ARTE- Pagina 38

“Fabbricatori di favole”. Esercizio non facile. Però …! Ultimi giorni

In trasferta al “MIIT” di Corso Cairoli, a Torino, ventisei artisti dell’Associazione “Amici di Palazzo Lomellini”

Fino a sabato 4 maggio

Un dipinto che è “favola pura”. Racconto improbabile, poetico, surreale. Tanto immaginario da apparire, nella nitidezza della cifra stilistica, più reale del reale. Un infinito cielo blu, appena mosso da morbidi sipari di nubi bianche da cui fa breccia, occhi socchiusi e bella sorridente, una vispa bimbetta, sciarpa al collo e pantaloncini scuri, in volo – redini in mano – sul dorso di un agile fenicottero rosa con becco nero, diretto non si sa dove e per raggiungere chi o sfuggire chi o che cosa. L’unica certezza è la gioia di quella cavalcata in cieli amici, forse verso nuove, imprevedibili ma certo desiderate, più che mai, libertà. “Portami via” è il titolo del dipinto, olio su tela del torinese Giacomo Gullo. Sicuramente è questa la tela che, in maniera più esplicita, risponde al tema “imposto” (meglio, “suggerito”) dalla Collettiva ospitata, fino al prossimo 4 maggio, dal “MIIT – Museo Internazionale Italia Arte” di corso Cairoli, a Torino, con la curatela ed il solito impegno, di Elio Rabbione, “architetto” di molti degli eventi espositivi tenuti in quel di Carmagnola, negli storici spazi del “Palazzo Lomellini”, oggi – e per almeno un anno – inagibile per improcrastinabili interventi di restauro.

Di qui la mano tesa dal torinese “MIIT” di Guido Folco, che oggi espone una settantina di opere a firma, per l’appunto, di 26 (su più di settanta) artisti appartenenti all’Associazione “Amici di Palazzo Lomellini”, raccolte sotto il tema accomunante (ma “con piena libertà di espressione”, precisa Rabbione) di “Fabbricatori di favole”. Un fil rouge cui le opere in mostra, in modo più o meno visibile, ben s’adeguano, accompagnando l’abilità del “fare” con il gusto del “creare” e del lasciarsi andare a “libere fantasie”. Ognuna a modo suo. Campione assoluto, l’abbiamo detto, il “Portami via” di Gullo, ma non di meno gli sta a pelo di ruota quella “Gioiosa melodia” (un po’ picassiana, fosse un tantino meno “gioiosa”) con “maschere clownesche” e magiche “trottole” – in cui si proiettano astratte visioni oniriche – della maceratese (torinese d’adozione) Anna Branciari.

In molte/i non rinunciano al richiamo di “paesaggi” e “realtà” filtrate attraverso l’ottica del “guizzo” di fantasia: ed ecco allora i meticolosi “grovigli cromatici” di Graziella Alessiato o i deliziosi “Frutti di stagione” di Andreina Bertolini. Anche da qui possono partire le “favole”. Come dalle “sperimentazioni” astratte, travolte dai “Riflessi” di mondi lontani e inaspettati narrati da Maria Brosio o da quella minuta, graficamente perfetta, “Coppia di Germani Reali” pronti a spiccare il volo oltre il Po di Enrica Carbone, promettente allieva di Gasparin. L’iter espositivo prosegue con la maestria a pastello e la nitidezza della grafica di Giorgio Cestari, per poi incontrare le turbolenti “Acque bianche” di Dario Cornero, fino al tripudio dei gialli ocra verdi e rossi dei “fiori” di Giancarlo Costantino e alle informali “pittosculture” di Ezio Curletto, giocate di fantasia e surrealtà come le “Strade di Pesci” di Cristina De Maria. Allieva di Giansone e Lobalzo, Lidia Delloste presenta due suggestivi “acquerelli”, fortemente giocati sul blu, rapidi essenziali, in cui la realtà sembra perdersi in un inquietante groviglio di sensazioni e misteri, che s’acquietano nella composta, ma potente, “Tenerezza” di Mara Destefanis.

 

Rientra bene nel tema della Collettiva Alessandro Fioraso con “Il guardiano del tempo perso”: mani poderose (e tecnicamente perfette) reggono il barattolo di vetro che custodisce l’orologio del “tempo perso”. Mani senza volto. Lo immaginiamo benevolo. Aprirà o chiuderà per sempre quel barattolo? Pittura aperta alle fantasie fortemente colorate del paesaggio , quella di Franco Goia, cui seguono le tecniche miste di Giorgia Madonno, in brani pittorici “in continua tensione estetica fra astrazione e figurazione, oriente ed occidente”, accompagnati dalle magnifiche nuvole gialle delle “mimose” di Bruno Molinaro e dal “rosso” svolazzante di Luisella Rolle.

