo e il terreno in parti eguali, sempre maggiori macchie di colore a sovrastare.

Elio Rabbione

Nelle immagini: “Passeggiata nell’acqua bassa VI”, olio, 30×30 cm, 2023; “Mare dei Wadden II”, olio, 140×140 cm, 2021; “Figura a passeggio nel mare”, olio, 40×40 cm, 2023.

Toulouse Lautrec, la pubblicità e l’anticonformismo estetico

 

La mostra del pittore a Torino al Mastio della Cittadella

Sempre e dovunque anche il brutto ha i suoi aspetti affascinanti, e’ eccitante scoprirli la’ dove nessuno li ha notati prima”.

Nato e cresciuto in una prestigiosa famiglia francese il noto pittore di fine ‘800 pago’ con una malattia genetica ossea, che impedi’ lo sviluppo degli arti inferiori, l’abitudine dei suoi parenti a sposarsi tra consanguinei per preservare la purezza del sangue nobile. A causa delle sue condizioni non pote’ praticare sport o attivita’ all’aria aperta e fu cosi’ che si dedico’ alla pittura e al disegno, ma anche al canto.

Pur facendo parte, in senso temporale, del periodo Impressionista non ci si identifico’ mai veramente e cosi’ fu anche per altre correnti di quel tempo. Presso l’Ecole del Beux Arts di Parigi ebbe la fortuna di conoscere Van Gogh con cui diventa amico. Dopo varie sperimentazioni tra cui il decorativismo dell’Art Nouveau e le ispirazioni della pittura giapponese dedica tutta la sua attenzione ad opere che rappresentano la vita notturna di Mortmatre marcando alcuni tratti, soprattutto di donne, di fisicita’ poco sobria; dipinge perlopiu’ ballerine, prostitute ed alcolisti in ambienti riconoscibili come bar, cabaret o teatri. Riserva dunque la sua attenzione agli strati piu’ bassi della societa’ ritraendoli, ma anche frequentandoli e abusando di alcool, condotta che lo portera’ verso un ricovero forzato.

La sua vera passione fu quella per la pubblicita’ e soprattutto per i manifesti, affiches, che pote’ approfondire grazie alla sua collaborazione con il Courier francais. Toulouse Lautrec si specialista in processi di stampa e comincia a produrre una grande quantita’ di locandine. Nel 1891 crea il suo primo, e forse piu’ famoso, manifesto, quello per il famosissimo Moulin Rouge che ha un effetto esplosivo sia per i protagonisti ritratti quasi in chiave caricaturale, che per lo stile caratterizzato da linee piatte e senza prospettiva. Era una rappresentazione di un mondo lontano dal suo che provoco’ le critiche dei suoi genitori, ma grazie a questo suo impulso avanguardista quelli che prima erano considerati solamente poster, stampe o litografie divennero delle vere e proprie opere d’arte, era iniziato un nuovo corso della pittura. La sua fu definita una “fotografia grafica” di persone che conosceva e che frequentava intenti a godersi le serate durante la vita notturna, e a volte poco raccomandabile, di Parigi. Inoltre gli fu dato il titolo di “mago della deformazione” perche’ nei suoi dipinti venivano messi in risalto i difetti e le brutture delle persone e questo, probabilmente, fu una causa della sua malattia, che oltre ad essere invalidante, era una discriminante a livello fisico ed estetico. In contrapposizione con l’Art Nouveau, porta avanti un’arte fuori dai luoghi comuni, dagli standard di bellezza con una particolare attenzione alla trasgressione e a quei difetti che fanno bello il brutto e che anticipa, in un certo senso, la volonta’ di uscire da stereotipi ancora oggi discriminanti.

Henri de Toulouse Lautrec ebbe all’attivo 737 dipinti, 4748 disegni, 275 acquerelli, 334 stampe e 33 manifesti, un lavoro enorme legata alla “sua instancabile esigenza di produrre unita’ alla curiosita’ per la sperimentazione”.

La mostra intitolata Il mondo del circo e di Montemartre, curata da Joan Abello’, inaugurata il 20 aprile scorso sara’ aperta fino al 21 luglio 2024 al Mastio della Cittadella.

MARIA LA BARBERA

Ersel, GUIDO IO: cento fotografie dalla collezione di Guido Bertero

Ersel allestisce l’esposizione GUIDO IO, itinerari fotografici di una collezione. Si tratta di  cento fotografie della raccolta di Guido Bertero, in mostra in piazza Solferino 11 a Torino dal 24 al 14 giugno. La mostra si inserisce nel programma di ExposedExtended, il primo festival internazionale di fotografia del capoluogo piemontese, che proporrà altre venti mostre temporanee sparse per la città.

