LIFESTYLE- Pagina 442

Modellismo (per grandi e piccini), che passione!

modellismo albanese“Il modellismo dinamico è la riproduzione in scala di veicoli telecomandati, che possono essere a scoppio o elettrici. Noi prendiamo i secondi, meno pericolosi e sopratutto meno impattanti”

 

 

Il modellismo, una passione che unisce grandi e piccoli, anzi molto più spesso gli adulti. Anche la Uisp è stata contagiata in questa “disciplina”. Il modellismo dinamico ha una società sportiva:  A.S.D. PiranhaTeam, Campioni Italiani Uisp 2015. Luca Albanese è il presidente ventenne, che ci racconta la storia della società fondata nel 2007.

 

Modellismo dinamico, vogliamo spiegare cos’è?

Il modellismo dinamico è la riproduzione in scala di veicoli telecomandati, che possono essere a scoppio o elettrici. Noi prendiamo i secondi, meno pericolosi e sopratutto meno impattanti, costano un po’ di più, ma necessitano anche di minore manutenzione.

 

La vostra associazione dov’è situata e quanti soci siete ? 

Siamo a Nichelino all’interno dell’agriturismo Il Giardino dei Sapori. Sono una Trentina di soci, con un’età che varia tra gli 8/10 anni (4 componenti) fino ad arrivare ad un veterano di quasi 76 anni. La nostra pista è a disposizione di chiunque voglia provare .

 

Cerchiamo di capire come funziona una gara e quali sono le caratteristiche di una pista.

Noi siamo nella categoria OffRoad, quindi utilizziamo dei Buggy e di conseguenza necessita una pista in terra con dei salti, che sia larga almeno 3 metri e una percorrenza di 210/300 metri, dotata di ostacoli e salti. E’ necessaria una struttura “palco” perchè si guidano i modellini dall’alto e deve essere posta ad un altezza di almeno 2,85 metri. Una competizione simile alla Formula Uno, con le qualifiche e poi a seguire con delle finali, ogni sessione di gara dura dai 5 ai 7 minuti e vince chi impiega meno tempo  a correre lungo la pista. Si inizia sempre con un “Briefing”, dove vengono fatte una serie di raccomandazioni come evitare parolacce, visto che ci sono tanti bambini  e comportamenti scorretti. I concorrenti che guidano sono 10 in genere e in pista ci devono essere almeno 6 persone, che fungono in un certo senso dei Recuperi. 

 

Avete dei piloti professionisti ?

Attualmente nel PiranhaTeam  io sono pilota di punta: passo  interi week end in pista ad allenarmi e a gareggiare. Un hobby di famiglia, anche mio  padre Carlo Albanese circa 20 anni fa correva anche lui, attualmente è il meccanico ufficiale. 

 

Hai degli sponsor ?

Ho sposnor Internazionali che ci aiutano con i materiali e le macchinine 

modellismo alban2

A che età hai cominciato con il modellismo?

Ho iniziato nel 2005 in una pista a Collegno, sempre con dei Buggy. La mia prima gara è stata un Campionato Regionale al quale ho partecipato con la categoria 4WD ” quattro ruote motrici” poi nel 2007 grazie a mio a padre abbiamo tirato su una pista, dove abbiamo fatto parecchi campionati italiani e regionali. Ad oggi ho vinto 3 volte il campionato italiano, con possibilità di fare campionati europei e mondiali.

Vi aspettiamo a Nichelino in Via Buffa 79 !

 

info pistamcrae.wix.com/pista-mcrae

Da "Una pura formalità" di Tornatore la piece teatrale di Glauco Mauri

mauri teatro“Una pura formalità” kafkiana ha per protagonisti Glauco Mauri e Roberto Sturno

 

