ECONOMIA E SOCIETA'- Pagina 271

Start up e innovazione a “Parlaconme”

Sono stati i temi centrali della puntata di fine anno condotta da Simona Riccio, founder e Social Media Manager del CAAT

 

Start up e innovazione nel settore agroalimentare rappresentano i temi centrali della puntata di PARLACONME, andata in onda mercoledì 22 dicembre scorso, dalle 18 alle 19, sulla Radio web Radiovidanetwork, condotta da Simona Riccio, Founder e Social Media Manager del CAAT.
Questa tematica era stata già affrontata nell’edizione di PARLACONME dello Speciale di Carmagnola, proprio con lo stesso relatore Giorgio De Ponti, Product Strategy Manager di EPTA Group. Insieme a lui, in questa seconda puntata di PARLACONME, è intervenuta Emanuela Di Costa, Sales & Marketing di EPTA Group.
Nel corso della puntata sono state spiegate le necessità avvertite dalle start up, i preziosi contributi che possono apportare le giovani generazioni nel settore dell’agricoltura e il ruolo importante assunto dal marketing e dalla comunicazione, oltre che le modalità che la grande distribuzione deve seguire per adattarsi ad accogliere questa nuova generazione.
“Le start up – ha spiegato Giorgio De Ponti – saranno in grado di adattarsi alle nuove generazioni soltanto nel momento in cui sapranno cogliere i cambiamenti che esse richiedono. Si tratta, sicuramente, di rivisitare le superfici dei punti vendita e proporre sempre più prodotti di qualità a scaffale, con meno assortimento, ma maggior qualità, e con un prezzo accessibile a tutti, tenendo fermi il riconoscimento e il rispetto della filiera agroalimentare. Sarà anche necessario saper intrattenere il cliente in store con esperti del settore, valorizzando le informazioni sul prodotto e comunicandole attraverso i canali fisico e digitale. Soltanto in questo modo si riusciranno a fidelizzare le generazioni Zeta e Alfa”.
“La digital transformation – aggiunge Giorgio De Ponti – risulta fondamentale, ma è altrettanto indispensabile attuarla in modo corretto e coinvolgente. È necessario comprendere che chi è nato con uno smartphone in mano vuole ed esige questo tipo di servizio. Ci aspettiamo che nel futuro il prodotto fresco venga sempre più venduto nello store fisico, mentre quello secco sarà prettamente venduto online. Di certo bisogna essere in grado di creare e gestire sito, e commerce e canali social, mantenendo una filiera la più corretta possibile”.
“Non si può dimenticare neanche – sottolinea Giorgio De Ponti – il packaging, rivolgendo moltissima attenzione al pack sempre più sostenibile, identificabile a scaffale, utilizzato quale mezzo di comunicazione del brand, facendo emergere, soprattutto, l’importanza della qualità dello stesso pack e la sua utilità nel diminuire lo spreco alimentare spesso presente nelle mura domestiche. Per poter avere un prodotto a scaffale di un certo livello è necessario che sia affiancato da una comunicazione capace di non svalutare assolutamente il prodotto e di non svenderlo”.
La prossima puntata di PARLACONME, in onda mercoledì 5 gennaio prossimo, dalle 18 alle 19 su Radiovidanetwork, avrà come ospite Alessandro Ossola, Presidente di Bionic People e atleta Paraolimpico.

Mara Martellotta

A Torino una manifestazione per la liberazione di Julian Assange

Martedì  4 Gennaio, a partire dalle ore 18 in Piazza Castello e in concomitanza con Roma e Reggio Emilia, il collettivo Italiani per Assange scende in piazza per chiedere a gran voce la liberazione di Julian Assange.  La data non è casuale ma cade nella ricorrenza della sentenza di primo grado che aveva bloccato l’estradizione di Assange dal Regno Unito agli Stati Uniti.

 

Il giornalista e attivista australiano è in un carcere del Regno Unito dal 2019. Il suo crimine? Aver rivelato crimini di guerra.

Formalmente l’accusa è quella di aver violato i termini della libertà su cauzione conseguenti ad accuse di stupro provenienti da due donne svedesi e successivamente in merito a una richiesta di estradizione proveniente dagli Stati Uniti che lo accusa di spionaggio.

In realtà, quello contro Julian Assange è un vero e proprio caso di persecuzione da quando Wikileaks, l’organizzazione informativa da lui fondata, ha rivelato crimini di guerra perpetrati dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan.