A chiudere il percorso le dinamiche linee astratte  di Marina Monzeglio accanto ai delicati acquerelli di Annamaria Palumbo, in contrasto con le vocianti realtà “da spiaggia” di Giacomo Sampieri, così lontano dai fiabeschi paesaggi montani di Simonetta Secci e dalle surreali “fantasie” di Magda Tardon, come dai fitti “Notturni” di Eleonora Tranfo o dalle piacevoli “installazioni” e domestiche “pittosculture” di Paola Viola. Menzione speciale per la torinese Adelma Mapelli: eccelsa acquarellista, anche nell’olio fa pesare la sua indubbia alta professionalità con quei colori e contrasti di luce che s’abbattono sulla sua “Vetta innevata”. Non proprio ligia al tema della “favola”, ma troppo brava per meritarsi un rimbrotto. A lei un grande 10 … e con lode!

Gianni Milani

“Fabbricatori di favole”

MIIT-Museo Internazionale Italia Arte, corso Cairoli 4, Torino; tel. 011/8129776 o www.museomiit.it

Fino al 4 maggio

Orari: dal mart. al ven. 15,30/19,30; sab. 10/12,30 e 15,30/1930

Nelle foto: Giacomo Gullo, “Portami via” (2019); Anna Branciari, “Gioiosa melodia” (2017); Alessandro Fioraso, “Il guardiano del tempo perso” (2021); Giorgia Madonno, “Lacrime che ti fanno scudo” (2024); Adelma Mapelli, “Vetta innevata” (2001)

Italo Cremona nelle collezioni private, una mostra alla Casa d’aste Sant’Agostino

‘Italo Cremona nelle collezioni private’ è il titolo della mostra inaugurata il 2 maggio scorso presso la Casa d’aste Sant’Agostino di Torino e curata da Vanessa Carioggia e Andrea Barin, corollario ideale dell’esposizione dedicata allo stesso artista da parte della Gam-Galleria Civica d’arte Moderna e contemporanea di Torino e dal Mart – Museo di Arte Moderna e contemporanea di Trento e Rovereto nell’autunno 2024.

“Il sodalizio del maestro con la casa d’aste Sant’Agostino – spiega Vanessa Carioggia – nasce indietro nel tempo. Consultando i nostri cataloghi d’asta mi sono accorta che già nei primi anni Ottanta compare un’opera di Italo Cremona. Nei primi anni Novanta la moglie Danila Dellacasa ci consegnò un numero consistente di opere. Nel corso degli anni, fino ai tempi più recenti, abbiamo trattato alcuni dei più importanti capolavori ancora disponibili sul mercato.

L’idea di fare una mostra su questo raffinato artista è nata già molto tempo fa, ma la realizzazione si è concretizzata grazie alla spinta della Gam. Il progetto vuole offrire un omaggio non solo al pittore, ma anche ai collezionisti della Sant’Agostino, che sono coloro che hanno contribuito alla memoria storica del pittore. L’esposizione mette in luce la produzione di Italo Cremona dagli anni Venti fino agli anni Settanta, presentando un unicum nella storia espositiva dell’artista.

 

I collezionisti hanno risposto con entusiasmo alla richiesta di esporre i dipinti, non nego che in qualche caso ho dovuto insistere per avere alcune opere in mostra e questi prestiti permetteranno ai collezionisti e agli amanti di Cremona di poter vedere opere gelosamente custodite nelle case e raramente mostrate”.

L’esposizione si snoda lungo i temi portanti nella poetica dell’artista, ovvero l’autoritratto, i nudi, gli interni e i paesaggi urbani.

Nativo di un piccolo paese in provincia di Pavia, ma trasferitosi molto presto a Torino nel 1911, dopo la laurea in Giurisprudenza, l’artista iniziò ad occuparsi di pittura, passione che coltivava fin da ragazzo presso l’Accademia Albertina di Belle Arti e la società degli Amici dell’Arte. Ebbe come maestri Mario Gachet e Vittorio Cavalieri, conobbe la famiglia Casorati a Rubiana e divenne un allievo sui generis di Felice Casorati.

La città dipinta è quasi sempre Torino, con vedute di tetti, piccole architetture, mai una rappresentazione sontuosa. Un’altra città frequentata è stata Firenze, sventurata, bombardata, che fa da quinta compositiva nel celebre “Autoritratto su rovine’ del 1946, esempio delle opere realizzate a Firenze nel periodo ’46-’48 e testimonianza biografica del soggiorno dell’artista nell’immediato dopoguerra. I quadri fiorentini di Italo Cremona costituiscono un crocevia nella vita dell’artista tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello pittorico. Si tratta di una pittura densa su cui campeggia il volto dello scrittore, reso nudo dal contesto, ma circondato dalla brutalità delle rovine. Entrambi i soggetti sono circondati dalla brutalità delle rovine, testimoniata dalla violenza espressionistica del colore.

L’intima visione del pittore è condensata in “Specchio sferico” del 1943 , dove l’autoritratto è restituito distorto dalla sfera, ed è presente l’interno dello studio, mille volte raffigurato con gli oggetti del quotidiano, il sofá, la sedia a dondolo, il cavalletto e la composizione scenografica data dalle stoffe colorate e dalla piccola scultura in primo piano.

Cremona è essenzialmente pittore di interni, di un interno particolare, quello della sua casa e dei suoi studi.

