LIFESTYLE- Pagina 263

Dolci Bugìe di Carnevale

bugieUna golosa variante sono le bugie ripiene, una sfoglia croccante che racchiude un cuore di marmellata, nutella, crema pasticcera e perché no, mostarda di frutta

In Piemonte le chiamiamo “bugie”. Sono le classiche chiacchiere, il dolce tipico del carnevale. Una golosa variante sono le bugie ripiene, una sfoglia croccante che racchiude un cuore di marmellata, nutella, crema pasticcera e perche’ no, mostarda di frutta. Friabili, cosparse di candido zucchero a velo, sono una vera tentazione  per tutti.

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Ingredienti:

400gr. di farina 00

60gr. di burro

50gr. di zucchero

3 tuorli

0,5 dl di cognac

Latte, q.b.

Scorza limone grattugiata

Un  pizzico di sale

Olio per friggere

Ripieno a piacere

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Impastare la farina con lo zucchero, i tuorli, il liquore, il burro fuso, la scorza di limone grattugiata e il sale. Aggiungere il latte fino ad ottenere un impasto elastico. Fare una palla e lasciar riposare a temperatura ambiente per 30 minuti. Stendere la pasta con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia come si fa con i ravioli, mettere un cucchiaino di marmellata, inumidire i bordi con poca acqua e coprire con altra sfoglia, tagliare nella forma desiderata con una rotella dentata. Friggere con olio d’oliva in una pentola a bordi alti, scolare e quando fredde cospargere di zucchero a velo.

Paperita Patty

Nuovo Presidio Slow Food, è il cavolfiore di Moncalieri


Presentazione lunedì 4 marzo alle 18,30 presso il ristorante La Cadrega 
Il Presidio Slow Food è un potente strumento di difesa delle piccole produzioni tradizionali. A oggi il progetto coinvolge più di 13.000 realtà produttive che con il loro lavoro sostengono l’economia locale, producono reddito, tutelano l’ambiente e salvano dall’estinzione razze autoctone, varietà locali di frutta, ortaggi e tecniche artigianali. Per diventare Presidio il prodotto, oltre che essere buono, deve seguire un rigido disciplinare e «deve rispettare canoni di sostenibilità ambientale: la tutela della fertilità della terra e degli ecosistemi idrografici, l’esclusione delle sostanze chimiche di sintesi, il mantenimento delle pratiche tradizionali di coltivazione e gestione del territorio. Ma deve anche essere sostenibile da un punto di vista sociale: i produttori devono avere un ruolo attivo e una totale autonomia nella gestione dell’azienda, devono collaborare, decidere insieme le regole di produzione e le forme di promozione del prodotto, possibilmente riunendosi in organismi collettivi» precisa Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. L’ultimo arrivato tra i Presìdi Slow Food è il cavolfiore di Moncalieri coltivato a ridosso delle colline a sud di Torino. Le origini di questo ecotipo sono francesi: probabilmente è stato introdotto in Italia quando i Savoia si sono insediati in Piemonte, con gli ortolani e i giardinieri della Casa Reale al seguito. Fino agli anni Settanta, non c’era famiglia contadina dell’area che non coltivasse questa varietà, particolarmente apprezzata e ricercata per via delle ottime caratteristiche organolettiche. La produzione è andata in crisi con il sopravvento dell’agricoltura industriale e la diffusione di cultivar caratterizzate da un ciclo produttivo più rapido e dimensioni maggiori. Tuttavia, ancora oggi la sua sopravvivenza, nonostante l’inserimento nel Paniere dei prodotti tipici della provincia di Torino e nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat), è affidata a pochi agricoltori che ne custodiscono le sementi. L’obiettivo di Slow Food è recuperare questo prodotto coinvolgendo nuovi coltivatori, valorizzarlo, farlo conoscere a consumatori e ristoratori. Il cavolfiore di Moncalieri si presta a qualsiasi tipo di preparazione: si mangia fritto, bollito, abbinato alla bagna cauda. Sono molto buone (sia crude, sia cotte) anche le foglie che lo avvolgono. «È un momento molto importante per dare nuova linfa a questo ortaggio, anche perché stiamo parlando di un prodotto che si coltiva nella periferia di una grande città e potrebbe concorrere al suo sostentamento riuscendo a conservare le caratteristiche nutrizionali e organolettiche perché dal raccolto alla sua distribuzione passano poche ore e non deve affrontare lunghi viaggi» sottolinea Roberto Sambo, responsabile Presìdi Slow Food per il Piemonte e la Valle d’Aosta. Il cavolfiore di Moncalieri fa il suo ingresso in società lunedì 4 marzo alle 18,30 presso il ristorante La Cadrega in piazza Vittorio Emanuele II 5 a Moncalieri con un aperitivo alla presenza dei produttori il Tasso, Ortobio e Vita in campo, chef e autorità.
 
