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Il libro sulle mongolfiere

Nella penombra della soffitta, accanto ad un grande armadio tarlato, un vecchio e impolverato baule da viaggio era colmo di vecchie riviste del Touring, cartoline illustrate e libri che parlavano di viaggi, esplorazioni, avventure. Tra i tanti documenti facevano bella mostra di sé alcune annate della “Domenica del Corriere”, con le copertine di Walter Molino e Achille Beltrame. Il permesso di frequentare questo luogo misterioso l’avevo ottenuto dal proprietario della soffitta,l’avvocato Attilio Rosini. Da giovane, quello che nel tempo era diventato uno dei principi del foro di Varese per poi ritirarsi in pensione sul lago Maggiore, aveva collaborato con il Touring Club Italiano. In quegli anni spensierati, prima di darsi all’avvocatura, aveva viaggiato molto, accumulando materiali e documenti. Seduto sulla sua vecchia poltrona, rovistando tra le carte, mi è capitato tra le mani un vecchio libro rilegato: “La storia dei primi voli in mongolfiera“. Presi a sfogliarne le pagine, incuriosito. Volare era stato il sogno degli uomini dalla notte dei tempi. La leggenda di Icaro e la sua triste fine dimostravano che l’ambizione di librarsi nell’aria come uccelli era pressoché irresistibile, nonostante la paura. Già Leonardo da Vinci, con il suo straordinario estro, aveva compiuto studi  sulle leggi dell’aerodinamica, tracciando disegni e modelli di macchine volanti. Ma solo da poco più di due secoli la sfida, perfezionandosi di volta in volta, era entrata nel vivo. “I primi esperimenti di volo in mongolfiera furono fatti il 19 settembre 1783 dai fratelli Mongolfier usando come passeggeri una pecora, un gallo e un’anitra. Riuscirono a volare dentro ad un canestro legato ad un pallone ad aria calda per circa tre chilometri“. I due fratelli, Joseph Michel  e Jacques Étienne nati da  una famiglia di ricchi fabbricanti di carta ad Annonay, un paese  della Francia a sud di Lione,  erano convinti che accendendo un fuoco sotto la bocca del pallone si sarebbe prodotto un gas molto speciale, più leggero dell’aria, che loro ribattezzarono il ”gas dei Mongolfier”. Il loro gas – che Joseph, il più anziano dei due, credeva dotato di una specifica proprietà che definì “lievità” – salendo verso l’alto,  gonfiava l’aerostato e così il rudimentale pallone  s’ alzava in volo tra stupori e incredulità. In realtà, “questo gas non aveva nessuna proprietà magica, ma era solamente aria che al calor del fuoco diminuiva il suo peso specifico e saliva all’interno dell’involucro portando con sé in alto il pallone aerostatico“. Il 4 giugno del 1783 la loro invenzione venne fatta volare nella prima dimostrazione pubblica ad Annonay, di fronte a un gruppo di notabili degli “etats particulars“. Il volo coprì la distanza di un paio di chilometri, durò una decina di minuti e raggiunse un’altitudine stimata poco al di sotto di duemila metri.” E così“, riflettevo sfogliando le pagine del vecchio libro, “si era avviata la conquista del cielo“. Anche se, a dire il vero, pure gli italiani ci misero lo zampino. Pare infatti che un toscano di Lucca, Vincenzo Lunari nello stesso periodo delle imprese dei due fratelli francesi,  compì un’ascensione in Inghilterra su un pallone gonfio di idrogeno.

 

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Per il primo vero viaggio in aerostato della storia fu necessario pazientare altri cinque mesi e mezzo, quando a Parigi  – il 21 novembre 1783 – Jean-Francois Pilature de Rozier ed il Marchese d’Arlandes, si cimentarono nell’impresa. Il primo manovrava il velivolo mentre al secondo era toccato il delicatissimo compito di alimentare il fuoco e tenere a bada con una spugna imbevuta d’acqua i carboni ardenti che minacciavano di incendiare la tela dell’involucro. Quando il pallone transitò nel cielo sopra la capitale la folla era in delirio. La palla volante del diametro di circa quattro metri, salì fino a 900 metri di quota e andò dolcemente ad atterrare a venti chilometri di distanza, più o meno là dove oggi sorge l’aeroporto Charles de Gaulle. Un mese dopo, nel dicembre di quell’anno straordinario, toccò all’inglese Cavendish provare il volo con il pallone a gas. Coprì la distanza di 43 chilometri e nell’occasione raggiunse la ragguardevole altezza di 2700 metri, dimostrando così che l’atmosfera si estendeva fino a grandi altezze. Dopo la Francia, l’Italia fu sicuramente il paese che dette il maggior impulso all’aerostatica, e un passeggero romano, salito in volo per la prima volta, disse che“Roma sembrava un campo seminato di pezze bianche come calcinaccio e il Tevere un filo sottilissimo”. Ben presto, l’eco e la tecnologia dilagarono in tutta Europa, “al punto che l’interesse nei meccanismi cinetici dell’atmosfera per la prima volta in quei tempi raggiunse le masse fino a trasformarsi in fattore di moda. La mongolfiera non era soltanto un insolito modo di spostarsi, ma anche un simbolo dei tempi, magari da indossare sotto forma di cappellino o da sfoggiare all’ora del tè stampato su porcellana”. Incredibile. Questo libro mi stava solleticando una certa idea che avrei senz’altro sottoposto al mio amico Roland Duprè, un ingegnere nautico svizzero. Giravo le pagine voluttuosamente, come se in ogni riga si nascondessero fantastiche scoperte. Non avrei mai pensato che uno come me, dotato di buona fantasia ma al tempo stesso abituato a esser realista, subisse con tanta forza il fascino del volo. “Nell’800 l’aerostatica ebbe il suo punto di svolta consolidandosi in poco tempo si diffuse in tutto il mondo. Scienziati e studiosi si misero al lavoro, compiendo ascensioni per migliorare i propri progetti e verificare le loro teorie . Il volo che in assoluto fece più scalpore fu quello di Charles Green che nel Novembre 1836 volò per 18 ore coprendo una distanza di 768 chilometri da Londra a Weilburg, nel ducato di Nassau. Questo aerostato fu costruito utilizzando 1800 metri di seta bianca e rossa e l’involucro conteneva 1981 metri cubi di gas illuminante“. Riposi il libro nel baule e mi allungai sulla vecchia poltrona di cuoio, chiudendo gli occhi. Sì, dovevo proprio parlarne con Roland. Forse lui avrebbe saputo dare una risposta alle mie fantasie.   1° puntata (continua)

Marco Travaglini

Il “Sogno” di Massimiliano Bruno, non troppo anarchico ma divertente

Massimiliano Bruno, sulla strada dei cinquanta, uno dei reucci del nostro cinema d’intrattenimento (è sceneggiatore e regista nonché a tratti attore, ha calcato il palcoscenico, a lui si devono titoli come “Notte prima degli esami” e “Nessuno mi può giudicare”, “Gli ultimi saranno gli ultimi” e “”Beata ignoranza”, certe incursioni in tivù con “I Cesaroni” o con “Boris”, ottimi sodalizi con Cortellesi e Papaleo), ha messo le mani dentro il Sogno di una notte di mezza estate shakespeariano – fino a domenica all’Alfieri per il cartellone del “Fiore all’occhiello” -, adattandolo con la volontà di “rendere più libera possibile la dimensione onirica, anarchica e grottesca”. Che vuol dire questo? Viviamo in tempi sfacciati, del tutto sghembi, stupidamente incrostati, dove tutto ci porta, anche con gli ormai pochi sforzi di un naufrago gruppo di persone, a cancellare la poesia, il silenzioso ritiro all’interno di un bosco, all’inseguimento di questo o quel carattere già bello che codificato. E allora fiato alle trombe, con tutta l’atmosfera di baccano possibile, al limite del rock, di luci che confondono, di azzurri intensi che sfacciatamente prendono il posto della pallida luna, di annebbiamenti che scendono in platea, fastidiosi, a reinventare il sogno, di voci che non essendo più capaci ad arrivare anche al pubblico che sta a fondo sala s’appiccicano quei microfoni sulla guancia che livellano urla e sospiri. (Anarchia?). Poi vivaddio c’è anche una buona dose di comicità (ed è questa che la vince sui tre aggettivi legati alla “dimensione” di cui sopra) che a Bruno regista va riconosciuta e che ci arriva (più nel secondo tempo, il primo s’è parecchio stiracchiato sino al sipario) da un quintetto squinternato e folle capitanato dal Bottom di Stefano Fresi (di gran peso, e non vuol essere una banale battuta fisica), impadronitosi di un linguaggio da componimento poetico stropicciato e ammodernato come meglio non si potrebbe.

