Torino tra architettura e pittura
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
3) Giacomo Balla (1871-1958)
Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Le operazioni artistiche talvolta lavorano “in negativo”, rimandano al “disfare” e alla “distruzione creativa”, come per esempio i tagli di Fontana o le combustioni di Burri, inoltre molte “performance” di celebri artisti come Hermann Nitsch o esponenti della “body art”, di cui Marina Abramović è la regina indiscussa, sono allo stesso tempo “atti distruttivi” e “esibizioni spettacolari”.
Non sono pochi i testi e le interviste di esperti del settore che sottolineano il sottile e articolato legame tra tale particolare estetica artistica e la strategia del terrore, basata anch’essa sul “distruggere per richiamare l’attenzione del pubblico”. E se tale modo d’agire “funzionava” in passato, oggi risulta tragicamente vincente: viviamo ormai ai tempi dei “mass media”, una cosa non è vera finché non viene caricata su internet e non ottiene milioni di visualizzazioni. Si pensi ai tragici eventi del 2001, all’esplosione dei Buddha di Bamiyan o alla caduta delle Twin Towers: entrambi momenti angosciosi e tremendi, entrambi rigorosamente filmati e mostrati al mondo con il preciso scopo di spiazzare e terrorizzare gli spettatori.
Eppure l’atto di distruggere un’opera d’arte può avere anche un’altra valenza. Nella “graphic novel” di Alan Moore, “V for Vendetta” il protagonista, mascherato da Guy Fawkes, cospiratore cattolico protagonista della “Congiura delle Polveri”, vuole far esplodere il parlamento inglese, edificio simbolo di una dittatura violenta e totalitaria. La demolizione dell’edificio storico diventa, nel fumetto, simbolo di un nuovo inizio, della libertà del popolo che trionfa sulla dittatura.
L’arte come “atto di distruzione”, la distruzione di opere d’arte, qual è il confine tra i due concetti? Dove può condurre l’etica della spettacolarizzazione? Non basterebbe un ciclo di conferenze per esaurire tali argomentazioni, figuriamoci quarantacinque minuti di didattica a distanza.
Tanto per mantenere attivo il dibattito con la classe, ho voluto insistere su un particolare movimento artistico e culturale che a mio parere risulta più che azzeccato per la situazione.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” Questo dice il decimo punto del Manifesto del Futurismo, scritto da Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina de “Le Figaro”. Nasce così il movimento d’avanguardia con cui l’Italia si affaccia al panorama europeo dell’arte contemporanea; Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la stesura del Manifesto teorico del Futurismo, dà vita ad una corrente artistica che investe tutti i campi culturali, dalla poesia all’arte, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro. I Futuristi sostengono che sia necessario “cancellare il passato e inneggiare al futuro tecnologico” ed esaltano la distruzione di musei, accademie, biblioteche, perfino di alcune città storiche, per fare spazio alle nuove forme di bellezza che vanno ricercate nel progresso, nelle città industriali, nelle macchine e nel concetto della velocità.
Va tuttavia sottolineato che il Futurismo non è stato un movimento unitario e spesso la carica di attrazione che esercitava sugli artisti si esauriva in fretta.
Al Manifesto letterario presto ne seguono altri: nel 1910 Umberto Boccioni, (1882-1916), scrive il Manifesto relativo alla pittura futurista, due anni dopo Giacomo Balla, (1871-1958) e Fortunato Depero, (1888-1916) redigono il Manifesto della scultura futurista; di questo gruppo di artisti fanno parte altresì Carlo Carrà, (1881-1966), Luigi Russolo, (1885-1947), e Gino Severini, (1883-1966). Nel 1914 viene proclamato il Manifesto dell’architettura futurista, steso da Antonio Sant’Elia (1888-1916).
La progettazione dell’ideale “città futurista” viene immaginata da Sant’Elia in una serie di disegni che rappresentano grattacieli dotati di alte torri, edificati in metallo, vetro e cemento; all’interno dei progetti urbanistici sono compresi aeroporti, centrali elettriche, ponti e strade a vari livelli. Le architetture risultano imponenti e si ergono come “volumi puri”; al di là della vera e propria funzione, tali costruzioni paiono dei “monumenti” volti a celebrare “il trionfo della tecnologia”.
Una città brulicante e in continuo fermento, affollata e caotica, un po’ viene da chiederselo: Sant’Elia sarebbe poi effettivamente sopravvissuto ad un sabato pomeriggio in centro all’ora di punta? Bisogna sempre fare attenzione a ciò che si dice.
Per i Futuristi la protagonista indiscussa della rappresentazione artistica è “la realtà in movimento”, studiata e approfondita nel suo continuo divenire e nella sua incessante trasformazione.
