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Giornate FAI di Primavera, ecco tutti i luoghi aperti

Il più importante evento di piazza dedicato al patrimonio culturale e paesaggistico italiano

Sabato 23 e domenica 24 marzo 2024

Elenco dei luoghi aperti e modalità di partecipazione su www.giornatefai.it

IN PIEMONTE

Sabato 23 e domenica 24 marzo tornano le Giornate FAI di Primavera, il più importante evento di piazza dedicato al patrimonio culturale e paesaggistico del nostro Paese: 750 luoghi in 400 città saranno visitabili a contributo libero, grazie ai volontari di 350 delegazioni e Gruppi FAI attivi in tutte le regioni (elenco dei luoghi e modalità di partecipazione, consultabili su www.giornatefai.it).

Le Giornate FAI di Primavera si confermano nella loro trentaduesima edizione uno degli eventi più importanti e significativi per conoscere il patrimonio culturale e paesaggistico italiano. Un’esclusiva opportunità di scoprire un’Italia meno nota, di luoghi solitamente inaccessibili, dalle grandi città ai borghi, da veri e propri monumenti a luoghi curiosi e inediti, che tuttavia ugualmente raccontano la cultura millenaria, ricchissima e multiforme del nostro Paese. Un modo per contribuire alla tutela e alla valorizzazione di questo patrimonio, che va innanzitutto conosciuto, frequentato, e prima ancora, raccontato. È questa la missione del FAI: “curare il patrimonio raccontandolo”, a cominciare dai suoi 72 Beni aperti al pubblico durante l’anno, ma ampliando e arricchendo questo racconto proprio in occasione delle Giornate FAI di Primavera, quando 750 luoghi saranno aperti in tutta Italia grazie a migliaia di delegati e volontari del FAI e agli Apprendisti Ciceroni, giovani studenti appositamente formati per raccontare le meraviglie del loro territorio. Le Giornate del FAI offrono un racconto unico e originale dei beni culturali italiani, che risiede nella loro Storia intrecciata con la Natura, nei monumenti e nei paesaggi, nel patrimonio materiale e immateriale, e nelle tante storie che questi possono raccontare, che insegnano, ispirano e talvolta anche commuovono. Un racconto corale e concreto che si fonda sulla partecipazione di centinaia di istituzioni, associazioni, enti pubblici e privati che in numero sempre maggiore vi collaborano grazie a una vasta e capillare rete territoriale con un unico obiettivo: conoscere e riconoscere il valore del patrimonio italiano per tutelarlo con il contributo di tutti, perché appartiene a tutti.

Le parole del Presidente del Fondo per l’Ambiente Italiano Marco Magnifico in occasione della XXXII edizione delle Giornate FAI di Primavera: “Raccontare il patrimonio culturale per educare la collettività a proteggerlo e a prendersene cura: da questa necessità nacquero nel 1992 le Giornate FAI di Primavera dando vita, e poi corpo, e poi forza ad una impressionante struttura di volontariato – le Delegazioni del FAI -, che con entusiasmo e pervicacia eccezionali in questi trentadue anni hanno aperto al pubblico 15.540 luoghi dimenticati o difficilmente visitabili raccontandoli, appunto, con semplicità e passione a ben 12 milioni e 515.000 di cittadini. Ai benefici di questo raccontare se ne è ora aggiunto un altro: quello della fisicità e del ruolo che essa ha per un vero apprendimento.”

Ecco alcune delle aperture più interessanti in Piemonte:

TORINO

Palazzo Carpano già Asinari di San Marzano

Il Palazzo Asinari di San Marzano, ottimo esempio di dimora nobiliare della seconda metà del ‘600, sorge nel cuore di Torino in quello che un tempo era l’isolato di Sant’Aimo, costruito a seguito del secondo ingrandimento della città nel 1673, voluto dal Duca sabaudo Carlo Emanuele II. In questo luogo il marchese Ottavio Asinari di San Marzano fece costruire la propria residenza, affidando il progetto a un grande ingegnere di casa Savoia, Michelangelo Garove: il risultato dei lavori condotti tra il 1684 e il 1686 può essere considerato uno dei suoi capolavori. L’elegante palazzo è uno dei più raffinati e affascinanti esemplari del barocco piemontese, protetto dallo Stato italiano come monumento nazionale. Di grande impatto scenografico è l’atrio arricchito da colonne tortili che sorreggono una volta a vela che abbraccia coloro che entrano, mentre la presenza di alcune sculture seicentesche sottolinea il gusto raffinato dei committenti. L’atrio permette di accedere al cortile ideato per offrire alle carrozze l’agio di entrare e invertire la marcia; all’epoca esisteva anche un secondo cortile destinato alle scuderie e alla rimessa, ma nel 1885 venne chiuso dal fondale neobarocco per opera dell’architetto piemontese Camillo Boggio, tuttora visibile. Gli interni furono rinnovati a metà ‘700 dall’architetto Benedetto Alfieri e dal Martinez, in stile impero: i solai lignei colorati furono occultati da finte volte ornate a stucco, le sale arricchite da sovrapporte, boiseries, specchiere e arredi. Ritrovo in passato di politici e letterati, nel 1946 il cavaliere del lavoro Silvio Turati ne fece la sede della società Carpano, produttrice del famoso vermut, inventato nel 1786, il Palazzo oggi è sede di uffici. L’apertura durante le Giornate FAI prevede la visita dell’atrio, dello scalone composto da due rampe con balaustre in marmo rosa e dell’appartamento aulico al piano nobile, eccezionalmente aperto per il FAI e normalmente non fruibile.

Centro di Produzione RAI

Inaugurato nel 1968, il Centro di Produzione RAI di Torino è, con Roma, Milano e Napoli, una delle strutture in cui viene realizzata la maggior parte dei programmi televisivi dell’azienda. Progettato da Umberto Cuzzi e Felice Bardelli, il Centro si sviluppa su un’area di circa 3000 metri quadri che comprende, oltre agli studi televisivi e le redazioni, una serie di laboratori necessari alla produzione televisiva come quello di montaggio e sonorizzazione, quello di montaggio e grafica, quello di falegnameria, decorazione e arredi, quello di costumi e trucco e infine il Museo della Radio e della Televisione RAI. In più di cinquant’anni di attività, il Centro di Produzione RAI di Torino ha realizzato programmi di tutti i generi, dalle news alla fiction, dall’intrattenimento all’animazione, dalla musica all’educational. Un’occasione unica per scoprire il ‘dietro le quinte’ delle produzioni RAI grazie all’apertura eccezionale durante le Giornate FAI di Primavera dello Studio TV1 e lo Studio TV4. Lo Studio TV1, uno tra i più grandi di tutta l’azienda, ha una platea di 820 metri quadri di superficie, un’altezza di 12 metri con grigliato per il posizionamento delle luci sceniche e doppie pareti con intercapedine per garantire un adeguato isolamento acustico. Qui sono stati prodotti alcuni dei programmi più amati dal pubblico come Ulisse – Il Piacere della scoperta, L’Albero Azzurro, Passaggio a Nord Ovest e molti altri ancora. Lo Studio TV4, dedicato alla testata giornalistica TGR, ha una platea di 430 metri quadrati di superficie 2023 è tra quelli più all’avanguardia per le soluzioni tecniche ed ergonomiche grazie alla recentissima ristrutturazione del 2023. Da qui vengono trasmesse in HD le due edizioni giornaliere del telegiornale regionale del Piemonte, oltre alla striscia settimanale Buongiorno Regione e l’edizione del TG Leonardo a diffusione nazionale. Il percorso si chiude con la visita alle sale del Museo della Radio e Televisione RAI, rinnovato nel 2020, uno spazio esperienziale che invita il pubblico a vivere da protagonista un viaggio nel tempo che parte dai primi mezzi di comunicazione fino ai giorni nostri.

Accademia di Liuteria Piemontese San Filippo

Ingresso dedicato agli iscritti FAI

L’Accademia di Liuteria Piemontese San Filippo ha sede nel cuore della città di Torino, a pochi passi dal Museo Egizio e da Palazzo Carignano, presso il Complesso Monumentale di San Filippo Neri, costruito nel 1891 per volere del duca sabaudo Carlo Emanuele II allo scopo di ospitare la congregazione dei Padri Filippini. L’Accademia nasce nel 2010 da una collaborazione tra il Maestro liutaio Enzo Cena e la congregazione, con il fine di tramandare la bellezza e il rigore del mestiere di liutaio, straordinaria eccellenza piemontese. All’interno dei locali al pianterreno si potrà visitare la Sala Valfrè, che fino al 1998 ha ospitato la cappella di S. Anna, adibita alla celebrazione di matrimoni. Fu probabilmente qui che, nel 1863, il primo ministro Urbano Rattazzi sposò, quasi in segreto, Maria Wyse Bonaparte, nipote di Napoleone. Al piano superiore troviamo il laboratorio dove attualmente gli studenti seguono i corsi formativi per progettare, realizzare e collaudare lo strumento ad arco scelto. Oltre alla storica Sala Valfrè al piano terra durante le Giornate FAI si visiterà il laboratorio dove ascoltare, direttamente dalla voce degli studenti, la loro esperienza nella pratica e nel perfezionamento delle abilità manuali. Dopo un emozionante affaccio dall’alto sulla lunga navata di circa 70 metri di lunghezza e sulla caratteristica volta a botte della chiesa di San Filippo, sarà possibile visitare anche al piano “infernotti” la grande sala adibita a concerti ed eventi in cui ammirare gli strumenti, i legni e i materiali utilizzati per la loro costruzione.