 

Wikileaks è un’organizzazione che dal 2006 riceve e divulga in modo anonimo documenti coperti da segreto di stato. Nel 2010, Bradley Manning, che oggi ha cambiato nome e identità e che da qui in poi chiamerò Chelsea, allora analista dell’esercito americano in missione a Baghdad, invia una serie di documenti all’organizzazione di Assange. Wikileaks pubblica un video intitolato Collateral Murder, visibile ancora oggi sul sito di Repubblica, che mostra tutta la barbarie di cui i soldati americani sono capaci. Chelsea Manning commette l’errore di rivelare ciò che ha fatto ad Adrian Lamo. Lamo è un hacker, un così detto black hat, ovvero un cyber criminale che buca i sistemi per il suo tornaconto personale. L’uomo è quanto di più lontano dagli attivisti che lottano per la libertà di stampa e la condivisione di risorse del web in modo gratuito. Non perde e tempo e denuncia Manning che viene arrestata subito dopo.

 

Julian Assange verrà invece arrestato con un sotterfugio. Due donne svedesi lo accusano di stupro. Non ci sono evidenze sulla violenza ma poiché in Svezia un rapporto anche consensuale ma senza l’uso di preservativo può essere considerato violenza sessuale, ecco che parte una richiesta di estradizione nel Regno Unito, dove all’epoca dei fatti Assange si trovava per una conferenza. Incarcerato e poi costretto ai domiciliari, l’uomo si rifugia nell’ambasciata dell’Equador a Londra ottenendone asilo politico. È il 2012 e Assange trascorrerà 7 anni in condizioni che le Nazioni Unite definiranno disumane.

 

Nel 2019 è arrestato nuovamente e portato nella prigione di Belmarsh, definita, per le condizioni rigide, la Guantanamo britannica.

 

Ho provato a riassumere in poche righe una storia tanto complicata quanto incredibile che Stefania Maurizi ha magistralmente raccontato nel suo ultimo libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks.” A chi pensa che questa vicenda non riguardi tutti noi, consiglio vivamente la lettura. Non solo Maurizi ripercorre le tappe di una storia che mina la libertà di stampa e quel giornalismo d’inchiesta che mette alla luce abusi e soprusi. La giornalista spiega come mai l’Italia ha visto Berlusconi al potere per venti anni e qual è l’ingerenza di servizi segreti esteri come la Cia nella politica del nostro paese.

 

 

 

Nella prefazione all’edizione italiana, Ken Loach scrive: “Questo è un libro che dovrebbe farvi arrabbiare moltissimo. È la storia di un giornalista imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di

distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia”.

 

Come al solito, dobbiamo studiare il passato, soprattutto quello recentissimo, per comprendere il presente e questo libro è uno squarcio su un muro di omertà che contribuisce a calpestare un diritto fondamentale dell’essere umano: la libertà di parola.

 

I Mambassa, storico gruppo di Bra, cantavano: “Voi non sparate sul cronista, nessuno lo verrà a sapere”. Chiedere a gran voce la liberazione di Julian Assange è il nostro modo per proteggere il cronista.

Loredana Barozzino

Rigenerazione urbana: i fondi per i Comuni

Con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibile, il 30 dicembre 2021, sono stati individuati i Comuni beneficiari del contributo previsto dall’articolo 1, commi 42 e seguenti, della legge 27 dicembre 2019, n.160 e dal DPCM del 21 gennaio 2021, da destinare a investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale.
Per gli anni 2021-2026 i contributi, confluiti nell’ambito del piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), ammontano complessivamente a 3,4 miliardi di euro. Ricordiamo che i contributi possono essere nel limite massimo di 5.000.000 di euro per i Comuni con popolazione da 15.000 a 49.999 abitanti, 10.000.000 di euro per i Comuni con popolazione da 50.000 a 100.000 abitanti e 20.000.000 di euro per i Comuni con popolazione superiore o uguale a 100.001 abitanti e per i Comuni capoluogo di provincia o sede di Città metropolitana.

Il decreto interministeriale (a questo link: https://dait.interno.gov.it/documenti/decreto-fl-30-12-2021_1.pdf ) ha quattro allegati:
– allegato 1, che contiene l’elenco dei n. 2.418 progetti, per i quali le richieste sono pervenute nei termini previsti, in cui sono evidenziati distintamente quelli ammessi con riserva, e con la indicazione anche dei progetti esclusi dall’assegnazione del contributo perché ritenuti non ammissibili per le motivazioni ivi indicate (pdf qui: https://dait.interno.gov.it/documenti/decreto-fl-30-12-2021-all-1.pdf );
– allegato 2, che riporta l’elenco di n. 2.325 opere ammesse (pdf qui: https://dait.interno.gov.it/documenti/decreto-fl-30-12-2021-all-2.pdf );
– allegato 3, che contieneelenco delle n. 1.784 opere attualmente ammesse e finanziate. Gli enti locali beneficiari sono complessivamente n. 483 (pdf qui: https://dait.interno.gov.it/documenti/decreto-fl-30-12-2021-all-3.pdf );
– allegato 4, atto di adesione e obbligo, che i Comuni assegnatari delle risorse, sono tenuti a sottoscrivere al fine di assicurare il rispetto di tutte le condizioni e gli obblighi previsti dal PNRR.