In pittura, ad esempio, i soggetti prediletti sono le automobili, i treni, gli aerei, ma anche i cavalli al galoppo, uomini in azione, che camminano, che danzano, o colti mentre corrono; inoltre sono spesso rappresentate le strade, traboccanti di traffico convulso o costellate di cantieri edilizi, emblemi della città che cresce.
Gli artisti sono fortemente influenzati dalla cronofotografia e dal cinema, mezzi che permettono di registrare le fasi di un’azione, istante dopo istante. È per questo motivo che nei dipinti dei Futuristi il movimento viene scomposto nelle diverse fasi, come se si trattasse di studi scientifici in cui i vari momenti vengono visualizzati separatamente e poi sovrapposti. Più che esplicativo in tal senso è il “Dinamismo di un cane al guinzaglio (guinzaglio in moto)”, opera del 1912, realizzata da Giacomo Balla.
Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Vorrei ora soffermarmi proprio su Giacomo Balla, uno dei principali esponenti della pittura futurista. Egli nasce a Torino nel 1871, qui frequenta l’Accademia Albertina di Belle arti, dove conosce Pelliza da Volpedo; incomincia a dipingere quadri di matrice “pointilliste”, ma non segue rigorosamente il programma di Seurat e Signac. Nel 1895 Balla lascia definitivamente la città natale e si stabilisce a Roma, qui si avvicina in un primo momento al “Divisionismo”. Tra il 1908 e il 1910 si conclude il momento puntinista e si apre quello futurista; l’opera che segna il passaggio da un movimento all’altro è “Lampada ad arco”, tela databile al 1909, lo stesso anno in cui viene proclamato il Manifesto letterario di Marinetti.
In ambito futurista, Balla si dedica alle ricerche sulla scomposizione del colore e sulle fasi del movimento, percorso che si può constatare, oltre che nel già citato “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, nell’opera “Ragazza che corre sul balcone, linee di velocità + paesaggio”, tela che risente degli studi che nel frattempo sta portando avanti la fotografia, come dimostra in particolar modo il lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Essenziale, per quel che riguarda la scomposizione della luce e del colore, è il ciclo intitolato “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914), costituito da una folta serie di quadri e lavori ormai completamente astratti.
Negli anni in cui aderisce al futurismo, Balla si dedica anche alla scultura e allo studio di diversi materiali: in questa fase del suo percorso artistico lo si può considerare precursore del dadaismo.
Dopo il fervore iniziale, l’artista ritorna su temi più tradizionali, quali la raffigurazione di città, paesaggi e ritratti, riprendendo tecniche più convenzionali, anche se è giusto sottolineare che non abbandonò mai del tutto gli studi futuristi.
Certo non è sufficiente un’ora di lezione per discorrere di certi argomenti, così come non è questa la sede per spiegare in modo esaustivo le diverse complessità del Futurismo.
Credo tuttavia che il compito di un buon insegnate sia anche quello di stimolare nei propri studenti pensieri e riflessioni e, soprattutto, di pungolare la curiosità che mette in moto la mente e fa sì che ognuno possa approfondire in autonomia le tematiche proposte. D’altra parte ciò che si studia a scuola non è fine a se stesso, anzi sovente, è più attuale di quanto si creda.
Alessia Cagnotto
Settanta opere, piccole e grandi tele, sculture minuscole e di estrema raffinatezza (“La pleureuse”, 1875 – 1878, di Giuseppe Grandi), otto sezioni, i maggiori protagonisti della cultura figurativa ottocentesca attivi a Milano, le vicende storiche che sono trascorse dal Regno napoleonico all’austriaco Lombardo Veneto, dalle rivolte popolari (con l’immancabile Bossoli) sino alle guerre indipendentiste, sino alla liberazione del 1859. Le visioni di una capitale meneghina ancora chiusa dentro sue certe strutture quattrocentesche e delle sue trasformazioni verso una città moderna e signorile, ma ancora portatrice di inevitabili e ampi grumi di povertà, in cui le differenze sociali si facevano sempre più visibili, una città che negli anni Sessanta vedeva la costruzione della Stazione Centrale, la rivoluzione dell’area di piazza Duomo con la demolizione del Coperto dei Figini, con la costruzione della Galleria e l’ideazione di piazza della Scala sino, dieci anni più tardi, all’abbattimento del Rebecchino, antico isolato davanti alla bela madunina, luogo d’azione dei malandrini dell’epoca. Un percorso che non è soltanto affidato alle arti, ma altresì alla Storia e alla riscoperta visiva di angoli della città ormai mutati o scomparsi del tutto.