Di studi ne ebbe diversi, dal primo in corso Dante, a quello molto amato in via Po, sopra il caffè Nazionale distrutto dai bombardamenti del ’42, a quello di piazza Cavour sopra la chiesa ortodossa, fino a quello di via Maria Vittoria, che era una casa-studio.

In mostra sono anche presenti celebri Nudi di Cremona, dipinti tra gli anni Venti e gli anni Settanta. Citando Italo Cremona afferma Giovanni Arpino : “ Se tornassi a disegnare e dipingere, farei soltanto più nudi, è il massimo della sfida “.

All’inizio degli anni Trenta risale “Nudi nello studio”, che presenta i temi cari a Cremona, quali l’interno dello studio, la prospettiva che si rincorre nelle stanze che si aprono una dietro l’altra e le due modelle, una di schiena, come spesso accade, l’altra appoggiata al sofà.

In “Nudo con le scarpe rosse in un interno” del 1947 e “Nudo in un interno barocco” del 1950 vengono rappresentate le scene di un interno, che indicano una pittura autobiografica. La sua partecipazione ad allestimenti per il teatro e per il cinema crea il gusto di una composizione capace di comunicare stati d’animo. Si può parlare per Italo Cremona di “scenografie domestiche”, in cui lo sfondo, come in una scena di teatro, suggerisce l’apertura verso l’interno, verso il suo mondo quotidiano e intimo.

L’Esposizione presso la Casa d’aste Sant’Agostino durerà fino al 24 maggio prossimo.

 

Mara Martellotta

“Notte delle Arti Contemporanee” e “Colazioni in galleria”

 

 

L’Associazione TAG Torino Art Galleries, in occasione del mese della fotografia torinese e nella fiera dedicata alla fotografia “THE PHAIR”, annuncia la nuova edizione della TAG ART NIGHT, la notte delle arti contemporanee, sabato 4 maggio dalle ore 19 alle ore 23, un tour tra le mostre proposte dalle gallerie torinesi associate a TAG, realizzato grazie al sostegno di CRT, sostenitore fin dalla prima edizione.

Nella stessa settimana TAG proporrà una nuova iniziativa tesa ad avvicinare sempre di più il pubblico all’arte contemporanea “TAG – Art Coffee Breakfast”. I visitatori e gli appassionati potranno recarsi nelle gallerie venerdì 3, sabato 4 e domenica 5 maggio, dalle 10 alle 12, ed essere accolti dalle “Colazioni con l’arte”, realizzate in partnership con il marchio “Fior di loto” (ingresso libero).

“L’Associazione TAG – sostiene la neopresidentessa Elisabetta Chiono – è lieta di prendere parte alla programmazione del mese della fotografia proponendo mostre dedicate, “La notte delle arti contemporanee” e le “Colazioni in galleria” per accogliere il pubblico cittadino e quello in visita nella nostra città. Dallo scorso marzo la compagine di TAG si è ampliata con l’ingresso di due nuove realtà: la galleria RoccaTre e Recontemporary, e desideriamo instaurare rete con le altre realtà culturali del territorio. Ancora una volta ringraziamo CRT, che ci permette di promuovere questo genere di eventi coordinati”.

 

Mara Martellotta

Al via la quinta edizione di The Phair, Photo Art Fair alle OGR

Ritorna alla sua quinta edizione l’evento annuale The Phair, Photo Art Fair da venerdì 3 a domenica 5 maggio prossimi.

Quest’anno l’evento avrà luogo per la prima volta alle OGR, un hub innovativo noto in tutta Europa per il suo impegno nella promozione della tecnologia, dell’imprenditoria, della scienza, dell’arte e della musica.

L’immagine rappresentativa di questa Phair è intitolata “Blue Vignette 4” ed è stata realizzata dall’artista sudafricano Robin Rhode. Si tratta di una fotografia monocromatica arricchita da interventi di pittura spray. The Phair si svilupperà presso la Sala Fucine, uno spazio emblematico adibito alla manutenzione ferroviaria.

La serata di venerdì 3 maggio sarà organizzata dal Club Silencio che animerà gli spazi di OGR dalle ore 18 all’1 tra musica elettronica e giochi a tema in una serata intitolata “Una notte alle OGR Torino/ The Phair-Photo Art Fair & Exposed Festival”.

Otto artiste del territorio proporranno il progetto “Orizzonti Urbani”, fortemente voluto per valorizzare la ricerca artistica portata a livello internazionale da artiste che lavorano a Torino.

Tra le figure che partecipano al progetto Maura Banfo, Roberta Bruno, Monica Carocci, Eva Frapaccini, Marzia Migliora, Marilena Noro, Elisabetta Sighicelli e Grazia Toderi. Si segnalano due collaborazioni di The Phair con la Stampa e con TAG, Torino Art Galleries. Quest’ultima collaborazione porta a lavorare in sinergia sul territorio per ospitare un folto numero di collezionisti e offrire visite guidate alle Gallerie associate di TAG che parteciperanno a The Phair, tenute da Elisabetta Chiono, presidente di Tag. Quest’anno nasce il Premio Spada Partners dall’iniziativa esclusiva, promossa dallo Studio Spada Partners in collaborazione con The Phair, volta a sostenere un artista, di qualunque nazionalità o età, attraverso l’acquisizione di un’opera che fornisca il ritratto più completo dei tempi in cui viviamo.