Uno dei film di Giuseppe Tornatore considerato tra i più belli in assoluto,  ” Una pura formalità”, viene trasposto in teatro e sarà di scena fino a domenica 31 gennaio al teatro Astra,  per la versione teatrale e la regia di Glauco Mauri, interpreti lo stesso Mauri e Roberto Sturno.Si tratta del racconto di una lunga, misteriosa notte in cui un uomo aiuta un altro uomo a cercare di capire quel viaggio stupendo e a volte terribile, ma sempre affascinante,  che è la vita.  Si tratta del racconto di un omicidio e di un famoso scrittore Onoff, che, trovato a vagare sotto la pioggia senza documenti, viene fermato per accertamenti. Un serrato interrogatorio condotto da un commissario ambiguo, duro e impietoso, diventa l’occasione per stimolare lo scrittore a comprendere, innanzitutto, se stesso. Egli ricostruira’ la sua vita pezzo per pezzo, in un’ angosciosa ricerca di prove della propria esistenza. Gli squarci che via via si aprono nella mente del protagonista permettono la ricostruzione del suo passato durante un serrato interrogatorio, che si svolge in un inquietante commissariato di polizia, in cui domina una prospettiva irregolare. Libri e faldoni sono ingrigiti dagli anni, i muri coperti da misteriosi graffiti e l’orologio è senza lancette, quasi a indicare che il tempo si sia fermato. Lo spettatore arriverà alla verità come in un thriller,  con colpi di scena continui, fino al finale del tutto inatteso.

 

Quando l’omonimo film di Tornatore uscì nelle sale nel ’94, fu accolto con una parziale diffidenza a causa  della sua inquietante novità. Ne erano protagonisti Gerardo Depardieu e Roman Polanski con Sergio Rubini.  Nello spettacolo teatrale Roberto Sturno interpreta lo scrittore Onoff e Glauco Mauri il commissario. A Tornatore fu riconosciuto un grande coraggio nell’ aver realizzato un film così teatrale, letterario e pirandelliano, che  più che raccontare una storia, suggerisce un’idea e una riflessione sulla vita,  la morte e la memoria. Il testo ha voluto suggerire l’idea che siamo tutti un po’ fuori posto, un po’ a disagio nei panni che indossiamo. La trasposizione teatrale messa in scena da Glauco Mauri risulta uno spettacolo avvincente e al tempo stesso ricco di mistero. Particolarmente significativa e inconsueta risulta la musica, rappresentata dal rumore incessante della pioggia e da cupi tuoni lontani. In un continuo passaggio dalla luce al buio, soltanto alla fine tutto si plachera’ e la pioggia cesserà,  il silenzio si farà musica e la luce si distendera’ in un chiarore. Il testo teatrale, come il film, suggerisce numerose domande necessarie all’uomo per fargli comprendere quel viaggio stupendo e, al tempo stesso difficile, che è la vita.

 

 Mara Martellotta

 

Venerdi 29 gennaio ore 21

Sabato 30 gennaio ore 18.30

Domenica 31 gennaio ore 18.

 

Teatro Astra via Rosolino Pilo 6

A forza di essere vento..Porrajmos, il genocidio dimenticato

ZINGARI LAGERAl pari della Shoah (lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti), durante la seconda guerra mondiale ci fu un altro genocidio. Quello dei rom e sinti, basato su analoghe teorie razziste

 

Fare memoria significa non fare mai della giornata del 27 gennaio un passaggio rituale. Ricordare l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz  equivale a ricordare tutte le deportazioni e non dobbiamo mai smettere di farlo, pensando alla testimonianza di tutti coloro che hanno vissuto la terribile esperienza dei campi di sterminio, i sopravvissuti che non si sono mai stancati di raccontare che “questo è stato”, e i milioni di uomini, donne e bambini che nei campi di sterminio sono stati annientati, annichiliti, uccisi. Il giorno di Auschwitz ci obbliga a ricordare la deportazione degli ebrei e tutte le altre deportazioni. I Rom caddero vittime dello stesso atroce destino. Il nazismo li dichiarò “razza inferiore” e così furono costretti all’internamento, al lavoro forzato, e, infine, allo sterminio. Per raccontare ciò che accadde, usando una parola, si scrive Porrajmos, o Samudaripen, ma in pochi lo leggono o sanno che cosa vuol dire. Al pari della Shoah (lo sterminio di sei milioni di ebrei nei campi di concentramento nazisti), durante la seconda guerra mondiale ci fu un altro genocidio. Quello dei rom e sinti, basato su analoghe teorie razziste. In lingua romanì, quella parlata dai rom, porrajmos vuol dire proprio distruzione: l’annientamento di almeno 500mila persone di etnia rom e sinti nei lager dell’Europa Orientale, ma anche in Italia, come nei campi di Agnone, di Berra e nelle Tremiti. Furono uccisi in Unione Sovietica e in Serbia e deportati nei campi di concentramento di Bergen-Belsen, Sachsenhausen, Buchenwald, Dachau, Mauthausen, Ravensbruck. Una bella canzone di Fabrizio De Andrè  “Khorakhané ( A forza di essere vento)” li ricorda: “..i figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia,Polonia,Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via..”. I khorakhané (alla lettera: i “lettori del Corano”) sono una tribù rom musulmana di origine serbo-montenegrina. Il viaggio per i rom è necessità e tradizione, ma nella canzone di De Andrè diventa molto di più: è il simbolo stesso della libertà.