“Pittura urbana” (la definizione la si deve ancora al Sacchi) che abbraccia vecchie prospettive, iniziata tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento dall’alessandrino Giovanni Migliara (che illustra vecchi caseggiati e antichi passeggi, eleganti toilette e venditori, nella “Veduta di piazza del Duomo in Milano”, 1828), lasciando presto il campo ai più giovani ma già sguinzagliati colleghi Luigi Premazzi (“Interno del Duomo”, 1843, un fiorire di colonne e vetrate di eccezionale bellezza, a fronte della monumentalità dell’organo descritto in ogni più significativo particolare), Carlo Canella (“Veduta della corsia del Duomo”, del 1845, l’attuale corso Vittorio Emanuele, un susseguirsi di figure colte nella loro più immediata vita quotidiana, lo stagnaro e la signora con l’ombrellino, le piccole voliere e il loro mercante) e Angelo Inganni con i suoi Navigli innevati del 1852. Un “palcoscenico” abitato altresì dagli “attori protagonisti” della storia milanese di quello scorcio di secolo, l’autore dei “Promessi Sposi” raffigurato da Giuseppe Molteni (un quadro ritrovato di recente), il “Conte Carlo Alfonso Schiaffinati in abito da cacciatore” dell’Arienti e i ritratti di Giovanni Carnovali, comunemente conosciuto come il Piccio, “autore – ci viene chiarito nelle note alla mostra – impegnato fin dalla prima metà degli anni Quaranta in una personalissima ricerca intorno alle potenzialità espressive del colore, figura fondamentale per un primo affrancamento della pittura lombarda da quello che era stato l’indiscusso primato del disegno di matrice classicista.”
La terza sezione contempla la Milano occupata dagli austriaci e poi liberata, nelle tele di Carlo Bossoli, il più sensibile quanto tenace narratore delle Cinque Giornate, e di Baldassarre Verazzi (“Combattimento presso Palazzo Litta”), mentre la successiva guarda alla Storia dalla parte degli umili, soprattutto attraverso i nomi dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno, apprezzati dalla critica come dal pubblico dell’epoca, per il loro squisito sentimento nel raccontare i drammi e le difficoltà del vivere quotidiano di gran parte delle masse. Drammaticamente resa da Domenico con “Lacrime e pane” la povera camera della donna, che raccoglie qualche soldo con i ricami fatti al tombolo, con a fianco la sua bambina, o da Gerolamo con “La scioperatella” del 1851 e soprattutto “La fidanzata del garibaldino”, conosciuta anche come “Triste presentimento”, di vent’anni dopo, anche qui una povera stanza e un letto sfatto, forse una lettera tra le mani che non promette nulla di buono o un’immagine dell’innamorato e un mozzicone di candela, l’unico abitino poggiato sulla seggiola e un catino, il piccolo busto dell’Eroe posto nella nicchia e una riproduzione, alle spalle della protagonista, del “Bacio” di Hayez. Ogni personaggio colto nel suo habitat abituale, interni domestici disadorni, tra le proprie povere cose, quasi sempre immerso in pensieri di ricordi e di indigenza, ogni particolare reso con precisa autenticità, mai vittima di una componente calligrafica fine a se stessa ma di grande, autentico realismo.
Nell’ultima sezione, l’affermazione e il trionfo del linguaggio scapigliato, di Daniele Ranzoni “Giovinetta inglese” e “Ritratto della signora Pisani Dossi” (1880, la leggerezza dell’abito bianco e quegli occhi che paiono dire a chi guarda oggi come allora tutto il rincrescimento nei confronti di un qualcosa non fatto proprio e il dolore assopito del personaggio, uno dei più begli esempi della mostra), di Tranquillo Cremona in primissimo piano a catturare l’attenzione e l’ammirazione, con “La visita al collegio” e soprattutto con un unicum suddiviso tra “Melodia” e “In ascolto”, entrambe datate 1878 ed eseguite su commissione dell’industriale Andrea Ponti, un inno all’azzardo della preparazione, alle zone lasciate alla saggia improvvisazione e al non finito, al sommario, all’evanescente, nel tripudio del “disordine” delle pennellate: “Il pennello tanto squisito del Cremona non si è fermato a determinare che certe parti più importanti della composizione, ma in queste ha messo tutta la squisitezza d’intonazione, della quale ha per così dire una privativa assoluta, e tutta quella gentilezza di figure muliebri che egli solo sa trovare”, fu uno dei giudizi a lui rivolto all’apparire delle opere. La mostra è visitabile sino al 12 marzo 2023: assolutamente da non perdere.