La città di Atene, dove l’azione in parte si svolge, è diventa ad opera di Carlo De Marino un impersonale spazio da cui si entra e si esce in totale libertà, delimitato da incolori corde che scendono dall’alto e così la ricostruzione del bosco, dove parcheggiano all’occorrenza un grande carro intrecciato di fiori (ma poco usato) e il lettone di Titania, rifugio amoroso per Bottom per magia costretto alla sua pelosa testa d’asino. Allo scenografo si devono anche i fantasiosi e colorati costumi, di una Ippolita smanicata nel suo abito da sera dorato, pronta a riciclarsi nella favola in una Titania in guêpière nera (nella finale scena delle nozze la ritroviamo, con le altre due coppie che hanno rimesso a posto le primitive scelte amorose, con un imbarazzante immobilismo di tutti quanti, in abito bianco che manco una sfilata di Pignatelli) agli ordini del suo Oberon (prima è stato un Teseo in divisa), maestro di cerimonie in giacca azzurra chissà perché virato verso un’indole “cripto-gay”, pronto a saggiare le parti intime di quei maschietti che gli possano capitare a tiro. Come convincono le invenzioni circensi e fatate messe addosso a tutti gli altri, pantalonacci quadrettati, minuscole chitarre, cappellini e piume. In questa accelerata “anarchica” che il regista ha immesso in questo Sogno, male s’adattano Giorgio Pasotti (Teseo/Oberon) e Violante Placido (Ippolita/Titania), chiusi in un anonimato da cui per l’intero spettacolo non riescono ad uscire. Funzionano al contrario gli innamorati Alessandra Ferrara/Tiziano Scrocca e Claudia Tosoni/Antonio Gargiulo, il quintetto della recita con una sottolineatura in più per la filiforme Tisbe di Dario Tacconelli. Lode incondizionata al Puck di Paolo Ruffini, al ralenti e ragionatore, flemmatico e divertito, dispensatore di massime e della preghiera finale (“Se noi ombre vi abbiamo tediato non prendetela a male…”), che sa giocare con la voce in modo perfetto e che quasi diviene l’ossatura della commedia, costruendosi i vari personali interventi ogni volta come meglio conviene.

 

Elio Rabbione

Chiese e religione nel territorio di confine

Domenica 14 gennaio 2018, alle ore 15.30, sarà presentato l’atteso volume Chiese e vita religiosa a Cocconato. Storia, arte, tradizioni in un territorio di confine del Piemonte centrale, curato dall’antropologo Gianpaolo Fassino e da Franco Zampicinini. Proprio quest’ultimo, intorno al 1985 aveva iniziato una prima indagine sul campo del ricco patrimonio religioso capillarmente presente nel territorio cocconatese, che ha rappresentato il punto di partenza per progressivi approfondimenti sino a giungere, con il nuovo volume, ad un allargamento degli studi dagli edifici di culto alla vita religiosa nelle sue differenti sfaccettature, presentando una lettura non solo artistico-architettonica, ma anche antropologica e sociale della storia comunitaria. È un’opera fondamentale per la storia di Cocconato e più in generale per tutto l’Alto Astigiano e il Basso Monferrato. Attraverso 56 saggi e 24 approfondimenti, scritti da 20 autori (Renzo Bava, Carlo Calosso, Marina Cappellino, Franco Correggia, Cesare Emanuel, Gianpaolo Fassino, Luca Ghiardo, Achille Maria Giachino, Bernardino Elso Gramaglia, Piercarlo Grimaldi, Marta Longhi, Monica Marello, Barbara Massa, Davide Porporato, Valeria Regondi, Aldo A. Settia, Alessia Tabbia, Salvatore Vacca, Giuseppe Vatri, Franco Zampicinini), il volume mette in luce rituali, devozioni popolari, figure di religiosi, storie di famiglie, tradizioni, facendo emergere i complessi e articolati rapporti fra clero e comunità locale. Il volume è l’esito di un originale e prolungato lavoro di ricerca condotto dagli autori sia negli archivi storici che sul territorio, offrendo quindi numerosissimi dati nuovi e inediti.

Grazie al coinvolgimento di studiosi, esperti in specifici campi, è stato così possibile dare forma a questo corposo volume, di 784 pagine, articolato in quattro parti (organizzazione territoriale della chiesa, edifici religiosi, clero, forme e pratiche della vita religiosa) che affronta in modo approfondito e multidisciplinare, anche se inevitabilmente non esaustivo, la sfera religiosa che dall’epoca medievale ad oggi ha interessato l’ambito cocconatese; l’approccio alle diverse tematiche non è stato tuttavia circoscritto alla realtà locale, ma contestualizzato nell’ambito più ampio del Piemonte centrale, tra Monferrato e Collina Torinese. Il libro infatti non racconta solo la storia di Cocconato, ma intreccia vicende di numerosi altri borghi collinari: da Montechiaro d’Asti ad Alfiano Natta, dal Sacro Monte di Crea a Castelnuovo Don Bosco, da Castelletto Merli ad Aramengo. Un’ampia documentazione iconografica, in buona parte inedita, costituita da ben 1152 immagini, tra fotografie d’epoca e attuali, disegni progettuali, mappe, documenti d’archivio, accompagna tutti i saggi. Il volume si pregia della presentazione del vescovo emerito di Casale Monferrato Alceste Catella, del parroco don Igor Peruch, del sindaco di Cocconato Monica Marello, di Franco Correggia (presidente dall’associazione Terra, Boschi, Gente e Memorie, che ha pubblicato il libro), nonché delle significative prefazioni del rettore dell’Università del Piemonte Orientale Cesare Emanuel e dell’antropologo Piercarlo Grimaldi. Il volume in grande formato, è edito dall’associazione Terra, Boschi, Gente e Memorie di Castelnuovo Don Bosco, nella collana “Monografie” ed è stato stampato dalla prestigiosa Tipografia Vaticana. È distribuito da Editeno snc di Castelnuovo Don Bosco. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0119927028, info@italianwinetravels.it; franco.zamp@virgilio.it; fralar@libero.it. La presentazione avverrà presso il salone comunale Montanaro, in via Rosignano 1, a Cocconato. Porgeranno il loro saluto monsignor Gianni Sacchi, vescovo di Casale Monferrato, don Igor Peruch, parroco di Cocconato, Monica Marello, sindaco di Cocconato, Franco Correggia, presidente dell’associazione Terra, Boschi, Gente e Memorie; seguiranno gli interventi di Germana Gandino, docente di storia medievale dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale, di Erika Grasso, antropologa dell’Università di Torino, dei curatori del volume. Modera Mario Averone.

Massimo Iaretti

 

 

 

I folletti e il mistero degli alberelli rubati

Natale travaglini 2Tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi

 

Di Marco Travaglini

La luce dell’alba rifletteva sui cristalli di neve colori teneri. Il silenzio che avvolgeva il paese ancora addormentato era talmente fitto che nemmeno il gallo di Fra’ Bernardo,sempre puntuale a lanciare i suoi chicchiricchì dal sagrato della chiesa, aveva trovato il coraggio di cantare il suo buongiorno. Quasi tutti dormivano a Malesco. E anche tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi. Dapprima erano piccoli aghi di ghiaccio, portati dal vento di tramontana che scendeva dalle vette del Gridone; poi, col passare delle ore, le pennellate si erano fatte più robuste, con fiocchi larghi che scendevano mollemente con parabole verticali. Era l’antivigilia di Natale, il 23 dicembre. E il grande abete nella piazza del municipio pareva, nel chiaroscuro di quella mattina, una sentinella ghiacciata sull’attenti. Anselmo, la guardia forestale, era tra i pochi ardimentosi che eran già svegli. Con gli occhi pieni di sonno, dopo aver ciondolato attorno al tavolo della cucina, si stava scaldando le mani stringendole attorno al bricco fumante del caffè. Ahi, se scottava!… Già si era vestito, infilandosi – uno sopra l’altro – due paia di pantaloni ed altrettanti maglioni di lana. Bastava uno sguardo dalla finestra per immaginare quel freddo cane che congelava all’istante il vapore del fiato. Doveva andare fino a Santa Maria Maggiore, il nostro Anselmo. Doveva andarci con il suo motocarro e non ne aveva gran voglia. Ma il dovere è dovere: e laggiù, al magazzino della Forestale, erano arrivati la sera prima gli alberelli di Natale. Li avevano mandati, come tutti gli anni, con la ferrovia vigezzina, (la stessa che gli svizzeri chiamavano “centovallina”).Una strada ferrata lunga 52 chilometri che collegava Domodossola con Locarno, passando su 83 ponti e infilandosi in 31 gallerie. La ferrovia, ogni anno, soprattutto d’inverno, era la via più sicura, evitando le strade ghiacciate. Quando qualcosa o qualcuno doveva arrivare a destinazione, eccola pronta: i vagoncini caracollavano sui binari scintillanti verso la destinazione. E così era stato anche per i quaranta piccoli abeti di Anselmo. Calcatosi in testa il berretto di pelo e  infilati gli stivaloni, Anselmo era pronto all’avventura. Non si era sbagliato: fuori faceva un gran freddo e l’aria pungente l’aveva svegliato del tutto. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, con uno scoppiettio, il piccolo motocarro si mise in moto. La scatoletta di lamiera procedeva lentamente sulla strada innevata. Ad ogni curva il vecchio Ape rischiava di mettersi su di un fianco e pareva che solo gli improperi di Anselmo (che non menzioniamo, per carità) gli facessero tener dritta la rotta. Dopo quasi un’ora, tempo record per poco più di tre chilometri, Anselmo era davanti al portone del magazzino. Un po’ sbuffando, un po’ brontolando, gli alberelli furono sistemati a dovere e legati con una robusta corda. Sulla via del ritorno ad Anselmo venne una gran sete. A quel punto fermarsi all’osteria dell’Alpino era quasi un obbligo. Dentro il locale, nel tavolo davanti al banco della mescita, trovò due vecchie conoscenze: il Giuanon di Finero e il Calisna di Zornasco. L’incontro mattiniero con due vecchi compagni di sbornia, con i quali aveva girato in lungo e in largo tutta Vigezzo per bere e farsi quattro salti in balera, andava festeggiato. Sarà stato perché gli “scappava da bere”, sarà stato per il freddo boia, i litri cominciarono a scorrere allegramente. Nessuno dei tre si faceva pregare ed a turno si riempivano i bicchieri, senza aspettare che diventassero vuoti. Presi dall’euforia e dall’alcool, intonarono con voci sguaiate i loro canti, tanto che la Maria, ostessa di notevoli proporzioni fisiche, brandendo una scopa, li cacciò fuori dall’osteria. In strada, Anselmo fece un’amara scoperta che lo lasciò senza fiato. Il motocarro, parcheggiato sul ciglio della via, era vuoto. La corda, tagliata, era l’unica cosa rimasta. Degli alberelli nemmeno l’ombra. “Dio Santo”, imprecò Anselmo. “Mi hanno fregato il carico. I miei alberi… mi hanno fregato gli alberi!”. Urlava forte a tal punto che la guardia forestale, il maresciallo Zamponi, camminando con la bicicletta al passo, lo udì e accorse. “Cosa c’è da strillare, Anselmo?”, chiese il graduato dei Carabinieri, ansimando per la corsa. “Sciur Maresciallo, c’è che mi hanno rubato gli alberi di Natale che dovevo portare a Malesco. Guardi, guardi anche lei. Mi hanno portato via tutto: solo la corda hanno lasciato quei delinquenti”. Insieme, con aria da investigatore il Maresciallo, con le mani tra i capelli il disperato Anselmo, fecero un giro tutt’attorno al motocarro e… videro delle tracce. Erano tante. Tante piccole orme lasciate da piccoli stivali. Erano fitte, ben segnate nella neve, chiaramente visibili. Alcune leggere, altre più nette, come se le avessero lasciate corpi di diverso peso. O forse qualcuno, o qualcosa, che portava un peso, dei pesi. “I miei alberi: ecco che cosa mi hanno fregato, quei banditi. I miei alberelli…”, disse, quasi piangendo, il povero Anselmo. “Certo. La traccia è chiara. Hanno davvero rubato gli alberi”, pronunciò pensoso, il Maresciallo. E non aggiunse altro, incrociando lo sguardo severo di Anselmo che non potè trattenersi dal mugugnare..”Bella scoperta. Va là che c’è arrivato anche lui. Intanto quelli mi hanno fregato gli alberi”.