 

LiZINGARI LAGER2La libertà è come il vento, che può viaggiare continuamente da est a ovest e da nord a sud. Ma nel vento, dopo essere stati cremati nei lager, ci finirono a centinaia di migliaia. Furono, come già ricordato, almeno mezzo milione gli Zigeuner – usando il termine dispregiativo tedesco, cioè gli “zingari”– uccisi nei campi di sterminio nazisti dagli assassini con la croce uncinata. Oltre ventimila nel solo Zigeunerlager, il campo loro riservato dentro al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, tra il febbraio 1943 e l’agosto 1944. A migliaia trovarono la morte Jasenovac, sulla sponda sinistra del fiume Sava, nel campo costruito nel 1941 dal regime ustascia di Ante Pavelic. Un regime nato il 10 aprile di quell’anno con il sostegno della Germania nazista e dell’Italia fascista. A quel tempo la  Repubblica Indipendente di Croazia NDH, si estendeva dall’attuale territorio della Croazia – esclusa l’area occupata dall’esercito di Mussolini – alla Bosnia Erzegovina e parte della attuale Serbia. Dopo il 1945 altre persecuzioni sono seguite, con il mondo rimasto a guardare. Solo venti anni fa si è parlato di pulizia etnica in ex Jugoslavia, dall’altra parte dell’Adriatico, davanti a noi. E le cancellerie hanno lasciato fare, prima di intervenire. Il giorno della memoria, per essere utile, deve servire a scolpire in noi, nella nostra coscienza civile  l’inaudita eredità della storia dietro di noi. Non dobbiamo mai abbassare la guardia sui nostri valori. Il rispetto di tutte le etnie, l’accoglienza, il loro diritto di cittadinanza, non possono essere parole vuote. Sono le nostre azioni concrete a dare senso a ciò in cui diciamo di credere. Sono i valori della nostra Costituzione, un testo bello e attuale che spesso qualcuno vuole peggiorare. Le semplificazioni del quotidiano invece, e spesso, ci allontanano dalla memoria di quel che è stato e ci inducono a sottovalutare i mai sopiti segnali di intolleranza verso le differenze. Ricordare tutte le deportazioni serve a far sì che le nostre città siano luoghi di accoglienza e rispetto di tutti. Ad ognuno di noi, per ciò che può e per ciò che deve, il compito di renderlo possibile.

 

Marco Travaglini

Le ‘Panchine rosse’ per dire NO alla violenza

panchine donne violenzaDiventano così l’emblema del “posto occupato” da una donna vittima di femminicidio

 

Camminando per la città potrebbe capitarvi di sentirvi osservati da due grandi occhi che vi guardano insistentemente. È la nuova iniziativa della Città di Torino per ribadire con forza un secco no alla violenza sulle donne, attraverso l’installazione permanente di alcune panchine rosse sparse nei parchi della città. Le ‘Panchine rosse’ diventano così l’emblema universale del “posto occupato” da una donna vittima di femminicidio, simbolo e segno tangibile open-air di un vuoto causato dalla violenza. 