Arte moderna. Contemporanea. Forse. O forse no. Forse, arte antica. Antica ancor di più di quella “consacrata” come antica. Graffiti. Accumuli di graffiti. Accumuli di segni e colori che esplodono in casuali informalità. Volontà di evasione. Di distruzione. E ricostruzione. Lavori su cui perdersi in intrecci labirintici dal bandolo difficile da sbrogliare. Ma lavori che ti tengono lì, in sospeso, per lasciarti senza parole. Né esatte spiegazioni. Solo dubbi. Pur se benefici. Dubbi benefici aperti a interpretazioni mai certe ma capaci di vincolarti emotivamente, e a doppio filo, all’opera che hai davanti. Che è arte senza tempo. Senza un perché. In continuo divenire. Significativo, in tal senso, lo stesso titolo dato alla rassegna presentata alla “GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea” di Torino da giovedì 3 novembre a domenica 12 marzo 2023: “Hic sunt dracones” (dal latino, “Qui ci sono i draghi”) o “leones” ( “leoni”), espressione tecnicamente associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate dell’Africa. Spazi sconosciuti. Immaginari e misteriosi. Realtà altre.
apparentemente non è. È un pensiero che genera draghi e, allo stesso modo ispira opere che rifuggono da ogni classificazione, che esorbitano da ogni griglia, che tengono insieme più immagini, più tempi, più momenti”. E i più svariati materiali: terrecotte, lana di pecora (“Le leonesse”), ferro, legno, erbe e fiori secchi, ma anche ceramica, porcellana terzo fuoco, ottone, rame, argento, vetro e molt’altro ancora. Le opere della Camoni rifuggono da ogni griglia o classicazione e sono create a partire da oggetti trovati o da materiali naturali in un “processo di sorellanza” in cui vengono artigianalmente coinvolte numerose persone, in una sorta di “comunità temporanee di condivisione spaziale, emotiva e spirituale”. Lavorare al di fuori delle regole, del pensiero comune, dell’artistically correct: Camoni e l’“Atelier dell’Errore”, lavorano in tal senso in modo parallelo, sotto la guida della stessa visionarietà creativa. L’alterità, la loro stella polare. “L’‘Atelier dell’Errore’ – spiega ancora Elena Volpato – lo fa per costituzione, raccogliendo sotto la direzione di Luca Santiago Mora la maestria di giovani artisti, con tratti neurologici atipici, con una naturale predisposizione al soffio errante di quella che gli antichi chiamavano follia: forma principe del pensiero metamorfico.
creativi ancor più antichi, iscritti nelle nostre origini, così come nella natura”. In occasione della mostra, venerdì prossimo 4 novembre (ore 10,30), si terrà alla “GAM”, la performance “La Distruzione Bella” realizzata da Chiara Camoni e dal suo “Centro di Sperimentazione”. Il lavoro vedrà la fusione di gioielli e piccoli oggetti in metallo per creare un passaggio dalla forma all’informe e dare vita a nuove sculture gioiello. Il pubblico è invitato a intervenire con bijoux, piccoli oggetti in metallo, qualche pezzo di argenteria per vedere il proprio oggetto cambiare sotto l’azione del fuoco in un processo di metamorfosi e ricomposizione. Seguirà colazione.






Prima di arrivare agli sviluppi ultimi dell’operazione, risulta estremamente interessante l’ascolto della ricca narrazione da parte di Annamaria Bava, forse la persona che più da vicino ha seguito le tante vicende che interessano le due opere, dell’excursus che inevitabilmente abbraccia in esclusiva “Il suonatore” e abbandona alla piena solitudine artistica il “Concerto”, velocemente scomparso ad ogni conoscenza. Quindi è bene ricordare come “Il suonatore”, giunto a Torino nel 1635 – forse complice un veloce passaggio o una più lunga permanenza in città già una quindicina di anni prima dello stesso Gramatica – tra le diciassette opere volute dai Savoia per le proprie raccolte e passato quindi al patrimonio di Tancredi e Giulia Falletti di Barolo e, alla morte di lei (1864), donato dalla famiglia alla Sabauda, sia stato sino al 1928 attribuito al Caravaggio e che soltanto in quell’anno Roberto Longhi gli abbia ridato l’esatta paternità. Dando poi per buono il riconoscimento di una tiorba per lo strumento nelle mani del musico, allora si identificherebbe in Cesare Marotta il protagonista, pugliese d’origine e coniugato con quella Ippolita Recupito che ci guarda dal “Concerto” e che all’epoca fu una delle voci più apprezzate dalle corti, Mantova Roma Ferrara, dal 1603 stipendiata da Dal Monte. Se al contrario si prestasse voce a quella corrente di esperti che vede nello strumento la rappresentazione di un arciliuto (di una cordatura doppia e di un registro più acuto), allora il protagonista diverrebbe Vincenzo Pinti, conosciuto come il “cavaliere del liuto”. 