Rubriche- Pagina 23

Le foto di Solano e Gigli

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Magnifica Torino / Nella foto di copertina, di Giampaolo  Gigli, panorama di Torino. Sotto lo scatto di Vincenzo Solano: piazza della Repubblica in una notte invernale.

Marco Bani di Vol.To: comunicare il volontariato

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RITRATTI TORINESI

Il Centro Servizi Vol.To ETS– spiega Marco Bani, giornalista pubblicista, che fa parte del suo Consiglio Direttivo con le deleghe alla comunicazione, alla scuola e ai rapporti con le piccole associazioniè un’associazione riconosciuta del Terzo Settore di secondo livello (un’associazione di associazioni) composta da circa 150 organizzazioni socie.

Appena andato in pensione sono entrato a far parte del Consiglio Direttivo di Vol.To, mi pareva il passaggio più naturale dopo gli anni lavorati in Telecom, perché sin dalla mia gioventù, ho fatto volontariato passando la domenica pomeriggio in Barriera di Milano a far compagnia ai ragazzi delle case popolari e poi con l’Associazione “Il Cammino” occupandomi a seguire ed aiutare i ragazzi delle famiglie del quartiere, nell’espletamento dei loro compiti scolastici. Ho sempre partecipato, da volontario, alla giornata della Colletta Alimentare ed alla raccolta farmaci del Banco Farmaceutico.

Il Centro Servizi Vol.To è finanziato attraverso il Fondo Unico Nazionale alimentato dai contributi delle fondazioni di origine bancaria.  Il suo compito principale è quello di supportare edaiutare le associazioni, erogando servizi di supporto tecnico ed informativo e tutto ciò che può risultare utile nell’espletamento delle loro attività, al fine di promuovere e rafforzare la presenza ed il ruolo dei volontari in tutti gli Enti del Terzo Settore che sono 1350 circa, i cui i volontari mettono a disposizione tempo e competenze per promuovere la cultura, tutelare il patrimonio artistico del territorio e accrescerne la fruibilità, rispondere ai bisogni delle persone in condizioni di fragilità, tutelare i diritti, migliorare e umanizzare i servizi sanitari, occuparsi degli animali e dell’ambiente”.

Vol.To offre l’opportunità a cittadini, imprese, istituzioni e scuole di vivere pienamente l’esperienza della solidarietà, aiuta gli aspiranti volontari a trovare l’organizzazione giusta, mediante un servizio gratuito  di orientamento, si occupa di Volontariato aziendale creando percorsi per i dipendenti; orienta e accompagna chi è interessato alla costituzione di una nuova associazione; supporta enti pubblici e privati per i progetti di Servizio Civile (siamo iscritti all’Albo del Servizio Civile Universale a livello nazionale) e nel coinvolgimento dei giovani che nel 2023 sono stati circa 150; lavora con le scuole e la comunità educante per la partecipazione sociale, la crescita umana e il benessere dei bambini/e e ragazzi/e.

“Il volontariato – precisa Marco Bani è un caleidoscopio a 360 gradi, di cui il 60% circa è un volontariato di tipo sanitario, di assistenza ospedaliera, ai malati ed alla disabilità; vi sono i volontariati ecologici, dell’ambiente, della protezione civile, dedicatiai ragazzi con difficoltà nell’aiuto al post scuola, i volontari animalisti, di aiuto agli anziani, utilissimo durante il Covid, per raggiungere gli anziani soli, un’altra forma altrettanto preziosa è  quella culturale e afferente i musei, volto alla diffusione della cultura..

Concludendo ricorda Marco Bani – che il volontariato non è un hobby, un passatempo effimero, il volontariato richiede costanza, determinazione, sensibilità e spirito di sacrificio. Sembra strano, ma fare il volontario arricchisce per primo chi decide di farlo, perché fa incontrare realtà stupende, dove la  gratuità, parola ormai desueta, la fa da padrona. Si può affermare che una vita spesa in aiuto agli altri è una vita più piena, quindi pensateci a dare anche solo una piccola parte del vostro tempo per gli altri.

Mara Martellotta

Insalata russa “insolita” e super-light

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La Ricetta della Cuoca Insolita

 

Chi è La Cuoca Insolita
La Cuoca Insolita (Elsa Panini) è nata e vive a Torino. E’ biologa, esperta in Igiene e Sicurezza Alimentare per la ristorazione, in cucina da sempre per passione. Qualche anno fa ha scoperto di avere il diabete insulino-dipendente e ha dovuto cambiare il suo modo di mangiare. Sentendo il desiderio di aiutare chi, come lei, vuole modificare qualche abitudine a tavola, ha creato un blog (www.lacuocainsolita.it) e organizza corsi di cucina. Il punto fermo è sempre questo: regalare la gioia di mangiare con gusto, anche quando si cerca qualcosa di più sano, si vuole perdere peso, tenere a bada glicemia e colesterolo alto o in caso di intolleranze o allergie alimentari.
Tante ricette sono pensate anche per i bambini (perché non sono buone solo le merende succulente delle pubblicità). Restando lontano dalle mode del momento e dagli estremismi, sceglie prodotti di stagione e ingredienti poco lavorati (a volte un po’ “insoliti”) che abbiano meno controindicazioni rispetto a quelli impiegati nella cucina tradizionale. Usa solo attrezzature normalmente a disposizione in tutte le case, per essere alla portata di tutti.