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Un paese, due chiese e una campana di troppo

L’appuntamento era al quadrivio, verso l’ora di pranzo. Don Luigi, riposti nell’armadio i paramenti della Messa, inforcò la sua vecchia “Atala” nera e pedalò con vigore verso il luogo del “rendezvous”

In tasca portava, bene in vista, una copia de’ L’Avvenire, come pattuito, un segno di riconoscimento che, difficilmente, passava inosservato, essendo ben pochi i lettori di quel giornale a Borgo Vallescura. Don Luigi – detto anche Luison, data la sua non proprio esile corporatura dovuta ai piaceri della tavola – non si sentiva davvero a posto se non dedicava almeno un’ora al giorno alla lettura del suo amato “quotidiano di ispirazione cattolica”. Dai tempi del seminario, sul finire degli anni ’50, quando la lettura de “L’Italia” era d’obbligo per dare un’occhiata ai fatti del mondo, non aveva mai mancato di un giorno l’appuntamento all’edicola con il “suo giornale”. Così, quando gli era toccato scegliere un segnale convenzionale, non aveva avuto dubbi: esibire L’Avvenire! A volte, rimuginando durante le sue notti insonni o passeggiando sul viale che portava dal sagrato della chiesa dedicata a San Maurizio fino al piccolo camposanto, pensava a come fosse finito lì, in quel borgo collinare di alcune frazioni, tante case – la maggior parte vuote e sfitte – e poche persone. Nessuno l’aveva informato, tanto meno la Curia, che quello era un paese con due chiese, due parroci e una, infinita, lite su chi dovesse fregiarsi del titolo di arciprete. L’età contava poco nella disputa, incentrata piuttosto sul titolo d’onore di cui fregiarsi e sull’esercizio dell’effettiva giurisdizione su entrambe le realtà religiose. Chi doveva rappresentare San Maurizio e San Rocco? Da oltre mezzo secolo la questione era irrisolta e, con ogni probabilità, difficilmente risolvibile, considerato che tutti i parroci che si erano alternati nel paese si erano inspiegabilmente calati nel ruolo di duellanti – seppur in forme incruente – appena insediatisi. Anche i cinque vescovi che avevano, uno dopo l’altro, retto la Diocesi – nonostante l’impegno e la dedizione impiegati per trovare una soluzione definitiva a quell’increscioso braccio di ferro – si erano dovuti arrendere, chiudendo un occhio e rivolgendo le loro attenzioni a ben altri problemi. Così, a Borgo Vallescura, tutto proseguiva come sempre, compresi contrasti e disaccordi, dissidi e screzi tra lui, padre Luigi Borlotti, e Don Carmelo Greco. Da quasi un lustro entrambi i sacerdoti erano arrivati in paese provenendo, il primo, dalla campagna e dalle risaie della “bassa”, e il secondo dai monti della Sila. Entrambi avevano ottime referenze, stando a quanto aveva detto, presentandoli ai parrocchiani, il Vicario del Vescovo, don Anacleto Rugosi. I caratteri dei due sacerdoti non erano, però, delle più facili. Se padre Borlotti era scaltro, dotato di furbizia contadina e di spiccata arguzia, Don Greco era testardo come un mulo, scostante e poco incline ai compromessi. Quando il titolare della chiesa di San Maurizio scoprì che il suono melodico della campana era stato sostituito da un 33 giri che, opportunamente collocato sul piatto del giradischi, riproduceva i rintocchi che ritmavano lo scorrere della giornata dei credenti, dall’aurora al crepuscolo, dall’Ave Maria all’Angelus, si adirò molto. Nessuno l’aveva informato che la campana era stata rubata una decina d’anni prima e che, da quel momento, si era deciso di sostituirne i ritmi con un disco.
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Dalla canonica, i suoni salivano fino agli altoparlanti collocati sul campanile e si diffondevano nell’aria, richiamando i fedeli. Così, con qualche fruscio di troppo dovuto all’usura, i momenti più importanti della vita della loro comunità cristiana – dai lutti ai matrimoni, dalle messe alle festività – venivano scanditi grazie a quel vecchio vinile che “girava” sopra un ancor più vetusto radio-giradischi della “Phonola”. Padre Luigi Borlotti non aveva accettato di buon grado quella situazione. Anzi, era ossessionato dall’assenza di quello che per lui era un “sacro bronzo”. Una chiesa che si rispetti deve poter chiamare a sè i suoi parrocchiani. E un campanile orfano della campana è come un frate magro e mingherlino. Non è che non ce ne siano, intendiamoci: è che si tratta di un segno di povertà”. Aveva un modo tutto suo di esprimersi e non era proprio il caso di contraddirlo dal momento che si alterava, stizzito, diventando rosso in volto come un peperone maturo. Il paese era diviso in quattro frazioni, con il centro più importante – che dava il nome all’intero comune e ospitava il municipio, l’ufficio postale e l’unica osteria – in alto, sulla collina, a sovrastare tutto il resto. Da lassù, tra i faggi e i castagni che fasciavano l’altura, lo sguardo poteva abbracciare quasi completamente lo specchio del lago, da una riva all’altra e la chiesa di San Maurizio stava proprio lì, in posizione dominante. Ma, nonostante questo, a differenza di quella di San Rocco che si ergeva al limite della Via Crucis, dopo il bosco, nella frazione di Montedoro, era una chiesa senza campana. Roso dall’invidia, incurante del fatto che quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione, rappresentasse uno dei sette peccati capitali, padre Borlotti decise di infrangere anche il settimo dei dieci comandamenti: non rubare. Se la sua parrocchia non aveva la campana, nemmeno quella del sacerdote “rivale” doveva disporne. Così, accantonato ogni precetto morale e nascosta nel profondo della sua coscienza ogni remora, decise di rivolgersi a due balordi che, per poco prezzo, s’incaricarono di compiere il furto su commissione. Tramite un ladruncolo locale che, ormai redento, nel segreto della confessione, aveva raccontato a padre Borlotti le scorribande che l’avevano visto protagonista con i due, venuto a conoscenza del loro ultimo domicilio, li contattò. Venne così