Energy Center House (PoliTo)

Situato all’interno del campus del Politecnico di Torino, l’Energy Center House è il pilastro del progetto Energy Center Initiative (ECI), lanciato dall’Ateneo nel 2016 con l’obiettivo di avviare una serie di azioni e progetti per supportare e fornire consiglio strategico alle autorità locali, agli enti nazionali e transnazionali sulle politiche e le tecnologie energetiche da adottare. L’Energy Center House ospita start-up, pubbliche amministrazioni, aziende e altri soggetti attivi nei comparti della ricerca e sviluppo, del management, della policy e del decision-making in campo energetico. Al suo interno anche l’Energy Center Lab, il Centro Interdipartimentale che è il motore scientifico dell’iniziativa Energy Center, dove competenze multidisciplinari di ricercatori e docenti vengono condivise con l’obiettivo di sviluppare tecnologie e sistemi integrati per un utilizzo più responsabile delle risorse. La struttura, ideata per soddisfare requisiti elevati in termini di ambiente, prestazioni energetiche e di comfort termico, ha vinto l’Italian Gyproc Trophy ed è stata candidata all’International Saint-Gobain Gyproc Trophy 2016, nella categoria di Innovation & Sustainability. In occasione delle Giornate FAI i visitatori scopriranno le particolari caratteristiche architettoniche dell’Energy Center, costruito secondo i principi della sostenibilità: l’edificio, infatti, autoproduce parte dei propri fabbisogni energetici attraverso risorse on site, tra queste troviamo l’utilizzo di acqua sotterranea come fonte di calore e pozzo per riscaldamento e raffrescamento e pannelli fotovoltaici per la produzione di elettricità.

QUASSOLO (TO)

Centrale Edison Quassolo

Ingresso dedicato agli iscritti FAI

Il 15 settembre 2023, Edison ha inaugurato una nuova centrale idroelettrica a Quassolo, in provincia di Torino. Situata lungo la sponda sinistra del fiume Dora Baltea, è un impianto ad acqua fluente di piccola derivazione con una potenza installata di 2.700 kW e una producibilità di 8.300.000 kWh all’anno, in grado di soddisfare il fabbisogno energetico di circa 3.000 famiglie e di evitare l’emissione in atmosfera di 3.300 tonnellate di CO2 all’anno. L’idea del progetto risale al 2013, mentre i lavori di costruzione, iniziati nel novembre 2021, si sono conclusi nel giugno 2023. In fase di progettazione è stata rivolta particolare attenzione agli impatti sul territorio e alla conservazione del contesto paesaggistico, con l’obiettivo di assicurare la naturale integrità ecologica del fiume Dora Baltea, a conferma dell’impegno di Edison per la tutela dell’ambiente. I residenti dei comuni di Quassolo, Borgofranco di Ivrea, Quincinetto, Tavagnasco, Montalto Dora e Settimo Vittone, oltre ai clienti di Edison Energia di tutta Italia, hanno contribuito al finanziamento per la realizzazione della centrale aderendo alla campagna di crowdfunding – Edison Crowd per Quassolo – lanciata dal Gruppo nel 2022, scegliendo così di supportare la transizione energetica sul proprio territorio. Edison è stato il primo operatore energetico in Italia a lanciare iniziative di questo tipo già nel 2018, concludendo con successo ben tre campagne di crowdfunding.

CASTIGLIONE TORINESE (TO)

Impianto di depurazione SMAT

Situato a circa 10 km da Torino, l’impianto di depurazione Smat di Castiglione Torinese è il più grande in Italia e rappresenta un importante esempio di connubio tra tecnologia e natura. Attivo dal 1984, l’impianto centralizzato Smat è il punto di incontro tra le esigenze di realizzare infrastrutture complesse, altamente tecnologiche e le esigenze di preservare un ambiente naturale di elevato pregio al fine di garantire la depurazione delle acque reflue. La costruzione dell’argine a protezione del sito con terre provenienti da cave del fiume Po, la successiva riqualificazione delle aree, la piantumazione di boschi e la realizzazione di aree naturalistiche, sono alcune delle attività eseguite nel tempo che hanno portato un importante valore aggiunto ad un’opera che è un “unicum” nel panorama italiano. Se fino ai primi anni Ottanta il Po riceveva le acque reflue con un forte scompenso ecologico, grazie al depuratore e a un processo di rinnovamento continuo, oggi vengono immesse nel fiume le acque depurate di ben 43 Comuni della cintura torinese, incluso il capoluogo. Operativo sette giorni su sette e ventiquattro ore su ventiquattro, in occasione delle Giornate FAI sarà possibile visitare, con un pulmino, i vari impianti del complesso e scoprire le fasi di depurazione. Il percorso terminerà nell’area verde con la visita alla vasca che raccoglie l’acqua potabile.

RONCO CANAVESE (TO)

Fucina del rame

In borgata Castellaro, sulla sponda sinistra del torrente Soana, sorge un’antica fucina per il rame risalente al 1675, come attestato da una scritta su pietra all’interno del fabbricato principale “IHS Glaudo Calvi 1675”. L’opificio rimase in attività fino al 1952 e la sua funzione produttiva è testimoniata dalle dimensioni inusuali come, ad esempio, la notevole altezza dei locali interni. Essa è la documentazione storica di un modo di lavorare che sfrutta le risorse locali: acqua, minerali e legname. Gli edifici della fucina sono stati ceduti al Comune di Ronco dall’ultimo proprietario, il signor Domenico Magnino, quando trasferì la sua attività a Cuorgnè. Il complesso è costituito da una fucina grande, adibita alla lavorazione del rame, da una fucina piccola per la lavorazione del ferro e dal carbonile, per la produzione del carbone di legna. Un canale, derivato dal Soana a monte dell’opificio, spingeva l’acqua sulle ruote in ferro che mettevano in moto i magli e su due trombe idrauliche in legno per la ventilazione delle forge. Si producevano principalmente manufatti utilizzati dagli abili calderai della Val Soana, ma non è escluso che in alcuni periodi storici – come quello napoleonico – la fucina sia stata adibita a produzioni belliche. In seguito a un accordo con il Comune, il Parco Nazionale Gran Paradiso ha ottenuto la gestione di tutto il complesso e ne ha curato la ristrutturazione e l’allestimento interno realizzando, tra l’altro, un moderno laboratorio didattico con dotazione di audiovisivi e una mostra di manufatti in rame realizzati dai calderai “ruga” della Valle. La fucina di Castellaro è ora un ecomuseo.

SANT’ANTONIO DI SUSA (TO)

Rifugio Antiaereo II Guerra Mondiale

Il rifugio antiaereo si trova nel comune di Sant’Antonino di Susa, nel giardino dei Medagli, di fronte alla stazione ferroviaria. Costruito nel 1943 a opera del Cotonificio Valle Susa – come risulta dalla lettera inviata dal commissario prefettizio al Comitato Provinciale di Protezione Antiaerea il 15/3/1943 e completato il 13 luglio dello stesso anno -, poteva contenere fino a 100 persone. L’edificio, realizzato in calcestruzzo a 4 metri sotto il livello di calpestio, è ricoperto in terra e non facilmente individuabile dall’alto. Di dimensioni contenute (circa 34 mq), sono ancora ben visibili una traccia per l’illuminazione elettrica e alcune condotte per l’areazione forzata, entrambi probabilmente azionate a pedali. La struttura era standard per edifici di questo tipo: una scala di accesso conduce alla stanza dove erano collocate le panche per i rifugiati ed era presente una via di fuga di emergenza. Il rifugio santantoninese è l’unica costruzione di questa tipologia ancora visibile in valle di Susa. La sua messa in sicurezza è stata realizzata di concerto dall’amministrazione comunale, i Vigili del Fuoco del Distaccamento di Sant’Antonino – Borgone e l’Unitre. Quest’ultima ha curato la ricerca storica e la preparazione del materiale documentario, mentre il Comune ha provveduto alla recinzione dell’area di accesso, nonché alla sua riapertura al pubblico il 15 ottobre 2016. In occasione delle Giornate FAI, sarà possibile rivivere la parte di storia della II Guerra mondiale che ha interessato questo tratto della Valle di Susa, grazie alle numerose storie che testimoniano il coinvolgimento delle famiglie nell’ospitare sfollati e offrire rifugio a famiglie ebree.

CASALE MONFERRATO (AL)

Palazzo Leardi

Ubicato nel centro storico di Casale Monferrato, Palazzo Leardi fu costruito alla fine del Settecento dal conte Diego Leardi su probabile progetto del Magnocavallo. Nel 1858, per volontà testamentaria del conte, fu trasformato in Istituto e convitto a beneficio dei giovani appartenenti alla classe meno agiata. Nelle sue aule sono passati insigni personaggi come il primo Preside Pio Rosellini, il cui famoso erbario, Flora Monferrina, è conservato all’interno nell’Istituto. Al momento della donazione il fabbricato era costituito solo dalla metà della facciata che oggi guarda via Leardi, sviluppandosi verso via Mameli. Il terreno rimanente era ed è ancora circondato da un muro di cinta che racchiude il giardino e la porta della chiesa di S. Maria Maggiore di Piazza, fatta ricostruire dal conte Leardi nel 1826. In occasione delle Giornate FAI i visitatori potranno scoprire il maestoso androne con la statua di Filippo Mellana, lo scalone realizzato con la tecnica del trompe-l’oeil, l’Aula magna, un tempo salone d’onore, l’aula degli insegnanti con l’esposizione di antiche strumentazioni di agrimensura e i disegni della scuola del grande scultore liberty Leonardo Bistolfi.