Inoltre per la prima volta la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea della CRT farà un’acquisizione di un’opera esposta a The Phair. La Stampa organizzerà a The Phair quattro incontri dedicati alle innovazioni che la fotografia ha apportato in diversi ambiti della società dal campo giudiziario, all’architettura, dalla moda al costume e al turismo.

 

Mara Martellotta

Giorgio Stella. Scatti fotografici come … “geografie dell’anima”

Al “Collegio San Giuseppe” di Torino la prima retrospettiva dedicata al fotografo torinese mancato alcuni mesi fa

Fino a sabato 4 maggio

L’occhio del fotografo – come quello del pittore – si sa, è sempre un po’ “speciale”. Anche quando non ha fra le mani i “ferri del mestiere”. L’inquadratura, le luci, i particolari. Ogni cosa di un qualunque paesaggio, o di una scheggia di architettura urbana, gli appare secondo un suo particolare schema che, un giorno (chissà?) potrà cristallizzarsi come d’incanto in scatti unici e singolari. Se poi, a quell’occhio un po’ “speciale” s’aggiunge – in fase lavorativa – anche la capacità (non frequente) di fissare e trattenere le cose con la “lente dell’anima”, allora il “gesto” si fa “meraviglia” e poesia. Ed il “gioco” è fatto. “Gioco d’arte”. Arte vera. Arte pura. Quella capace di regalarti immagini che ti tengono lì, immobile, a fissare anche solo un particolare dell’intero soggetto e a portartelo dentro e addosso per sempre.  Sensazione estraniante e benefica! Mi è capitata qualche giorno fa all’inaugurazione della mostra – omaggio dedicata dal “Collegio San Giuseppe” di Torino al bravo davvero bravo fotografo torinese Giorgio Stella, mancato nel luglio scorso, lasciando un vuoto non da poco nel migliore panorama dell’arte torinese. E non solo.

Curata dalla pittrice Luisa Porporato, con la presentazione di Fratel Alfredo Centra (direttore dell’“Istituto” di via San Francesco da Paola), del critico Angelo Mistrangelo e di Alberto Novo (presidente dell’“Associazione Fotografica NAMIAS” di Parma), la rassegna, in programma fino a sabato 4 maggio, comprende una quarantina di scatti in bianco e nero dedicati ai suoi “Viaggi”, compiuti nei luoghi più misteriosi e affascinanti del Pianeta o anche solo sotto casa, fra le bellezze (mai del tutto conosciute) della sua Torino o, andando e volando oltre le mura e i confini della città, fra scorci tutti particolari di una “stelliana” Venezia o della grandiosa, a tratti “improbabile” New York City. Scatti dunque come … “geografie dell’anima”. Mi è piaciuto – e spero non aver toccato la suscettibilità di alcuno – titolare così la personale di Stella. In parete, paesaggi esotici. Che di più non si può. Indimenticabili.

Per l’esasperazione di una tecnica tanto attenta da perderci gli occhi e il controllo di quella resa “veristica” mai disgiunta dall’interpretazione dei “sensi” che affiora in ogni sua immagine. In quest’ottica, scorrono realtà che vanno dalle “lagune glaciali” e dagli “icberg blu” d’Islanda (“Terra del fuoco e del ghiaccio”, su cui nel 2005 Stella pubblica anche un libro edito da “Elena Morea”), fino al magico mistero che scorre lungo le acque dell’Irrawaddy in Myanmar o alla “complessa” sacralità dei templi di “Ta Prohm” o di “Angkor Wat”, capolavoro di tutta l’arte “Khmer” (una delle meraviglie del mondo) in Cambogia, per chiudersi ai più vicini “notturni torinesi” e alla grandiosità di una New York, colta “in momenti di silenzio – scrive bene Alfredo Centra – che accentuano la bellezza di angoli richiamanti pensieri di eternità nel contesto di imponenti architetture moderne”. Meraviglie! E pensare che fino al 2000 la fotografia è stata per Stella un semplice hobby. Importante ma solo hobby. Solo dal 2000/2003 l’arte fotografica diventa invece per lui “mestiere” a tempo pieno. Attratto inizialmente dalla stampa in bianco e nero e affezionato al negativo all’argento, dal 2005 – in cerca sempre più di una fotografia nitida, esatta e corretta – si dedica alla “stampa al Platino/Palladio” (tecnica considerata “il punto di arrivo qualitativo nella stampa fotografica in bianco e nero”), aderendo al “Gruppo Rodolfo Namias” con sede a Parma e che riunisce fotografi impegnati per l’appunto nel recupero delle più antiche tecniche di stampa.