organizzato quell’incontro clandestino al quadrivio che, puntualmente, si svolse in tutta segretezza. In quattro e quattr’otto s’intesero anche se, per un istante, la battuta infelice del più grosso dei due – “certo che rubare la campana ad un’altra chiesa, è proprio uno scherzo da prete” – rischiò di fare andare a monte l’accordo. “La salita parte da qui”, disse a voce bassa Gualtiero Marin. “Basterà seguire il sentiero e, giunti al termine delle stazioni della Via Crucis, troveremo la chiesa”. Più conosciuto come Non son bon, appellativo un po’ malevolo che gli era stato appioppato perché quella era la risposta che dava quando intendeva schivare un lavoro, Marin era un omaccione corpulento. L’esatto contrario di Egisto Malfermi, magro come il manico di un piccone e basso di statura. Malfermi, a causa di una rapina finita male in Alto Adige, aveva scontato sette dei dieci anni di galera inflittigli dalla condanna e, dopo la sentenza, a causa di una battuta del maestro Dragotti, appassionato del Risorgimento, era diventato per tutti Silvio Pellico. Il Dragotti, con una punta d’ironia, sosteneva come il carcere di Bolzano non fosse paragonabile allo Spielberg e la causa della detenzione non potesse certo venir rubricata tra le più nobili (furto con scasso nel negozio di un orologiaio, ndr) “ma in fondo, sempre di galera si trattava” e quelle erano state “le sue prigioni”; quindi quel Silvio Pellico “ gli calzava bene.
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I due, “incaricati” da padre Borlotti, con fare rapido e circospetto, iniziarono a salire contando, una dopo l’altra, le cappelle. Alla quarta, raffigurante Gesù che incontra sua Madre, fecero una piccola sosta. Ripresero, poi, il cammino di buon passo e si arrestarono nuovamente alla settima stazione, davanti al dipinto che raffigurava Gesù mentre cadeva per la seconda volta nella salita al Calvario. Marin, ansimante e con il fiatone grosso, si fermò, ancora una volta, all’undicesima stazione, puntando gli occhi su quel Gesù inchiodato sulla croce che ben rappresentava i patimenti che l’omone stava provando. Silvio Pellico, meno stanco, lo esortò a compiere ancora un piccolo sforzo, rassicurandolo che, da lì a poco, sarebbero sbucati davanti alla chiesa. E così, sbuffando come un mantice, oltrepassata l’ultima cappella che raffigurava il corpo di Gesù deposto nel sepolcro, il massiccio Non son bon raggiunse il sodale sotto le mura del campanile della chiesa di San Rocco. La luna era piena, tondeggiante e gonfia di una luce gialla che illuminava il bosco, allungando le ombre. I due loschi figuri alzarono lo sguardo verso la sommità del campanile. Per Silvio Pellico sarebbe stato un gioco da ragazzi scalare esternamente quella torre, poggiando i piedi in aderenza sulle pietre che, al tempo stesso, sarebbero servite come appigli per le mani. E così fece. Giunto a destinazione, avvolse il batacchio con uno straccio, evitando di far risuonare la campana e – recuperata la cima che vi era legata –   la assicurò alla maniglia della campana. Quest’ultima, sganciata dalla trave, venne così calata lentamente fino a terra dove l’attendeva Marin. Sceso in fretta dal campanile, con l’agilità di un gatto, Silvio Pellico aiutò il complice a portare la refurtiva e, in pochi istanti, sparirono nel folto del bosco. In fondo alla Via Crucis, avevano lasciato la vecchia Ape 50 del Non son bon, e caricarono la campana sul cassone di lamiera. Avviato lo schioppettate motore, si dileguarono nella notte in direzione opposta al lago. La stazione ferroviaria era lontana dal paese. A piedi, disponendo di un buon passo, occorreva un quarto d’ora abbondante per raggiungere il piccolo albergo dove al maresciallo Tancredi Manetti era stata prenotata una stanza dall’economo della Curia, don Francesco Stella. Senza indugiare, seguendo le indicazioni ricevute, Manetti s’incamminò. La pensione, gestita dalla famiglia Tinchelli, si trovava a un centinaio di metri dal pontile d’attracco dei battelli che accompagnavano i visitatori all’isola Grande, nel bel mezzo del lago di Paglione. La signora Giulietta, una donna di mezza età dai lineamenti fini e dallo sguardo dolce, lo accolse calorosamente, mostrandogli subito la sua camera.
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Vista lago, signor Maresciallo”, si premurò di dire, sottintendendo un trattamento di favore. In realtà, essendo in bassa stagione, a parte il Manetti e Arturo Terzilli, poeta e pittore che, da anni, era ospite fisso della pensione “Al buon ristoro”, nessun altro cliente occupava le rimanenti otto stanze. Il maresciallo era stato inviato in quel paese stretto tra lago e colline per indagare su un furto alquanto strano: la campana di una delle due chiese, quella dedicata a San Rocco. Il luogo di culto sorgeva sulla piccola altura che portava lo stesso nome del santo pellegrino che, dal Medioevo, veniva invocato a protezione dai terribili flagelli della peste e delle epidemie. L’edificio, con la torre campanaria sulla cui guglia svettava una croce di ferro battuto, si raggiungeva seguendo la Via Crucis con le sue quattordici stazioni e da lì, in una notte di luna piena di due settimane prima, erano saliti i ladri, scalando il campanile fino alla sommità. Non doveva esser stato un compito così agevole, per i ladri, staccare la campana da 60 kg e, poi, calarla giù con una corda. Ma l’attività criminosa, compiuta nelle ore notturne, era passata inosservata fino a quando, la domenica mattina, Alfredo Bini, il sagrestano, aveva fatto l’amara scoperta, tentando di suonare la campana per richiamare i fedeli alla messa. Il parroco, Don Carmelo Greco, sporse subito denuncia ai carabinieri di Borgo Vecchio che, a loro volta, informarono il loro comando a Valle Scura. Le prime indagini non portarono a nessun risultato, così venne incaricato il Maresciallo capo Manetti, uno degli uomini più esperti di cui l’Arma poteva disporre in quel territorio. Dopo aver ascoltato