CASSANO SPINOLA (AL)
Palazzo Millelire

Aperto per la prima volta al pubblico in occasione delle Giornate FAI di Primavera, Palazzo Millelire è una casa signorile eletta a residenza della nobile famiglia genovese degli Spinola, quando il Castello di Cassano fu abbandonato in favore di dimore più lussuose e comode. Il palazzo, di cui abbiamo notizia già dal 1608, assume le forme architettoniche tipiche dei palazzi genovesi del XVII secolo: doppio loggiato, tetto a quattro falde, portale solenne, vasto salone riccamente affrescato e ampio giardino interno, conservatosi sino alla fine dell’800. Il palazzo rimase di proprietà degli Spinola sino al 1687. Si succedettero altri proprietari sino al 1851, quando l’edificio venne acquistato dalla nobile famiglia Albini-Millelire che lo trasformò in una comoda dimora dove ancora è possibile ammirarne il fascino ottocentesco. Il palazzo, oggi di proprietà della famiglia Merloni, conserva al suo interno una importante raccolta di dipinti del Seicento genovese. Si potrà quindi scoprire una pregevole pinacoteca con numerose opere di questo felice periodo, tra cui quelle di Domenico Fiasella, uno dei più importanti pittori dell’epoca, di Domenico Piola con il suo stile estroso e vivace, di grandi maestri come Luca Cambiaso e Bernardo Strozzi e di Anton Maria Maragliano, scultore tra i più rappresentativi dell’epoca.

TRISOBBIO (AL)
Castello e Borgo di Trisobbio

Adagiato nel verde delle colline dell’Alto Monferrato, il borgo di Trisobbio, compreso tra i corsi dell’Orba e della Bormida, si sviluppa secondo il modello urbanistico medievale del “recetto”: attorno al vertice della collina, dominata dal Castello, si dipanano tre anelli concentrici dove sono distribuite le abitazioni. La leggenda narra che il paese sia stato fondato da tre famiglie di uomini sobri, fratelli di sette uomini ebbri, fondatori di Strevi, e da qui Tres Sobri. Il borgo potrebbe avere addirittura origini etrusche, ma le prime notizie certe risalgono al 1023; i documenti, invece, attestano il nome Trexoblo a partire dal 1040. In epoca medievale Trisobbio fu feudo dei Marchesi del Bosco; dal 1240 passò ai Malaspina e, successivamente, alla famiglia Boccaccio. Nel 1536 entrò a far parte dei possedimenti dei Gonzaga e dopo degli Spinola. Occupato dalle truppe francesi, seguì, infine, la sorte del Regno di Sardegna, fino all’Unità d’Italia del 1861. Di proprietà comunale, il Castello che domina Trisobbio è stato costruito agli inizi del XIII secolo e conserva ancora oggi la forma originaria, mentre la torre è stata realizzata durante i lavori di ristrutturazione avviati nel 1913 dal marchese Spinola. Di particolare pregio la Parrocchiale, dedicata a Nostra Signora Assunta, risalente alla fine del XIV secolo e che oggi si presenta in stile barocco dopo vari interventi nel corso dei secoli. Al suo interno sono conservati gli affreschi realizzati dai fratelli Ivaldi, la cui produzione fu vastissima e spazia per l’intero Piemonte, e due tele di Michele Beccaria, nato a Trisobbio nel 1568, Parroco di Montaldo e pittore assai prolifico. In occasione delle Giornate FAI i visitatori saranno accompagnati lungo i tre anelli concentrici del borgo per scoprire il Castello, il Palazzo Comunale, la Parrocchiale e l’Oratorio attraverso la narrazione delle antiche vicende, delle tradizioni locali e delle peculiarità enogastronomiche. Infine, per gli amanti della natura, un percorso ad hoc che si sviluppa lungo l’incontaminato fondovalle del rio Stanavasso, di importante pregio naturalistico all’interno della tartufaia di Trisobbio.

ACQUI TERME (AT)
Castello dei Paleologi

Il Castello dei Paleologi, situato nel centro di Acqui Terme, è un complesso edilizio articolato: nacque come residenza vescovile, poi trasformato in fortezza militare, in seguito convertito in carcere e oggi ospita il Museo Archeologico e un parco cittadino dotato di un birdgarden ricco di essenze arbustive locali e popolazioni di insetti, uccelli, anfibi e minuscoli mammiferi. Eretto nel 1506, dal 1260 venne acquisito dai marchesi Paleologi del Monferrato che lo ricostruirono nella forma in parte ancora attuale e lo utilizzarono come fortezza militare. I Paleologi, salvo brevi intervalli in cui la città passò sotto l’egida di Roberto d’Angiò e poi sotto quella dei Visconti di Milano, ne conservarono il controllo fino al 1536; fu poi la volta dei Gonzaga di Mantova e, dal 1708, dei Savoia. Nei secoli la struttura subì molti danni a cui seguirono varie ricostruzioni; smantellata nel 1815 dai Savoia come presidio militare, impiegata poi come carcere, dal 1967 ospita il Civico Museo Archeologico. Del nucleo originario medievale del castello non rimane ormai più nulla. Le strutture più antiche attualmente esistenti, risalenti alla seconda metà del XV secolo, coincidono con il ponte levatoio e una parte della cinta muraria con torre difensiva angolare. Di epoca napoleonica è tutta l’ala separata delle ex-Carceri. In occasione delle Giornate FAI, oltre al birdgarden, alle sale e in via straordinaria ai depositi del Civico Museo Archeologico, sarà possibile visitare il rifugio antiaereo, aperto eccezionalmente e realizzato nel 1943 dall’ingegnere Venanzio Guerci.

BIELLA
Cittadellarte – Fondazione Pistoletto

Nata per volontà dell’artista Michelangelo Pistoletto, la Cittàdellarte è un tipico esempio virtuoso di riconversione industriale: acquistato dal noto artista italiano nel 1991, l’edificio ha ospitato fino agli anni ’70 del Novecento le attività del Lanificio Trombetta. In questo luogo vocato alla produttività, Michelangelo Pistoletto ha dato origine alla Fondazione che porta il suo nome, luogo di congiunzione tra il passato e il futuro di un territorio, il distretto industriale biellese, che ha fatto della creatività il proprio punto di forza. Un vero e proprio percorso di rigenerazione funzionale e culturale: l’ex fabbrica di tessuti, ristrutturata, diventa fabbrica di idee, cultura e progetti di grande valore sociale. È un laboratorio aperto e attivo, una Università delle Idee, che crede nella forza della creatività artistica. L’attività svolta dalla Fondazione Cittadellarte è oggi in costante ascesa ed entra concretamente in relazione con le strutture e le istanze del tessuto socio-economico, concependo e mettendo in atto progetti rivolti ad una trasformazione sociale, responsabile a livello locale e globale. Un laboratorio-scuola dedicato alla sperimentazione e allo sviluppo di pratiche che traducono in realtà il simbolo del Terzo Paradiso, concetto al centro della ricerca artistica di Pistoletto e che rappresenta, a livello filosofico, la connessione equilibrata tra l’artificio e la natura.

NOVARA
Palazzo Episcopale

Situato in pieno centro, il Palazzo Episcopale di Novara è composto da un doppio porticato, in origine con sei archi, scandito da colonne di ordine dorico al pian terreno e ionico al piano superiore, tutte realizzate in granito di Baveno. È probabile che una Domus Episcopi esistesse in quest’area sin dalla costituzione della diocesi. Successivamente, con l’affermarsi della Signoria Vescovile, mutò il nome in Palatium. Nel 1147 è nominato il Palatium Novum, nel 1233 il palazzo è chiamato Pictum, segno che era ornato di pitture anche all’esterno. I Vescovi della prima metà del sec. XIV, in particolare Guglielmo da Cremona, alzarono di un piano tutto il complesso e costruirono una nuova cappella palatina, sovrapposta alla precedente di S. Siro. Al primo piano, nell’atrio del salone della Maddalena, si notano alcuni resti dell’antico Palazzo Medievale: un affresco ed una colonnina con capitello antropomorfo. Notevole la Sala Verde con le grandi tele delle Storie di Mosè ed i Dottori della Chiesa. In occasione delle Giornate FAI, oltre a scoprire la storia di questo antico palazzo, si potranno ammirare, nel Salone della Maddalena, gli affreschi del XV secolo e alcune tele del XVII secolo.

MIASINO (NO)
Itinerario nel borgo
Il bellissimo borgo di Miasino sorge lungo la riviera occidentale del Cusio, a mezza costa tra il Lago d’Orta e la montagna. Di origine gallica, si è arricchito nel tempo di numerose residenze signorili, grazie alla folta presenza di famiglie borghesi e aristocratiche fra il Seicento e il Settecento. Tra le dimore più eleganti spicca Villa Nigra, caratterizzata da grandiosi loggiati interni, balaustre in granito e ferro battuto e decorata da pregevoli affreschi. L’itinerario di Giornate FAI per le vie del borgo ne consentirà la scoperta, insieme ad altri luoghi di interesse storico e artistico. Come la Chiesa parrocchiale di San Rocco, proclamata monumento nazionale, che conserva al suo interno un altare secentesco in marmi policromi e bronzi cesellati, oltre a importanti quadri e affreschi. In particolare, di grande pregio è la tela di Giulio Cesare Procaccini raffigurante i santi Carlo, Antonio Abate e Rocco e quella di Stefano Maria Legnani detto “il Legnanino” con Le nozze di Cana. E ancora, si potrà visitare il secentesco Palazzo Martelli Dathe, con la sua bella facciata barocca, le splendide logge, i camini monumentali e i raffinati allestimenti. Inoltre, sarà aperto Palazzo Sperati con il suo delizioso giardino all’italiana, che ospita una camelia e un rododendro centenari e da cui si gode di una suggestiva vista sulle alture del Lago. Attuale sede di uffici comunali e dell’Archivio storico del borgo, vi si ammirano un monumentale camino in granito, volte dipinte con motivi ottocenteschi e soffitti lignei a cassettoni di ottima fattura.