“Non per un recupero nostalgico – scriveva Stella – di vecchie tecniche, ma per un nuovo utilizzo di uno strumento in più a disposizione del fotografo. Io vedo la stampa finale un po’ come l’esecuzione di un brano musicale dallo spartito, che contiene delle indicazioni per eseguire una musica … Però poi c’è sempre spazio per l’interpretazione degli esecutori, così per noi fotografi le ‘Antiche Tecniche’ sono uno strumento in più per suonare la nostra musica”. E che musica, ragazzi! Per ricordarla, insieme al suo grande esecutore, Luisa Porporato ha voluto annotare, in catalogo, alcuni versi di Sant’Agostino“Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano, ma sono dovunque siamo noi”. A dimostrarlo i molti colleghi, amici, compagni di vita dell’artista presenti, nei giorni scorsi, al vernissage. E chissà? E’ bello crederci. Lì, forse, c’era anche Giorgio. Fra tutti noi e le sue magiche, poetiche … “geografie dell’anima”.

Gianni Milani

 

Giorgio Stella

“Collegio San Giuseppe”, via San Francesco da Paola 23, Torino; tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 4 maggio

Orari: dal lun. al ven. 11/12,30 e 16,30/18,30; sab. 11/12,30

Nelle foto: Giorgio Stella, “Islanda”, “Myanmar”, “Torino – La Mole”, New York

Gli smaglianti colori della montagna di Alberto Di Fabio

Al Museo della Montagna, sino al 20 ottobre

Attraverserà l’estate, e anche oltre (si chiuderà il 20 ottobre), la mostra “Orogenesi”, a cura di Andrea Lerda, ospitata al piano terra del Museo della Montagna – piazzale Monte dei Cappuccini, 7 – e dedicata alle opere di Alberto Di Fabio. La realizzazione della mostra è dovuta anche ai contributi del CAI e della Città di Torino, nonché al sostegno della Regione e della Camera di Commercio. In esposizione “Dipinti e disegni degli anni Novanta”, soggetti montani ritratti dall’artista nel corso di un decennio e risultato di una ricerca derivata dalle influenze del Dadaismo, del Surrealismo e della Metafisica. L’ampio campo di quella ricerca guarda al cosmo e al mondo della natura, indagando “reazioni chimiche, fusioni minerarie, atomi e il sistema neuronale in relazione con il mondo dell’astrofisica, evocando paesaggi primordiali in costante divenire”.

Di Fabio, classe 1966, vive e lavora tra Roma e New York, con indirizzo principale quello di approfondire il cosmo e lo sguardo verso la montagna, sempre più approfondito, portato verso forme astratte e organiche che caratterizzano i disegni, le tele e i walldrawing che l’artista realizza. Nel corso del tempo, Di Fabio ha acuito altresì il discorso cromatico, volgendo quelle asprezze che vengono a sorgere, quasi improvvisamente, inaspettate, dal terreno verso una tavolozza e un folgorante panorama di colori finale di grande armonia. Inaspettati e improvvisi, ci si trova dinanzi a blu accesi, a calanchi rossastri e a fragmentazioni rocciose di un verde gradevolissimo al nostro occhio, in una concezione che supera la Natura e s’appresta a reinquadrarla, dinanzi a “Montagne in arancio” (del 1997) mai rintracciate, agli “Incontri tra montagne” (del 1993) che somigliano allo scoppio di mondi di un epoca ormai troppo lontana.

Nell’occasione, il Museo della Montagna ha editato un volume con i contributi di autrici e autori che nel corso degli anni hanno interpretato significativamente questa fase artistica e lo stesso soggetto montano: Mario Codognato, Ester Coen, Cristiana Perrella e Luca Beatrice. Un mondo che non conosciamo, altezze che nelle loro forme pressoché geometriche nascondono ricordanze medievali, di antichi pittori. Ci pare che l’artista volga un occhio non soltanto al futuro, nella bellezza delle sue cromie, ma anche al passato, nella identificazione lineare di quelle forme.

Orari: dal martedì al venerdì dalle 10,30 alle 18; sabato e domenica, dalle 10 alle 18.

e.rb.

Tra le opere di Alberto Di Fabio in esposizione al Museo della Montagna: “”Montagne in arancio”, 1997, acrilico su carta intelata, 76 x 52 cm; “Montagne rosse”, 1994, acrilico su carta intelata, 129 x 93 cm.

A Torino la prima edizione del festival fotografico Exposed

28 mostre in programma, di cui una dedicata alle riprese aeree di 9 artisti

 

Da giovedì 2 maggio  al 2 giugno prossimo, a Torino debutta un nuovo festival dal titolo “Exposed Torino Photo Festival”, con il tema “New Landscapes. Nuovi paesaggi”. Si tratta di 28 mostre in 23 sedi per la direzione artistica di Menno Liaw e Salvatore Vitale, rispettivamente direttore e direttore artistico di “Futures 2”, la piattaforma che comprende 19 istituzioni legate alla fotografia. Tra queste si annovera una collettiva alle OGR dedicata alla fotografia dall’alto e alle sue visioni, dal titolo “A view from above”, curata da Domenico Quaranta, Salvatore Vitale e Samuele Piazza. Saranno nove gli artisti protagonisti di un focus che porrà alcune riflessioni sull’ambiente in cui viviamo e su come sia cambiato il nostro modo di guardare la realtà. Tutta la storia della fotografia, fin dalle sue origini, è accompagnata dalla visione dall’alto.