Vi è però una ulteriore novità. È di particolare interesse – secondo Uncem – non solo questa graduatoria dell’allegato 3 del decreto di eiri, ma anche quanto previsto dalla legge di bilancio 2022, appena approvata in via definitiva dal Parlamento.
Il comma 534 (e successivi) dell’articolo 1 riguarda infatti i progetti di rigenerazione urbana, con lo stanziamento di altri 300 milioni di euro. Ed estendendo la platea dei beneficiari. Vediamo come.
Per i Comuni con meno di 15.000 abitanti si aprirà una procedura parallela a quella già sperimentata per i Comuni più grandi. I contributi potranno infatti essere richiesti anche dai Comuni sotto i 15.000 abitanti che, in forma associata, hanno una popolazione di oltre 15.000 abitanti, nel limite massimo di 5.000.000 di euro.

Le richieste di contributo dovranno riguardare singole opere pubbliche o insiemi coordinati di interventi pubblici relativi a:
– manutenzione per il riuso e rifunzionalizzazione di aree pubbliche e di strutture edilizie esistenti pubbliche per finalità di interesse pubblico, anche compresa la demolizione di opere abusive realizzate da privati in assenza o totale difformità dal permesso di costruire e la sistemazione delle pertinenti aree;
– miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale, anche mediante interventi di ristrutturazione edilizia di immobili pubblici, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali e culturali, educativi e didattici, ovvero alla promozione delle attività culturali e sportive;
– mobilità sostenibile.
Le richieste di contributo dovranno essere inviate al Ministero dell’Interno entro il 31 marzo 2022. L’ammontare del contributo attribuito a ciascun comune sarà determinato dal Ministero dell’Interno entro il 30 giugno 2022.

Per gli hotel di Torino è stato un anno difficile

Abbastanza positivo il trend delle prenotazioni negli alberghi in montagna, ma non è la stessa cosa a Torino.

Federalberghi traccia un bilancio del 2021 ed emerge che gli ultimi mesi non sono bastati a salvare un anno ancora fortemente penalizzato dal Covid-19 per il comparto turistico-ricettivo torinese. Rispetto al 2019 si evidenzia un calo del 45% nelle presenze e i primi sei mesi, caratterizzati dalle zone gialle, arancioni e rosse e  dalle restrizioni agli spostamenti interregionali, sono andati peggio del 2020. I fatturati del 2020 e del 2021 assommati non si avvicinano neanche al fatturato del 2019. Nel 2020, poi, il settore turistico-ricettivo della provincia ha perso il 23,8% dei dipendenti. Gli eventi di nuovo in presenza negli ultimi mesi dell’anno, come Salone del Libro, Nitto Atp Finals, Coppa Davis, Tff hanno determinato un aumento delle presenze: 60% a settembre (- 20% sul 2019), 70% a ottobre e novembre (rispettivamente -15% e -10% rispetto agli stessi mesi del 2019).

Limite al contante. Gli artigiani: “Servono incentivi “

“Con il nuovo anno riprende la danza del limite al contante. Dal 1 gennaio la soglia viene dimezzata e scende a 999 euro, la stessa di undici anni fa.

La santa crociata contro il contante, che secondo chi ci governa dovrebbe spezzare le reni agli evasori, è contraddistinta da un continuo e disorientante sali-e-scendi dell’asticella: dai 12.500 euro del 2002 agli attuali 999, passando per 4.999, poi 2.499, quindi 2.999, e poi 1.999…un’odissea, non nello spazio ma nei portafogli dei cittadini, che sicuramente sarà frutto di ineccepibili erudizioni degli esperti delle cose fiscali, eppure a distanza di vent’anni resta ancora da dimostrare l’efficacia di questa ballerina misura nel contrasto all’evasione. Sia chiaro: l’evasione va combattuta, l’uso dei pagamenti digitali va incentivato. Ma sulle modalità, riteniamo di dissentire. Ancora una volta si penalizzano artigiani e commercianti, prevedendo multe che variano in base al valore del prodotto acquistato. Ma, vi ricordate quando gli esattori facevano la posta ai clienti all’uscita dai negozi, per controllare gli scontrini? Una misura poliziesca, così efficace che poi è stata eliminata. E le costose assurdità come le lotterie degli scontrini o il cashback di Stato? Diciamocelo, questa altalena del limite al contante è la foglia di fico della politica, dell’incapacità di colpire i grandi evasori e della non volontà di pensare vere ed efficaci politiche di incentivo per i negozianti e cittadini. Alla base di tutto c’è la perenne presunzione che l’artigiano e il commerciante sia un ‘evasore in sonno’, da tartassare e controllare. È stato evidente in questa pandemia, che ci ha visti colpiti da chiusure e restrizioni di ogni tipo, trasformati prima in sanificatori poi in controllori di green pass, insomma in butta-fuori sia dei no vax sia della vecchietta con i contanti nella borsetta.