Calendario corsi di cucina ed eventi con La Cuoca Insolita alla pagina https://www.lacuocainsolita.it/consigli/corsi/

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Insalata russa “insolita” e super-light


L’insalata russa è un classico: si trova in tavola in mille occasioni ed è buonissima. Ma c’è un piccolo problema: ha un potere calorico e un contenuto di grassi micidiali. Se però non volete rinunciare, c’è un modo per prepararla con il 75% di calorie e il 95% di grassi in meno rispetto alla ricetta tradizionale. Ma come fa ad essere così buona? Anche se è senza uova né patate ed è super-light, è deliziosa. Non preoccupatevi di deludere i vostri ospiti: quando scopriranno il segreto della vostra ricetta non potranno più farne a meno!

Tempi: Preparazione (45 min); Cottura (10 min).
Attrezzatura necessaria: pentola per cottura a vapore con cestello, coltello a lama liscia e tagliere, minipimer, grattugia per scorza di limone, colino
Ingredienti per 4 persone:
Per le verdure:
⦁ Piselli surgelati – 100 g
⦁ Carote – 100 g
⦁ Topinambur (o patate) – 100 g
Per la maionese super-light:
⦁ Fagioli bianchi di Spagna – 200 g
⦁ Latte di soia o di canapa – 50 g
⦁ Succo di limone – 25 g
⦁ Scorza di ½ limone – 2,5 g
⦁ Olio e.v.o. –2 cucchiaini
⦁ Sale fino integrale di Sicilia – 6 pizzichi (1,5 g)
⦁ Curcuma in polvere – 1 punta di cucchiaino
⦁ (per chi vuole: Filetti di sgombro al naturale – 50 g)

Approfondimenti e i consigli per l’acquisto degli “ingredienti insoliti” a questo link: https://www.lacuocainsolita.it/ingredienti/

Difficoltà (da 1 a 3): 1 Costo totale: 3 €
Perché vi consiglio questa ricetta?
⦁ Il vostro medico vi ha detto di eliminare le Solanaceae (es. patate, melanzane, pomodori e peperoni) dalla dieta, ma voi ne andate pazzi? Nessun problema! Qui userete i topinambur al posto delle patate! Il risultato è sorprendente e fa bene anche a chi vuole tenere a bada la glicemia.
⦁ Se non volete usare il latte di soia, potete usare il latte di canapa: è uno dei pochi alimenti di origine vegetale che contiene tutti gli aminoacidi essenziali (quelli che il nostro organismo non sa produrre da solo) che servono per formare le proteine. In alternativa anche il latte vaccino può andare benissimo.
⦁ In una porzione da 200 g, solo 125 Kcal al posto di 535 Kcal circa della ricetta tradizionale (il 75% in meno! Si, avete letto bene…).
⦁ Pochissimi grassi: meno di un cucchiaino di olio a porzione… Il 95% in meno di grassi rispetto alla ricetta tradizionale. Ideale quindi anche per chi ha problemi con il colesterolo e a chi vuole perdere qualche chilo.

Preparazione
LE VERDURE
Pelate e tagliate le carote e i topinambour a dadini piccoli, di massimo 1 cm di lato. Cuocete a vapore le verdure separatamente. Se usate la pentola a pressione i tempi sono questi: piselli surgelati (5 min), carote (5 min), topinambur (3 min). Se avete una pentola normale il tempo è il doppio. Se usate le patate il tempo in pentola a pressione è di 2 min.
LA MAIONESE SUPER LIGHT
Spremete il limone e filtrate il succo su un colino. Grattate la scorza del limone e mescolatela al succo e a tutti gli altri ingredienti nel bicchiere del minipimer, per frullate fino ad ottenere un composto cremoso e senza pezzi.
LA PREPARAZIONE DELL’INSALATA RUSSA “INSOLITA”
Mescolate le verdure e la maionese super-light. Mettete tutto nel contenitore che sceglierete per dare la forma al vostro antipasto. Schiacciate bene, livellate e capovolgete il contenitore su un piatto di portata. Potete decorare a piacere.

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A chi è adatta questa ricetta?
Senza uova. In più, usando il latte di canapa, anche chi è allergico a soia o latte può mangiare questa insalata russa “insolita”.

 

 

 

 

 

 

 

Valori nutrizionali
Una porzione della ricetta della Cuoca Insolita a confronto con la stessa porzione della ricetta tradizionale con maionese, uova e tonno sott’olio:

Torino e i suoi teatri: il Medioevo e i teatri itineranti

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Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

 

2  Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti

Cari lettori, il caldo e l’afa di questi giorni hanno notevolmente limitato le mie energie, di conseguenza non ho “escamotage” letterari da proporvi per l’abituale introduzione discorsiva che è solita precedere l’argomentazione vera e propria dei miei pezzi. Non mi attarderò dunque oltre, al contrario vi propongo di entrare subito “in medias res”, nel vivo del nostro discorso sulla storia del teatro, iniziato la settimana scorsa con una premessa sulle radici antiche di tale fenomeno rappresentativo.
L’unico augurio che mi preme rivolgervi è che possiate leggere questo mio scritto in un luogo strategico, magari su una panchina ombrosa e leggermente ventilata, oppure a casa, seduti sulla vostra poltroncina preferita, mentre il ventilatore vi fa roteare i pensieri estivi.
Lo ribadisco, la materia che mi sono proposta di trattare è pressoché infinita e alquanto complessa, ma vedrò di proseguire per sommi capi, proponendovi un racconto organico ma non eccessivamente specifico, tale da rispecchiare le caratteristiche delle letture che solitamente si fanno sotto l’ombrellone.
Oggi ci occupiamo delle forme teatrali tipiche dell’epoca medievale, uno dei momenti storici maggiormente estesi e variegati che compongono le vicende dell’Europa.
Solo per rispolverare nozioni che sicuramente già avete e per rendere accetta quell’attitudine da docente che ormai è parte integrante del mio essere, vi ricordo che stiamo prendendo in considerazione quell’esteso periodo di circa mille anni che va dal 476 d.C. (caduta dell’Impero Romano d’Occidente), al 1492 (scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo).
Il termine Medio Evo deriva dal latino “media aetas” o “media tempestas”. Per lungo tempo i dotti hanno considerato tale periodo come un’ epoca “buia”, priva di quegli ideali alti e luminosi tipici dell’Umanesimo e del Rinascimento. Bisognerà attendere l’Ottocento affinché l’atteggiamento degli studiosi cambi, e si inizi a considerare con attenzione i molteplici avvenimenti importanti che si susseguono a partire dalla caduta dell’Impero Romano fino all’inizio dell’epoca moderna.