“Aviazione e fotografia aerea – spiega Domenico Quaranta, docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano – nascono nel corso dell’Ottocento e si sviluppano in parallelo. Basti pensare a Nadar, che a metà del XIX secolo, con la mongolfiera, cerca di riprendere Parigi dall’alto. È chiaro che il nostro rapporto con la realtà è ancora ancorato alla terra, ma ormai la visione dall’alto è stata incorporata dalle nostre esistenze, attraverso l’uso quotidiano di aerei e la visione satellitare è diventata parte della comunità con Google Maps e Google Earth, che condizionano il nostro modo di fruire lo spazio pubblico e la città. Lo stesso discorso si può fare per i droni, anche se questi non sono di uso così comune”.

Ad aprire la mostra “A view from above” è un maestro della fotografia italiana, Mario Giacomelli, che ha esplorato la visione dall’alto a partire dagli anni 60/70.

“Per questo – spiega Domenico Quaranta – ci sembrava un punto di partenza interessante. Giacomelli evidenzia un aspetto della fotografia aerea che si è perso negli ultimi anni, con la transizione allo sguardo satellitare o drone, che è uno sguardo disumanizzato. Le sue fotografie aeree sono molto umane, guardano la superficie della Terra come se fosse un corpo grinzoso. Nel suo linguaggio è presente un’estetica che troviamo su Google Earth; i campi geometrici, di cui si evidenziano le tracce lasciate dalle arature, sono diventate l’esperienza di tutti”.

L’artista olandese Mishka Henner realizza i suoi scatti attraverso Google Earth, e pone l’attenzione sul paesaggio americano e, nella serie in mostra a Torino, sugli impianti di estrazione dei deserti americani.

“Nel suo sguardo – afferma Quaranta – i suoi scatti assumono la forma di un microchip, un circuito geometrico artificiale ancorato alla Terra. Nelle opere di Giacomelli, da un lato è presente questa linea, dall’altro sono presenti visioni di persone colte sulla spiaggia che hanno suscitato un parallelismo con la serie di Thomas Van Houtryve che, nel 2011, ha realizzato queste immagini attraverso un drone autocostruito. Seguendo il reportage della guerra in Afghanistan, aveva intercettato la frase che dà il nome alla serie: Blue Sky Days”.

A completare il quadro della visione dall’alto, vi sono video e installazioni come quelle di Susan Schupply, che si concentra sui disastri ecologici e sullo sversamento del petrolio nel Golfo del Messico nel 2010. Laura Cinti utilizza i droni dell’intelligenza artificiale per cercare di individuare nella foresta del Congo una pianta femminile estinta, di cui pochi esemplari maschi sopravvivono nelle serre. Appositamente per Exposed, ha realizzato un lavoro l’artista americano Evan Roth, dedicato a Torino. Si intitola “Skyscapes (Turin)”, realizzato con fotografie del cielo di Torino, manipolate con un software personalizzato di proiezioni cartografiche che esplorano le distorsioni di scala nelle mappe.

“Bisogna essere consapevoli che parlare di visione dall’alto significa mettere insieme una serie di piani diversi, in quanto si tratta di uno strumento di controllo e di potere che, come tutti gli strumenti diventati accessibili a tutti, permette di intervenire sulla realtà in maniera diversa. La mostra vuole mandare un messaggio di approfittare della molteplicità di sguardi sulla realtà, che lo sviluppo delle tecnologie sta mettendo a disposizione.

 

Mara Martellotta

“Italo Cremona Tutto il resto è profonda notte”: in mostra alla GAM di Torino

Italo Cremona- tutto il resto è profonda notte in esposizione alla GAM di Torino– dal 24 aprile al 15 settembre 2024- ci accompagna nella scoperta dell’universo creativo dell’artista, pittore chiave del movimento surrealista del panorama artistico torinese.

Nata dalla collaborazione tra laGAM e il Mart di Rovereto, dove si trasferirà il prossimo autunno, è un percorso lungo e di forte impatto emotivo in grado di trasmettere allo spettatore incubi, apparizioni, immagini fantastiche ed espressione dello scenario immaginifico dell’artista.

Dieci percorsi espositivi disposti in ordine cronologico che spaziano dalle opere giovanili di metà anni venti fino alle ultime degli anni Settanta, in grado di mostrare le fredde capacità tecniche del Cremona (chiaramente espresse nelle dettagliate rappresentazioni delle pistole) ed ad affiancarle alle atmosfere del Realismo magicche rivelano il filone visionario dell’ artista autodefinitosi un’ surrealista indipendente“.

Per questo la sala dedicata alla “follia” diventa il vero fulcro dell’intero percorso espositivo. Sulle pareti, dal forte colore violaceo, ci sono più di vent’anni della pittura del Cremona che ne rilevano “il sogno, l’incubo, il macabro” ma anche la visione puramente intellettuale della realtà che circonda l’artista. Fortissimo è  il percorso dedicati ai nudi, da sempre motivo chiave e ricorrente nell’iconografia di Cremona. Il “nudo” si fonde con la rilettura del mito ma anche con il corpo delle lettere dell’alfabeto dando ad essere un nuovo senso e diversa vita.