il parroco e il sagrestano, raccogliendo le loro testimonianze, Manetti iniziò ad interrogarsi su quello strano furto. Chi poteva aver interesse a trafugare una campana? E per farne cosa, poi? Venderla? Forse, ma – ammessa la possibilità di fonderla per recuperare il bronzo – non era un’operazione così facile da eseguire. Ne sarebbe valsa la pena? Un furto su commissione da parte di un collezionista? Ne dubitava: ce n’erano di più belle e più antiche nelle chiese vicine. Decise di fare un sopralluogo. Giunto al culmine del sentiero, lasciatasi alle spalle la Via Crucis, venne colto di sorpresa dal temporale. Salendo nel bosco non s’era accorto di quei nuvoloni neri, gonfi di pioggia, che – addensatisi sui rilievi dei monti della Val Cupa – erano stati sospinti   dal vento fino alle colline che digradavano verso il lago. Iniziò a cadere la pioggia. Prima a goccioloni e poi, via via, sempre più fitta e intensa. Manetti trovò rifugio sotto la tettoia che riparava l’entrata della canonica. Padre Borlotti, nel frattempo, era roso dal rimorso e si era amaramente pentito per aver escogitato quella trovata e di avere chiesto ai due balordi di mettere in atto quel suo piano scriteriato. Cosa fare, ora, della campana trafugata? Quale destino riservarle? Per il momento, l’aveva nascosta nel fienile di Clementina De Nellis, la sua fidatissima perpetua. La donna, ignara e all’oscuro dell’intera vicenda, aveva risposto con sollecitudine all’istanza del parroco, consegnandogli le chiavi della cascina ormai in disuso.
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L’aveva fatto senza chiedersi il perché di quella strana richiesta. In fondo, pensava, “il Don avrà le sue ragioni e se vorrà dirmele me le dirà lui, senza importunarlo con le mie domande”. Il parroco di San Maurizio si arrovellava, consapevole di aver commesso un grave peccato commissionando quel furto a quei due che, in cambio del lavoro e del silenzio, avevano ricevuto due biglietti da 50 mila lire a testa e la doppia assoluzione – almeno dal punto di vista della fede – per il gesto compiuto. La campana non poteva certo essere restituita così, magari abbandonandola in uno dei campi. L’atto che aveva architettato era senz’altro esecrabile ma l’idea del possibile riposizionamento dello strumento musicale nel campanile di San Rocco non gli piaceva affatto. La sua contrarietà era così forte da ottenebrarne la mente. Così, prese una decisione d’impeto, evitando di rimuginarci troppo: gettare la campana nel vecchio pozzo vicino alla cascina abbandonata dei Laricini, dove da più di vent’anni, morto senza eredi il vecchio Augusto, nessuno aveva più messo piede. Non era molto distante dal fienile di Clementina e, attese le ore più buie della notte, quelle che precedono l’alba, Padre Giravolta, mise in pratica il suo progetto. Faticando non poco nel trascinare un vecchio carretto trovato nella casina abbandonata sul quale aveva caricato la campana, fermandosi a prender fiato di tanto in tanto, coprì il breve tragitto quasi fosse il suo, personalissimo, Calvario. Agganciata la campana alla corda, fece scorrere la carrucola finché udì il tonfo nell’acqua sul fondo del grosso pozzo. Nessuno avrebbe mai pensato di cercarla lì e, comunque, se un giorno – per puro caso – la campana fosse stata rinvenuta, non avrebbe potuto essere mossa alcuna accusa nei suoi confronti e la cosa sarebbe finita lì, avvolta in quell’oblio che circonda spesso i misteri che nessuno, in fin dei conti, muore dalla voglia di svelare. Inforcata la bicicletta, che aveva appoggiato alla staccionata del fienile, ritornò verso la canonica, più sollevato. Si era tolto un bel peso dallo stomaco e, seppure il peccato – e che peccato! – rimaneva intatto sulla coscienza, l’essersi liberato della campana era già un passo avanti. Ed ora, la sua parrocchia – pur con il giradischi e senza strumento a batacchio – aveva un seppur lieve, ma evidente vantaggio su quella di San Rocco, dove la cura pastorale era affidata a quella testa dura di Don Carmelo. 
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L’inchiesta del Maresciallo era arrivata ad un punto morto. Probabilmente, la campana era stata rubata per conto di qualche collezionista di arredi sacri. Negli ultimi tempi, questa tipologia di furti su commissione si era diffusa moltissimo e difficilmente le indagini avevano portato a risultati positivi. La maggior parte dei casi erano rimasti irrisolti, senza un colpevole e senza un evidente movente che potesse mettere chi investigava sulla pista giusta. L’unica cosa che balzava all’occhio, a Borgo Vallescura e nelle sue frazioni, era la forte competizione tra i due parroci, ma – dalle testimonianze che il buon Manetti aveva raccolto – non era certo una novità, considerato che la disputa durava da tempo immemore. Così, allargando le braccia con aria sconsolata, il Maresciallo dovette arrendersi, comunicando la fine dell’investigazione all’ormai rassegnato Don Carmelo Greco e, avvertito il comando di Valle Scura, al quale inviò, per fax, un rapporto dettagliato in cui si motivava il nulla di fatto, salutato con deferenza il parroco, prese congedo dalla signora Giulietta che gli augurò di tornare ancora alla pensione “Al buon ristoro”, “magari per riposarsi un po’ e non per queste beghe di paese”.E i parroci? Padre Luison Borlotti, per scontare il suo peccato, alla spasmodica ricerca di un qualcosa che potesse alleggerire la sua coscienza, regalò – con i soldi raccolti con le offerte in chiesa, ai quali aggiunse altro denaro di tasca sua – un giradischi a Don Carmelo, corredando il marchingegno con un bell’ Lp contenente una compilation di rintocchi di campane da far invidia. Il dono fu apprezzato dall’altro parroco, ma tutto questo non mutò di una virgola il clima di accesa competizione tra le parrocchie di San Maurizio e di San Rocco. L’unica variante era che, a “chiamare” i fedeli ora non restavano che i rintocchi di campane fasulle, incisi sui vinili.