Ci compiacciamo del fatto che, se non altro, le banche avranno un ritorno, grazie al quale confidiamo che rallenteranno la chiusura degli sportelli, conserveranno l’occupazione e avranno più risorse da investire nell’economia reale piuttosto che nella finanza.”

 

Distretti urbani per rilanciare il commercio In arrivo i fondi regionali

Con l’ultima tranche di 282.906 euro assegnati  a 15 Comuni, la Regione ha finanziato tutte le 77 comunità che avevano chiesto un sostegno per istituire i «distretti urbani del commercio». L’operazione, promossa dall’esecutivo di piazza Castello ha lo scopo di favorire lo sviluppo del commercio di vicinato e la rigenerazione urbana per stare al passo con la concorrenza delle grandi catene commerciali.

La Regione ha previsto di investire 5.402.796 euro, tra spese di istituzione e spese in conto capitale, di cui 2.771.806 euro già assegnati (1.506.904 per l’istituzione e 1.264.900 per le attività dei primi 25 distretti). Entro la prima metà del 2022 sarà finanziata la parte rimanente di 2.771.806 euro.

«Abbiamo anticipato i tempi per dare ai comuni la possibilità di organizzarsi meglio sia per quanto riguarda l’istituzione dei distretti sia per formare il personale che dovrà poi gestirli – ha sottolineato l’assessore alla Cultura Turismo e Commercio Vittoria Poggio –. Mantenendo l’impegno di finanziare tutte le comunità, sarà ampliata l’offerta commerciale delle nostre città e i cittadini ne avranno un beneficio quando potranno usufruire di spazi urbani rigenerati e dunque più vivibili. Si apriranno prospettive nuove per il commercio di prossimità in un momento in cui serve vivacità e spirito di iniziativa».

I 77 comuni potranno investire le risorse per abbellire aree dismesse, riqualificare il verde pubblico, migliorare l’accessibilità e la sistemazione della viabilità, recuperare immobili commerciali dismessi o sfitti, un ventaglio di opportunità che promettono di diversificare l’offerta commerciale e rigenerare intere porzioni di territorio urbano.

L’ultima tranche riguarda sette comunità della provincia di Torino (GrugliascoSusaPiossasco, l’Unione Montana Alta Valle di Susa, l’Unione Montana Alpi GraieNichelino, Almese) quattro della provincia di Alessandria (OvadaPozzolo Formigaro, l’Unione Montana Valli Borbera e Spinti, Gavi) due di Verbania (Omegna e Ornavasso), uno di Cuneo (Scarfinigi) e uno di Vercelli (Santhià).

Distribuzione gas: concessioni ad Ascopiave, ACEA, Iren

Il Consorzio formato da Ascopiave, ACEA, ed Iren si è aggiudicato la gara per l’acquisizione da A2A di alcune concessioni nell’ambito della distribuzione di gas

31 dicembre 2021 – Oggi il Consorzio formato da
Ascopiave (58%), ACEA (28%), e Iren (14%), dopo essersi aggiudicato la gara per la cessione
da parte di A2A di concessioni nell’ambito del servizio di distribuzione del gas naturale, ha
sottoscritto un accordo con il Gruppo A2A per l’acquisizione dei relativi assets.

Il perimetro di attività oggetto dell’operazione comprende circa 157 mila utenti, distribuiti in 8
Regioni d’Italia, facenti parte di 24 ATEM, per oltre 2.800 km di rete.

Il valore economico dell’acquisizione in termini di Enterprise Value, alla data del 30 giugno 2021,
è di 126,7 milioni di Euro. L’EBITDA annuo medio atteso, nel periodo 2022-2024, è di circa 12,8
milioni di Euro, mentre la RAB 2020 degli assets acquisiti è pari a 108,9 milioni di Euro
(comprensiva della RAB centralizzata pari a 6,2 milioni di Euro).

Il corrispettivo previsto per l’acquisizione sarà finanziato dai flussi di cassa della gestione
ordinaria e dalla capacità di indebitamento esistente delle Società facenti parte del Consorzio.
Il closing dell’operazione è previsto per il primo semestre del 2022.

Gli assets oggetto dell’operazione verranno confluiti dal Gruppo A2A in una Newco, il cui capitale
sarà acquisito dai consorziati in proporzione alle quote detenute nel Consorzio, con l’intesa che
si procederà alla scissione dei relativi perimetri di interesse a favore di Acea ed Iren entro 12
mesi dal closing.