L’ultima sala diventa celebrazione di una sintetica ma fortissima affermazione dell’artista che, chiarendo il perché della frontalità delle sue rappresentazioni, spiega come nei suoi quadri “ci sia sempre qualcosa che tappa. Un tappo che chiude“. Questa espressione viene celebrata nei quadri e fotografie presenti nella sala che diventano perfetta espressione del dualismo tra il “fuori” e il “dentro” dando forma al significato delle parole del Cremona.

La mostra, a cura di Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari e Elena Volpato, è in grado di valorizzare gli aspetti più contemporanei dell’opera di Cremona e di far conoscere e riscoprire la figura di un intellettuale creativo e differente da tutti gli artisti della sua epoca.

Valeria Rombolà

Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera

Flashback Habitat, a Torino

 

“Verrà presentata domani la mostra “Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera di Milano a Torino” a Flashback Habitat, in corso Giovanni Lanza 75, che sarà visitabile dal primo maggio al 29 settembre prossimi.

“Storie di matrimoni”, come cita il titolo, è la rappresentazione di un preciso momento della vita famigliare narrato attraverso fotografie. La cura dei dettagli, a partire dagli abiti da cerimonia, rappresenta un’espressione di potente bellezza voluta dai fotografi con la loro sapienza di utilizzo della macchina fotografica, chiamati per conservare per sempre la memoria di quel momento, di un grande evento famigliare.

 

Mara Martellotta

La Sacra di San Michele: la chiesa più alta che c’è

Avete presente quando Po, morbido protagonista del film d’animazione “Kung fu Panda”, guarda in alto e dice: “Il mio antico nemico, le scale!” Ecco, questa è stata la mia reazione non appena giunta ai piedi della Sacra di San Michele.

 

E dire che un po’ ho barato, poiché non sono partita a piedi da Sant’Ambrogio, come si dovrebbe fare, ma sono salita con la macchina ancora un pochino, fino ad uno spiazzo a circa quaranta minuti di distanza. Non c’è che dire, più in alto non potevano costruirla: l’Abbazia è proprio arroccata sulla vetta del monte Pirchiriano, a ben novecentosessanta metri di altitudine.

Il complesso architettonico si trova all’imbocco della Val Susa, poco sopra la borgata San Pietro, il suo aspetto è maestoso e poetico, imponente e romantico. Apprezzo molto il fascino di questo luogo, soprattutto in alcune giornate autunnali, quando la nebbia avanza e la Sacra sembra sporgersi da tutto quel bianco fumoso, come fosse il soggetto di un quadro di Caspar David Friedrich.

L’atmosfera è senza dubbio coinvolgente,  non per niente il grande Umberto Eco, per il suo celebre romanzo “Il nome della rosa”, si era deliberatamente ispirato alla misteriosa bellezza di questo sito architettonico.
Ho scelto comunque un giorno di sole  settembrino per la mia passeggiata in salita.
Scesa dalla macchia ho imboccato il sentiero che serpeggia nel bosco e porta dritto in cima al monte: una leggera brezza mi ha addolcito la fatica, il verde delle foglie è ancora intenso e l’odore del legno dei tronchi ha sempre qualcosa di magico.

Il vero nome della Sacra è Abbazia di San Michele della Chiusa, essa si erge su un imponente basamento di ventisei metri, appartiene alla diocesi di Susa ed è la prima tappa italiana che si incontra lungo la via Franchigena.
Come ogni complesso architettonico che si rispetti, anche la Sacra ha i suoi misteri.
Leggenda vuole che l’ex arcivescovo, Giovanni Vincenzo (955-100), ritiratosi a vita da eremita proprio tra le nostre montagne, fosse stato incaricato  dall’arcangelo Michele  “in persona” di costruire il santuario. Non solo, ma degli angeli avrebbero poi provveduto a consacrare la cappella, che, infatti, la stessa notte della cerimonia, fu vista dagli abitanti come “avvolta da un grande fuoco”.

Secondo tale versione l’edificio risalirebbe al X-XI secolo, data probabile ma non certa, vi sono tuttavia molti documenti che trattano dell’edificazione della Sacra e che fanno risalire i lavori in quello stesso periodo.
Dove oggi sorge l’Abbazia c’era un tempo un castrum, utilizzato dai Longobardi come presidio militare; proprio tale popolazione iniziò a diffondere il culto micaelico, che si propagò ampiamente nell’Alto Medioevo, come dimostrano i numerosi edifici dedicati a San Michele che sorsero dopo l’anno Mille in Europa.
L’antico insediamento longobardo si trovava dunque alla base del progetto architettonico iniziato da Giovanni Vincenzo, il quale, con o senza l’aiuto dell’arcangelo, diede inizio all’edificazione di un’architettura maestosa e complessa: accanto al sacello più antico ne fece realizzare un secondo che oggi è l’ambiente centrale della cripta della Chiesa. Le nicchie e le colonnine richiamano motivi bizantini, all’epoca largamente diffusi a Ravenna.
Sul finire del X secolo, il conte Hugon di Montboissier, per riscattarsi dai suoi peccati, finanziò ulteriori lavori di ampliamento e fece aggiungere anche un piccolo cenobio per pochi monaci e qualche pellegrino.