 

Ho capito, ho capito” gli rispose il Maresciallo, “non sono mica tonto. Ma chi sarà stato? Guarda un po’ questi segni”. E indicò le orme che continuavano per decine di metri. Incolonnate, disciplinate. Le seguirono con lo sguardo. Andavano via dritte, verso il bosco, all’imbocco del sentiero che saliva in Val Loana. Il caso era strano. Chi mai aveva potuto compiere il furto? E quelle tracce misteriose? Sembravano piedi di bambini. Ma era una pazzia solo pensarlo. Bambini così piccoli, di quattro – cinque anni che, in fila indiana, si dirigevano verso il bosco portandosi a spalla degli alberelli che pesavano quasi il doppio di loro? Suvvia, non era logico. L’unica cosa da fare era seguire quelle impronte. I pensieri del Maresciallo erano in sintonia perfetta con quelli di Anselmo e, senza scambiarsi una parola, limitandosi a pochi cenni, decisero di battere quella pista. Del resto gli alberelli dovevano essere ritrovati, ad ogni costo: chi poteva immaginare un Natale senza gli alberi addobbati di ghirlande e lucenti di palline di vetro colorato? I due si misero a camminare di buona lena. Come segugi tenevano gli occhi fissi verso il basso, scrutando la neve calpestata. Cammina, cammina giunsero alle ultime case. Più avanti c’erano i boschi. Dopo una sosta di pochi minuti, tanto per riprendere il fiato, si avviarono sul sentiero che saliva sul fianco della montagna. Un paio d’ore dopo erano all’alpeggio di Severino, il guardiaboschi di Scaredi che viveva lassù tutto l’anno. Ma quel giorno non c’era (seppero in seguito che era sceso fino a Malesco per far compere alla Cooperativa…).Da quel terrazzo naturale, guardando in basso, potevano scorgere le case nella piana. Piccole chiazze scure in un mare bianco. Il freddo si faceva sentire con morsi sempre più decisi. I giacconi, già ruvidi per loro conto, erano diventati ancor più legnosi. Dalle bocche uscivano nuvole di fiato. Ma Anselmo Baracca e Tarciso Zamponi erano due tipi tosti, testardi più dei muli. Salirono ancora e quasi allo scoccare del mezzogiorno, giunti in un largo spiazzo tra i larici, videro uno spettacolo incredibile. Disposti in un circolo perfetto, c’erano dei piccoli abeti che sembravano proprio gli stessi che Anselmo si era visto volatilizzare sotto il suo naso. Ad occhio, fatti due conti, tornava anche il numero: eran proprio quaranta.Non uno di più, e neanche uno di meno. Si guardarono l’uno in faccia all’altro, increduli. Chi poteva aver giocato loro questo scherzo? Farli salire per la montagna fin lì per poi metter loro davanti al naso un girotondo di abetini che sembravano tenersi la mano come fanno i bambini all’asilo. Le piccole orme, evidentissime attorno al cerchio degli alberi, avevano ripreso la loro fila svoltando sulla destra per una ventina di metri e finivano nel nulla davanti ad un grande albero cavo. Anzi, a dire il vero non finivano nel nulla ma proprio diritte nel cavo dell’albero. Il primo a muoversi fu il maresciallo, seguito subito da Anselmo. Attraversarono la radura e puntarono decisi verso il punto dove le tracce s’infilavano nell’albero. Avvicinatisi con cautela, girarono attorno al grande tronco. Niente di niente: le tracce finivano proprio dentro il cavo. Anselmo si chinò sulle ginocchia. Prese coraggio e infilò la mano nel tronco, tastando nel buio. L’unica cosa che riuscì a trovare erano delle bacche. Anche Tarcisio si inginocchiò e mise il naso dentro il tronco. Con grande sorpresa riuscì ad intravedere dei piccoli scalini, intagliati nel legno, che salivano verso l’alto.

 