Il Carnevale a Mondojuve è cosplay 

Mondojuve, lo Shopping Center situato in Strada Debouché tra i Comuni di Vinovo e Nichelino , propone in occasione del Carnevale un’imperdibile  esperienza a tema cosplay  con tanti eventi gratuiti e aperti a tutta la famiglia

 
Dal 2 al 5 marzo 2019 lo Shopping Center ospiterà infatti i personaggi più amati e i supereroi più famosi che saranno protagonisti di numerose iniziative ogni giorno, tra cui i laboratori creativi e il “Truccabimbi” (tutti i pomeriggi dalle ore 15 alle 19) e saranno a disposizione per scattare selfie con i bambini e i loro genitori.
 
Fino al 13 marzo, ogni mercoledì i clienti di Mondojuve potranno partecipare al concorso “Mercoledì Conviene”. Sarà sufficiente fare acquisti presso l’Ipermercato Bennet e presentandosi in giornata alla postazione gioco, con ogni  40€ di spesa si avrà subito diritto a ricevere un buono acquisto del valore di 5€ da spendere nei negozi dello Shopping Center. Inoltre, tra tutti i partecipanti sarà estratto a sorte un buono spesa per un anno presso l’Ipermercato Bennet. 
 
In occasione della Festa della Donna (7 e 8 marzo) e della Festa del Papà (18 e 19 marzo), tutti i clienti di Mondojuve avranno anche la possibilità di acquistare la Gift Card Mondojuve con uno sconto speciale del 20%, una perfetta idea regalo che permette di effettuare acquisti presso tutti i negozi dello Shopping Center e che ha una validità di 12 mesi. La promozione è valida solo per tessere con importo pari a 50€.
 
Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito ufficiale www.mondojuve.it o la pagina Facebook Mondojuve Shopping Center.

Il mercato nel giardino

Il mercato di Piazza Benefica, nel quartiere Cenisia-Cit Turin,  è noto ai più come il mercato della “griffe”, ove è possibile acquistare capi d’abbigliamento ed accessori delle grandi firme, nuovi e vintage. Parte proprio da qui il nostro viaggio tra i mercati torinesi. Ecco qualche cenno storico

(foto: museotorino.it)

Innanzitutto, non si tratta di una piazza, bensì di un giardino, risalente al 1888, il cui nome corretto è “giardino Luigi Martini”, dedicato all’omonimo magistrato piemontese (Monteu da Po, 1838 -Torino, 1894), esponente di spicco della Massoneria nonché filantropo: fu infatti proprio Martini ad aver istituito nel 1889 la “Casa Benefica” per l’educazione e l’istruzione degli orfani della città, situato a ridosso dell’attuale giardino (lato via Susa); l’istituto in questione subì gravi danneggiamenti durante la Grande Guerra e venne demolito verso la fine degli anni ’60, ma il suo nome caratterizza ancora oggi – seppur impropriamente, come appena visto – il luogo ove si svolge il mercato del quartiere. Attualmente, Casa Benefica ha sede in via Saluzzo 44, nel quartiere S. Salvario, ed è un ente socio-assistenziale senza scopo di lucro, che porta avanti l’opera del suo originario fondatore.
 