Per scoprire dove sono le panchine: http://goo.gl/fTfDMV

 

www.comune.torino.it

Canapa, uso terapeutico in fase di partenza

molinetteLa Giunta regionale  è anche pronta a istituire una commissione scientifica per ampliare gli studi e le ricerche sull’impiego e sugli effetti della canapa

 

In Piemonte il primo passo ufficiale per mettere in pratica l’uso terapeutico della canapa. La Commissione regionale Sanità di Palazzo Lascaris ha infatti approvato la delibera regionale di indirizzo che fa proprie le disposizioni contenute nel cosiddetto ‘decreto Lorenzin’ del ministero.

Presto l’Assessorato alla sanità, in base alle richieste emerse in Commissione, manderà un’informativa a tutte le Asl piemontesi e a tutti i medici di famiglia, per approfondire la conoscenza dell’impiego, le modalità di prescrizione e le forme di rimborso. La Giunta regionale  è anche pronta a istituire una commissione scientifica per ampliare gli studi e le ricerche sull’impiego e sugli effetti della canapa.

Gruppo di lavoro per l'ospedale Asl To5

accordo_ospedale_to5L’assessore alla Sanità, Antonio Saitta, ha insediato il gruppo di lavoro tecnico trasversale, interno alla Regione Piemonte, incaricato di seguire direttamente l’attuazione dell’iter per la realizzazione del nuovo ospedale unico dell’asl TO5. Ne fanno parte dirigenti e funzionari delle Direzioni regionali Sanità, Ambiente, Pianificazione territoriale, Trasporti ed Opere pubbliche

 

“Per l’ospedale unico della TO5 – osserva Saitta – il protocollo d’intesa firmato il 3 dicembre scorso dalla Regione con i Comuni di Carmagnola, Chieri e Moncalieri prevede che l’area sarà individuata dalla Regione sulla base di precisi criteri: contesto urbano (esposizione, qualità del suolo, qualità urbana dell’intorno); baricentricità valutata sia in rapporto alla dislocazione sul territorio degli utenti sia ai tempi necessari per raggiungere l’area; facilità di accesso che dovrà essere garantita a tutti i cittadini del territorio di riferimento ad una pluralità tipologica di accessi, sia di carattere infrastrutturale, sia con sistemi alternativi, anche attraverso la previsione del servizio di elisoccorso; rete infrastrutturale e di sottoservizi già esistente e strutturata o che richieda minimi investimenti per la sua integrazione; rete di trasporto pubblico o comunque sua possibile integrazione; fattibilità dell’intervento in relazione ai vincoli di carattere idrogeologico e ambientale. Questioni tecniche puntuali sulle quali entro quindici giorni i vari settori, ciascuno per la propria competenza, mi forniranno relazioni dettagliate. Sulla base di questi criteri, la Regione individuerà ancora prima della localizzazione dei terreni le zone che corrispondono alle caratteristiche concordate con i sindaci”.

 

“Un metodo di lavoro trasparente – conclude Saitta – che ci consentirà a breve di valutare oggettivamente le numerose candidature locali. Il nostro obiettivo è realizzare in tempi rapidi lo studio di fattibilità e mettere a gara la progettazione, la realizzazione e la gestione del nuovo ospedale unico.”

 

Gianni Gennaro

gianni.gennaro@regione.piemonte.it

Dalla Regione arriva un fondo di 12 milioni per sostenere le piccole e medie imprese

REGIONE PALAZZO

 I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating

 

Una misura anticrisi della Regione attiva attraverso Finpiemonte un fondo di 12 milioni di euro. L’obiettivo? sostenere gli investimenti delle piccole e medie imprese. Il fondo, denominato  “Tranched Cover Piemonte”, prevede un intervento a garanzia dei finanziamenti che saranno concessi da tre istituti bancari: Unicredit, Intesa San Paolo e Monte dei Paschi di Siena. L’iniziativa intende allargare il perimetro del credito e abbassarne il costo, per rilanciare gli investimenti.

 

Il finanziamento, che dovrà essere concesso entro il 30 settembre 2016, potrà spaziare da 25mila euro ad un milione di euro per ogni beneficiario. I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating.