“Acea, Ascopiave e Iren esprimono soddisfazione per l’operazione che è in linea con i rispettivi
indirizzi strategici ed è in grado di estrarre efficienze grazie all’integrazione degli asset acquisiti
con le attività di distribuzione già in portafoglio. Tale operazione consente, inoltre, di consolidare
ulteriormente la presenza nei territori tradizionalmente presidiati dalle Società.”

Perimetro di interesse di ACEA
Il perimetro di interesse di ACEA è costituito da concessioni in 5 ATEM, di cui 2 in Abruzzo, 2 in
Molise e 1 in Campania, per un totale di circa 30.700 PDR. L’Enterprise Value è pari a 35,8 milioni
di Euro.

Perimetro di interesse di Ascopiave
Il perimetro di interesse di Ascopiave è costituito da concessioni in 15 ATEM del Veneto, Friuli
Venezia Giulia e Lombardia, per un totale di circa 114.300 PDR.
La valutazione degli assets acquisiti in termini di Enterprise Value è pari a 73,2 milioni di Euro,
inclusa la partecipazione del 79,37% nella società Serenissima Gas S.p.A., titolare di una parte
delle concessioni del perimetro (circa 41.700 PDR).

Perimetro di interesse di Iren
Il perimetro di interesse di Iren è costituito da concessioni in 4 ATEM, di cui 1 in Lombardia e 3
in Emilia-Romagna, per un totale di circa 12.300 PDR. L’Enterprise Value è pari a 17,7 milioni di

Euro inclusivo di 1,3 milioni relativi al ramo d’azienda di proprietà di Retragas la cui cessione è
sospensivamente condizionata all’ottenimento dell’autorizzazione della riclassificazione degli
asset di trasporto in asset di distribuzione
Nell’operazione il consorzio è stato assistito dall’advisor finanziario Lazard e dallo studio legale Chiomenti.

Al MAG di Giaveno parte il “Treno della pace” per il Giorno della Memoria

 

GIAVENO – Gli studenti del MAG Maria Ausiliatrice di Giaveno si sono fermati per riflettere il 27 gennaio in occasione del Giorno della Memoria, per commemorare le vittime dell’Olocausto, parlando con gli studenti. Agli uomini e alle donne del domani si cerca di inculcare un pensiero di rispetto e antirazzista, nato proprio dalle ombre di ciò che fu il più grande sterminio della Storia. Ci sono storie che non vorremmo sentire o leggere mai ma c’è la Storia, quella che costituisce il passato delle genti, che riguarda tutti noi, solcata talvolta da nefandezze e cattiveria, che va raccontata per fare in modo che gli errori e gli orrori del passato non si ripetano nel futuro. Ci sono storie che non vorremmo sentire o leggere mai ma c’è la Storia, quella che costituisce il passato delle genti, che riguarda tutti noi, solcata talvolta da nefandezze e cattiveria, che va raccontata per fare in modo che gli errori e gli orrori del passato non si ripetano nel futuro.Le classi della Primaria del MAG Maria Ausiliatrice di Giaveno hanno disegnato e utilizzato il “Treno della pace” come argomento e tema di discussione approfondimento. La seconda storia è stata affrontata del punto di vista del viaggio verso la pace, l’accoglienza di tutti e del rispetto dell’altro in tutte le sue diversità. E’ stata raccontata la storia, successivamente drammatizzata e raccontata a loro volta, per finire svolgendo un disegno libero. I bambini hanno costruito il loro treno della memoria: ciascuno ha scritto sul vagone che porta il suo nome le riflessioni legate a quanto ascoltato e discusso. Tanti semi di memoria e spunti di riflessione per non dimenticare.

A testa alta, seppur sconfitti

Quella più a nord del Piemonte è una provincia lunga, attraversata da un forte senso d’identità. Anzi da tanti,troppi sensi d’identità che da sempre faticavano a ritrovarsi.

Dalle rive dei tre laghi ai territori in quota colonizzati dai Walser quasi ottocento anni prima, era un triangolo, un cuneo di terra piantato a forza dentro le Alpi. Uno dei territori più montuosi d’Italia, con la testa in Svizzera e il fondo sdraiato tra Belgirate e Orta. A est la Lombardia, lungo tutta la sponda “magra” del Verbano, a ricordare che la storia di questa terra è sempre stata più influenzata dalle vicende dei Visconti e dei Borromeo che dalla casata dei Savoia. Ci era nato, da quelle parti. E vi era vissuto per parecchi decenni prima di trasferirsi a Torino. Rovistando tra vecchie carte che aveva conservato in un grosso raccoglitore, ritrovò molti documenti che risalenti agli anni della sua gioventù, all’esperienza di organizzatore politico. Si incuriosì, le lesse nuovamente e ripensò a quel tempo. Poteva immaginare che un giorno avrebbe iniziato un lunghissimo viaggio per quei territori, macinando centinaia di migliaia di chilometri in auto per incontrare persone, organizzare riunioni, dibattere problemi? Era stata un’avventura densa di emozioni, a volte ricca di soddisfazioni, molto più spesso amara, complicata. E pensare che era nata così, quasi per caso.