ROMAGNANO SESIA (NO)
Collegio Curioni

Situato nella parte alta di Romagnano Sesia, il Collegio Curioni è un complesso architettonico che comprende l’edificio centrale, il porticato e un giardino interno e che oggi ospita il distaccamento del Liceo Artistico “felice Casorati” di Novara. La struttura, esempio di architettura neoclassica, è stata edificata tra il 1875 e il 1880 su progetto di Giuseppe Locarni e nel corso degli anni ha subito diverse modifiche strutturali. In occasione delle Giornate FAI, il pubblico, accompagnato dagli Apprendisti Ciceroni, potrà visitare, oltre ai saloni oggi adibiti ad aule, il porticato, il cortile interno e gli ambienti dedicati al convitto. Un racconto a tutto tondo sulla vita scolastica del convitto anche attraverso documenti d’epoca.

VAPRIO D’AGOGNA (NO)
Villa Bono

Situata nel centro storico di Vaprio d’Agogna, piccolo borgo adagiato tra l’alta pianura novarese, Villa Bono, già di proprietà della famiglia Caccia nel XVII secolo e poi venduta a seguito di confisca, è nota per aver dato i natali a Gaudenzio Bono, garibaldino che partecipò alla spedizione dei Mille e cadde, a fianco dei cugini Cairoli, nella Battaglia di Mentana del 1967. La villa si sviluppa su quattro piani: le cantine cinquecentesche a volta, il piano terra con mosaici a pavimento e le volte affrescate, alcune delle quali per mano di Francesco Cantoia ad inizio del XX secolo, il primo piano con parquet e soffitti a cassettoni ed infine il sottotetto: ambiente unico con grandi pilastri e travi in legno. Limitrofi alla villa gli ambienti più rustici destinati un tempo alla servitù e ai fattori, con i soffitti di travi in legno e le cantine con volte in mattoni. La corte civile, che in epoca viscontea era dedicata alle scuderie, è uno spazio raccolto adiacente alla villa. Il parco di oltre 7000 metri quadrati è suddiviso in vialetti con antiche statue e trasporta il visitatore in epoche passate dal sapore romantico: la fontana con i putti, il laghetto dei pesci e la ghiacciaia cinquecentesca, testimonianza rara di come si conservavano i cibi nei secoli passati. Nel parco si potranno ammirare antiche camelie, il bambù nero e magnolie grandiflora.

VERCELLI
Basilica di Sant’Andrea by night

Ingresso dedicato agli iscritti FAI

Edificata tra il 1219 ed il 1227 per iniziativa del cardinale Guala Bicchieri, la basilica di Sant’Andrea è tra i monumenti più importanti e conosciuti di Vercelli. Primo complesso gotico del Piemonte, uno dei più precoci d’Italia in questo stile, la chiesa è un esempio di architettura romanico-gotica in cui convivono il romanico locale e lo stile gotico cistercense. Il complesso abbaziale ha conservato in ampia misura l’aspetto originale: all’inizio del XV secolo venne aggiunto, sul lato destro della chiesa, un nuovo campanile dello stesso stile dei due originari posti accanto alla facciata. Nel corso del XVI secolo – quando già ai canonici di San Vittore erano subentrati i canonici regolari lateranensi – venne rifatto il chiostro del monastero, conservando tuttavia le originali colonnine disposte a gruppi di quattro che si osservano ancora oggi. A distanza di dieci anni dal censimento I Luoghi del Cuore, quando la Basilica fu votata da ben 15.582 persone, promosso dal FAI e Intesa Sanpaolo ottenendo un contributo economico per avviare il progetto di valorizzazione multimediale, in occasione delle Giornate FAI, il pubblico, con ingresso riservato agli iscritti alla Fondazione, potrà eccezionalmente visitare in notturna la chiesa sabato 23 marzo e assistere alle ore 21 al concerto vocale delle Suore della Trasfigurazione di Vercelli organizzato nell’Aula Capitolare della Basilica, a cui seguirà, alle ore 22, la visita guidata arricchita dalla segnaletica immersiva, che unisce l’esperienza reale con la tecnologia digitale, offrendo al pubblico contenuti aggiuntivi e approfondimenti realizzati in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Biella Novara Verbano Cusio Ossola e Vercelli e del Segretariato regionale del Piemonte del MIC.

Sabato e domenica, per tutto il pubblico, saranno invece organizzate visite nell’isolato della Basilica, in occasione degli 800 anni della Fondazione dell’Ospedale Maggiore, ad essa collegato: saranno fruibili in modo straordinario diversi spazi dell’ex Ospedale, nato come “ospitale” per i pellegrini e tra le prime fondazioni ospedaliere italiane: dal Salone Dugentesca, aperto occasionalmente dal Comune per eventi, a Palazzo Tartara, oggi tra le sedi dell’Università del Piemonte Orientale, all’ex monastero di San Pietro Martire, che dopo il restauro concluso nel 2022, oggi ospita laboratori artigianali, start-up, attività nel sociale.

Le Giornate FAI di Primavera si inquadrano nell’ambito delle iniziative di raccolta pubblica di fondi occasionale (Art 143, c 3, lett a), DPR 917/86 e art 2, c 2, D Lgs 460/97). A coloro che decideranno di partecipare verrà suggerito un contributo libero a partire da 3€ utile a sostenere la missione di cura e tutela del patrimonio culturale italiano della Fondazione. Gli iscritti al FAI o chi si iscriverà per la prima volta durante l’evento potranno beneficiare dell’accesso prioritario in tutti i luoghi, e di aperture e visite straordinarie in molte città e altre agevolazioni e iniziative speciali. Inoltre, fino al 31 marzo 2024 si potrà sostenere la missione del FAI donando con un SMS o una chiamata da rete fissa al numero 45584. Il valore della donazione sarà di 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari WINDTRE, TIM, Vodafone, iliad, PosteMobile, Coop Voce, Tiscali. Sarà di 5 o 10 euro per le chiamate da rete fissa TIM, Vodafone, WINDTRE, Fastweb, Tiscali, Geny Communications e, sempre per la rete fissa, di 5 euro da TWT, Convergenze, PosteMobile.

Il capello: un segreto di magia e relax

I capelli e la loro espressività…Scontato sarebbe pensare che non vi appartenga…

Essi vestono l’anima di chi la accompagna, ne disegnano l’immagine più appropriata, donando al suo protagonista  la consapevolezza che si ha verso sé stessi, permettendo di far emergere anche attraverso l’aspetto esteriore l’autenticità del proprio carattere. L’obiettivo dovrebbe essere quello di dare vita non certo ad una trasformazione drammatica, radicale, ma al contrario, cercando di mettere in risalto la  naturalezza più appartenente.

Senza effetti esageratamente stravolgenti, le collezioni dei saloni e le tecniche più avanzate, si concentrano su cambiamenti delicati ma al tempo stesso unici e versatili, capaci di valorizzare quello che già c’è.

I tagli come le acconciature prevedono ampi margini di modifica tra il giorno e la sera, bilanciando fragilità e forza, due facce della stessa medaglia.

La bellezza di un taglio su misura si identifica ovviamente tramite la capacità di cambiare, insieme allo styling, in base al momento e all’occasione, mostrando un’anima trasformista che si plasma tra creatività e linee essenziali.

Con il taglio e la conseguente acconciatura dei capelli, si sussurra al mondo il proprio punto di vista, il proprio ordine personale, lo stile e l’eleganza degli insiemi.

 

Sicuramente quella dei parrucchieri è una professione emergente e in continua evoluzione, che appaga tutto e tutti, affascinando e compensando la soddisfazione di vedere felici persone di tutte le età.

E’ ad oggi il mercato più importante della bellezza professionale in Italia ed è ai primi posti in Europa.

 

La ricerca, l’innovazione e la qualità sono però ingredienti che non tutti possono conquistare. Bisogna avere le risorse necessarie per  favorire la crescita, valorizzare e modernizzare la professione, attivare  una formazione eccellente e continuativa, tale da raggiungere qualità e capacità creative  e manageriali, in grado quindi di ottenere  il massimo risultato nei riguardi di una clientela sempre più soddisfatta.

 

Queste sono leve determinanti che andranno ad alimentare sempre di più la credibilità nei confronti della clientela.

Il raggiungimento e il mantenimento di tale progresso, il comportamento sociale di qualità, la preparazione, l’innovazione e professionalità eccellenti, sono quindi gli ingredienti chiave in grado di garantire al pubblico l’azzardo di selezionare un salone di hairstyling di primissima qualità.

 

Nasce quindi a Torino, in via della Rocca 32/C : “THE SECRET blooming hair” , dove la commistione tra arte e bellezza del capello, generano l’essenza dell’eleganza e dello stile.

 

Due giovani rampanti, talentosi stilisti e eccellenti professionisti del settore, Lorena Diculescu e Federico Fruscione, dopo anni di esperienza vissuta dai grandi maestri dell’hairstyling (tra i quali Franco Curletto), si avvicendano con determinazione e grande passione ad aprire il “loro” salone, ed è qui che la magia inizia.

 

Il loro è un concetto davvero inusuale, nuovo, costellato da assoluta passione, capacità  e garbo incredibili, tali da accogliere la clientela in un giardino dai profumi davvero variegati ma assolutamente legati tra loro da un fil rouge che conquista letteralmente il pubblico per la sua innovazione e altissima qualità, regalando oltretutto un habitat davvero accogliente e rigenerante.

L’interpretazione che danno al “capello” e la cura del suo dettaglio, sussurra all’estro il potere di potersi far riconoscere come un pennello d’autore sta alla tela.