Forse a questo punto, è bene lasciare i due soli con i loro dubbi e  fare un salto all’indietro di qualche ora. Anselmo era ancora con gli amici nell’osteria a bere e cantare quando una strana e minuta figura si avvicinò con fare furtivo al suo motocarro lasciato incustodito. Era un omino, con la barba bianca che gli scendeva fino alla cintura dei pantaloni, alto poco più di mezzo metro. I suoi vestiti erano di fustagno marrone e sulla testa portava un cappellino a punta color panna. Dopo essersi guardato intorno senza scorgere anima viva, fischiò tre volte. Dal ciglio della strada comparvero, come d’incanto, altri omini come lui. Suppergiù una quarantina, contati male, a colpo d’occhio. Lesti come dei furetti, con delle piccole asce, tagliarono la corda che legava il carico di alberelli e, in quattro e quattr’otto, si caricarono sulle spalle i piccoli abeti, incamminandosi in direzione del bosco. Erano i folletti della Val Loana. Venivano chi da Cortevecchio, chi dalle Fornaci, chi dalla Testa del Mater. Ma da circa novecento anni vivevano all’Alpe Cortino, avendo trovato dimora in un vecchio albero cavo che consentiva l’accesso ad una caverna sotterranea. Era un posto fantastico anche se non molto grande. Nei secoli avevano costruito una scala che, dall’apertura alla base dell’albero, saliva fino a quasi metà dl tronco per poi ridiscendere fin sotto le radici dove, attraverso un cunicolo scavato nella roccia, si raggiungeva la grotta. Vederla, illuminata con luce fioca delle torce, era uno spettacolo unico. Alle pareti brillavano quarzi, cristalli rosa e azzurrini, minerali argentati e color dell’oro (forse era proprio una vena d’oro). In quel caleidoscopio naturale i folletti avevano costruito, con pazienza, il loro povero ma funzionale arredamento. Lettini di faggio, piccoli sgabelli di legno d’abete, un grande – per quelle dimensioni – tavolo di larice intarsiato. Era lì che Zippo e Zappo, figli di Maggiociondolo, erano nati e cresciuti, insieme agli altri folletti. La loro era una vita felice. Padroni dei boschi, erano cresciuti, come si usa dire qualche volta anche nel mondo degli uomini, “all’aria aperta“. Avevano imparato a conoscere le erbe e le loro proprietà. Si erano costruiti da soli e con pazienza i primi giochi di legno e già da piccolissimi, quand’erano alti non più di venti centimetri (i folletti, durante la loro vita non diventavano mai più alti di una volta e mezza la statura di quando erano nati),si erano procurati da soli il cibo: radici, bacche, piccoli funghi, frutti selvatici del sottobosco. I folletti, per chi non lo sapesse, sono vegetariani. Quando Zippo e Zappo raggiunsero la maggior età che, tra i folletti, consiste nell’avere circa 450 anni, Maggiociondolo regalò loro la sua borsa di cuoio nero. Non che fosse qualcosa di particolarmente prezioso, a ben guardarla. Anzi, era proprio una comunissima borsa a tracolla di cuoio. Ma tra i folletti aveva un significato speciale: era il segno di distinzione della più antica famiglia, quella dei Loanini, che abitavano quelle terre da più di cinque millenni. Possederla non significava esercitare qualche forma di potere sugli altri. Anzi, l’intera comunità di folletti della Val Loana viveva di comune accordo, in perfetta uguaglianza e ciò che era degli uni lo era anche degli altri. Insomma: erano uniti e felici. E questa era la ricchezza più evidente di cui potevano disporre. Nel corso della loro lunghissima vita, Zippo e Zappo con tutti i loro amici avevano percorso in lungo e in largo tutto il corridoio della Val Vigezzo, arrampicandosi sulle montagne e ridiscendendole mille e mille volte ancora. In quell’ambiente si trovavano a loro agio. Avevano tutto ciò che la natura poteva offrire loro. Passavano ore e ore con il naso all’insù nelle faggete, ad ammirare quei maestosi alberi dalla corteccia liscia, color grigio metallo. Nel sottobosco, pulito e terroso, raccoglievano le foglie per i loro giacigli, il biancospino selvatico e il brugo per le tisane e, quand’era stagione, facevano una gran messe di funghi, dei quali erano golosissimi. A volte salivano ancor più in alto per sdraiarsi nelle foreste di conifere dove spadroneggiavano degli splendidi esemplari di pino silvestre e di abete rosso, il famoso “peccio”, dal tronco rossobruno e dalle pigne cadenti. E anche qui erano gran scorpacciate di lamponi e mirtilli neri. I folletti amavano anche le escursioni. In fila per due, cantando vecchie canzoni e antichi ritornelli, salivano sui fianchi del monte Limidario. E ballavano per giorni e notti intere, tutti in circolo attorno agli abeti bianchi e, qualche volta ancor più in su, tra i larici che innalzavano la loro chioma verso il cielo gareggiando con le vette. Gli animali, incrociandoli, non fuggivano spaventati come quando sentivano la presenza dell’uomo: anzi, si avvicinavano festanti all’allegra comitiva. Erano amici,da sempre. Tra di loro c’era un tacito patto che, col tempo, era diventato qualcosa di più: un’amicizia vera, sincera. Zippo e Zappo si divertivano un mondo a giocare a nascondino con gli animali che popolavano i boschi. “Guarda la”, diceva Zappo, “su quel ramo d’abete c’è uno scoiattolo dalla lunga coda a pennacchio”. E questo, agilissimo, rapido come la folgore, spariva in un battibaleno sui rami più alti, nel fitto fogliame. “E qui sotto? C’è un topo quercino”, gli rispondeva Zippo, indicando il simpaticissimo roditore notturno dalla coda che terminava con un ciuffo bianco. Andavano avanti così per ore. Era un mondo davvero speciale. A tarda sera la luna era già alta nel cielo. Bianca, color del latte, illuminava la foresta. Gli animali si preparavano per la notte. Il ghiro, tutto indaffarato alle prese con una nocciola da aprire con i suoi denti aguzzi, non si accorgeva che più in là, sporgendo la testa da un cespuglio, era spiato dalla lepre variabile: una vera signora, rapida e aggraziata nei suoi movimenti, con un’aria  timida anche se c’era chi la giudicava un po’ snob per la sua abitudine a cambiar colore della pelliccia durante i mesi d’inverno. E il tasso? Dov’era il tasso? Eccolo là ad un palmo dall’acqua della sorgente, in animata discussione con un porcospino. Non doveva esser stato uno scambio di vedute del tutto cortese visto che se ne andavano, ognuno per la sua strada, voltandosi le spalle: a destra, con la sua andatura un po’ goffa, il riccio; a sinistra, bofonchiando, il grosso tasso dal mantello striato. Della volpe non c’era traccia. O meglio, una traccia c’era ma non pareva opportuno indagare troppo a fondo visto che  – a sentire il commento del vecchio gufo – se n’era andata per i fatti suoi con le sue amiche. E non occorreva aver tanta fantasia per immaginare una scorreria notturna giù al piano, magari a far visita a qualche pollaio. In compenso c’era lei, la regina delle Alpi. Sullo sfondo del cielo terso e stellato, roteando davanti alla luna pallida, l’aquila reale compiva, con un volteggio lento e sicuro, il suo rito propiziatorio prima di tornare al suo nido sulle rocce alte del Gridone dove, con il suo sguardo magnetico, dominava la valle intera. A notte inoltrata, come accadeva spesso, Zippo e Zappo e l’intera compagnia, ormai stanchi, si coricavano sugli aghi di pino guardando il cielo e addormentandosi contando le stelle più luminose.

 