Lungi da me propinarvi in questa sede una lezione di storia, sarebbe davvero troppo complesso e non opportuno, quello che posso invece fare è – per semplificare la questione- proporvi di richiamare alla mente immagini simboliche e, se vogliamo, stereotipate, di quei secoli, in modo da immedesimarci il più semplicemente e velocemente possibile in quel “guazzabuglio medievale”.
Vi invito dunque a pensare al capolavoro bergmaniano de “Il settimo sigillo” (1958), in cui il contrastato bianco e nero avvolge le melanconiche vicende dei personaggi, primo fra tutti Antonius Block (Max von Sydow), cavaliere di ritorno dalla Crociate, accompagnato dal fedele servo Jöns. Il film incarna con magistrale maestria la comune visione che si ha dell’epoca medievale: impregnata di religiosità opprimente, in cui la fede nella magia e nell’ultraterreno prendono il sopravvento sul raziocinio e in cui la violenza delle guerre si affianca alla povertà dilagante.
Iconiche e indimenticabili sono le emblematiche scene della processione dei guitti e dei flagellanti e quella finale, in cui le sagome dei protagonisti “danzano solenni allontanandosi dal chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto”. Ed ora che siamo pronti per proseguire, ormai pienamente contestualizzati in questi secoli lontani ma pur sempre affascinanti, prima di tutto occorre dimenticarci del concetto di teatro greco e latino. Con il crollo dell’Impero Romano l’antica istituzione teatrale viene surclassata da un’idea di teatro imprecisa e nebulosa e dai confini decisamente più labili rispetto all’antico. Rientrano infatti nel generale concetto di spettacolo teatrale svariati fenomeni, dai riti liturgici alle feste popolari, dall’esibizione di giullari e saltimbanchi, alle sacre rappresentazioni.
La memoria del teatro classico sopravvive grazie agli amanuensi, come testimonia la monaca Hroswita (935-973), la quale riporta che nei monasteri autori come Terenzio vengono ancora letti e trascritti, tuttavia si tratta appunto di semplici letture e non di rappresentazioni a tutti gli effetti.
In epoca medievale si parla di “teatralità diffusa”, espressione che si riferisce alla nascita e alla diffusione di diverse figure che differenziano i numerosi professionisti dello spettacolo, comunemente chiamati “histriones”. Accanto agli attori comuni, troviamo “joculatores”, “mimi”, “scurrae”, “menestriers” o “troubadours”; tra questi il ruolo più diffuso è sicuramente quello dello “joculator”, ossia “colui che si dedica al gioco”, ma lo “joculator” è anche – in senso lato- il chierico o il monaco incline al vagabondare, – il “gyrovagus”- che è senza fissa dimora e conseguentemente privo di un ruolo stabile all’interno della società.

La figura del teatrante, sia esso un “histrione” o un giullare, è da subito considerata negativamente, tant’è che la storia degli attori può considerarsi parimenti come la storia della loro condanna.
Certo, anche nell’antichità gli attori non godevano di particolari riconoscimenti, ma è proprio in epoca medievale che la situazione si inasprisce.
Se tra voi lettori vi è qualche disneyano convinto, avrà sicuramente presente, ne “Il gobbo di Notre Dame”, il disprezzo che prova il malvagio giudice Frollo nei confronti non solo del popolo gitano, ma degli umili parigini che partecipano alla “Festa dei Folli”. Il cartone del 1996 altro non fa che sottolineare quel lunghissimo conflitto che nasce proprio in epoca medioevale, tra il mondo ecclesiastico e i teatranti. Di tale dissidio oggi chiaramente non si percepisce più nulla, ma fateci caso: quanti tendoni viola avete visto ancora adesso all’interno dei teatri? (il viola è il colore dei paramenti liturgici usati in Quaresima). Per comprendere appieno questo contrasto è opportuno pensare alla rivoluzione culturale attuata dal Cristianesimo, i cui primi scrittori, gli apologisti, pur accogliendo la tecnica letteraria e la retorica della civiltà classica, rifiutano la società pagana e la sua concezione della vita. Della cultura classica in genere il teatro era considerato l’espressione più terrena e diabolica. I giullari e i teatranti sono visti come “instrumenta damnationis” e condannati senza pietà per le turpitudini a loro attribuite. Moltissimi sono i documenti che attestano le accuse mosse contro gli uomini di spettacolo, ma sono proprio tali condanne a essere le migliori fonti a cui attingere per studiare l’attività giullaresca di tale periodo.
Le motivazioni di biasimo sono riducibili a tre termini specifici: l’attore è “gyrovagus”, “turpis” e “vanus”. Con il primo termine si sottolinea il “porsi ai margini” e lo stare al di fuori dell’organizzazione sociale; in seconda istanza l’arte del giullare è priva di contenuto, cioè “vana”, ma ciò che è vano è mondano e ciò che è mondano è diabolico; infine, l’attore è “turpis”, perché è colui che stravolge (“torpet”) l’immagine naturale delle cose, intervenendo e modificando la natura, così come Dio l’ha creata, sublime e perfetta.