La loro è arte pura, se pur quest’ultima definizione possa forse sembrare azzardata.  Ma qui parliamo di passione capace di generare l’emozione di chi la coglie e di chi sa interpretarla nella sua originalità, facendosi riconoscere come l’astro nascente di un’opera che non chiama solo la tecnica eccellente del loro lavoro, che oltretutto si arricchisce con la qualità dei materiali e la serietà della competenza, ma che si erige grazie all’originalità e a quella personalizzazione del risultato che chiama la soddisfazione assoluta di chi se ne sentirà accarezzato e conquistato.

Lorena e Federico accolgono i loro clienti in una  comfort zone  creativa, votata davvero all’incanto, dove la cura del dettaglio non passa inosservata e dove l’accoglienza accarezza il desiderio di coloro che scelgono di andare da The Secret anche per trovare il relax più personalizzato e non solo per una scelta dettata dal bisogno.

Una gioventù emergente quindi la loro, una generazione di menti pensanti e di anime delicate, dall’intelletto e dalla preparazione tecnica davvero a 360°, pronti a far emergere qualcosa di diverso, fuori dai soliti canoni di massa, ma assolutamente rientrante nella più che autentica cura dell’essere.

(The Secret – 011 0461200 – via della Rocca, 32/C – Torino – info@thesecret32.com)

 

Monica Chiusano

 

Addio a Bruno Segre, l’uomo che nacque “quando ancora tuonavano i cannoni della Grande guerra”

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A 105 anni è morto Bruno Segre. Intellettuale, avvocato, partigiano.

Si era laureato  in Giurisprudenza all’Università di Torino, dove fu allievo di Luigi Einaudi.

Le leggi razziali, essendo di famiglia ebrea non gli permisero di svolgere la professione di avvocato. Per decenni  pubblicò il giornale L’incontro, rivista di confronto di idee.

Di seguito, il ricordo di Marco Travaglini.

 

E’ morto Bruno Segre, l’uomo che nacque “quando ancora tuonavano i cannoni della Grande guerra”

Bruno Segre è morto a 105 anni, proprio nel giorno in cui si celebra la memoria della Shoah dopo una vita da protagonista che ha attraversato il ‘900 ( era nato a Torino il 4 settembre del 1918) e i primi vent’anni del Duemila senza rinunciare alle sue battaglie per la libertà, i diritti, la laicità, contro ogni autoritarismo e discriminazione. Un raro esempio di coerenza e forza che ha raccontato in “Non mi sono mai arreso” (Editrice Il Punto/ Piemonte in Bancarella). Il volume, a cura di Nico Ivaldi, riflette una vita straordinaria di avvocato e giornalista distintosi come una delle più limpide e coraggiose personalità dell’antifascismo italiano. Il racconto, sotto forma d’intervista, ripercorre la sua storia offrendo al lettore un ritratto lucido e appassionato di Segre dalla Torino degli anni Venti e del “lessico famigliare” della sua famiglia ai due decenni del fascismo con l’ignominia delle leggi razziali, la guerra, la Resistenza e il lungo cammino che ha visto impegnato per numerosi decenni il caparbio protagonista tra mille impegni e interessi. Nato a Torino “quando ancora tuonavano i cannoni della Prima guerra mondiale”, ha vissuto quegli anni in una casa di via Barbaroux con i balconi che “si affacciavano su piazza Castello”. Laureato in legge, allievo di Luigi Einaudi, antifascista discriminato dalle leggi razziali in quanto figlio di genitore ebreo, durante il Secondo conflitto mondiale Segre conobbe due volte, nel 1942 e nel 1944, la costrizione del carcere fascista e partecipò alla Resistenza nelle file di Giustizia e Libertà. Un’esperienza sulla quale, nell’estate del 1946, scrisse un memoriale che pubblicò soltanto qualche anno fa, nel 2013, in un volume intitolato “Quelli di via Asti”. Dalle pagine del libro e dal ritmo incalzante dell’intervista emerge il profilo di quest’uomo colto e intelligente, innamorato del concetto del movimento di Giustizia e Libertà, saldamente ispirato da quell’esprit républicain che ne ha sempre orientato le scelte, a partire dall’insopprimibile impegno a difesa dei principi di laicità e all’intransigente fedeltà ai valori di un socialismo capace di garantire i diritti individuali, ripudiando ogni settarismo e dogmatismo. La narrazione autobiografica offre un’infinità di spunti, suggestioni, aneddoti ironici. Giornalista e avvocato, negli anni del dopoguerra Segre si è impegnato nella difesa dell’obiezione di coscienza e nella battaglia per il divorzio. Come giornalista ha intervistato un’infinità di personalità importanti e ben pochi possono vantare come lui di aver potuto intervistare Joséphine Baker, la “venere nera” della Parigi degli “années folles” resi immortali da Hemingway nel suo “Festa mobile”. E soprattutto di averla intervistata nel contesto che lui stesso descrive e che non è il caso di anticipare per non togliere al lettore la curiosità di scoprirlo da solo. Bruno Segre, oltre a collaborare a diverse testate (tra le altre L’Opinione, diretta da Franco Antonicelli e Giulio De Benedetti, Paese Sera, Il Corriere di Trieste e il Corriere di Sicilia) è stato il fondatore e direttore del mensile “L’Incontro”, una esperienza editoriale più unica che rara durata settant’anni, trasformatasi in giornale online dopo aver cessato la pubblicazione cartacea. Quel “periodico politico-culturale” stampato su foglio unico in formato grande e con la testata in rosso ha segnato più di un’epoca, accompagnando per ben quattordici lustri gli affezionati lettori con riflessioni e articoli dedicati alle battaglie contro l’intolleranza religiosa e il razzismo, per la pace, i diritti civili e la laicità. Quando il 4 settembre del 2018 l’avvocato Segre ha festeggiato i suoi cento anni ha voluto ringraziare tutti gli amici “che con me condividono ideali democratici, pensieri di libertà e di antirazzismo, di fedeltà a quelle che furono le conseguenze della Liberazione: cioè la fedeltà alla Costituzione e la fiducia nella Repubblica”. E aggiunse: “l’auspicio che mi permetto di esprimere, in questo momento solenne per la mia vita, per il futuro e per l’umanità, è questo: viva la libertà!”. Un breve, sintetico e chiaro messaggio da parte di un uomo che ha attraversato un intero secolo a testa alta e che non si è mai sottratto ai suoi doveri di democratico offrendo un lucido contributo sui temi a lui cari, iniziando dalla libertà di stampa anche in questi periodi difficili segnati da crisi, guerre ed enormi incognite sul futuro. Nelle ultime righe di quella sua intervista autobiografica affermava di voler essere ricordato come una persona che si è sempre opposta a tutti i tentativi di prevaricazione e d’imposizione forzata sia essa politica o religiosa. Con una punta di scaramantica civetteria aveva rivelato che sul suo sepolcro voleva fosse inciso un motto di Saul Bellow: “Qui giace un vinto  dalla morte  che non si è mai arreso”. Ed effettivamente è stato così.

Marco Travaglini

 

Sebastiano Vassalli e le sue terre d’acque

Il 26 luglio di otto anni fa si spegneva dopo una malattia fulminante e incurabile, avvolta nel più stretto riserbo, lo scrittore Sebastiano Vassalli.

Genovese di nascita (con madre toscana e padre lombardo) e novarese d’adozione, nella “terra d’acque” (come s’intitola anche uno dei suoi romanzi) ambientò alcune delle sue opere più significative, come Cuore di pietra, romanzo storico pubblicato nel 1996 da Einaudi nella collana Supercoralli, dove la maestosa casa del conte Basilio Pignatelli s’intuisce essere la novarese Villa Bossi, splendida dimora sul baluardo Quintino Sella, all’angolo con via Pier Lombardo. Laureatosi in Lettere con una tesi sull’arte contemporanea e la psicanalisi con Cesare Musatti ( il controrelatore fu Gillo Dorfles),Vassalli è stato uno dei più grandi scrittori italiani. Tra le sue opere, tradotte in molti paesi, una in particolare gli consentì di conoscere un importante successo nel 1990 quando gli venne assegnato il Premio Strega per La chimera, romanzo storico ambientato nella campagna novarese del Seicento. Il libro narra la storia di un processo (un episodio realmente accaduto) a una strega nella Milano dei Promessi Sposi, risalente al 1628. E la “chimera” altro non era che il monte Rosa per come appariva allo sguardo dei contadini che, tormentati dall’afa e chini sulle risaie del novarese, alzavano gli occhi verso l’orizzonte e vedevano stagliarsi lontano il massiccio della montagna innevata. Nelle opere di Vassalli la componente territoriale ha sempre avuto una rilevanza particolare, con la cornice del Piemonte e in particolare delle “terre del riso” nelle pianure a nordest. Nel 2011, Franco Esposito (poeta, direttore della rivista Microprovincia di Stresa) curò la monografia “La parola e le storie in Sebastiano Vassalli”. Un modo intelligente per festeggiare l’autore di tanti libri importanti da Abitare il vento a La notte della cometa ( romanzo sulla vita del poeta Dino Campana) , ai già citati Cuore di pietra e La chimera fino agli ultimi, molto belli, Le due chiese, Terre selvagge , Il confine e Io, Partenope. In quel numero della rivista, unendo gli sforzi editoriali delle Edizioni Rosminiane a quelli della novarese Interlinea, vennero proposti testi dello stesso Vassalli, belle foto e disegni oltre agli scritti di una lunga serie di intellettuali e letterati come Giorgio Bárberi Squarotti, Roberto Cicala, Franco Cordelli, Fulvio Papi e altri. Dalla prima stagione di Vassalli e dall’esperienza con la neoavanguardia del “Gruppo 63” all’originalissima cifra della sua opera letteraria, dal suo grande amore per la poesia alla fedeltà rara alla Einaudi (la casa editrice dello Struzzo) scorrendo le pagine di Microprovincia si intravvedeva tutta la complessità di questo scrittore straordinario. Una figura importante per la letteratura ma anche per il giornalismo al quale dedicò molte collaborazioni con le principali testate, da La Stampa, il Corriere della Sera e La Repubblica. Vassalli, uomo estremamente riservato, nel tempo aveva stretto un rapporto molto personale con la seconda città del Piemonte, il suo dialetto appartenente al ramo occidentale della lingua lombarda, il carattere degli abitanti e i luoghi novaresi. La cascina Marangana di Biandrate era il suo rifugio letterario,un buen retiro immerso tra le risaie a una dozzina di chilometri da Novara. Sulla porta d’ingresso di questa ex canonica trasformata in abitazione campeggia una scritta lapidaria, che vale più di tanti discorsi: i soli stanno soli e fanno luce. Vassalli sosteneva che “il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie“. E aggiungeva: “Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde a una necessità degli esseri umani, a un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi la ascolta“. La casa è ora un museo grazie al progetto dell’archivio Sebastiano Vassalli. Una felice intuizione tesa a costituire un centro di consultazione pubblica, a beneficio di studiosi e di quanti vorranno consultare il patrimonio culturale di questo grande scrittore.