Ma, tornando a noi e agli alberi di Natale, occorre sapere anche il perché dell’ormai noto furto. Cosa che è subito detta. Narra un’antica leggenda che, nella notte della vigilia di Natale, ogni mille anni, i folletti dispongono quaranta giovani abeti – uno a fianco all’altro –  fino a formare un cerchio perfetto, nel mezzo del quale viene acceso un falò con rami di larice, allo scopo d’invocare un altro millennio di pace e prosperità per loro, per gli abitanti del bosco e per la gente della valle. Con i loro canti e i loro balli, in un crescendo di allegria, il rito propiziatorio consisteva nello strappare un sorriso alla serissima Signora della Laurasca, protettrice dei folletti dalla notte dei tempi. La Signora, per compensarli dell’attimo di felicità, avrebbe garantito loro per altri dieci secoli, salute e fortuna. L’ultima volta che accadde questa specie di miracolo era stato nell’anno Mille, anzi – per la precisione – nel 1015, dopo una notte di follie alle Fornaci. Papà Maggiociondolo l’aveva descritta tante volte ai suoi piccoli nelle notti d’inverno, cullandone il sonno. Ora toccava loro far rivivere l’antica tradizione. Anselmo e Tarcisio, la guardia forestale e il maresciallo dei carabinieri, incuriositi dalla scoperta e un po’ frastornati per le emozioni della giornata, decisero di lasciare i piccoli abeti dove stavano, ripromettendosi di tornare il giorno dopo per proseguire le ricerche e cercare di venire a capo del mistero delle piccole orme e dell’albero cavo. Rossi in volto e ciondolanti dalla fatica, ripresero la via del ritorno verso il paese, affondando fino alle ginocchia nella neve fresca. Ormai la luce del giorno si faceva più fioca e di lì a poco, il tramonto avrebbe lasciato il passo alla sera. La mattina dopo, vigilia di Natale, Anselmo, dopo una notte di sonno agitato, era uscito di buonora per recuperare altri quaranta alberelli direttamente alla stazione della ferrovia Vigezzina, dove erano stati sollecitamente recapitati dal comando della forestale di Domodossola, al quale Anselmo aveva inoltrato una nuova richiesta. Questa volta il buon uomo non fece sosta in nessuna osteria e tirò dritto, con il suo carico, fino a destinazione. Consegnati gli alberi nelle case, la guardia forestale si diresse verso la caserma della “Benemerita” dove, ad attenderlo, c’erano il maresciallo Tarcisio Zamponi e il brigadiere Augusto Marino. Quest’ultimo, che godeva della piena fiducia del maresciallo, era stato messo al corrente per filo e per segno di quanto i due avevano scoperto il giorno prima. Era ormai pomeriggio inoltrato quando i tre uomini, sbuffando per la salita, dopo l’ultimo strappo, si affacciarono sulla radura. Gli alberelli erano ancora lì, disposti a cerchio. E in mezzo a loro c’erano delle grandi fascine di rami di larice. Tarcisio, Anselmo e Augusto si guardarono in faccia: questa era nuova! Quelle fascine il giorno prima non c’erano e adesso, eccole là, nel bel mezzo del girotondo degli abeti. Questa volta, dopo aver confabulato tra loro, decisero di rimanere ai margini della radura, nascosti dietro agli alberi. Se qualcuno si fosse avvicinato, da lì l’avrebbero visto senza farsi a loro volta vedere e, forse, avrebbero finalmente trovato risposta al mistero. Per non stancarsi inutilmente decisero dei turni di vedetta che però, un po’ per euforia, un po’ per paura di lasciarsi sfuggire qualcosa, non rispettarono. Sei occhi guardavano senza posa verso il circolo degli abeti e l’albero cavo, avanti e indietro,su e giù. Scorrevano, intanto,le ore. Verso sera, al primo calar del buio, dal vecchio albero spuntò una figurina. Ci mancò poco che ad Anselmo non prendesse un colpo. Stava per lanciare un grido. E l’avrebbe fatto se non fosse stato per la prontezza di riflessi del maresciallo che, con uno scatto, gli tappò la bocca con la mano. Un omino, vestito in maniera un po’ buffa, con una barbetta bianca che gli scendeva lunga fin sulle ginocchia, era uscito dal cavo del tronco, guardandosi attorno. Passò un minuto, forse meno, ma per i tre esterrefatti spettatori, parve lungo un’eternità. Assicuratosi che non ci fosse nessuno lì attorno, l’omino mise due dita in bocca e lanciò due fischi, uno lungo e l’altro corto. Al segnale di via libera, tutti i folletti uscirono. Il brigadiere Marino si lasciò scappare un “Ooooh…” di stupore. Ma per fortuna, nessuno dei folletti lo udì.I piccoli omini erano indaffarati a trafficare attorno ai piccoli abeti. Stavano preparando, a quanto si poteva intuire, un falò. In un clima di gran frenesia, il lavoro andò avanti per delle ore. Ormai era buio e nel cielo le stelle sembrava facessero a gara per stabilire chi tra loro fosse la più luminosa. Mancavano suppergiù dieci minuti allo scoccare della mezzanotte quando uno dei folletti, salito su di un ceppo, iniziò a parlare.“…Amici, il momento tanto atteso è ormai giunto. Ancora una volta, con ogni millennio, invocheremo la gratitudine della Signora della Laurasca. Se riusciremo,com’è nell’augurio di tutti noi, a farla sorridere con la nostra allegria, per mille anni vivremo felici e in pace. Ed ora, avanti con le torce! Accendiamo il grande falò e che la festa cominci….”. Le parole di Zappo furono accolte da un corale “Evviva!” e i folletti accesero un gran fuoco con i rami di larice. La piccola radura s’illuminò del riverbero di quelle lingue di fuoco che s’alzavano, convulse e tremanti, verso il cielo. Anselmo, Tarcisio e Augusto avevano assistito alla scena a bocca aperta. Pur udendo la voce di Zappo non avevano capito un’acca perché il folletto aveva pronunciato il suo breve discorso nell’antico idioma dei Loanini. E non compresero, i tre sbalorditi spettatori, nemmeno il dialogo che vide protagonisti Zappo e un altro folletto più giovane (aveva infatti “solo” 470 anni…). Quest’ultimo si chiamava Corteccia di Betulla e, a differenza di tutti gli altri suoi compagni che, appena terminato il discorso di Zappo, avevano avviato le danze con volteggi indiavolati, se n’era stato da solo in disparte, un po’ mogio. Con entrambe le mani, continuava a tormentarsi la corta barbetta. Alla vista del pensieroso folletto, Zappo gli si era fatto incontro, informandosi se c’era qualcosa che non andava. “Beh,sì. Ecco, io..insomma: non ho capito bene una cosa..” disse, arrossendo, l’impacciato Corteccia di Betulla. “Su, dimmi pure. Se posso esserti utile..”, lo invitò Zappo, prendendolo sottobraccio. Entrambi si sedettero su una grossa radice sporgente e, a quel punto, messo a suo agio, Corteccia non si fece pregare. “Ecco, tu prima dicevi che con questa festa, ogni mille anni, cerchiamo di guadagnarci la benevolenza della Signora che, in cambio di un attimo di allegria, ci assicurerà dieci secoli di pace e tante altre belle cose. Non riesco però a spiegarmi perché abbiamo dovuto rubare gli alberelli agli uomini. Non mi sembra un gran bel gesto: dopotutto, nei nostri boschi, potevamo trovare dei giovani abeti in quantità. E’ proprio questo che non riesco a capire…”. Zappo sorrise e, con calma, appoggiando le mani sulle ginocchia, iniziò a parlare. “Vedi Corteccia, c’è un particolare che forse tu non conosci. Un tempo gli alberelli li prendevamo da soli, scegliendo i migliori per il rito della festa. Così è stato fino all’ultimo millennio e i folletti hanno potuto vivere in pace, indisturbati. Ma già da molto tempo abbiamo pensato che forse si poteva fare di più e, prima ancora che tu nascessi, fu presa un’importante decisione. Il nostro vecchio mago, Naso di Legno, pensò che se gli alberi fossero stati procurati dagli umani, a loro insaputa, i benefici si sarebbero estesi anche a loro. Io credo sia stata una scelta giusta. Pensa a quante guerre, sofferenze, odio e dissidi che si potrebbero evitare. L’unico modo per avere quegli alberi che gli uomini hanno fatto crescere per la festa che chiamano Natale, era rubarli da quello strano carro che cammina da solo. Anche se all’apparenza può esserti sembrata una brutta cosa, adesso sai che l’abbiamo fatto a fin di bene. Solo così la Signora della Laurasca penserà questa volta anche a loro. Ma adesso va, Corteccia. Raggiungi gli altri, divertiti”. La guardia forestale e i due carabinieri, provati dalla fatica e dalle emozioni, si erano appisolati dopo essersi avvolti ben bene nei loro cappotti. Il ballo, intanto, proseguiva con ritmi vertiginosi. Una volta preso l’abbrivio era un crescendo di salti, capriole, girotondi. I folletti saltavano come grilli e cantavano con tanta foga che la loro voce saliva dritta fino in cielo. Le chiome scure degli abeti, mosse da una leggera brezza, parevano voler fare il solletico alle stelle. Il gran fuoco, con le sue lunghe lingue rosse e arancio, aveva man mano lasciato il posto ad una brace purpurea. Quanto tempo passò? Un’ora, forse due, magari solo poche decine di minuti. Sta di fatto che, quando Anselmo e Tarcisio si destarono dal loro torpore era ancora notte. Una luna lattea inondava la foresta di vivida luce. Nella radura regnava il silenzio. Si udiva solo il respiro pesante di Augusto che venne svegliato con una brusca scrollata dal suo Maresciallo. Nel  mezzo del cerchio il fuoco era spento. Degli omini non c’era traccia. Spariti, quasi si fossero  dissolti nell’aria. La neve, tutt’attorno al falò e nei pressi dell’albero cavo, era intatta. Bella, bianca, compatta. Senz’ombra d’impronta. Tarcisio si stropicciò gli occhi; Augusto tremava dal freddo che gli era entrato nelle ossa; Anselmo non capiva più niente. Eppure non avevano sognato, non potevano aver fatto tutti e tre lo stesso sogno. Sgranchendosi le gambe con un robusto massaggio, si alzarono in piedi e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata agli alberelli, presero la via del ritorno. S’incamminarono verso il paese, scendendo dal sentiero del monte tra gli alberi carichi di neve. Nei pressi delle prime case del paese, incontrando Giuanon e Calisna, entrambi reduci da una nottata di bisbocce, non si fecero ripetere due volte l’invito a bere “una volta in compagnia”. Ma anche davanti al vino, così come durante il viaggio, nessuno fece parola di quanto avevano visto. E nemmeno gli altri manifestarono particolare curiosità e non  fecero domande sul perché e il percome di quell’incontro mattiniero. Anselmo, fra sé e sé,  pensò: “se dicessi cos’ho visto, chi mi crederebbe? Nessuno. Mi prenderebbero per matto. Anzi: ci prenderebbero per tre matti…”. Tanto valeva, a quel punto, tenersela per loro questa storia. Svuotati i bicchieri e salutata la compagnia, tornarono a casa, ognuno per la sua strada. L’orologio del campanile segnava le 7,30 del 25 dicembre. La mattina di Natale. Nella notte la Signora della Laurasca aveva sorriso.

 

 

 

Migliaia di Babbi Natale per i bimbi del Regina Margherita

“Un Babbo Natale in Forma” per l’Ospedale Infantile Regina Margherita. 3 dicembre 2017 – Ore 10.30 – Piazza Polonia, Torino

 

TERMINATI CON LARGO ANTICIPO TUTTI I 10.000  VESTITI DI BABBO NATALE DISPONIBILI!

 

“Tutto è iniziato domenica 5 dicembre 2010, quando tra stupore e un po’ di emozione abbiamo visto arrivare in piazza Polonia 2.000 Babbi Natale, erano tantissimi! Tutte queste persone avevano indossato il vestito rosso della Fondazione e si erano presentate, puntuali, di fronte al Regina Margherita. L’entusiasmo di quella giornata ci ha fatto puntare in alto: volevamo battere il Guinness dei Primati l’anno successivo. Occorrevano 13.000 Babbi Natale, un’impresa titanica che non siamo riusciti a raggiungere nel 2011. Ma quella festa, animata dal calore degli Alpini, dalla musica, dai bambini delle scuole con indosso il cappellino da Babbo Natale, era speciale. Dalle finestre dell’Ospedale si vedeva uno spettacolo incredibile e tanto colore. C’era chi sfidava il freddo ed arrivava in moto e chi a piedi, ma sul piazzale erano tutti uguali, tutti con l’abito rosso. Era una festa semplice, il cui entusiasmo arrivava fin dentro le mura dell’Ospedale. Oggi, la festa è sempre la stessa, e non ci interessa più battere il Guinness dei Primati, ci interessa indossare quel vestito rosso e la barba bianca e venire a salutare i piccoli del Regina.” racconta Irene Bonansea, responsabile ufficio Forma e coordinatore del Raduno.

 

Il 3 dicembre a partire dalle ore 10.30, l’intera Piazza Polonia, di fronte all’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino, si tingerà nuovamente di rosso e bianco, i colori che indosseranno le oltre 16.000 persone che sono attese anche quest’anno per dare vita al più grande Raduno di Italia di Babbi Natale. È tutto pronto infatti per l’ottavo Raduno di Babbi Natale, che Fondazione Forma organizza ogni anno con straordinaria passione e entusiasmo, che contagia tutti coloro che vi partecipano: grandi e piccini, ciclisti, motociclisti, maratoneti, studenti e mamme, genitori e nonni, che ogni anno diventano protagonisti di questa esperienza unica.

Tante le partecipazioni: le scuole, con allievi, maestri e genitori, che hanno aderito al Concorso legato al Raduno; gli “amici” del Raduno che si sono impegnati moltissimo nel diffondere l’iniziativa e che daranno tutto il loro apporto per la riuscita del Raduno: volontari, presentatori, comici, artisti… e naturalmente il Comune di Torino che, come ogni anno, ha patrocinato l’evento. A salutare il popolo dei Babbi Natale, insieme ai numerosi ospiti attesi per la giornata, anche la Sindaca di Torino, Chiara Appendino.

 

Siamo molto stupiti e chiaramente soddisfatti e orgogliosi che quest’anno, con largo anticipo, i nostri volontari siano riusciti a vendere tutti e i 10.000 vestiti di Babbo Natale, che le persone dovranno indossare in Piazza domenica. Un segno che il Raduno è entrato nel cuore di tutti i torinesi e non solo, che è un appuntamento atteso e che la solidarietà unisce tutti, più e meno fortunati!”, dichiara Luciana Accornero, Presidente di Forma.