Passeggiando esternamente al mercato, si nota immediatamente la Chiesa di Gesù Nazareno – curiosità: è l’unica parrocchia in Italia con questo nome – , la cui costruzione iniziò nel 1904 su progetto dell’architetto Giuseppe Gallo; lo stile è il neo gotico con influssi Art Nouveau (il cd. stile liberty, che caratterizza molti palazzi non solo del quartiere, ma di tutta la città), con tre navate e pilastri polistili che sorreggono volte a crociera; la pianta della chiesa è a croce latina, che richiama la forma del crocifisso della tradizione cristiana, ed è caratterizzata dalla diversa lunghezza di navata e transetto, che si intersecano ad angolo retto, proprio come a formare un crocifisso. Consacrata nel 1913 dal Cardinale Richelmy, arcivescovo di Torino, sopravvisse indenne ai bombardamenti del ’43 – ’44 che colpirono gravemente il quartiere e la stazione di Porta Susa.
 
Alla sinistra della Chiesa di Gesù Nazareno, sempre a ridosso del giardino Luigi Martini, notiamo un altro esempio dello stile liberty, ovvero il palazzo del Faro, sito in via Palmieri 36; l’edificio fu ideato dall’architetto Gottardo Gussoni (collaboratore di Pietro Fenoglio, autore del progetto di Villa Scott, tanto per intenderci) per il ricco cavaliere del lavoro Giovanni Battista Carrera; il palazzo presenta un Erker (ovvero un particolare tipo di bay window, situata agli angoli di un edificio) sovrastato da una torre, dalla quale un faro “rotante” illuminava la città.
 
Venendo ai giorni nostri, molti torinesi ricorderanno la scultura dell’artista greco Costas Varotsos “La Totalità”, che dal 1999 al 2017 ha guardato dall’alto dei suoi quasi 9 metri di altezza il giardino ed il mercato; situata al centro della fontana con vasca circolare e formata da una spirale di lastre di vetro sovrapposte, la scultura è stata rimossa in seguito alle segnalazioni dei residenti al PM Guariniello, preoccupati per l’incolumità di persone e cose, poiché già nel 2007 l’opera aveva assunto una pericolosa posizione di pendenza. Dalle ultime indiscrezioni pare che la scultura venga spostata nel giardino Nicola Grosa (di fronte al Palazzo di Giustizia), accanto al grattacielo Intesa-San Paolo, con il benestare di Renzo Piano (progettista del grattacielo) e con il finanziamento per il restauro da parte dello stesso istituto bancario.
 
Il mercato vero e proprio consta di ben 130 bancarelle che ogni giorno, dal lunedì al sabato (con orario 8,30-14,00), offre ai propri visitatori prodotti di qualità, che vanno dall’abbigliamento firmato alla pasta fresca, dalle calzature italiane in vera pelle alla frutta e verdura di qualità, per una clientela sempre più fidelizzata.
 
Se poi siete in zona e vi viene voglia di qualcosa di buono, entrate da “Gelato Amico” di via Principi d’Acaja 47, che si affaccia proprio sul giardino Martini: troverete ottimi gelati (ma anche ricoperti, gelati-biscotto e piccola pasticceria) realizzati senza grassi animali e senza glutine, solo con latte di riso e zuccheri naturali (fruttosio, zucchero di cocco), davvero digeribili e leggeri: provare per credere la nocciola ed il pistacchio!
 

Rugiada Gambaudo

 
 

Alla Cantina da Licia al via i corsi di degustazione

La vocazione di Cantina da Licia a essere anche Enoteca e luogo deputato alla degustazione era chiara sin dalla sua apertura dello scorso ottobre

 I locali dell’ex Trattoria Mamma Licia di via Mazzini, portati a nuova vita dai tre giovani imprenditori torinesi Alberto FeleLorenzo Careggio e Marco Pandoli, vantano infatti una carta dei vini di oltre 300 etichette selezionate in collaborazione con il sommelier Antonio Dacomo. E sarà proprio lui a dare il via, lunedì 5 marzo, al corso di degustazione che inaugura un ciclo di iniziative dedicate a tutti gli appassionati e agli intenditori per promuovere la cultura del vino ad ampio raggio. Il corso, suddiviso in cinque lezioni a cadenza settimanale (costo 170 euro), approfondirà tematiche che vanno dalla conoscenza dei territori di provenienza, dei produttori e delle tecniche di vinificazione e invecchiamento, sino all’arte dell’abbinamento con i vari piatti. Durante gli incontri, della durata di circa tre ore, saranno serviti almeno tre vini in degustazione guidata, abbinati a tre finger food.