Tale condanna riguarda tutti i tipi di travestimenti, attività specifiche anche di altri contesti, quali la festa popolare e la grande festa carnevalesca.
Non di meno i giullari sono un elemento costante della vita quotidiana, come ben dimostrano le arti figurative: essi compaiono numerosi, raffigurati con sembianze animalesche e bestiali in particolar modo nei codici miniati e nei capitelli delle chiese. La figura del giullare è tuttavia molto complessa e ricopre diversi ruoli. Uno degli incarichi a lui affidabili, ad esempio, è quello di diffamare determinati individui, di qui la “satira contro il villano”, – il contadino è sempre il bersaglio più gettonato – particolarmente diffusa dall’anno Mille nelle “chouches” aristocratiche e borghesi. Egli è però anche un narratore, un cantastorie, autore sia delle amate “Chansons de geste”, sia di favolette o “fabliaux”, brevi storie in cui i protagonisti si muovono nella sfera del quotidiano, avvicinandosi alla “farsa”. L’acerrimo dissidio tra Chiesa e Teatro non si esaurisce nel solo svilire e condannare la figura dell’attore, vi è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: il rito purificatore e spirituale che si contrappone alla festa mondana.
Il rito cattolico è in effetti ricco di elementi spettacolari e trova il suo culmine nella Santa Messa, in quanto rappresentazione simbolica di un avvenimento: “Fate questo in memoria di me”. Nell’assistere al rito, inoltre, il fedele non si limita alla mera contemplazione del mistero che lo trascende ma partecipa attivamente al rituale che lo coinvolge.
Rimanendo in ambito religioso, si diffonde nel Medioevo il “tropo”, una particolare cerimonia ottimamente esemplificata dal “Quem quaeritis?”, le cui battute sono tratte direttamente dai testi evangelici. In questo caso specifico la vicenda rappresentata descrive la visita delle pie donne al sepolcro di Gesù, esse lo trovano vuoto e subito assistono alla discesa di un angelo che annuncia loro l’avvenuta resurrezione.

Dal “tropo” si sviluppa il dramma liturgico, che può svolgersi in una piccola parte della chiesa o investirla totalmente, avvalendosi in questa circostanza di allestimenti scenici ben determinati e con precisi valori simbolici. Nel dramma liturgico troviamo per la prima volta l’idea della scena “simultanea”, caratteristica prima dei “misteri”. Si tratta di particolari sacre rappresentazioni allestite fuori dalle mura delle chiese e prive di connessioni con il cerimoniale liturgico ma dirette da chierici o preti, la rappresentazione era solitamente accompagnata da didascalie in latino, vero e proprio elemento che fa da “trait d’union” con il recinto sacrale. Uno dei “misteri” più tipici e apprezzati è lo “Jeu d’Adam” – spettacolo composto da un autore normanno, e particolarmente diffuso nel XII – secolo in cui per la prima volta vengono allestiti dei “luoghi deputati”, atti a rappresentare la globalità dell’Universo, costituito da Terra, Paradiso e Inferno.
I luoghi deputati, anche chiamati “mansiones” (case), sono costruzioni in legno e tela che delimitano zone circoscritte in cui avviene una determinata azione.
Tali spettacoli – dramma liturgico e “misteri”- vengono realizzati e allestiti da laici, ma appartengono nondimeno alle diverse forme di teatro cristiano, poiché il tutto è incentrato sulla visione, semplificata e drammatizzata, delle Sacre Scritture e della vita dei Santi, o in altre parole, sull’eterna lotta tra Bene e Male.
Vi sono poi i “grandi misteri”, che si svolgono in più giornate ma che non differiscono di molto dalle rappresentazioni più semplici.
Queste manifestazioni sono essenziali per il credente, poiché rappresentano e sintetizzano con semplicità tutto ciò che il buon cristiano deve sapere, la funzione culturale dei “misteri” non differisce poi molto da quella della “Biblia pauperum”, ossia la “Bibbia dei poveri”, una raccolta di immagini che rappresentano scene della vita di Gesù e le figure e le vicende dell’antica storia di Israele.

Siamo dunque arrivati al termine, vi ho grossomodo raccontato delle principali manifestazioni teatrali che fioriscono in epoca medioevale; esse nascono in quei secoli lontani ma perdurano nel tempo, soprattutto laddove gli spettacoli assumono cadenza annuale e finiscono per tramutarsi in ricorrenze tradizionali.
Sottolineo ancora che gli spettacoli religiosi non sono altro che il rovescio cristiano degli antichi riti carnevaleschi e pagani della fecondità, tanto che a volte si fondono con essi.
Ancora una volta spero di avervi invogliato ad approfondire l’argomento, magari cercando qualche festività o ricorrenza tradizionale a cui partecipare. Il teatro ha molti volti, dall’aspetto tradizionale dello spettacolo in prosa fino alla festa popolare, tale sua peculiare natura ci offre l’opportunità di scegliere quale tipologia di stupore vogliamo vivere, qualcosa di più intimo o un’esperienza condivisa con la comunità, sta a noi decidere che maschera indossare.