 

IL PROGETTO della Raccolta Fondi

Il fine ultimo del Raduno, oltre che rallegrare la degenza dei piccoli ricoverati dell’Infantile, è raccogliere fondi per poter portare avanti i progetti della Fondazione FORMA, che lavora ininterrottamente tutto l’anno su più fronti per l’Ospedale Infantile di Torino. Quest’anno il ricavato delle donazioni legate al Raduno verrà impiegato per il nuovo Pronto Soccorso del Regina Margherita e, nello specifico, per l’acquisto delle apparecchiature per la sala di rianimazione, al fine di ottimizzare l’assistenza ai bambini che arrivano in codice rosso e per l’Osservazione Breve Intensiva, per garantire una monitorizzazione continua e intensiva del piccolo paziente.

 

Come sempre, moltissime le attività svolte in Piazza Polonia con spettacoli, tanta musica e una grande festa per tutti:

 

Ore 10.00La CAMMINATA di BABBO NATALE: parte dall’8 Gallery la tradizionale Camminata dei Babbi Natale, organizzata anche quest’anno da Base Running per Forma. L’arrivo è sul piazzale del Raduno. Tre Chilometri di passeggiata o camminata veloce destinata a grandi e piccini, famiglie, per arrivare scaldati a partecipare alle attività del Raduno.

ORE 10.15 – La BICICLETTATA di BABBO NATALE: In via Lagrange 3, di fronte ad Eataly, parte “Un Babbo Natale in bici”, un percorso di 4 km circa, attraverso le vie del Centro, insieme agli amici di Bici & Dintorni, per arrivare scampanellando in Piazza Polonia, dove nel cuore del raduno, ci sarà un’area riservata e allestita per lo stallo delle bici, per permettere ai partecipanti di muoversi liberamente a piedi in Piazza Polonia. Occorre solo portarsi il lucchetto!

Alla partenza in Via Lagrange saranno presenti ad intrattenere i partecipanti Oliver Rege e Luca Gioiello, in un’esibizione di Bike Trial e Bmx accompagnati dal violino di Anna Maria De Simone.

Il pettorale per la bicicletta, distribuito nei giorni precedenti il Raduno nei punti OVS di Torino e Grugliasco, Eataly Lingotto e Lagrange, nei banchetti della Fondazione e presso FIAB Torino Bici & Dintorni, sarà da conservare, darà diritto a partecipare alla estrazione, durante il Raduno, per due premi offerti da Eataly e OVS.

Alla biciclettata sarà possibile partecipare con il proprio mezzo, ma anche quelli di [TO]BIKE,

PER CHI È UN ABBONATO [TO]BIKE: la bicicletta potrà essere prelevata in una postazione qualsiasi della città e dovrà essere riconsegnata in un’altra postazione alla fine dell’evento. Alla fine dell’evento o nella giornata di lunedì, l’utente dovrà scrivere ad info@tobike.it dicendo di aver partecipato all’evento. I nostri operatori provvederanno ad eliminare l’eventuale addebito creato a seguito dell’utilizzo della bicicletta durante l’evento (si tratterà quindi di utilizzi dalle ore 9 circa alle 14 massimo).
PER CHI NON È ABBONATO: sarà possibile richiedere un abbonamento giornaliero 4foryou da utilizzare per partecipare alla biciclettata. L’abbonamento 4foryou (sotto forma di tessera) potrà essere ritirato presso lo store [TO]BIKE o presso gli uffici del Turismo.
Nello specifico:

lo store [TO]BIKE aperto dal lunedì al venerdì con orario continuato 10.00 – 19.00Ufficio del Turismo di Piazza Castello angolo via Garibaldi aperto tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 18.00
Ufficio del Turismo di Piazza Carlo Felice (fronte Porta Nuova) aperto tutti i giorni dalle ore 9.00 alle 18.00 (quindi anche per chi ritirerà la tessera domenica mattina)
Invitiamo i partecipanti all’evento che vogliono ritirare un abbonamento 4foryou omaggio a presentarsi muniti di documento di identità valido. Sarà necessario compilare un breve modulo di iscrizione.

***

IL PERCORSO DELLE BICI

Partenza ore 10.15 fronte Eataly Via Lagrange Torino
– Via Lagrange (direzione Via Maria Vittoria)
– Via Maria Vittoria
– Via S. Francesco da Paola (si supera incrocio con Corso Vittorio Emanuele II)
– Via Principe Tommaso
– Corso Guglielmo Marconi
– Corso Massimo D’Azegli0 (NO sottopasso Lanza)
– Corso Achille Mario Dogliotti
– Piazza Polonia (fronte Ospedale Regina Margherita)
Arrivo ore 11 circa

 

Ore 10.30 – In piazza si apre l’VIII Raduno dei Babbi Natale con le voci di Manuel Giancale e Jacopo Morini. Sul palco il Coro Gospel Anno Domini e a seguire DJ SET: Christmas djset con Gino Latino, una discoteca all’aperto!

 

Alle ore 11.30 dal MO.VI di Beinasco partirà il motoraduno, accompagnati dalla Polizia Municipale, verso il Regina Margherita.

 

 

ore 12.15 –ecco in arrivo le moto, che sfileranno sotto l’Ospedale! Per partecipare al Raduno in moto, il ritrovo è al MO.VI Mobility Village di via Rondò Bernardo, 28 – Beinasco a partire dalle ore 9.30. I motociclisti saranno accolti da un’esibizione di parkour, ad opera di Parkour Torino a.s.d. e da musica con lo scatenato Stefano Venneri (percorso allegato).

Premiazione del concorso scolastico “Un Natale sostenibile per FORMA”: lo scorso ottobre FORMA ha presentato presso la Fattoria del Gelato un evento dedicato alle scuole, ed ha consegnato alle stesse il kit, al quale le classi stanno lavorando per realizzare l’opera finita che, il 3 dicembre verrà esposta in Piazza, al Raduno.

Il concorso ha visto impegnati i partecipanti nel costruire e nell’interpretare una Mole Antonelliana, utilizzando materiale di riciclo come fascette in plastica, cartone e bacchette in legno, fornito alla Fondazione dalle seguenti aziende: Fiore s.r.l., P Design, Flying Tiger Copenhagen, Costarica Caffè, Self – Tutto il mondo del fai da te, Li Puma Design, Molecola e Farmaonlus.

Domenica al Raduno sarà possibile vedere ed acquistare, a fronte di donazione, una delle 150 Mole, frutto del lavoro di 260 classi del Piemonte, come idea natalizia. Le opere vincitrici (le prime tre classificate della sezione Infanzia e della sezione Primaria) saranno premiate durante la manifestazione “Un Babbo Natale in Forma”. Le prime due saranno esposte nell’atrio della Museo Nazionale del Cinema durante il periodo Natalizio. La Commissione Giudicatrice è composta dai rappresentanti delle seguenti realtà: Iren SpA, Truly Design, Museo del Cinema, Centrale del Latte di Torino, BCC di Casalgrasso e Sant’Albano Stura, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, La Fattoria del Gelato e l’azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza. Sempre per i più piccoli: bolle di sapone, magia, giochi con la Protezione Civile degli Alpini e i TrampolliE poi ulteriore Novità: la competizione Solidale tra Aziende
Ogni Azienda partecipante alla competizione ha scelto un giorno nel quale ospitare i volontari di FORMA per la distribuzione del costume di Babbo Natale.
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Le aziende che hanno aderito a questa sfida sono:
Avio Aero
CRF – Centro Ricerche Fiat
Fiat Chrysler Automobiles
Gruppo Iren
Luigi Lavazza S.p.A
TN Italy S.p.A  – TSUBAKI – NAKASHIMA
SEWS – CABIND
Valeo S.p.A.
Chi vincerà questa gara? Lo sapremo sul palco del Raduno dei Babbi Natale, domenica 3 dicembre, quando premieremo l’Azienda che ha vestito più Santa Claus.

 

 

 

EDILIZIA ACROBATICA

Saranno Capitan America, Spiderman, Superman, Ironman, Flash, Hulk, e Thor a rendere indimenticabile la giornata di domenica 3 dicembre per i piccoli ricoverati all’Ospedale Regina Margherita di Torino. I loro supereroi preferiti daranno vita a uno spettacolo eccezionale calandosi dai tetti dell’Ospedale per andare a portare allegria e coraggio ai giovani pazienti. La calata dei supereroi di EdiliziAcrobatica nei principali ospedali italiani torna dunque a Torino.

 

Per tutti, grazie al prezioso aiuto degli Alpini e di tutte le Aziende che sostengono il Raduno, saranno presenti anche diversi stand con bevande calde, dolcetti, piatti caldi e le friciule, direttamente da Montà d’Alba!

Ore 14.00 – Conclusione raduno.

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LA VENDITA DEI VESTITI

 

Per Forma, uno dei modi per raccogliere fondi è la distribuzione del vestito di Babbo Natale che ha preso il via il 4 novembre scorso. Quest’anno, a fronte di una donazione di 5 euro, è possibile ricevere un kit composto da muffole, sciarpa e cappello oppure giacca, barba e cappello e, con una donazione di 8 euro, il vestito completo di Santa Claus. Fino ad ora sono stati venduti 10.000 vestiti, per cui diciamo grazie a tutti coloro che lo hanno scelto e a tutti i volontari che hanno gestito i diversi punti distributivi per oltre un mese.