 

L’assessore regionale alle Attività produttive, Giuseppina De Santis, spiega che “non si vuole replicare ciò che fanno le banche, ma operare per un maggiore accesso al credito laddove il mercato arriva con difficoltà. Questa misura, che movimenterà risorse per circa 150 milioni, potrà dare un forte impulso alla ripresa degli investimenti, contribuendo al rafforzamento del tessuto economico piemontese”.

 

“Si tratta – ha aggiunto il presidente di Finpiemonte, Fabrizio Gatti – di una manovra aggiuntiva e non sostitutiva dei finanziamenti bancari. E’ la prima volta che la finanziaria regionale fa una cosa del genere, che rientra appieno nella sua funzione di sostenere l’economia piemontese”.

 

(Foto: il Torinese)

E' CARNEVALE, CAVAGNOLO IN FESTA!

carnevaleSabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport

 

Con la polentà a baccalà a mezzogiorno, svoltasi domenica 24 gennaio, al circolo Stazione, organizzata dalla Polisportiva, è partita la serie di manifestazioni del carnevale di Cavagnolo. Sabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport, a cura della pro loco. E sempre questa associazione domenica 7 febbraio andrà invece ad organizzare, alle ore 11.30, in piazza Vittorio Veneto, la fagiolata. Martedì, poi nuovamente pro loco sarà l’anima della polentata con salsiccia, al centro culturale Martini (dalle ore 18.30). Infine il tour della pro loco attraverso Cavagnolo si concluderà a mezzogiorno di domenica 21, con polenta e salsiccia al Borgo Allegria.

Massimo Iaretti

 

Il “giorno della Memoria”. Per non dimenticare quel 27 gennaio del 1945 ai cancelli di Auschwitz

auscwitzaushvitz2aushwitz2Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio

 

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz“Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Così recita l’articolo 1 della Legge 20 luglio 2000, n. 211 che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio , liberando circa 7.650 prigionieri. Ad Auschwitz, circa due settimane prima, i nazisti si erano precipitosamente ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono lungo il percorso. In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi nel profondo est polacco,  come quelli di Chełmno e di Bełżec , ma questi, essendo di sterminio e non di concentramento, come Treblinka e Sobibòr, erano vere e proprie fabbriche di morte dove i deportati venivano immediatamente uccisi nelle camere a gas. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista. In totale, solo ad Auschwitz, furono deportate più di un milione e trecentomila persone. Novecentomila furono uccise subito al loro arrivo e altre duecentomila morirono a causa di malattie, fame e stenti. I soldati sovietici si trovarono di fronte non solo  i pochi sopravvissuti ridotti a pelle e ossa ma, durante l’ispezione del campo,  rinvennero le prime tracce dell’orrore consumato all’insaputa del mondo intero: tra i vari resti,  quasi otto tonnellate di capelli umani. Lì, nel sud della Polonia, a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella sofisticata «macchina» tedesca denominata «soluzione finale del problema ebraico». Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi – come Birkenau e Monowitz – ed estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta «Judenrampe» (la rampa dei giudei) subivano una immediata selezione, che li portava quasi tutti direttamente alle «docce» (così i nazisti chiamavano le camere a gas).

 