Alessia Cagnotto

Fiorenzo, l’operaio che faceva “i baffi alle mosche”

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Quando ho conosciuto Fiorenzo – detto anche “stravacà-rundell” – era ormai in pensione ma il mio collega Rinaldo, più giovane di me, l’aveva avuto come “maestro” in fabbrica

Finita la scuola dell’obbligo, nonostante i buoni voti, Rinaldo aveva scelto – contro il parere dei genitori – di andare a lavorare in fabbrica. “Per studiare c’è sempre tempo“, si era detto. Un errore bello e buono che lui stesso, con il tempo, aveva ammesso. Sì, perché, come spesso accade, “ogni lasciata è persa“, e ciò che non si fa all’età giusta è ben difficile che si possa recuperare più avanti. Per sua fortuna Rinaldo aveva, come dire, “recuperato” ai tempi supplementari, da privatista, studiando di sera e lavorando di giorno. Era approdato alla Banca quando stava per festeggiare il suo venticinquesimo compleanno. Il signor Bruno, che aveva una fabbrichetta proprio sotto casa mia, lo diceva sempre anche a me: “Studia. Fat mia mangià i libar da la vaca“. Farsi mangiare i libri dalla vacca equivaleva, un tempo, a smettere di studiare per fare il contadino, imbracciando vanga, rastrello e falce al posto di penna, libro e quaderno. Quando non ce n’era necessità assoluta, era un peccato non “andare avanti” a scuola. Comunque, tornando a Rinaldo, non si mise certo a piangere sul latte versato. La fabbrica, un’azienda meccanica con una trentina di dipendenti, era poco distante da casa sua e venne assegnato come “bocia“, come apprendista,  alle “cure” di Fiorenzo. 

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“ Dovevi conoscerlo a quel tempo, amico mio. Era un operaio provetto, in grado di fare “i baffi alle mosche”. Tirava di fino con la lima, maneggiava con abilità il truschino per tracciare e il calibro per le misurazioni. Era un ottimo attrezzista, in grado di preparare uno stampo per la pressa ma s’intendeva bene anche di macchine come le fresatrici e i torni. Per non parlare poi della rettifica”. Con quella macchina utensile, si lavora sui millesimi, togliendoli dal pezzo in lavorazione con precisione chirurgica, grazie alla mola a grana fine e durissima che garantisce un alto grado di finitura. “ Sotto la sua guida ho imparato, in quegli anni, a lavorare sulle rettificatrici in tondo, senza centro e su quella tangenziale, per le superfici piane. A volte bisognava mettersi la mascherina, soprattutto quando si lavoravano i pezzi cromati: quelle nuvole di acqua e olio emulsionabile che abbattevano le polveri  e raffreddavano il “pezzo”, non erano per niente salubri”.  Nell’officina, a lavorare con Riccardo e Fiorenzo, erano in diversi. C’era un capo operaio che veniva dalla provincia di Varese, soprannominato “lampadina“, con la sua crapa pelata e la palandrana blu dalle tasche sfondate a forza s’infilarci gli attrezzi; Antonio, tornitore dall’aria austera che al solo guardarlo metteva in soggezione; Luìsin, una specie di factotum che s’occupava principalmente del magazzino; Silverio, abile e scaltro saldatore che si esprimeva per metafore mutuate dalle pubblicità di “Carosello“; Ansaldi, addetto ai trapani, compreso quello radiale che sembrava davvero un mostro con il suo pesante mandrino che stringeva ragguardevoli punte adatte a forare le lastre più grandi.

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Dal racconto di Riccardo pare proprio che si respirasse un clima di grande umanità in quei capannoni. Anche gli scherzi che toccavano alle “matricole“, non erano mai troppo pesanti. Se mandavano a prendere la “punta scarpina del 43“, il calcio nel sedere veniva quasi appoggiato alle chiappe, senza foga. Un “ricalchin“, niente di più. Chiedere al fresatore di poter ottenere un po’ “d’acqua d’os“, comportava una annaffiatura appena accennata con lo spruzzino a mano. In caso di necessità, richiesto con i dovuti modi, non mancava mai l’aiuto dei più esperti, segno di una disponibilità al giorno d’oggi quanto mai rara. “Un giorno Fiorenzo, soddisfacendo la mia  curiosità – racconta Riccardo   mi spiegò l’origine di quel soprannome  che s’era “guadagnato” da giovane, lavorando in una fabbrica un po’ più grande. Portando una cassa di rondelle di ferro verso il magazzino non aveva visto in tempo un buco nel pavimento ed il carrellino si era ribaltato, rovesciando sul pavimento l’intero contenuto”. Aveva impiegato una mezza giornata a scovarle, quelle maledette rondelle. Erano finite dappertutto: sotto le macchine e i banchi, nei cumuli di trucioli di ferro e tra la segatura che avevano buttato per terra sotto l’alesatrice per asciugare l’acqua che colava giù. “Da quel momento sono diventato lo “stravacà-rundell”. Poco importa se quella è stata l’unica volta che mi è capitato”, ammetteva, sorridendo, Fiorenzo. Personalmente l’ho conosciuto al circolo, una dozzina d’anni fa. Da quando gli era morta l’Adalgisa, sua moglie, veniva più spesso a fare quattro chiacchiere e una partita a carte insieme a noi. Raccontando degli episodi della fabbrica – che trovavano conferma nelle parole di Riccardo – emergevano altre figure, alcune esilaranti come nel caso di Igino e di Fedele. Entrambi avevano l’abitudine del bere che consideravano tale, rifiutando categoricamente che fosse “un vizio“. Igino lo conosco e me ho avuto prova quando,  insieme, siamo andati, una mattina di primavera, a pescare nel Selvaspessa, il torrente che dal Mottarone scende giù fino al lago Maggiore. Prima di raggiungermi sul greto del torrente, aveva fatto colazione “alla montanara“: pane, formaggio e una grossa tazza di caffè e grappa, dove la grappa prevaleva e di molto sul caffè. Dopo un’ora che si pescava, chiamandolo e non ricevendo risposta, lo trovai sdraiato su di un sasso, con i pantaloni arrotolati sopra il ginocchio e i piedi nudi nell’acqua corrente del fiume.