Tutto ebbe inizio un sabato mattina sul finire degli anni settanta, quando il segretario provinciale del PCI in carica a quell’epoca l’aveva convocato e a bruciapelo gli aveva chiesto se sapesse scrivere. “Ma che razza di domanda è?”, pensò. Ma nel medesimo tempo che pensava pronunciò la frase più semplice e più banale che potesse venirgli in mente: “Sì, so scrivere. Perché?”. Gli venne raccontato come occorresse sostituire il corrispondente de L’Unità e che – se se la fosse sentita – c’era anche un lavoro da organizzare verso la realtà del mondo del lavoro, delle fabbriche, a contatto con gli operai. Così, in meno di un’ora, fece la scelta che, nel bene e nel male, avrebbe condizionato la sua vita futura.

 

Concluse in breve tempo la sua esperienza di operaio metalmeccanico, lasciandosi alle spalle i cancelli della fabbrica per iniziare una vita del tutto nuova. In fondo era ciò che aveva sempre voluto. Fin da piccolo, quando era ancora in vita il nonno paterno, in casa si respirava quell’aria un po’ sovversiva. E dal padre di suo padre aveva ereditato un forte sentimento di giustizia.

Gli era rimasta negli occhi l’immagine del vecchio nonno quando si guardava le mani. Era quasi in tic, un riflesso condizionato. Appena cessava il lavoro o qualsiasi altra occupazione e metteva in moto l’ingranaggio dei ricordi, si guardava le mani. Grosse, forti, segnate dai calli. Mani da picasàss, da lavoratore della pietra. Dalla finestra di casa sua, lo sguardo arrivava fino alla Pradera, dove la montagna prendeva rapidamente ad innalzarsi verso le pareti dure e grezze di granito del monte Camoscio. Quel granito rosa faceva gola a tanti. Elegante e resistente. Bello a vedersi e duro, durissimo al tatto. Come quelle mani che lo avevano estratto e lavorato. Scalpellino anarchico, il nonno aveva fatto tutta la grande guerra negli alpini. Soldato semplice, all’inizio, e poi sul campo di battaglia si era guadagnato il grado di sergente.

Non ne parlava volentieri. Quei ricordi di trincee, fango, sangue l’avevano segnato. Aveva cercato di dimenticare le montagne della “guerra bianca”, le Dolomiti, le creste dell’Ortles-Cevedale, gli assalti all’arma bianca per guadagnare una striscia di terra, le fucilate e i corpi straziati lungo la linea del Piave. Era lì che aveva maturato un odio profondo per il Re e la monarchia. E, prima ancora di averne coscienza, era diventato   anarchico. Quell’inutile massacro di ragazzi mandati al macello gli aveva piantato nel cuore un senso di ripulsa per le ingiustizie che alimentava in lui un profondo sentimento di ribellione che lo faceva star male. Finita la guerra, aveva rifiutato ogni riconoscimento e, tornato a casa, aveva ripreso a lavorare in cava. All’avvento del fascismo, schedato e perseguitato come “antifascista sovversivo”, era emigrato in Francia, lavorando nei dintorni di Parigi. Poi, sul finire del 1936, era corso anche lui in Spagna, in difesa della Repubblica, combattendo sotto le bandiere rosse e nere della CNT, la Confederación Nacional del Trabajo.

A Barcellona aveva conosciuto Buenaventura Durruti, un ferroviere di quarant’anni, anarcosindacalista catalano. Con la sua colonna, combatté in Aragona e sull’Ebro per poi difendere Madrid dagli assalti dei franchisti. Ne parlava con enfasi. “La colonna era una comunità sindacale in lotta. Sapevamo di combattere per i diseredati, per la classe operaia, i contadini, gli ultimi. Combattevamo per il popolo non per una minoranza capitalistica, come   l’avversario. Questa convinzione imponeva l’autodisciplina più stretta.Il miliziano non ubbidiva ma perseguiva insieme ai propri compagni l’attuazione del suo ideale, di un bisogno sociale”. Portava in se anche una grande amarezza. Vide Durruti accasciarsi, il 19 novembre del 1936, verso le due del pomeriggio, di fronte al Policlinico di Madrid, sul bastione che dominava la città universitaria, dove i nazionalisti di Francisco Franco si erano trincerati. Buenaventura ricevette in pieno polmone una palla calibro nove e , portato d’urgenza in ospedale, cessò di vivere alle sei del mattino dell’indomani, dopo molti, inutili, interventi chirurgici. Chi l’aveva ammazzato? I fascisti? Oppure il “fuoco amico” degli stalinisti? La risposta non l’ebbe mai e gli restò in testa, doloroso, quel dubbio. Combatté ancora sui vari fronti, fino alla caduta della Repubblica e, riparato in Francia, fece ritorno a casa dopo un lungo e pericoloso viaggio, percorso in gran parte a piedi. Più di una volta gli era capitato di sentirlo cantare sottovoce, “A las barricadas” , canto anarchico risalente al periodo della guerra civile in Spagna. Bellissima e struggente, resa ancora più profonda dalla sua voce bassa e roca. “Negras tormentas agitan los aires , nubes oscuras nos impiden ver. Aunque nos espere el dolor y la muerte contra el enemigo nos llama el deber. El bien mas preciado es la libertad ,hay que defenderla con fe y con valor.Alza la bandera revolucionaria , que llevara al pueblo a la emancipacion . En pie obrero a la batalla , hay que derrocar a la reacion. A las Barricadas! Por el triunfo de la Confederacion”. Quando risentì quel motivo tanti anni dopo, vedendo al cinema Terra e Libertà, il bellissimo film di Ken Loach, provò una fitta allo stomaco e il ricordo del vecchio e combattivo nonno si fece ancor più forte.