Già perché Cantina da Licia, pur essendo un luogo vocato al mondo enologico in cui è possibile anche acquistare nella Cantina del locale le etichette presenti nella carta dei vini, è anche un locale che propone menù stagionali legati al territorio e alla tradizione. Oltre alla formula “pane e porcellana” in cui ogni piatto (fatta eccezione per i primi) può essere servito al tavolo o degustato come succulento ripieno di pane artigianale, qui si servono la Guancia brasata al barbera, sedano rapa e olio tartufato al Burger con humus e verdure, ma anche i plin al sugo d’arrosto, taglieri misti di salumi e formaggi, carne cruda, vitello tonnato o la mitica pasta e fagioli.

In Cantina da Licia, come da Eragoffi – spiega Alberto Fele – abbiamo strutturato una carta dei vini importante e realizzata selezionando appositamente piccole produzioni italiane e straniere tra cui etichette della Francia, del Sud Africa e della Nuova Zelanda. Ci piace dare la possibilità di promuovere e far scoprire vini di ottima qualità ma meno conosciuti, anche se non mancano bottiglie più blasonate che abbiamo inserito nella nostra Carta del Presidente. Il corso di degustazione che sta per iniziare – prosegue – non è che l’inizio di un percorso dedicato alla cultura del mondo del vino che andremo a sviluppare approfondendo gli aspetti della cantina con incontri diretti con i singoli produttori e con momenti legati al jazz e al vino con jam sessions dal vivo in via Mazzini”.

Alberto Fele, Lorenzo Careggio e Marco Pandoli hanno infatti anche aperto, contemporaneamente a Cantina da Licia, Eragoffi: quel Goffi del Lauro di corso Casale 117 a Torino riportato a nuova vita che propone cinque differenti menù (carnivoro, erbivoro, onnivoro, benessere ed esploratore) interpretati dallo chef Lorenzo Careggio e che ha in comune con il locale di via Mazzini la cantina di oltre 300 etichette.

Cantina da Licia – via Mazzini, 50 Torino – Tel 011.427.34.55 – 390.474.76.92 Orario: chiuso la domenica; pranzo 12.30/15, cena 19/23; Enoteca: 10/23

Frittura dolce, una golosa merenda

In piemontese “Fritura dusa” ovvero, “semolino dolce”, uno dei principali ingredienti del fritto misto alla piemontese. Piacevolmente aromatizzato al limone e’ un ricordo d’infanzia che profuma di cose semplici e genuine. Proposto come golosa merenda e’ adatto a tutte le eta’. Un amore al primo assaggio
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Ingredienti
 
½ litro di latte intero
5 cucchiai di zucchero semolato
125gr. di semolino
1 uovo e 1 tuorlo
Pangrattato q.b.
Olio di oliva q.b.
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Scaldare il latte con lo zucchero, a bollore aggiungere a pioggia la semola, mescolare, unire la scorza grattugiata del limone. Quando denso spegnere e aggiungere il tuorlo mescolando rapidamente. Ungere una teglia con poco olio, versare il semolino, livellare bene e lasciar raffreddare. Tagliare a rombi. Impanare prima nell’uovo poi passare nel pangrattato e friggere sino a doratura. Servire subito cosparso di zucchero.
 

Paperita Patty

Cheesecake classica con frutti di bosco

Un dolce della tradizione americana molto in voga anche da noi: la cheesecake classica cotta in forno. Una base di biscotto croccante farcito da una avvolgente crema di formaggio leggermente acidula. Un dolce morbido, delizioso e versatile che si presta ad innumerevoli varianti. Un dolce perfetto.

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Ingredienti:

250gr. di biscotti tipo Digestive

130gr. di burro

20gr. di maizena

½ limone (solo succo)

100ml di panna liquida fresca

600gr. di formaggio fresco spalmabile

2 uova

100gr. di zucchero

1 busta vanillina

Frutti di bosco

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Sciogliere il burro e lasciar intiepidire. Frullare i biscotti nel mixer sino a farina, mescolare con il burro fuso. Foderarecon carta forno il fondo di uno stampo circolare a cerniera, versare meta’ dei biscotti sul fondo e compattare bene con un cucchiaio, con i rimanenti biscotti, foderare il bordo dello stampo e riporre in frigo per almeno 30 minuti. Preparare la crema: sbattere le uova con lo zucchero, aggiungere la vanillina e poi, poco alla volta il formaggio, sempre mescolando, unire il succo del limone, l’amido ed infine la panna. Mescolare bene, versare nello stampo, livellare e cuocere in forno a 160 gradi per un’ora poi, a 170 gradi per altri 20 minuti. Lasciar raffreddare, sformare e decorare a piacere con frutti di bosco. Servire fredda con frutti di bosco frullati addolciti con zucchero a velo.