I morti nei campi di sterminio, ai quali vanno aggiunti anche le centinaia di migliaia di ebrei uccisi nelle città e nei villaggi di Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, i morti del ghetto di Varsavia e altri ancora,  furono oltre sette milioni. Dei deportati italiani, almeno 8.600 furono gli ebrei e circa 30.000 i partigiani, gli antifascisti e i lavoratori (questi ultimi arrestati in gran parte dopo gli scioperi del marzo 1944).Ci furono poi centinaia di migliaia di  soldati e ufficiali del disciolto esercito italiano che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, lasciati senza ordini, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere verso l’ex alleato tedesco, diventarono degli sbandati. Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi, soldati e ufficiali vengono trucidati, come a Cefalonia). Deportati  nei lager, furono classificati come internati militari (Imi), non riconoscendoli come prigionieri di guerra, per poterli “schiavizzare” senza controlli, ignorando la Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929. Oltre 600mila, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, pur sollecitati ad aderire alla Repubblica di Salò e al regine nazista, rimangono fedeli al giuramento alla Patria, scelgono di resistere,  pronunciando un orgoglioso e dignitoso  “NO” al fascismo. I militari detenuti presso le carceri di Peschiera del Garda furono i primi deportati italiani, giunti a Dachau il 22 settembre 1943. Poi conobbero la tragedia dei lager nazisti gli ebrei, gli antifascisti condannati al carcere o al confino, gli altri militari arrestati sui diversi fronti di guerra. La maggioranza delle vittime dei nazisti trovò la morte nei lager di Auschwitz-Birkenau, Dachau, Flossemburg, Dora-Mittelbau, Neuengamme, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald. Nell’Italia del Nord furono creati dei campi di transito dove gli arrestati (partigiani, antifascisti, ebrei) sostavano per un breve periodo, in attesa dei convogli che li avrebbero trasportati nei grandi lager del Reich e dei territori occupati. Uno era situato a Fossoli di Carpi, presso Modena: fu smantellato nell’estate del 1944 e sostituito da un altro campo di transito situato più a nord, a Bolzano. Un altro si trovava a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo. Anche in Italia venne istituito un campo di sterminio: la Risiera di San Sabba, a Trieste, dal 20 ottobre 1943 fino al 29 aprile 1945.  Nei lager nazisti gli italiani, arrestati e deportati come antinazisti, dovevano portare sulle spalle anche la “colpa di essere traditori”, “badogliani” e quindi venivano considerati doppiamente colpevoli e tali da essere destinati ai lavori più pesanti, più avvilenti, più massacranti, al pari degli ebrei e dei prigionieri di guerra sovietici.

 

Tutti gli strati del nostro paese furono colpiti dalla tragedia della deportazione: dall’intellettuale all’operaio e all’artigiano, dal più povero al ricco, dal giovane al vecchio stanco e malato, senza risparmiare donne e bambini.Le donne, in particolare, furono deportate a Ravensbruck, lager di eccezionale durezza, in cui i nazisti vollero doppiamente umiliarle, sfruttarle e colpirle a morte. La ricorrenza del 27 gennaio offre una buona occasione per riflettere sulla storia agghiacciante della discriminazione e dello sterminio razzista: una storia tragica, scandita in Italia dalle leggi razziali del 1938 che cancellarono i diritti civili di quaranta mila cittadini italiani , dai luoghi dell’annientamento fisico di milioni di ebrei, di detenuti politici, di persone definite da Hitler “difettose“.  Una riflessione che è parte di uno sforzo necessario per garantire la continuità delle conoscenze tra le generazioni, affinché si possa comprendere, sino in fondo, il significato del nazi-fascismo, che aveva posto a suo fondamento il principio di discriminazione; e come in ogni momento in cui questo principio riemerge , la tragedia può ripetersi.  E, infatti, si ripete in un mondo scosso da guerre, eccidi, violenze dal medio oriente all’ Africa, dal continente sud americano fino all’estremo oriente. Gli ultimi esempi – in Europa –  vennero dai Balcani, all’inizio degli anni ’90, in Bosnia Erzegovina e  poi nel Kossovo. Quando si riflette sul modo con cui i fatti accaduti ad Auschwitz ed in tutti gli altri “campi” debbano essere insegnati e fatti conoscere,  occorre tener presente alcuni principi imprescindibili che si fondano proprio sulla consapevolezza di ciò che ha reso possibile la Shoah.

 

Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe», e ha sostituito il termine «olocausto» usato in precedenza per definire lo sterminio nazista, perché con il suo richiamo al sacrificio biblico, esso dava implicitamente un senso a questo evento e alla morte, invece insensata e incomprensibile, di sei milioni di persone. La Shoah è il frutto di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti, né paralleli: nel gennaio del 1942 la conferenza di Wansee approva il piano di «soluzione finale» del cosiddetto problema ebraico, che prevede l’estinzione di questo popolo dalla faccia della terra. Lo sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. È una forma di razzismo radicale che vuole rendere il mondo «Judenfrei» («ripulito» dagli ebrei). Dopo la Shoah è stato coniato il termine «genocidio». Purtroppo il mondo ne ha conosciuti tanti, e ancora troppi sono in corso sulla faccia della terra.