Marco Travaglini

Addio al decano dei costruttori, protagonista dell’edilizia

La sua impresa in tanti anni ha costruito decine di edifici a Cuneo. È morto il geometra Bruno Artusio, aveva 94 anni. Trasferitosi Isola d’Asti, divento geometra, negli anni ’50 insieme ai fratelli Adolfo e Franco ha fondato la Artusio Costruzioni. Nella sua lunga carriera è stato anche presidente di Ance Cuneo, vice presidente della Cassa rurale e artigiana di Boves e consigliere comunale a Cuneo per il partito Liberale. Era vedovo della moglie Marisa Giraudo e lascia i figli Riccardo, Paola e Roberto, nipoti e pronipoti.

NOTIZIE DAL PIEMONTE

Carlo Borra, cristiano. Un convegno a Pinerolo

Uno straordinario testimone di impegno laico cristianamente ispirato questo é stato Carlo Borra. Nel venticinquennale del la morte, per fare memoria ma anche riconoscerne l’eredità, a livello locale, regionale e nazionale, nel la dimensione ecclesiale e sociale, sia sindacale che pol itica si terrà venerdì 15 dicembre dal le ore 15 alle ore 18, presso i l Salone Engim, via Regis 34 a Pinerolo i l convegno: “Carlo Borra, un cristiano pinerolese impegnato nel sindacato e in pol itica” un incontro che rappresenta anche, per la pastorale sociale diocesana la consueta formazione al socio-politico e alle radici del la partecipazione. L’evento, promosso da Ufficio Pastorale Sociale & Lavoro del la Diocesi di Pinerolo, Cisl Area metropol itana Torino-Canavese e Fondazione culturale “Vera Nocentini” ricorderà l ‘uomo che, formatosi nel l ‘Azione Cattol ica, amico del Venerabile don Giovanni Barra, fu segretario del la Camera del Lavoro di Pinerolo per la corrente cristiana nel 1945 e, in seguito al la scissione del 1948, segretario del la Lcgl , e poi del la Cisl territoriale di Pinerolo. Dal 1956 al 1962, anno in cui venne eletto parlamentare nel le liste del la Democrazia
Cristiana, ricoprì il ruolo di Segretario generale del la Cisl di Torino, amico,
collega e successore di Carlo Donat-Cattin.
Intervengono, dopo il saluto del Vescovo di Pinerolo, monsignor Derio Olivero e del Sindaco Luca Salvai, la figlia di Carlo Borra, Mariella, il direttore Ufficio Pastorale Sociale e & Lavoro, Giancarlo Chiapello (che introduce), Gianfranco Astori, lo storico Lorenzo Tibaldi, i l vice presidente e la direttrice del la Fondazione Vera Nocentini , Tommaso Panero e Marcel la Filippa, gl i ex
segretari Cisl di Pinerolo e Torino, Franco Agliodo, Tom Dealessandri e Nanni Tosco (che modera l’ incontro) e l ‘attuale segretario generale Cisl, Domenico Lo Bianco, che conclude i lavori.

Violenza negli stadi e sport, trend in aumento

Luca Pantanella (FSP): “in 4 anni oltre il 40% in più di incontri con feriti, urgono pene più severe”.

Violenza e sport, urgono pene più severe. Dal 2019 al 2023 si registra un +43% di incontri con feriti e un +73% di feriti tra le Forze dellOrdine. Occorre agire sulla falsariga del primo Daspo della storia, quello assegnato nel 59 dopo Cristo da Nerone all’anfiteatro di Pompei in seguito alla memorabile zuffa con gli storici antagonisti di Nocera durante i giochi. L’imperatore lo chiuse per dieci anni, e gli autori esiliati. Sono i dati per nulla confortanti resi noti da Luca Pantanella, sindacalista FSP Polizia di Stato promotore del convegno nazionale del 4 dicembre scorso svoltosi nel capoluogo piemontese all’Auditorium dell’Educatorio della Provvidenza “Sport, salute e legalità: i rapporti tra tifoserie, società sportive e forze dell’ordine” introdotto dai saluti istituzionali della Questura di Torino e patrocinato da FSP Polizia di Stato e A.l.s.i.l. Onlus, Associazione per la Legalità e la Sicurezza sul lavoro.

Tra i relatori, moderati dal criminologo Antonio Zullo, Franco Maccari (Vice Presidente FSP), Alfredo Trentalange (Dirigente Benemerito A.I.A), Malù Mpasinkatu (Direttore Sportivo e opinionista tv), Manuel Toscano (psicologo dello sport per l’area Juventus) e Giampietro Moscatelli (Direttore Cnims–Centro Informazione Manifestazioni Sportive Polizia di Stato). Occorre tutelare l’incolumità degli agenti – chiosa Pantanella – per cercare di contenere la spesa per l’ordine pubblico salita in media dell’8% annuo nell’ultimo biennio a causa delle maggiori turnazioni. Il problema risiede altresì anche nel continuo allocamento eccezionale di unità impiegate nella sicurezza di eventi a discapito del consuetudinale pattugliamento del territorio in funzione di prevenzione alla criminalità”.

TFF: “Non riattaccare”, un’altra grande prova per Barbara Ronchi

Nei mesi del lockdown, il chiuso delle proprie case e le chiusure agli altri obbligatorie, i rapporti pressoché azzerati, le notti come spazi di pace. Ma non per tutti. Quando è ancora tutto immerso nel buio, quando nella strada passano soltanto le luci e la sirena di una autoambulanza, Irene viene svegliata dall’ex Pietro, non lo sente da tempo, l’agitazione di lui, una voce stanca e rotta, se ne sta in bilico sul tetto della casa di Santa Marinella, chiede il suo aiuto. Sono le prime scene di “Non riattaccare”, unico italiano in concorso, tratto liberamente dal romanzo di Alessandra Montrucchio, scritto (con Jacopo Del Giudice: un thriller? una seduta psicanalitica?) e diretto da Manfredi Lucibello, classe 1984, fiorentino, arrivato alla sua opera seconda, dopo “Tutte le mie notti” di cinque anni fa. Una sorta di felicissimo risultato, un capolavoro di scrittura e di resa nel cuore del TFF, che guarda alla Magnani disperata in piena area Cocteau e quel “Locke” inventato dal regista inglese Steve Knight per Tom Hardy, raccontato nel chiuso di un’auto.

Perché anche qui, non potendo rinunciare a quel sentimento che ancora le sta stretto nel cuore, in fondo un rapporto mai terminato, Irene è pronta a mettersi in macchina, a combattere con la benzina che è sempre più in riserva e con i distributori chiusi, con il cellulare che va scaricandosi e un caricabatteria da rubare, con i porci che vorrebbero approfittarsi di lei e un paio di poliziotti che le fanno rovistare nella borsa pur di ritrovare libretto patente e permesso di circolazione, soprattutto con i dialoghi di Pietro (un Claudio Santamaria invisibile, una voce soltanto, ma capace di farsi personaggio concreto e autentico attraverso un lamento, una parola precisa o una frase che chissà dove porterà il dialogo dei ricordi, delle insinuazioni, delle cose taciute e di quelle troppo urlate) che va guidato, tenuto a bada, terrorizzato o sorretto con amore. Difficile tenere per 90’ ben alta e salda la tensione, far filtrare all’attenzione dello spettatore – che si spera non venga mai meno – un passato e un presente, rifuggire i luoghi comuni, costruire emozioni vere e giuste invenzioni sonore: Lucibello ci riesce appieno, non un attimo di ripetizioni o di noia, circondato da un gruppo di collaboratori – Emilio Costa direttore di fotografia, Diego Berré con un montaggio da applauso, le musiche ossessionanti di Motta – di primissimo ordine.

Poi, c’è Barbara Ronchi al centro della vicenda, di ogni racconto, di qualsiasi sensazione, di ogni sguardo. Un’attrice che quest’anno s’è vinta un David e un Nastro, che è la cancelliera della Tataranni e ti diverte, che scala le montagne più alte del drammatico: e ti convince. Guardare i gesti convulsi, la disperazione e gli affetti riscoperti e trovarti davanti ad un’attrice che ad ogni prova ti piace riscoprire, analizzare. Un miracolo di intelligenza e di dedizione.