Guido Bertero, a partire dagli anni Novanta, ha creato una delle maggiori collezioni italiane di fotografia del dopoguerra, così ampia che al suo interno si possono selezionare di volta in volta gruppi di artisti diversi, dai più  storici ai moderni, dai celebri interpreti internazionali alle grandi rappresentanti femminili della nostra fotografia: ecco i nomi di Giuseppe Cavalli, Mario Gabinio, Riccardo Moncalvo e Luigi Veronesi, ma anche quelli di Robert Capa, William Kline, David Seymour e Paul Strand; Alfredo Camisa, Pietro Donzelli, Nino Migliori e Federico Patella, ma anche NanGoldin, Boris Michajlov, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi e Carla Cerati, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Ugo Mulas e tanti altri ancora.

Si tratta di una collezione nata subito con un focus molto preciso sulla fotografia italiana del dopoguerra,  vera e propria testimonianza della nostra storia, intesa come memoria, documento, traccia di un’epoca, arricchita nel  contempo dalle incursioni nella grande fotografia internazionale.

Tra i meriti di Guido Bertero vi è quello di aver cercato i capolavori degli artisti più noti, ma anche gli scatti di quelli meno conosciuti, concentrandosi sul messaggio, sulla forza delle immagini e sulla qualità delle stampe che, se possibile, dovevano essere “vintage”, stampate, cioè,  al momento della realizzazione dello scatto. Ogni fotografia porta con sé una storia e immortala un momento di quell’epoca.

La collezione rispecchia la curiosità,  la sensibilità,  l’amore per il bello, ma anche la dedizione per chi l’ha creata, viaggiando per l’Italia per conoscere i fotografi e il loro lavoro, riunendo fondi di immagini important8, con la volontà di costruirne una memoria.

Guido Bertero, nato a Torino nel 1938, colleziona fotografie dal 1999 al 2015 ed è  vicepresidente di Camera, Centro Italiano per la Fotografia di Torino.

MARA MARTELLOTTA

“Tutto il resto è profonda notte”, la GAM ospita la prima mostra museale di Italo Cremona

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La GAM di Torino dedica all’universo creativo e all’opera di Italo Cremona la prima mostra museale riferita alla produzione figurativa di questo pittore fantastico e surreale. La mostra aprirà i battenti il 24 aprile fino al 15 settembre, per poi trasferirsi nelle sale del MART di Rovereto dal 18 ottobre al 26 gennaio 2025. È curata da Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari ed Elena Volpato. Il titolo dell’esposizione “Tutto il resto è profonda notte” allude alla frase con cui Cremona aveva concluso uno dei testi di Acetilene, rubrica che negli anni Cinquanta firmava per “Paragone”, la rivista di Roberto Longhi. Il “Notturno” è uno dei temi principali della pittura di Italo Cremona, una condizione espressiva, esistenziale e filosofica che produce sogni, incubi, apparizioni e immagini fantastiche.

Pittore-scrittore, intellettuale poliedrico e eccentrico, nei dipinti come negli scritti, Italo Cremona ha indagato la “zona ombra”(titolo del suo libro edito da Einaudi nella serie bianca dei Coralli): un territorio capiente dove il buio entra in contatto con la luce attraverso lampi vividi o barlumi, attraverso il chiarore di una lampada ad acetilene (il lume usato da tempo da minatori e speleologi) o la scia di una stella cadente, come nel romanzo distopico “La coda della cometa”.

“Tutto il resto è profonda notte” è il titolo insegna, la chiave scelta per tracciare un percorso espositivo dell’intera arte di Italo Cremona, dalle prime prove giovanili risalenti alla prima metà degli anni Venti fino alle opere della prima metà degli anni Settanta, dalle nature morte, vicine all’atmosfera del realismo magico, alla visionarietà del “surrealista indipendente”, come amava definirsi. L’esposizione raccoglie un centinaio di dipinti e una selezione di disegni e incisioni, documentando l’alta qualità pittorica dell’artista, rileggendo nel presente l’originalità del suo immaginario.

Italo Cremona narra la vita intensa e silenziosa degli oggetti in un’atmosfera carica di mistero, e sospesa tra metafisica e realismo magico. Il “Notturno” pervade gli enigmi di “Specchio del mattino”, esposto alla Biennale di Venezia nel 1936, “Metamorfosi” (1936-1937), “Piccolo golem (1940), “Ascolto il tuo cuore città” (omaggio a Savinio del 1954), “Aria di Torino” del 1959. “La veglia e il sogno” sono la cornice degli accadimenti del romanzo distopico “La coda della cometa” (Vallecchi, 1968- Allemandi, 1983) e dei racconti di “Zona ombra” (Einaudi, 1967).