 

Bisogna riflettere su un punto. Se è potuto accadere quello che è successo ad Auschwitz che, forse vale la pena ricordarlo, era un Vernichtungslager cioè -letteralmente – un lager di “nullificazione“, ciò è stato possibile perché uno Stato ha fondato la propria legittimazione sul principio di disuguaglianza. Il nazismo si fondava, come il fascismo, sul principio di discriminazione. Senza quel principio non avremmo avuto gli orrori successivi. L’accettazione di quel principio ha prodotto come “conseguenza normale” il passaggio dalla negazione dei diritti degli ebrei al loro sterminio, con l’applicazione rigorosa di principi di efficienza e un’organizzazione razionale basata sull’applicazione metodica e quotidiana di operazioni burocratiche che Hannah Arendt descrisse, nel loro insieme, come la “banalità del male“. Gli ebrei, e con essi gli zingari, gli omosessuali e le persone “difettose” non venivano arrestati e sterminati a causa delle loro azioni, o del loro “avere“, ma solo in ragione del loro “essere“. Così i prigionieri politici, i dissidenti, gli internati militari. Un’altra riflessione riguarda il dovere di affrontare il problema delle responsabilità, delle connivenze, degli approfittamenti e dei silenzi che vi sono stati nel nostro Paese. Sappiamo che ci furono molte manifestazioni di rischiosa e forte solidarietà. Molti ebrei furono ospitati da amici non ebrei o nascosti.Ma non fu questo il comportamento prevalente. Il comportamento prevalente fu il silenzio. Non ci fu solo chi salì in cattedra grazie all’espulsione dalle università dei professori definiti di razza ebraica. Anche dopo l’inizio delle deportazioni ci furono casi non isolati di cittadini italiani che accettarono di segnalare il proprio vicino ebreo alle autorità nazifasciste in cambio di qualche soldo. Alcuni di questi, anche dopo la guerra, non si vergognarono di uscire indossando i vestiti e gli oggetti preziosi sequestrati nelle case di coloro che avevano denunciato. E’ stata raccolta una mole impressionante di documenti che testimoniano l’efficienza con la quale la burocrazia italiana procedette alla sistematica spoliazione dei beni di cittadini definiti di razza ebraica. Funzionari ed impiegati si impegnarono per la compilazione, e la solerte messa a disposizione dei nazisti, delle liste dei deportati per i campi di sterminio. Si tratta di 8566 persone di cui solo 1009 sono sopravvissute. Fu uno zelo disonorante. Ecco perché il dovere della memoria della Shoah, il non dimenticare mai quanto accadde allora, è parte integrante dell’impegno permanente contro l’indifferenza, contro il torpore della memoria.

 

Il Giorno della Memoria non è un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quel che è accaduto. La capacità di lottare contro il principio di discriminazione che costituisce la più grave forma di iniquità sociale è uno dei capisaldi della dignità di uno stato democratico. Non va scordato.In tempi così difficili, segnati dai fatti tragici dell’estremismo islamico che si traduce in violenza e  terrore,non tutti comprendono che uno dei caratteri fondamentali del futuro dell’Europa sarà quello della multietnicità e che questo futuro deve essere affrontato con fermezza ma anche con serenità, dev’essere governato e non respinto.Il Giorno della Memoria è un atto di riconoscimento di questa storia: come se tutti, oggi e ogni giorno, ci affacciassimo ai cancelli di Auschwitz,  riconoscendovi il male che è stato. Che non deve più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi, nella civile e illuminata Europa, milioni di persone hanno permesso che accadesse. E’ essenziale un lavoro di formazione , di trasmissione di valori, sentimenti, ideali molto impegnativo ma altrettanto necessario per dare un senso alla vita e permettere che la vita abbia un senso.