In seguito fu l’abate Adverto di Lezat ad amministrare lo stabile. Egli chiamò l’architetto Guglielmo da Volpiano, a cui si deve il progetto della “chiesa nuova”, che sarebbe sorta sulle fondamenta della primitiva chiesetta.
A metà dell’XII secolo la Sacra venne affidata ai Benedettini, che costruirono l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, per accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Franchigena, passavano per il Moncenisio. Risale a quest’epoca la parte denominata “Nuovo monastero”, che comprendeva alcune celle, una biblioteca, delle cucine, un refettorio e diverse officine.
La lunga e articolata vicenda sembra concretizzarsi nel percorso impervio che il visitatore percorre, avanzando guardingo per la Sacra.

Io stessa ho passato la visita un po’ con la testa in su, incuriosita e ammaliata dagli archi rampanti e dalla grandiosità dell’insieme, e un po’ a guardarmi indietro, come fossi un Pollicino a corto di briciole.
La spettacolare chiesa odierna è dunque il formidabile risultato di più di un secolo di interventi.
Nella zona più antica, quella eretta sul castrum, priva di finestre e sormontata da volte a crociera, è evidente lo stile romanico di stampo normanno.

Influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa emergono dal così detto scalone dei Morti, anticamente fiancheggiato da tombe e si evidenziano nella splendida porta dello Zodiaco. La porta ha destato più che mai la mia attenzione, e mi sono soffermata a guardarla nei minimi dettagli: le creature zodiacali risaltano pur consunte dalla pietra bianca, sembrano intrecciarsi le une alle altre, accatastate in una complessa composizione caratterizzata da un evidente  “horror vacui. Cerco l’Ariete, il mio segno zodiacale, l’animale si distingue per le possenti corna e il corpo muscoloso, ovviamente mi sembra che tale rilievo sia più bello degli altri. C’è un’altra motivazione per cui il portale mi colpisce, ed è il significato allegorico dello scorrere del tempo, tale significazione tramuta una semplice porta intarsiata in un poetico memento mori.

Risalgono al XII secolo gli interventi che riprendono lo stile del “romanico di transizione”. Tali lavorazioni sono riscontrabili dalla presenza di bifore, di pilastri cilindrici e polistili e dalle arcate con pilastri a fascio e archi acuti.
Nel XVI secolo la volta della navata centrale crollò e venne sostituita con una pesante volta a botte, che però esercitava una forza eccessiva sulle pareti laterali;  per ovviare alla pericolosità architettonica, nell’Ottocento si decise di intervenire sostituendo tale volta a botte con una triplice volta a crociera, ultimata nel 1937.
Vi sono poi elementi in stile “gotico francese” risalenti al XIII secolo.

Il visitatore, me compresa, si perde ad osservare i molteplici stili artistici che convivono armoniosamente. Molto suggestivi sono anche le terrazze, visitabili lungo il percorso: dall’ambiente poco illuminato tipico dei luoghi di culto, mi sono ritrovata ad osservare la vallata verdeggiante ai piedi delle montagne, illuminata dall’ancora caldo sole di settembre.
Eppure, distratta dalle minuzie interne alla Chiesa e dalla vista mozzafiato, stavo per non fare caso a quella che è una straordinaria peculiarità della costruzione: la facciata.
Essa si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti, è sotto l’altare maggiore ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti.
Potremmo dire che, se si pensa ad un’altra qualsiasi chiesa o abbazia, la facciata della Sacra è in posizione opposta rispetto a quella che la tradizione architettonica religiosa richiederebbe.


In tempi recenti, i lavori ancora non terminano. Tra il XIX e il XX secolo ci furono degli interventi voluti da Alfredo d’Andrade e durante gli anni Ottanta e Novanta si resero necessarie ulteriori modifiche.
Ciò che non cambia, nonostante il trascorrere dei secoli, è il fascino del luogo, reso ancora più prorompente dai misteri che accompagnano queste mura antiche. Si pensi alla vicenda della “Bell’Adda”. Adda era una giovane fanciulla che per sfuggire ai soldati nemici si buttò giù nel precipizio, gli angeli misericordiosi ebbero pietà di lei e la salvarono; Adda raccontò l’accaduto ai compaesani, i quali ovviamente non le credettero, così lei compì nuovamente l’insano gesto. Alcuni la definirebbero “hybris”, altri semplicemente “vanità”, resta il fatto che questa volta Adda non tornò a farsi vedere. Ma neppure il suo corpo venne mai più rinvenuto.

Non sappiamo cosa accadde ad Adda, ma sappiamo che ancora oggi numerosissimi visitatori si inerpicano per la collina per visitare la Sacra e tutti rimangono folgorati dalla bellezza di quel che vedono finita la faticosa salita.
Nel 2017, l’Abbazia è stata candidata a far parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco, nel quadro del sito seriale “Il paesaggio culturale degli insediamenti benedettini dell’Italia medievale”.
Sulla meraviglia del sito non si discute, ma possibile che in tutti questi secoli di interventi architettonici, nessuno abbia ancora pensato all’inserimento di un semplice ascensore?

Alessia Cagnotto