Quello che lo attendeva, dunque, era ben più che un lavoro. E l’affrontò di slancio. Incontri, riunioni, volantinaggi davanti alle fabbriche. Macinò tanti di quei chilometri a bordo della sua rossa FIAT 126 da perderne il conto. Un inverno – forse nell’80 o nell’81 – era arrivato verso sera nello spiazzo davanti al cinema comunale di Malesco, in Valle Vigezzo. Per diversi giorni c’era stata una nevicata fittissima, d’altri tempi. Da Druogno al ponte sul Melezzo si viaggiava in mezzo a due muri incredibili di neve gelata, quasi fosse una pista da bob. Faceva un freddo cane. Il cielo era coperto, buio. Le stelle stavano rannicchiate, nascoste, dietro la densa coltre di nubi.

All’interno, la sala stretta e lunga dove si erano riuniti i compagni della valle era a malapena riscaldata. “Così non si patisce lo sbalzo termico, quando si esce”, teorizzò il sindaco. Non che fosse convincente quel suo ragionare ma tant’è: quello passava il convento e c’era poco da fare. Il vero problema capitò alla fine dell’incontro quando, salutati i partecipanti, mise il naso fuori dall’uscio e s’accorse che aveva ripreso a nevicare.Un nevischio secco e fitto di cristalli ghiacciati stava imbiancando la strada. Scese adagio, a passo d’uomo, un tornante dopo l’altro fino al bivio di Masera dove cessò di nevicare e rivide qualche pallida e infreddolita stella brillare in cielo.

Quella era la sua vita. Da una riunione a un’assemblea,andando su e giù per quel territorio di montagna rappresentava già di per sé una bell’impresa. E non ci voleva molto ad immaginare cos’era stato spostarsi vent’anni prima, quando venne deciso di dare un’organizzazione provinciale – anche se la provincia ancora non c’era – alla loro organizzazione. Il tempo consumato in quegli spostamenti era una variabile da cui non si poteva prescindere. Così fece per lungo tempo, per anni. Non c’era nulla di scontato nel dover fare i conti con le persone e le idee, proponendo ( quando si riusciva..) soluzioni, ascoltando critiche e lamentele. Quante volte era diventato il parafulmine su cui scaricare tensioni e arrabbiature, aspettative deluse e speranze lasciate lì, a vagare senza grandi prospettive.

Aveva dovuto imparare presto a fare i conti con le regole non scritte, con le abitudini consolidate, con i rapporti tra compagni di generazioni diverse, con tanti e tanti problemi difficili, complicati.

Non era un lavoro facile. Se n’era accorto durante la lotta alla Montefibre. L’ultima, decisiva, puntata di una vicenda complessa dove le speranze dei lavoratori erano legate a doppio filo con il destino di una delle più grandi e storiche fabbriche chimiche del nord Italia.

Davanti alla fabbrica già dal primo turno del mattino, poco prima dell’alba. Volantinaggi, discussioni. Non era un lavoro semplice e a dire il vero non era nemmeno un lavoro, visto che entravano in gioco situazioni e rapporti che coinvolgevano, che non consentivano di stare ai margini. O eri coinvolto del tutto e in tutto, o non lo eri per nulla. E in quel caso era meglio lasciar perdere. Per parte sua, c’era dentro fino al collo. Quelle persone che frequentava non rinunciavano a dire la loro, avevano personalità. Altro che “cervelli portati all’ammasso”, come dicevano gli avversari usando un’espressione spregiativa, insolente. Le opinioni non erano mai state così diverse. Del resto era una lotta difficile, dagli esiti tutt’altro che scontati. Quella della “fabbrica-città” non era una vertenza come le altre. Era una lotta per difendere il cuore industriale di una città e, forse, di un intero territorio. Era il futuro di una comunità di donne e uomini che, nel bene e nel male, sarebbe dipeso da quanto accadeva in viale Azari a Pallanza.