 

Marco Travaglini

 

Malosti ripropone L’Arialda di Testori con i diplomati della Scuola per Attori dello Stabile

arialda 22arialda 23Le vicende dell’Eros e del suo amore non sporcato per il giovane Lino, a distanza di più di cinquant’anni, non intorbidano più nessuna sensibilità. Ma rimangono vive e vitali, come quelle dell’Arialda con tutto il suo desiderio d’amore, cercato e sempre negato

 

Ancor tempo prima una decina danni di frastornare il mondo letterario e teatrale del nostro paese con un terremoto linguistico che lo portò alla scrittura della “Trilogia degli Scarrozzanti”, con un insieme di fusioni, di storpiature, di termini disinvoltamente slungati o ridotti o imbruttiti, tra dialettismi lombardi o francesismi addomesticati (Giovanni Raboni lo definì “il più instancabile sperimentatore della letteratura italiana di questi ultimi decenni”), Giovanni Testori critico darte tra i più raffinati, amante di aree ben precise, tra Piemonte e Lombardia, poeta, romanziere e omosessuale colpevolizzato incrociò con il testo dell’Arialda la stretta democristiana degli Andreotti, dei Scelba, dei Gronchi (Morelli, Stoppa e Orsini che, nel tentativo di chiarire e di liberare una situazione senza via d’uscita, salgono al Quirinale da un Presidente che si rifiuta di riceverli) e l’accusa di oscenità, incorrendo in censure, in riduzioni, in ostacoli, in quelle cancellazioni che alla ripresa milanese impedirono alla commedia di andare in scena. Così per il palcoscenico; e così per il cinema, dal momento che la stessa autorità s’accanì sulle immagini di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, risultato della collaborazione tra il regista e lo scrittore, essendo alla radice del film Il ponte della Ghisolfa e La Gilda di Mac Mahon, insieme all’Arialda tasselli di quell’affresco che sono I segreti di Milano.

 

I tempi sono cambiati, il nome di Testori s’è anche per troppi annebbiato e le vicende dell’Eros e del suo amore non sporcato per il giovane Lino, a distanza di più di cinquant’anni, non intorbidano più nessuna sensibilità. Ma rimangono vive e vitali, come quelle dell’Arialda con tutto il suo desiderio d’amore, cercato e sempre negato, con il suo mondo abitato dai morti in cui rifugiarsi, come quelle del Gino, con la sua giovanile irruenza, o del maturo Candidezza, che portano attraverso un nebbioso panorama dell’hinterland milanese, fatto di strade e prati e cavalcavia come pure di stanze spoglie che s’affacciano sui lunghi ballatoi, come di palestre o bar fumosi, ad una rete fitta e umanissima di amori scabrosi, frettolosi, feroci e colti nell’inganno. Un presepe ferito di figurine che palpitano anche nell’ipocrisia, nella ferocia, negli atti finali di una vita sconvolta, nel desiderio fatto di bene e di male d’affermarsi, nei fantasmi tangibili (certe situazioni sentono l’influenza di Pirandello) che nel loro essere invisibili costruiscono un attimo di reale presenza.

 

Ha fatto bene Valter Malosti a riproporre il testo, a farne sentire ancora oggi la bellezza della scrittura, a immergerlo nel vuoto che è il palcoscenico delle Fonderie Limone di Moncalieri, soltanto lo scheletro di una porta a delimitare entrate e uscite, alcune soltanto, qualche tavolo, qualche sedia, ha fatto bene a giocare con la prepotenza di quei corpi (anche per immagini, l’armoniosità di certe Deposizioni lascia segni nella memoria) e di quelle voci, facendo quasi scontrare un personaggio con l’altro e riuscendo a creare un grandioso affresco di lotte, di rancori, di fragili vittorie e di sottomissioni. Tutto questo con l’apporto dei diplomati della Scuola per Attori del Teatro Stabile torinese da lui stesso guidata, alcuni fattisi apprezzare su differenti gradi in recenti spettacoli fatti in casa e qui desiderosi di mettersi in gioco totalmente. Qualcuno, se le rose fioriranno, sarà da tener d’occhio nelle stagioni a venire. Ricordiamo tra tutti Beatrice Vecchione che è una fervida Arialda, tutta la forza e la sfrontatezza di Matteo Baiardi (Gino), Roberta Lanave, Gloria Restuccia e la efficace prova di Camilla Nigro, buttatasi senza risparmio nel personaggio di Mina. Si replica sino a domenica 31 gennaio.

 

 (Foto: A. Macchia)

Elio Rabbione