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L’acqua era gelata ma lui, sbadigliando sonoramente dopo le mie scrollate, mi disse che “aveva caldo ai piedi e un po’ di sonno“, e così ne aveva approfittato. Roba da matti, penserete ma vi assicuro che per Igino era la normalità. Aveva un fisico bestiale. Quando la domenica, indossata la maglia azzurra del Baveno, giocava a pallone, correva sulla fascia come una locomotiva per l’intera durata della partita, mostrando una riserva inesauribile di fiato. E a caccia di camosci era capace di stare delle ore immobile, nella neve, per mimetizzarsi. Fedele, invece, era più indolente e si muoveva sempre e solo sulla sua “Teresina”, una Vespa 125 del 1953, che teneva lustra e curata nemmeno fosse la sua morosa. Fiorenzo e Riccardo ricordavano il giorno in cui l’autista dell’azienda, con la sua “Bianchina“, stava tornando da una commissione. Lo videro in fondo al viale alberato, con la freccia pulsante a sinistra. Alle sue spalle c’era Fedele, sulla sua Vespa. L’auto procedeva a passo d’uomo ma non svoltò a sinistra al primo incrocio. Fedele gli stava dietro, tradendo una certa impazienza. La “Bianchina“, nonostante la freccia sempre inserita, non svoltò nemmeno in procinto delle altre due strade che gli avrebbero consentito la deviazione annunciata dall’indicatore luminoso . Ormai persuaso che la freccia era rimasta inserita per una dimenticanza dell’autista, Fedele accelerò per il sorpasso. Fu in quel momento che, giunta in prossimità del cancello della fabbrica, l’auto svoltò repentinamente e Fedele, con una sterzata disperata, evitò di un soffio la collisione , infilandosi nel bel mezzo di una siepe di rovi. “ Non ti dico in che stato era quando riuscì a liberarsi dalla morsa dei rami spinosi”, confessò Riccardo.

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Era uno strazio, con i vestiti strappati e il corpo coperto di graffi. Anche la sua  “125” era un graffio unico e soltanto la velocità, inaspettata quanto provvidenziale, del vecchio autista nel mettersi al riparo dalla sua furia – barricandosi nel gabinetto alla turca – impedì al motociclista di strozzarlo”. Quegli anni, certamente duri e non facili, venivano raccontati sia dall’anziano Fiorenzo che dal più giovane Riccardo come una specie di “formazione alla vita”.  “ Mi hanno aiutato a farmi la “scorza”, a capire come girano le cose e ad avere grande rispetto per il lavoro e per quelli che – quando hanno un impegno – non si tirano indietro, senza dimenticare che non costa nulla dare una mano a chi è in difficoltà e fatica a tenere il passo“, diceva Riccardo. Confidava di essere in debito con i suoi compagni di allora per tutte le cose che aveva appreso, “anche per quelle meno belle che- comunque – servono a volte più di quelle piacevoli”. Li aveva conosciuto Marcello, che voleva andare dal ginecologo perché “ghò mal ad un ginocc’.. ” e  De Maria, che conosceva a memoria la Divina Commedia; aveva lavorato gomito a gomito con Carmelo, una “testa fina” in grado di leggere i disegni tecnici più sofisticati che nemmeno un ingegnere avrebbe potuto “bagnargli il naso” e Morlacchini che, un giorno, si costruì una padella per le caldarroste talmente pesante che bisognava essere in due per far “ballare” le castagne sul fuoco. Tutti erano un po’ speciali e molto, molto umani. Forse – ne sono convinto anch’io che pure ho percorso una strada diversa – si dovrebbe andar tutti, anche per poco, a lavorare in fabbrica, in cava o in ambienti simili. Si capirebbero tante cose e si direbbero tante stupidaggini in meno.

 

Marco Travaglini

 

Studenti torinesi: Primo Levi al d’Azeglio

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano CalvinoAnche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

6 Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio

“Panem et Circenses”, con queste parole Giovenale, il grande autore satirico romano (I-II sec. d.C.), denunciava una politica manipolatrice, che utilizzava lo svago e i futili passatempi per ingannare il popolo, così che l’apparente benessere della massa corrispondesse al più concreto benessere politico.
Nella nostra epoca contemporanea la celebre locuzione potrebbe variare nei termini, ma non credo poi molto nel significato. Grazie alle numerosissime app dei nostri smartphone risolviamo comodamente da casa il problema del “panem”, giocando a farci portare a domicilio qualunque tipo di cibo ci solletichi e poco ci importa di chi deve appagare celermente il nostro stomaco, né delle difficoltà in cui potrebbe incorrere il nostro corriere nel tragitto. Più o meno secondo la stessa modalità soddisfiamo i “circenses”, le piattaforme multimediali aumentano esponenzialmente a velocità impressionante, la nostra unica difficoltà è rimanere sempre aggiornati per poter scegliere l’offerta migliore e quindi trascorrere il pomeriggio comodamente sul divano, guardando quel film di cui tutti parlano, oppure la serie Tv più in voga al momento. E se non ci sentiamo così tanto “passivi”, allora possiamo ricorrere ai giochi, alla playstation, alla wii, ai giochi on line e via discorrendo. E non sto parlando di questo drammatico periodo, in cui stare a casa ovviamente non è un obbligo, ma un dovere nei confronti degli altri e di noi stessi; mi riferisco a prima, a quando le abitudini non erano poi così diverse da ora, ma nessuno si lamentava.