Si potranno ancora ritirare, fino ad esaurimento scorte, domenica mattina in Piazza Polonia. Per ulteriori informazioni e aggiornamenti è possibile consultare il sito www.fondazioneforma.it

 

CHIUSURA STRADE

9.00 – 11.15: C.so Unità d’Italia (in tutte e due i sensi di marcia, nel tratto tra Museo Auto e Piazza Polonia)

9.00 – 11.15: Sottopasso Dogliotti
Saranno APERTI corso Dogliotti lato Molinette e corso Spezia sopra (no tunnel) e Corso Unità di Italia fino al Museo dell’Auto

PARCHEGGI

Parcheggi gratuiti per i partecipanti al Raduno e per la durata della festa offerti da GTT nei parcheggi di Molinette, fino ad esaurimento.

Torino e Milano unite dagli sport del ghiaccio

STORIE DI CITTA’  di Patrizio Tosetto
Siamo a Milano, in zona Corso Vercelli. Zona elegante pulita e, diciamo così, razionale della città.  Elegante ristorante di pesce. Alle ore 11,30 inizia la conferenza stampa di Agorà Milano, gestore del Palaghiaccio. Conferenza Stampa effervescente. Del resto non poteva essere diversamente.  Nel descrivere l’evento parto dalle conclusioni sintetizzate da questa foto: è importantissimo avere un Team vincente.  Pompeo Guarnieri presidente, con  la bella e coriacea figlia allenatrice direttrice sportiva, da poco vicepresidente della società Agorà. Marilu Guarnieri emozionata ci mette cuore in quel che fa. Ed abbiamo anche campioni del Mondo di danza ed italiani come Anna Cappellini e Luca la Notte.  Mi ha piacevolmente colpito una frase del campione Luca: prima dei petali di Rose dopo le vittorie bisogna prendere sberle nel sacrificio dell’ allenarsi. Poi i campioni junior Nik Follina ed Elisabetta Leccardi. Una iniziativa che mi ha galvanizzato. Del resto Milano mi è sempre piaciuta, criticato degli amici torinesi…appunto troppo sabaudi. Sono convinto della collaborazione tra le due città.  Noi torinesi abbiamo magari da insegnare ma anche da imparare dal dinamismo che ho  respirato in questa conferenza stampa.Presenti le autorità della federazione del ghiaccio nazionale, Hochey Milano Rossoblù. E chi si ricorda i mitici scontri con i Torinesi. Chi Introduce è Pompeo Guarnieri.  “Sono venti anni che lavoro nel settore e desidero lavorarci per altri 20 anni. La nostra forza è il vivaio ed il nostro pubblico. Non vogliamo fermarci a Milano e a Torino.Per questo siamo speranzosi che l’offerta presentata per la gestione del PalaVela sia accolta dal Parco Olimpico.  Torino ha un nutrito vivaio e belle strutture dal 2006 purtroppo sottoutilizzate”. Al rinfresco Marilu precisa. “Quest’ estate sono stata a Torino.Bella realtà piena di giovani”. Io: come mai non nascono dei campioni? Solo un problema di organizzazione e noi di Agorà vorremmo essere utili.” La loro passione è contagiosa. E spero veramente che sia contagiosa anche  per la nostra città. Per la nostra Torino.
Patrizio Tosetto

Gli “Stra… fatti a mano” Marika e Fabio devono la loro fortuna ai Minions

SECONDA PUNTATA – Viaggio nel vasto mondo degli hobbysti, tra chi per sopravvivere alla crisi sta cercando di trasformare in mestiere una passione

 

Marika e Fabio, sotto il cartello “Stra… fatti a mano”, realizzano capi d’abbigliamento e accessori rigorosamente artigianali. Creazioni che esaltano tutto l’estro creativo della loro anima di stilisti autodidatti, concentrati su tessuti resistenti e modelli comodi, di fattura semplice. Approdati da quattro anni tra li hobbysti che espongono prodotti frutto del proprio ingegno nelle fiere cittadine, devono la loro fortuna a una ricca produzione di cappelli raffiguranti i supereroi mascherati dei fumetti, ma soprattutto ai personaggi di “Minions”, il film d’animazione del 2015 che in un batter d’occhio è riuscito a conquistare i cuori di grandi e piccini. Quarantenni, compagni di vita e di lavoro, Marika e Fabio sono arrivati “sulla strada” con il loro gazebo per disperazione. “Non riuscivo a trovare lavoro”, racconta Marika. “Qualche ora in bar e ristoranti a fare la cameriera, ma nulla di più stabile. Così – prosegue – ho incominciato a ricamare, a confezionare accessori in maglia e cotone lavorando con i ferri e l’uncinetto. La domenica mattina partivo con i miei borsoni di merce e passavo la giornata alle feste di quartiere a cercare di vendere quanto realizzato durante la settimana”.

***

Poco tempo dopo anche Fabio rimane disoccupato: il ristorante in cui lavora chiude, e pure lui si ritrova in mezzo alla strada. La ricerca di un’altra occupazione non dà i risultati sperati, e prima che la depressione prenda il sopravvento Marika gli prospetta l’unica soluzione che riesce a intravvedere: “Ho comprato due pacchetti di Fimo, glieli ho messi in mano e gli ho detto di produrre bigiotteria”. “Il Fimo – spiega Fabio – è una pasta tipo il pongo, che si presta ad essere plasmata e modellata. Ho così incominciato a fare anelli, orecchini, ciondoli”. Al di là della passione e dell’entusiasmo che ci mettono, sono tempi difficili. La produzione va bene, ma le vendite scarseggiano. Poi, di colpo, per puro caso, la fortuna bussa alla loro porta. “Ho fatto per il mio fratellino – racconta Marika – un cappellino raffigurante i Minions e ho postato la foto su Facebook. E’ stato un successo. Immediatamente siamo stati sommersi di ordini: tutti volevano un cappellino come quello”.

 

***

Per far fronte alle richieste anche Fabio impara a lavorare all’uncinetto. “Oggi è una scheggia, neppure io che lo uso fin da quando ero bambina sono così brava e veloce”, commenta Marika, mentre Fabio maneggia l’arnese con padronanza e maestria.  Sull’onda del boom e dell’inaspettato e notevole incremento degli incassi, decidono di lasciare la strada e affittare una casetta di legno all’ingresso dell’Area 12, il centro commerciale al confine tra Torino e Venaria. “Era un po’ come avere un negozio”, ricordano. Poi, però, il canone di locazione aumenta. Non ce la fanno più a far fronte alle spese. Lasciano la casetta, rispolverano il vecchio gazebo e ricominciano a girare i mercati della domenica. “I Minions ci hanno dato da mangiare per tre anni. Ad agosto uscirà un nuovo film, speriamo che il miracolo si ripeta”, raccontano, rivelando che il loro sogno è quello di riuscire, un giorno, ad aprire un negozio tutto loro, con annesso un laboratorio i cui tenere corsi per insegnare a creare, con le proprie mani, oggetti, accessori e capi d’abbigliamento.

 

Paola Zanolli

 

 

“Finalmente” arrivano i corsi di guida per donne insicure al volante

Si tratta di un corso dedicato a tutte coloro che -ovviamente già in possesso della patente- non si sentono ancora sicure alla guida della loro auto, che sono stanche di sentirsi dire dal proprio marito o dal proprio fidanzato di non essere capaci a guidare

“Donne al volante..pericolo costante”. Quante volte abbiamo sentito, utilizzato e scherzato sopra a questa frase per commentare magari una donna alla guida di una vettura. Da dove nasca questo detto non si sa, il perché lo si usi è facilmente immaginabile: è un pensiero piuttosto diffuso e comune tra la maggior parte delle persone, che il gentil sesso al volante sia meno capace e per così dire più “pericoloso” rispetto ad un uomo. Ebbene su questa teoria (non ancora scientificamente provata ma attualmente in fase di studio), le autoscuole Solferino hanno cercato di trovare una soluzione e hanno proposto un vero e proprio “corso di recupero” per tutte quelle donne che vogliono dire addio alle paure che insorgono quando si trovano alla guida. Si tratta di un corso dedicato a tutte coloro che -ovviamente già in possesso della patente- non si sentono ancora sicure alla guida della loro auto, che sono stanche di sentirsi dire dal proprio marito o dal proprio fidanzato di non essere capaci a guidare; per tutte quelle donne diciamo un po’ più mature, che magari hanno preso la patente molti anni fa ma che poi per motivi personali, familiari e via dicendo, hanno parcheggiato l’ auto nel garage dimenticandosi, per così dire, come ci si comporta alla guida di una macchina. Il volantino con il suo disegnino un po’ d’altri tempi, volutamente stereotipato (vi è raffigurata una donna al volante con l’aria un po’ spaurita e con un buffo cappellino sulla testa) è molto chiaro e diretto : “Donne al volante..” recita il titolo. E poi più sfumato : “Sicurezza costante”. Più in basso ovviamente qualche domanda che lascia intendere lo scopo del corso : ” Paura di guidare?” e ancora : “Parcheggiare è il tuo incubo?”. Ovviamente gli ideatori del progetto hanno garantito che non esiste nulla di discriminatorio in tutto questo, anzi si dovrebbe considerare un vero e proprio kit di lezioni “in rosa” proposto dalla rete nazionale “La nuova guida” , e a cui le autoscuole Solferino hanno aderito. “La società ora è cambiata – spiega a Repubblica il titolare Mario Forneris- Un tempo la patente si prendeva, magari su consiglio dei genitori, anche in modo facile, poi però mancava il conseguimento dell’abilità alla guida. Le ragioni per cui una donna poteva smettere di guidare potevano essere tante. Molte ad esempio hanno abbandonato l’auto dopo un grave incidente” – E prosegue- “Ovviamente anche se la pubblicità è dedicata alle donne, il corso si rivolge anche a quegli uomini che vogliono combattere stress e ansia al volante”. Insomma, ripetiamo, non c’è nulla di discriminatorio, maschilista o retrogrado in tutto questo. Come hanno più volte sottolineato i sostenitori del progetto, il corso non è solo rivolto a tutte quelle donne che a causa di un incidente o per svariati motivi hanno dimenticato come si guida e non si sono esercitate abbastanza nel fare parcheggi o nello stare in mezzo al traffico, ma anche a tutti quegli uomini che sono affetti da un po’ d’ansia mentre si trovano alla guida della propria auto. D’altronde che importanza può avere il fatto che il volantino sia tutto al femminile e che sia rivolto direttamente alle donne, rappresentate per di più dallo stereotipo di una donnina spaurita, vestita anni 50′? Quindi caro gentil sesso, dopo anni di estenuanti battaglie per avere riconosciuti gli stessi diritti degli uomini, almeno adesso potrete ambire a saper guidare come loro.