Fuori concorso, torinese ormai sessantenne, regista intimista e pronto a cavalcare la gioventù di Montalbano, Gianluca Tavarelli punta al divertimento e all’analisi del nostro tempo con “Indagine su una storia d’amore”, sovvertendo, capovolgendo lo sguardo drammatico con cui aveva affrontato la coppia in “Un amore” nel 1999. Oggi, lo sguardo è su Paolo e Lucia, anni insieme ma un rapporto che si sta esaurendo, una vita d’attori che non gira, un paio di pose di tanto in tanto, un provino che chissà dove porterà, il cinema indipendente a secco di quattrini e la grande produzione sempre soltanto sognata. E se ci fosse data la possibilità d’affrontare le telecamere di una tivù, la possibilità di raccontare la nostra storia, vedrai andrà tutto bene, cominceremmo a entrare in milioni di case d’italiani, la gente ci riconoscerebbe, finalmente arriverebbero le scritture. Paolo recalcitrante, Lucia al colmo dell’entusiasmo. Ma se telecamera è, il racconto deve essere completo, senza censure, del tutto scoperto. Si dovrà raccontare un passato, con i continui ardori sessuali di lui (è Alessio Vassallo, il femminaro Mimì, compagno e giovane sciupafemmine del giovane Montalbano; lei è Barbara Giordano), le bugie, tutto un entroterra sconosciuto cui entrami cercheranno di sottrarsi, bisognerà affrontare i genitori di lui che non riescono neppure più ad uscire di casa e un intero paese che ha decretato l’ostracismo. Lo spunto poteva essere buono, forse ottimo (considerato il mondo sciupato della televisione e di certi suoi programmi con maggiore introspezione), se il tutto dopo la prima mezz’ora non si fosse risolto in una sequenza più o meno boccaccesca di incontri e sotterfugi e abbandoni. Anche la simpatia dei due interpreti in fin dei conti finisce per venire meno, lasciandoci supporre che il tentativo di Tavarelli, nonostante le risate del pubblico, nel territorio della comicità stia un po’ stretto e azzardato.

Un’isola a parte, “Luci dell’Avanspettacolo” è un gustosissimo affresco dentro il quale è lo stesso direttore del TFF, Steve Della Casa, come nuovo Virgilio degli anni Duemila, ad accompagnare lo spettatore che abbia deboli ricordi circa una forma d’arte che possiamo far partire dai cafè chantant degli anni Trenta (ma dovremmo risalire alla seconda metà del Seicento, in Francia, quando una compagnia italiana ebbe l’idea di frapporre ai versi alcune brevi canzoni), che ebbe il proprio periodo più felice durante la guerra e il periodo postbellico, per spegnersi con i varietà televisivi dei Settanta. Un affresco che è dovuto ad un’idea di Antonio Ferraro e alla regia di Francesco Frangipane (gli stessi produttori di “Non riattaccare”: Carlo Macchitella scomparso di recente, Piergiorgio Bellocchio e i Manetti Bros.), 70’ di ricchezza di materiali, conosciuti e no, nel vorticoso montaggio di Annalisa Schillaci, con attori e registi di oggi – Lillo e Greg, Antonio Calenda, Massimiliano Bruno, Enrico Vanzina, Gino e Michele, David Riondino e Margherita Fumero (“rivedo ancora quando a sei anni mia mamma mi accompagnò al Maffei, a me del film non importava nulla, furono le ballerine a colpirmi… e poi la Osiris, magari dalle doti artistiche non altissime ma bella come una dea… e l’arte di Macario!”) a raccontare di Petrolini, di Totò e Fabrizi, della grandiosa Magnani, di Billi e Riva, di Franco e Ciccio, dei primi approcci di Gina e Sofia, pronte a sgambettare e a sgomitare, delle tante gag inventate e divenute un repertorio, dei gatti morti lanciati in palcoscenico, degli scambi di parole e di gesti non sempre al colmo della gentilezza con il pubblico che aveva le proprie esigenze, degli inviti e dei pranzi scroccati ad un nobilotto di paese quando le compagnie, poverissime, si avventuravano per le strade d’Italia, gli alberghi che rifiutavano le notti nella paura di non essere pagati, le soubrette che avanzavano qualche trattamento di favore e le soubrettine che avrebbe continuato a restare relegate in terza o quarta fila, per tacere di quelle che in qualche maniera s’aggiustavano. Con il gran bagaglio di costumi ridotti, di cosce bene in vista, dei mazzi di fiori degli ammiratori. Il vecchio avanspettacolo avrebbe lasciato il posto alla rivista, e alla commedia musicale in seguito. Ognuno racconta e testimonia, cattura immagini anche cinematografiche, da “Luci del varietà” (1951) con cui Fellini e Lattuada ruppero un sodalizio rivendicando una controversa paternità, a “Vita da cani” firmato da Monicelli e Steno, che approfittarono dei bisticci dei colleghi per uscire prima nelle sale, a “Ci vediamo in galleria” di Bolognini (1953), che sognava su quel luogo di riunioni, di scritture sognate, di successi e insuccessi, a “Polvere di stelle” dove Sordi e la Vitti – come si fa a dimenticare Mimmo Adami e Dea Dani? – riuscivano a resuscitare del tutto un’epoca. Ma era un’epoca che terminava, il pubblico a teatro aveva altri gusti e altri beniamini: ci avrebbe ancora provato Bramieri con il suo sonoro “Felicibumtà”. Ma eravamo arrivati alla fine degli anni Settanta.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Barbara Ronchi, interprete di “Non uccidere”, una scena di “Indagine su una storia d’amore di Gianluca Tavarelli e un momento di “Luci del varietà” per la regia di Fellini e Lattuada, tra gli interpreti Giulietta Masina e Peppino De Filippo.

Incontro sulle problematiche del carcere minorile

“Per ragionare di carcere minorile con coscienza di causa è necessario conoscerne a fondo i meccanismi e le dinamiche che lo governano. Sono convinto sia quanto mai necessario che le istituzioni e i soggetti interessati si impegnino per approfondirne la realtà e trovare le soluzioni più adatte per far sì che l’esperienza della detenzione rappresenti sempre più, per i giovani, un’opportunità di recupero e di reinserimento nel tessuto sociale”. Lo ha dichiarato il componente dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale Gianluca Gavazza in apertura dell’incontro Il carcere minorile contemporaneo. Parliamone! che si è svolto al Circolo dei lettori di Torino.

Organizzato dall’Assemblea legislativa piemontese attraverso gli uffici dei Garanti regionali dei detenuti e per l’infanzia e l’adolescenza, è il primo di una serie di incontri per riflettere sul passato e sul presente del carcere minorile e immaginarne il futuro.

“Avere a disposizione 25,3 milioni di euro del Pnrr per l’ambito penitenziario piemontese – ha sottolineato il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano – è un’occasione per ripensarne e umanizzarne gli spazi affinché da luoghi di detenzione possano davvero diventare luoghi di riabilitazione e rieducazione per dare finalmente attuazione al decreto 121 del 2018 che ha introdotto un ordinamento specifico per i minori e ha previsto attività e attenzioni concrete all’affettività e alle relazioni familiari nell’esecuzione penale minorile”.

Il sociologo Franco Prina ha sottolineato come la riforma del processo penale minorile, avvenuta trentacinque anni fa, abbia rappresentato una sorta di grande esperimento sociale per trattare i reati e gli autori di reato. “Oggi – ha aggiunto – i minori in carcere in Italia sono non più di 400, di cui solo la metà è davvero minorenne, mentre circa 21.000 sono quelli che vivono in comunità o sono presi in carico dai servizi sociali e 6.700 quelli messi alla prova. Siamo però chiamati a nuove sfide, poiché i giovani detenuti di oggi non sono più tanto i figli dell’immigrazione dal sud al nord quanto i minori stranieri, spesso non accompagnati, con forti problemi legati alla lingua, alla cultura, allo sfruttamento e alla mancanza di reali opportunità di studio, di integrazione e di lavoro”.

Sulla situazione dei minori stranieri non accompagnati si è soffermata la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Ylenia Serra, ricordando che “vengono spesso catapultati da situazioni drammatiche in un mondo che non conoscono e che si illudono possa realizzare tutti i loro sogni, cadendo vittime della frustrazione quando si rendono conto che quanto immaginato non corrisponde alla realtà”.

La garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo ha identificato tra i problemi aperti al Ferrante Aporti “la carenza di direttori stabili, la progressiva diminuzione dei servizi di neuropsichiatria infantile e il fatto che non si facciano più i test tossicologici a chi entra perché ritenuti troppo costosi”.

“A fronte della recente tendenza secondo cui dei quaranta ospiti dell’Istituto minorile Ferrante Aporti solo i due terzi sono minorenni – ha aggiunto – si registra una presenza di circa centotrenta detenuti tra i 18 e i 24 anni nel carcere per adulti”.

Don Ettore Cannavera, infine, ha raccontato la propria esperienza all’interno del carcere minorile di Quartucciu (Ca) e quella di coordinatore della “Comunità La Collina”, una sorta di carcere alternativo in cui i minori autori di reato vengono “educati al rispetto di sé e delle regole in un clima di relazione che mira a svilupparne le potenzialità umane e spirituali”.

Al termine dell’incontro – cui sono intervenuti il neodirettore del Ferrante Aporti Giuseppe Carro, l’assessore alle Politiche per la sicurezza del Comune di Torino Gianna Pentenero e l’architetto penitenziario Cesare Burdese – Mellano ha annunciato che il secondo incontro sul tema si svolgerà, sempre al Circolo dei lettori, mercoledì 13 dicembre.

La magia delle cose. Il segno magistrale dell’ incisore Guido Navaretti

 

Una punta di bulino, affilata con sapienza, incide delicatamente il plexiglass. Sottilissime linee si dipanano formando tessiture e onde, vortici e spazi, orientandosi variamente sulla superficie liscia, perfetta. Da questi emergeranno e prenderanno forma suggestioni di oggetti, animali, ricordi ed emozioni.