Non è il caso di sentirsi “complottisti”, ma di certo dà da pensare tutta questa tecnologia “monoporzione”, che impegna e che immerge totalmente, che unisce, ma sempre attraverso uno schermo, e che ci distrae dalla vita vera, quella che scorre fuori dalla finestra, mentre noi non la guardiamo.
Che si può fare per sconfiggere questa apatia dilagante, questa superficialità di massa, questa abitudine all’approssimazione? Si può reagire. Come? Attraverso la cultura e la conoscenza, andando ad investire là dove non c’è rimasto quasi niente, andando a riporre fiducia nei professionisti dell’educazione, riconoscendo nuovamente l’importanza e l’essenzialità della scuola.
Nell’opera “Se questo è un uomo”, nel capitolo “ il canto di Ulisse”, Primo Levi ricorda di aver cercato di insegnare l’italiano al compagno di lager Jean, spiegandogli il XXVI dell’”Inferno” dantesco, la cui parte essenziale è dedicata alla “orazion picciola” dell’eroe greco che dice ai compagni: “fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. La tragedia odissiaca mantiene una precisa funzione esemplare, vuole essere un monito per tutti gli uomini, un proposito al di sopra di ogni affetto contingente, all’infuori di ogni preoccupazione di pericolo personale. L’autore combatte così la brutalità e l’ignominia di Auschwitz, appellandosi, in questa parte del testo, alla grandezza invincibile del Sommo Poeta, padre della lingua italiana e indiscusso simbolo di cultura universale.

Non a caso ricordo Primo Levi, perché è proprio di lui che vorrei raccontare qualcosa oggi, sempre continuando nel nostro percorso sulla scuola e sugli studenti torinesi.
Egli nasce a Torino, il 31 luglio del 1919. È stato testimone diretto delle deportazioni naziste, i suoi scritti sono una testimonianza sempre attuale e passai notabile a proposito di quegli anni bui che continuano a suscitare vergogna alla coscienza degli uomini. Di salute cagionevole, Primo era un bambino sensibile e fragile, caratteristiche che lo hanno portato a trascorrere un’infanzia sostanzialmente solitaria. Nel 1921 nasce Anna Maria Levi, la sorella minore a cui lui rimane sempre affezionato.
Nel 1934 Primo viene iscritto al Ginnasio del Liceo Massimo D’Azeglio di Torino, fin da subito si palesa un eccellente studente, dimostrando bravura e preparazione sia nelle materie scientifiche che in quelle letterarie. Da non dimenticare che il primo anno avrà niente meno che Cesare Pavese come supplente di italiano, anche se solo per pochi mesi. Dopo le scuole superiori, Primo frequenta la Facoltà di Scienze, che termina con una laurea con lode nel 1941: sono anni importanti per il brillante giovane, sia per la crescita personale, sia per le amicizie che riesce a stringere tra i banchi di scuola e i laboratori, rapporti sinceri che dureranno per tutta la vita. Eppure c’è un dettaglio da sottolineare, sull’attestato di laurea vi è scritto: “di razza ebraica”. Intanto la guerra incalza, ed egli nel 1942 si trasferisce a Milano, nel 1943 si rifugia ad Aosta e si unisce ad un gruppo di partigiani. Il suo coraggio però non lo ripaga con la stessa moneta e di lì a poco Levi cade prigioniero dei nazisti; il giovane viene deportato prima al campo di Fossoli (Modena) e poi, all’inizio del ’44, nel lager di Monowitz, che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz. Il resto come si suol dire è storia: impossibile riprendersi da tale drammatica esperienza.

Liberato nel gennaio del ’45 dalle truppe sovietiche, per tornare in patria Levi deve attraversare la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, e infine giunge a Torino nell’ottobre del ’45. Inseritosi nella vita civile, sente comunque il bisogno di raccontare ciò che ha subito.
Scrive “Se questo è un uomo”, romanzo-testimonianza edito nel 1947 e ancora oggi letto a scuola, un libro che forse è nato “per forza”, per dovere di imprimere nella memoria collettiva la violenza e la brutalità di cui l’uomo è capace. In una scrittura lucidissima e misurata, il ricordo della vita nel lager di Monowitz si svolge come in un racconto-diario. Tutto è guidato dal desiderio di capire una realtà che appare oltre ogni razionalità. In quel mondo assurdo, il prigioniero tiene costantemente vigile una ragione impotente di fronte alla terribile epopea di una umanità irrimediabilmente offesa.