Il percorso espositivo si articola in nove stanze intitolate e dedicate alla pittura di Italo Cremona: “Specchio”(1925-1931), “Trofei”(1928-1932), “Spoglie”(1932-1934), “Metamorfosi”(1935-1945), “Follie”(1935-1956), “Golem”(1939-1946), “Corpi”(1935-1964), “Quinte”(1926-1970), “Apparizioni”(1958-1968). La cronologia attraversa le diverse stagioni creative e, come nei quadri di Cremona, ritorna su se stessa, si riavvolge, procedendo per figure e oggetti ricorrenti, che sono costanti artistiche di natura iconografica e espressiva. In una sala centrale del percorso è stata scelta come “Cabinet des folies”, ed è dedicata alla frequentazione del grottesco, del surreale e del fantastico, con una selezione di dipinti nei quali la pennellata sembra farsi sempre più esatta e nitida quanto più si avventura nell’espressione del bizzarro. Nella Sala delle Facciate, la visione si sposta sulle architetture torinesi, un motivo pittorico peculiare sviluppato dall’artista lungo i decenni. Le facciate silenziose del palazzi e delle case risultano apparentemente deserte di ogni presenza umana, ma sono in realtà dipinte come quinte di un segreto teatro cittadino, e alludono sempre a uno spazio ulteriore. È anche presente un’ampia produzione di nudi ritratti attraverso epifanie e piccole allucinazioni, in cui non si distingue la realtà del corpo della modella dalla segmentazione pittorica dei suoi dettagli.

La mostra intervalla immagini oniriche perturbanti ad armi improprie di disegni e incisioni, con la forza plastica degli anni Venti e Trenta dell’artista, l’intensità lirica dei suoi anni Quaranta, l’esattezza del disegno impressa sull’emozione cromatica risalente agli anni Cinquanta, mettendo in evidenza gli aspetti più attuali e contemporanei dell’opera di Italo Cremona e della sua figura di intellettuale irregolare, impegnato in numerosi ambiti creativi e piuttosto affine ad altre figure eccentriche torinesi, quali Carlo Mollino e Carol Rama.

A partire dal nucleo di opere del pittore, appartenenti alla collezione della GAM (dall’”autoritratto nello studio” del 1927 a “Metamorfosi” del 1936 e a “Inverno” del 1940), la mostra antologica conta su una serie di prestiti dai musei, tra cui il MART, partner del progetto, che ha prestato “Composizione con lanterna”(1926) e la “Libra” (1929), i musei civici “Luigi Barni” di Vigevano, che hanno prestato il dipinto “Dialogo tra una conchiglia e un guantoni da scherma”(1930) e un coeso numero di opere visionarie degli anni Quaranta e Cinquanta; l’Accademia Albertina di Belle Arti, i Musei Reali, la Galleria Sabauda di Torino.

La mostra, grazie a una ricerca capillare, presenta numerose opere di collezioni private e prestiti di alcune istituzioni, come quelle del Museo Casa Mollino, che ha prestato “Ritratto di Carlo Mollino” del 1928, l’Archivio Salvo, “Autoritratto giovanile” del 1926, la Collezione Bottari Lattes con il prestito de “La vittoria sul cavallo di gesso” del 1940 e la Collezione Rai con “Piccolo golem” del 1940.

 

Mara Martellotta

Susan Meiselas, il coraggio delle immagini

 In occasione della mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerraa CAMERA fino al 2 giugno, mercoledì 24 aprile alle 18.30 incontreremo Susan Meiselas, fotografa documentaria statunitense nota soprattutto per i suoi reportage realizzati in America Latina.

 

Membro dell’agenzia Magnum Photos dal 1976, nel 1978 Susan Meiselas ha vinto, con il progetto Nicaragua, la Robert Capa Gold Medal, premio assegnato a reportage fotografici per realizzare i quali siano stati necessari eccezionali doti di coraggio e intraprendenza. Nei suoi lavori ha affrontato una vasta gamma di temi, dalle problematiche dei diritti umani, della prostituzione, della violenza domestica e dei conflitti in Nicaragua, Kurdistan e Palestina. Tra i suoi riconoscimenti più importanti anche l’Hasselblad Award, il Premio Maria Moors Cabot e il Guggenheim Fellowship.

Coraggio e impegno in temi sociali e politici sono al centro del dialogo con l’autrice statunitense. Durante l’incontro Susan Meiselas, insieme al direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini, condividerà le esperienze vissute sul campo nella realizzazione dei suoi reportage, dal suo approccio creativo alla relazione con i soggetti fotografati. Una relazione che gioca un ruolo fondamentale nella creazione delle sue fotografie: “È raro che io arrivi in un luogo con un’idea già in mente. Succede invece che l’idea si sviluppa mentre sono sul campo, interagendo con le persone e capendo pian piano ciò che sarà più appropriato”. L’incontro sarà anche un’occasione per interrogarci, insieme a una delle figure più influenti del fotogiornalismo contemporaneo, su quale sia oggi il ruolo della fotografia nel sensibilizzare l’osservatore di fronte alle condizioni di vita nelle realtà più emarginate del nostro pianeta.

Intervengono:

Susan Meiselas, fotografa

Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA

 

È consigliato prenotare per l’incontro sul sito di CAMERA.

Il biglietto d’ingresso per l’incontro ha un costo di 3 Euro.