Guido Navaretti iniziò come incisore su lastra di zinco nel 1976, terminata l’Accademia di Belle Arti, ma gli orientamenti del mercato artistico e la difficoltà a reperire il materiale lo hanno portato a lavorare sul vetro sintetico dal 1999: il polimetilmetacrilato (plexiglass). E le dimensioni iniziali delle sue opere, piuttosto importanti, dagli anni Ottanta Novanta si sono portate a un formato più piccolo e agile.

Ma il cambio di formato, come il variare continuo in generale, non gli interessa: egli utilizza attrezzi, inchiostri e misure ben definiti, costanti nel tempo, perché il cambio delle aree di lavoro e dei mezzi deconcentra e sposta l’ attenzione verso il ridimensionamento continuo delle idee, della materia e dello spazio. L’ abitudine permette di concentrarsi sulla creazione. E, a tal proposito, dall’amato Oriente cita un altro suggerimento: il miglior modo di essere liberi è avere dei confini… Nel cambiare supporto, quindi, l’Artista ha invertito la risultante dell’ immagine: mentre sullo zinco il segno accoglierva l’inchiostro nero, lasciando bianca la superficie intonsa (calcografia: nei solchi rimane il nero), su plexiglass egli lavora in negativo, lasciando bianchi gli spazi dove il rullo di inchiostro nero non lascerà il colore (xilografia, da “scrittura su legno”: nei solchi rimane il bianco, e in questo caso possiamo parlare di metacrilatografia o plexigrafia). Il lavoro scelto da Navaretti è, quindi, in negativo, l’antitesi del pensiero precedente. E cambia un mondo, “L’altro mondo”, come dice sorridendo il Maestro. Ma questa scelta non è un problema, bensì una nuova risorsa, un universo da scoprire. Ed è molto interessante, nel leggere i suoi appunti, come Egli si collochi rispetto a un determinato utilizzo del colore nero (quindi riferito alle aree risparmiate dal segno), rifuggendo dal valore espressivo, politico, enunciativo, spigoloso, massivo, politicamente e socialmente forte che lo hanno spesso connotato, dalle opere d’arte, ai manifesti, alla fumettistica: il nero, nel suo segno, mantiene la leggerezza necessaria a dialogare con il bianco, in una danza di reciproco riconoscimento, perdendo i caratteri che nel Novecento questo non-colore o massimo-colore ha spesso assunto.

Il gesto, ben controllato nel suo lento incedere, lascia che le forme emergano. E al gesto contribuisce fisicamente tutto il corpo, facendo convergere la giusta tensione verso lo strumento, sotto occhi attenti, aiutati da una grande lente illuminante. Il segno deve essere presente, visibile, non andare oltre le possibilità visive di chi osservi. Sottile ma solido e definito, chiaro e senza fraintendimenti: gesto e artista si assomigliano? Il bulino, nell’utilizzo, tende a lidersi e a inspessire le linee, ma questo non è necessariamente un intoppo, bensì una suggestione che lo strumento stesso regala, spostando di qualche grado la traiettoria dell’ invenzione. E seguirà un’altra passata sul disco abrasivo, la carta seppia e la pietra Arkansas.

L‘incidere è scavare, nella materia e nella memoria, in uno sforzo di rappresentazione. E il nero e il bianco sono concettualmente alla base della tecnica dell’ incisione e riportano al principio di yin e yang, gli opposti che si contrastano e equilibrano, scambievoli e non assoluti, suggestione concettuale e spirituale alla quale il Nostro é sensibile, come ad altri contenuti legati alla cultura orientale. Ci torneremo.

Per Navaretti, il disegno, l’ arte, necessitano innanzitutto di essere artigianato da praticare con costanza, sempre quando possibile, senza cercare precise mete finali o medaglie, accreditamento presso questa o quella corrente, classificazione, plauso di claque: l’ arte é per lui un gesto naturale della quotidianità, come tutto ciò che riempie le giornate, e che richiede solitudine, nel senso alto di libertà da ogni influenza, senza impellenze pressorie. Ed è un gesto che della vita risente, ma sempre fluendo col resto, nella complessità, nella entropia degli eventi.

L’ Artista torinese non sa dove finirà la propria opera, quando la inizia: lascia che sia lei stessa a disvelarsi, a modellarsi sotto le mani, a suggerire; non teme l’errore, che troverà senso nel contesto; non persegue un progetto -magari nato da una bozza preparatoria- lavorando per la sua realizzazione. Improvvisamente, poi, emerge la chiave di volta e appare la soluzione di questo vagare: un buco da riempire, una sagoma portata a galla, una modifica alle onde ed ecco che prende forma precisa, puntuale, l’oggetto, animato o inanimato che sia, e il lavoro arriva a compimento. L‘incisore non cerca l’ispirazione, dunque, ma trova la risposta nel fare stesso, nel divenire dell’atto creativo: è il soggetto stesso che si disvela. E la memoria corre a Picasso e al suo “Io non cerco, trovo”.

Navaretti pare assimilare idealmente questo procedimento alle sue amate passeggiate, dove si lascia pervadere dal mondo circostante, osservando la vita scorrere in quel preciso momento, accogliendo l’ hic et nunc, e si porta a casa un ricordo, una emozione; a volte un dolore, un turbamento. Perché questo incedere è sempre un viaggio, lo stesso che percorre il suo bulino mentre nel silenzio lascia che le emozioni, le memorie inconsapevoli, tornino e prendano libera forma. Ed è un viaggio affettuoso nelle cose, che si presentano nella loro semplicità, come manifestazione di sé e testimonianze del mondo. Ed è lo stupore di esse. Talvolta i soggetti presenti nelle opere propongono domande, si trovano in situazioni ambigue, sospese come le risposte possibili, appena suggerite. E’ dunque un vagare nella vita.

Osservando le opere del Maestro l’occhio si perde in linee che formano nuvole, tessiture, che per pareidolia mostrano a ognuno forme diverse, accenni, suggestioni, e da questo sfondo emergono, con tecnica descrittiva definita e sopraffina, oggetti e animali, piante e fiori. Ma Navaretti chiede di non limitarsi a pretendere un riscontro retinico delle cose, un iperrealismo asettico, ma di accettare la rilettura che, pur puntuale, genera la mente-occhio dell’ incisore. Come nascono le immagini, da dove arrivano? L’incisore torinese si racconta e conduce verso la comprensione del proprio atto creativo, che nasce lasciando fluire la mano, il segno spesso seriale, ripetitivo, come in molte opere degli Anni Novanta e Duemila, pulviscoli e tessiture che addensano e ràrefano la luce, oppure composto da matasse di fili sottili come capelli, in genere a rappresentare dinamici e cangianti sfondi. La finezza del segno crea paesaggi preziosi: boschi, turbinii, spazi che dividono la tela (anche metaforicamente parlando) in modi diversi: nuvole dense di accenni o divisioni orizzontali, oppure diagonali, riportando volutamente ai contrasti del pensiero orientale. Si osservano spesso due piani visivi differenti, l’uno sull’altro.

 

Le opere trovano un titolo quasi sempre una volta terminate, dando compiutezza al lavoro, concludendone l’articolato percorso e aprendo la strada a una nuova esperienza: e questo l’Autore lo fa spesso con ironia, giocando con le parole, con citazioni di poesie, di motti, di testi sacri, di neologismi scherzosi. Ad esempio, “Scampo?, 2020”, “Campo?, 2021”

Viddi ‘na cozza, 2021” o “Palla al centro, 2023”.

E trova spesso ispirazione nell’ opera del poeta giapponese Matsuo Bashō (1644 – 1694) del periodo Edo, del quale ci pare importante segnalare questi versi significativi, nel chiarire il concetto taoista di “La via, la strada”: ”(…) I propositi iniziali, per non diventare fonte di frustrante impotenza, vanno posti e perseguiti con la serena consapevolezza che il Tempo e la strada da percorre sulla lastra influiranno sulla loro teoretica (N.d.r. Filosofia della realtà e della conoscenza) chiarezza. Tempo del lavoro ed il lavoro del Tempo, apriranno imprevedibili sviluppi che – del proposito iniziale – lasceranno intatto solo la spinta ideale, non i freddi e inumani condizionamenti”.

Opere riferite a Bashō: “Riemerge la rana di Bashō, 2014” e “Takotsubo o del vaso da polpi di Matsuo, 2023”

Terminato questo nostro incontro ideale con l’Artista torinese, ci troviamo a constatare che le sue opere veicolano non solo una grande competenza tecnica e contenuti artistici solidissimi, ma anche ironia e stupore, amore per l’amicizia e la convivialità, lo scambio, il sorriso; a ricerca interiore; uno sguardo aperto al divenire degli eventi, accettandone la complessità e l’appartenere a un Disegno imperscrutabile. E quindi ci piace immaginare l’incisore Guido, Torino, XXI secolo, congedatosi dal mondo esterno, chinarsi sul suo banco e, in compagnia del fedele bulino, adagiare sulla carta la magia delle cose.

Davide Ficco

 

Guido Navaretti é nato a Torino nel 1952 e, terminato il Liceo Artistico, nel 1975 si diploma in Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti ottenendo il Premio Dino Uberti come miglior licenziato del Corso e il Premio Vittorio Avondo, come miglior licenziato di tutti i Corsi. Nell’ incisione é allievo di Mario Calandri e Francesco Franco. Dal 1986 inizia il rapporto con quella che nel 1989 diverrà la “Franco Masoero Edizioni d’Arte”, eccellenza nella tecnica della stampa, con la personale alla Stamperia del Borgo Po. Nel 1999 inizia la produzione a bulino di matrici xilografiche e la pubblicazione sulla rivista Smens, edita da “Nuova Xilografia”, oltreché la partecipazione alle sue iniziative editoriali. Ha insegnato presso i Licei Artistici di Milano, Novara e Torino. Le sue incisioni sono presenti in decine di esposizioni in tutto il mondo; recentissima, la Victoria & Albert Museum di Londra.