Nel 1963 Levi pubblica “La tregua”, in cui racconta il ritorno a casa dopo la liberazione, un singolare momento di “tregua” nella vita. Scrive “Vizio di Forma” (1971), “Il sistema periodico” (1975), un insieme di racconti autobiografici disposti in ventuno capitoletti, “L’osteria di Brema”, “La chiave a stella” (1978), “La ricerca delle radici” e “Se non ora quando?”(1982), nitida ricostruzione delle vicende di un gruppo di partigiani ebrei in Russia. Nel 1986 viene pubblicato un saggio, ultimo lavoro dell’autore, dal titolo emblematico, “I Sommersi e i Salvati”, che ha valore di accorato testamento, un inquieto ritorno dell’autore all’esperienza del lager, e alla necessità di interrogarsi su quell’orrore inesprimibile. Una memoria per tutti, per una società che potrebbe ricadere nel male. Primo Levi muore suicida nella casa di Torino l’11 aprile 1987.Chissà se un po’ del coraggio di questo grande uomo gli venne anche dalla formazione scolastica avuta al Liceo D’azeglio, luogo per definizione dell’”intellighenzia torinese”? La storia del Liceo inizia nei primi anni dell’Ottocento, quando viene istituito il Collegio di Porta Nuova. L’istituzione è prima trasferita nel 1852 presso la Parrocchia degli Angeli, poi, nel 1857, viene nuovamente spostata presso il Collegio Municipale Monviso. Con l’aumentare della popolazione della città subalpina, si sente il bisogno di creare un nuovo liceo classico, oltre ai già presenti licei Cavour e Gioberti, risalenti il primo al 1586 (riceverà la titolazione “Cavour” nel XIX secolo) e il secondo al 1865 (l’Alfieri verrà fondato nel 1901); così nel 1882 viene fondato il Liceo D’Azeglio, intitolato al celebre politico risorgimentale. La scuola comprendeva allora i cinque anni di corso ginnasiale e i tre del corso liceale. All’epoca, gli studenti appartenevano per lo più alla borghesia della zona Crocetta, anche se non mancavano iscritti di altre zone e classi sociali.

Molte sono le figure “dazegline” che hanno rivestito un rilevante ruolo politico e culturale nella storia, non solo di Torino, ma di tutto il Paese. Tra i vari nomi è bene ricordare Umberto Cosmo, Augusto Monti, Zino Zini, Franco Antonicelli. Tra gli studenti, Cesare Pavese (che è stato per qualche tempo anche docente), Giulio Einaudi, Leo Pestelli, Massimo Mila, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Giancarlo Pajetta, Renzo Giua, Emanuele Artom, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Fernanda Pivano. In tempi più recenti hanno frequentato le medesime aule Mario ed Enrico Deaglio, Paolo Montalenti, Gian Savino Pene Vidari, Lucio Levi, Sergio Pistone, Roberto Alonge, Carlo Ossola. Inoltre, nel 1975, durante gli anni della partecipazione attiva al movimento studentesco, viene eletto presidente del Consiglio d’Istituto Primo Levi, il quale promosse come prima iniziativa un rinnovato impegno antifascista del Liceo.

Un importante fatto sportivo si lega poi al Liceo D’Azeglio: nel 1897, un gruppo di studenti della terza e della quarta classe del Ginnasio, che si ritrovavano assiduamente in Piazza d’Armi per giocare a calcio, fondano niente meno che la “Juventus”. Nel 1900 la squadra esibisce la camicia rosa e la cravatta nera nel primo campionato, che affronta presentandosi con il nome Sport Club Juventus. Nell’attuale sede della squadra è tuttora conservata la panchina che un tempo si trovava in C.so Re Umberto, attorno alla quale erano soliti ritrovarsi i ragazzi fondatori della squadra.
Attraverso i registri e i documenti scritti, sono molte le storie del Liceo che per fortuna possono essere ricordate. Le vicende parlano di legami forti che si crearono tra studenti e studenti, ma anche tra scolari e professori, narrano di incontri il sabato pomeriggio, in un caffè di via Rattazzi tra il “Profe” Monti e i suoi allievi ed ex allievi, o raccontano ancora di quell’episodio che vedeva come protagonista Giancarlo Pajetta, espulso per volontà del Ministero della Cultura con l’accusa di propaganda sovversiva: tale avvenimento era stato così commentato dal professor Monti: “Fu bene una fucina di antifascisti il ‘Massimo D’Azeglio’ in quegli anni, ma non per colpa o per merito di questo e quell’Insegnante, ma così, per effetto dell’aria, del suolo, dell’ ‘ambiente’ torinese e piemontese. Quel Liceo era come una di quelle case in cui ‘ci si sente’; dove i successivi inquilini sono visitati nel sonno – e anche da desti – dagli spiriti, dalle anime.”

Altro episodio testimoniato è il rinvio a settembre della prova di italiano nella sessione estiva degli esami di maturità del 1937 di Fernanda Pivano e del compagno Primo Levi, i due scrittori si erano ritrovati a dover sostenere nuovamente la prova nella sessione autunnale. Quante cose accadono a scuola, quante se ne imparano, quante ci rimangono impresse nella memoria per sempre. Non facciamoci distrarre dalle comodità dell’ultimo momento, ricordiamoci di che cosa è importante, di ciò che ci eleva, di ciò che ci fa crescere sul serio.

Alessia Cagnotto

Una soffice torta di pere

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Morbida, pochi ingredienti semplici, ideale per ogni momento della giornata, questa e’ la golosa torta di pere. Un dolce delicato, profumato e genuino, di facile realizzazione dal risultato sempre soddisfacente.
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Ingredienti
2 pere Kaiser mature
200gr. di farina 00
100gr. di burro
80gr. di zucchero
½ bustina di lievito vanigliato per dolci
2 uova
1 pizzico di zenzero in polvere
Buccia di limone grattugiato
Zucchero a velo
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Sbucciare le pere, tagliarne una a cubetti ed eliminare il torsolo, tagliare l’altra a spicchi per decorare il dolce. Fare sciogliere il burro e caramellare le pere. Nel mixer mescolare la farina, lo zucchero, lo zenzero, la buccia del limone ed il lievito. Aggiungere un uovo alla volta, unire poi le pere caramellate. Imburrare ed infarinare uno stampo, versare il composto, decorare con gli spicchi di pera rimasta. Infornare in forno preriscaldato a 180°C per 50 minuti. Lasciar freddare completamente e spolverizzare con zucchero a velo.

Paperita Patty