Paperita Patty

Les Coquettes, l’eleganza si fa civetta…

“Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza”
Johann Wolfgang Goethe
 
Chiudi gli occhi e respira la magia. Entrando nel mondo di Les Coquettes succede proprio questo e si scoprono, come per incanto, l’arte, il vintage e un mondo fatto di piccoli dettagli curiosi
È un cammeo nel cuore di Torino, la boutique che Marta Princi Manfredini ha aperto nel 2012 e che permette, a tutti coloro che sono alla ricerca di qualcosa di unico nello stile e nel glamour, di affacciarsi in un universo dal sapore retrò, avvolgente e femminile. Torinese, laureata in Architettura e con una grande passione per i viaggi, Marta studia anche all’Accademia di Brera, innamorandosi di Milano, dove comincia a collezionare accessori, oggetti e abiti vintage che rivende a negozi specializzati. La dedizione per la ricerca, il design e la cura dei dettagli la spingono ad aprire Les Coquettes, uno spazio dove si può curiosare aprendo i cassetti oppure mettendo il naso nella mobilia appartenuta a un notaio e che oggi ospita vezzose sciarpe, insoliti accessori e luccicanti bijoux. “Ho voluto creare un luogo – spiega Marta – che mi rispecchiasse, l’amore per la bellezza, l’influenza delle correnti artistiche e culturali francesi sono state il mio punto di partenza. Ho scelto un concept di gioielli di qualità ma accessibili a tutti, da Les Coquettes il cliente deve sentirsi a casa, coccolato e ascoltato. Regalare un sorriso, ricevere un complimento, sentirsi uniche e speciali indossando una collana o un paio di orecchini è il dono più grande che possiamo fare a noi stesse”. Nell’incantevole cornice dello spazio di via Barbaroux, tra mobili d’altri tempi e tappezzerie da belle epoque, fanno capolino i saponi portoghesi, che si affacciano dalle mensole per incuriosire, con le loro fragranze inaspettate, i nasi più pretenziosi, e guidarli poi alla scoperta dei segreti della boutique, tra le melodie francesi che accompagnano la gentilezza e la professionalità della padrona di casa. “I saponi e le candele di Les Coquettes – continua Marta – evocano sensazioni e ricordi, come il profumo della “Corsa a piedi nudi sull’erba” (la fragranza si chiama proprio così!) oppure l’“Estate 1982”. La loro bellezza è nel packaging, rimasto quello di una volta, confezionato artigianalmente e sigillato con la ceralacca: una delizia, insomma, anche per gli occhi!”. Dai profumi solidi naturali, da mettere sul viso o sulla punta del naso per un bacio “che sa di buono”, alle eau de parfum liquide, create dallo stesso maître parfumeur di Guerlain, fino alle lettere costruite con il legno di vecchie barche e concepite per arredare il modo esclusivo la propria abitazione, quello che incanta ancora di più sono i gioielli. Tra le creazioni, interamente bagnate in oro e scelte minuziosamente tra selezionati brand francesi e olandesi, ciò che affascina sono le forme di anelli, bracciali e collane: un girotondo di armonie romantiche, geometriche e femminili che conquistano al primo sguardo anche l’animo più esigente. I “Cinque bracciali” rappresentano il marchio di fabbrica di Les Coquettes, sono fili sottili come “leggerissimi capelli d’oro” che cambiano forma, riproducendo i movimenti del polso e raccontando, così, la storia di chi li indossa. Pezzi forti e ricercatissimi sono poi le t-shirt, ricamate a mano e realizzate in numero limitato. Il filo rosso o blu disegna sul cotone le frasi più uniche: dalla storica “Ayez courage” – sì, proprio quel coraggio che ha avuto Marta nel costruire un piccolo angolo per sognatori e sognatrici – a “Oh là là”, passando per “Parlez moi d’amour” fino ad “Aime moi plus fort”. Les Coquettes produce anche una propria linea di bijoux e magliette che a breve sarà disponibile, per le più irriducibili shopaholic, in edizione limitata e solo online su www.lescoquettes.it. Insomma, dopo aver appagato occhi e vanità, non si può però uscire da Les Coquettes senza un po’ di magia…Marta confeziona personalmente il sacchetto dove brillano mille lucine d’oro che, all’occorrenza, regalano un sorriso e un po’ di fortuna. E, prima di salutare questo mondo incantato, si pesca un bigliettino dall’ampolla: et voilà, la magie est servie!
 

Tortino dal cuore fondente

Se amate il cioccolato questa ricetta non vi deludera’. Un dolce tortino monoporzione che racchiude un cuore caldo di eccellente cioccolato cremoso, semplice, avvolgente e godurioso. Una dolce tentazione per il palato.
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Ingredienti per 4 tortini
140gr. di cioccolato fondente di ottima qualita’
20gr. di cacao in polvere
2 uova intere e 1 tuorlo
20gr. di fecola
80gr. di burro
80gr. di zucchero a velo
1 bustina di vanillina
4 pirottini in alluminio
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Ridurre il cioccolato a pezzettini, sciogliere a bagnomaria, unire il burro, amalgamare bene e togliere dal fuoco. In una ciotola lavorare con le fruste le uova con lo zucchero e la vanillina, quando il composto risultera’ spumoso unire il cioccolato fuso, mescolare bene poi, unire il cacao in polvere e la fecola setacciata. Amalgamare bene tutti gli ingredienti. Imburrare i pirottini e spolverizzare i fondo e i bordi con cacao in polvere. Versare il composto riempiendo i pirottini per 2/3. Cuocere in forno preriscaldato a 200 gradi per 10 minuti. Sfornare, capovolgere su un piatto e spolverizzare con zucchero a velo. Servire subito.
 

Paperita Patty