 

Simona Pili Stella

Tentata rapina in uno studio ortopedico alla Crocetta. C’è uno sparo ma nessun ferito

Due uomini armati e con il volto coperto si sono introdotti nello studio medico del Dottor Celani in via Lamarmora.

 

Viso coperto da una maschera da sci e cappellino scuro in testa per nascondere il più possibile i tratti del volto. Corrisponde a questa la descrizione dei due rapinatori che ieri, intorno alle ore 19.00, hanno fatto irruzione nello studio ortopedico del Dottor Celani, al pianterreno di via Lamarmora 72. All’interno dello studio, oltre all’ortopedico, erano presenti anche la moglie e due pazienti in attesa della visita. I due uomini sono entrati armati e hanno intimato alla donna – puntandole la pistola addosso – di consegnare loro l’incasso della giornata. Celani, accortosi della presenza dei due ladri, ha cercato di difendere la moglie innescando così una colluttazione dalla quale è partito un colpo di pistola, che per fortuna, non ha ferito nessuno. I due rapinatori, probabilmente allarmati dall’attenzione che lo sparo avrebbe suscitato, hanno ferito il medico e sua moglie colpendoli alla testa con il calcio dell’arma e sono fuggiti senza riuscire a prendere nulla. Le due vittime se la sono cavata fortunatamente con ferite lievi e sono stati trasportati all’ospedale per ulteriori accertamenti. Sul posto sono giunti immediatamente i carabinieri che ora stanno indagando sull’accaduto cercando di risalire agli autori dell’aggressione e della tentata rapina.

Lo sport praticato in un “Caldo clima al freddo”

Sebbene si possa ragionevolmente far coincidere con il progresso alcuni notevoli passi avanti nella salvaguardia della salute, non sempre tale innovazione concede a tutti noi gli strumenti per una migliore opportunità di adattamento all’ambiente.

Se da una parte le stagioni soccombono agli eventi derivati dalle differenti situazioni degenerative ambientali, mutando improvvisamente da periodi piovosi a caldi asfissianti, da periodi di gelo a primavere inattese, possiamo però notare come negli ambienti cosiddetti “chiusi” si cerchi di mantenere una certa qual “omeotermia” che preveda sempre un clima “ideale”. Il problema sussiste nel valutare se tale “idealità” sia la stessa per tutti o se tale situazione non possa creare degli scompensi. Si possono osservare persone completamente infagottate al volante di una macchina con riscaldamento acceso d’inverno oppure in maglietta con aria condizionata in funzione d’estate. In entrambi i casi, all’apertura delle porte dell’auto e dal primo passo in poi, il mondo esterno presenterà una situazione diversa da quella vissuta fino ad un attimo prima. Se ragionassimo in modo adeguato, potremmo facilmente intuire che in uno dei due ambienti l’abbigliamento non dovrebbe essere adatto; eppure questa circostanza si realizza puntualmente.

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Cosa succederà al nostro corpo? Si adatterà o sarà semplicemente una passiva accettazione di tale situazione a renderci sempre più deboli? Questi sono problemi che sicuramente afferiscono a sfere più importanti del semplice campo sportivo di nostra competenza, ma anche negli ambienti sportivi si è sottoposti a stress climatici non da poco.Infatti, gli ambienti che si definiscono moderni sono costretti a dotare le sale dove si svolge attività fisica di impianti di climatizzazione che consentano alle persone di fare attività senza sudare… (sigh). Oppure di dotare le sale attrezzi di un clima che rassomigli a quello del proprio salotto di casa quando si è in inverno. Premesso che nulla di sbagliato vige nel ricercare un clima ideale che preservi la salute delle persone, è possibile intuire che il nostro corpo vive “protetto” salvo imprevisti… . Basta infatti dimenticare il cappellino, oppure non aver l’aria condizionata che funzioni in auto o il riscaldamento rotto a casa per mandare in tilt la nostra salute, ormai non più allenata agli “sbalzi di umore climatici”.L’attività fisica può permettere di reagire a quest’apatia reattiva del nostro adattamento fisiologico, stimolando i nostri organi a ricreare in maniera efficace e naturale le condizioni innate e forse dimenticate di assestamento personale.

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Consideriamo quindi, visto il periodo di fine inverno e ripresa primaverile che ci apprestiamo a vivere, quali possano essere le piccole strategie individuali di recupero naturale delle nostre facoltà di adattamento che possiamo realizzare in questo periodo. Innanzitutto, la prima regola di salute, oltre che funzionale, è quella di svolgere attività con la minor quantità di abbigliamento possibile (si intende tecnico, non per altre seconde e ben più variegate finalità,…). Questo permetterà al nostro organismo di adattarsi naturalmente alla temperatura degli ambienti in cui si opererà, senza l’opera di filtraggio creata da strati eccessivi di tessuti che permeano in maniera troppo sensibile il passaggio dall’aria alla pelle. Quando si comincia a svolgere attività fisica la temperatura corporea, innescata dal muoversi delle articolazioni e dei muscoli, si innalza, e quindi se ci si era coperti troppo in partenza, la termoregolazione corporea avrà difficoltà nel registrarsi in maniera adeguata. E’ necessario considerare un tipo di abbigliamento a più strati che consenta l’eliminazione di alcuni capi ogni qualvolta si abbia tale necessità. Molta attenzione dovrà essere posta non tanto ai capi superficiali ma soprattutto a quelli più aderenti alla pelle. Non sarà elegante parlarne, ma è necessario considerare che se dopo esserci scoperti per il calore, l’ultimo strato risulterà essere sudato, allora in questo caso la salute sarà a rischio: aria, correnti fredde o rallentamenti dell’attività potranno essere cause di raffreddamento e cosiddetti colpi d’aria.

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Il “colpo d’aria”, che è per sua natura leggendario, così come “l’accavallamento dei nervi” e altri impedimenti simili, altro non è che un periodo prolungato di esposizione di una parte del nostro corpo a situazioni di freddo che costringono il nostro organismo a reagire o contraendosi per riequilibrare la temperatura o soccombendo quando tale situazione è ingestibile. Crearsi un abbigliamento adatto al clima in cui si opera è necessario. Ma sarebbe importante “allenarsi” anche al freddo, intendendo proprio letteralmente quanto scritto. Alcune scuole cinesi hanno malamente interpretato tale concetto esasperando bambini molto piccoli a vivere per alcune ore in maglietta semplice al freddo delle montagne. Il principio ispiratore consisteva nel fortificare lo spirito ignorando le sofferenze del corpo (…) ma il principio che per noi sarebbe in grado di avere una valenza positiva potrebbe essere solo quello di rinforzare le proprie difese costringendo il corpo a reagire ad uno stimolo intenso. Correre ogni tanto all’aria aperta e non solo sul tapìs roulant potrebbe rappresentare una interessante innovazione per il nostro corpo.

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Così come non richiedere aria troppo calda in una palestra o in una piscina potrebbe contribuire a costringere il nostro organismo a rinverdire alcune primitive e salutari facoltà di adattamento all’ambiente.Sudare non fa male, semmai fa male agli altri non lavarsi se si è sudati o se si indossano abiti da troppo tempo “vissuti”, ma la ricerca anche dell’eccessivo caldo può condurre ad errori.E’ importante, piuttosto, predisporre un veloce ed adeguato cambio di indumenti se si opera in un ambiente freddo, una volta terminata l’attività. E’ questo infatti il vero problema. Il maratoneta che corre sotto la pioggia ed il vento non ha grossi problemi fin che corre, così come il ciclista che affronta la salita. Le preoccupazioni nascono o quando la gara termina o quando comincia la discesa. Paradossalmente non è svolgere l’attività fisica “scoperti” quando si è al freddo a creare potenziali nocumenti alla salute (ovviamente quando il freddo è ben tollerato con abbigliamento adeguato) ma è proprio quando questa termina o diminuisce l’intensità che si possono verificare problemi. Predisporre strumentazioni di copertura (felpe o asciugamani) e, soprattutto ricambi delle parti sudate può essere fondamentale. Il sudore che si “asciuga” addosso ha più di un effetto sgradito… . Terminiamo qui questa breve dissertazione con un pensiero finale: non sappiamo più quale sia il clima ideale, ma sicuramente possiamo considerare come la capacità di adattamento si possa “allenare” solo variando più o meno volontariamente clima. Tornare ogni tanto alla “natura” potrebbe essere un gran giovamento per tutti!

 

Paolo Michieletto