Lì c’era uno dei nuclei più combattivi del movimento dei lavoratori. Non solo di quella zona ma di tutto il paese. Erano capaci di sviluppare una critica puntuale alla direzione aziendale sull’intero ciclo produttivo e sul suo governo, dai carichi e ai ritmi di lavoro, dal funzionamento dei singoli reparti all’organizzazione complessiva della fabbrica. Erano in grado di dire la loro su tutto, con competenza. Una capacità conquistata sul campo, dimostrata, indiscussa. Persino temuta, non solo dalla proprietà ma anche dal sindacato che si vedeva sollecitato e spesso scavalcato dalle rappresentanze di fabbrica.

Fu una lotta indimenticabile. L’intera città veniva chiamata a rapporto dai lunghi, strazianti, ululati della sirena della Montefibre. In un primo tempo c’era stata la difesa, con le unghie e con i denti, delle produzioni di nylon e dell’integrità del ciclo produttivo di Pallanza. Poi, quasi fosse un simbolo, l’intera lotta era diventata un fatto nazionale, una vera e propria “prova del budino” per usare le parole di uno dei segretari nazionali della CGIL.

Come dire che, se fosse passata la linea padronale delle dismissioni in quella realtà, sarebbe passata ovunque. E allora, manifestazioni su manifestazioni, iniziative diffuse per rinsaldare un legame non facile tra la fabbrica e la città. Era evidente che i “padroni delle fibre” avevano deciso di scommettere sul gioco pesante. Non ci si poteva in alcun modo tirare indietro, a dimostrazione che quando il gioco si faceva duro, i duri avevano una sola scelta possibile: giocare, e fino in fondo, la loro partita.

Le avvisaglie avevano messo tutti sul chi va là. “Il pericolo è serio. C’è il rischio che Pallanza venga tagliata fuori da ogni prospettiva”, dicevano all’esecutivo del Consiglio di Fabbrica. Gli accordi non erano stati rispettati e sui piani d’investimento si era giunti a un dialogo tra sordi. La direzione aziendale, chiusa in un ostinato mutismo,dilazionava scelte importanti e decisive come l’avvio della filatura ad alta velocità, l’inserimento del testurizzo, l’avvio di progetti di ricerca. I ritagli di giornale che giravano di mano in mano, ricavati dalle cronache economiche, riportavano le notizie sulle trattative tra Montefibre e l’americana Monsanto. Il gruppo di via Pola a Milano stava per acquisire due stabilimenti di fibre acriliche in Europa. Con la Monsanto c’era un patto: gli americani cedevano gli impianti di Coleraine, nell’Irlanda del Nord, e di Lingen in Germania, in cambio della quota del 50% che deteneva Montefibre nella Polyamide Intermediates Ltd.

Quest’ultima produceva a Seal Sand, in Inghilterra un intermedio per la fabbricazione delle fibre poliammidiche che all’epoca era in comproprietà con la Monsanto. Non bisognava essere degli economisti per capire cosa stava accadendo. A passi da gigante si stava delineando una delle più classiche spartizioni dei mercati e delle aree d’influenza economica. L’azienda italiana non faceva mistero di voler concentrare la massima parte delle risorse finanziarie, tecnologiche e manageriali nel campo delle fibre acriliche e poliestere. In pratica aveva scelto di puntare tutto sul poliestere di Acerra e sull’acrilico di Porto Marghera. Per il nylon 66 di Pallanza stavano suonando le campane a morto. Il completo controllo della Monsanto sulla produzione di intermedi per le fibre poliammidiche non portava nulla di buono. La “fabbrica-città”, com’era stata ribattezzata la Montefibre, e quanto ci veniva prodotto diventavano merce di scambio in una grande partita di monopoli, giocata sulla pelle di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Per questo non si parlava più di investimenti e di qualità delle produzioni, tirando a campare, spostando in là nel tempo gli incontri , collocando ogni ragionamento di prospettiva in   un futuro incerto.

Non vi erano possibilità di fraintendimento.Il complesso chimico del Verbano per vivere aveva bisogno di ammodernarsi. Ogni giorno che veniva spuntato dal calendario equivaleva a perdere una parte di mercato, scivolando sempre più giù e sempre più fuori dal grande “giro” delle fibre chimiche.

Il sindacato di fabbrica aveva elaborato piani, avanzato proposte che potevano rendere più efficace la produzione in termini di qualità e quantità. Erano pronti anche a fare i sacrifici necessari, fossero anche duri, pur di salvare il lavoro. Le idee che mettevano sul tavolo non erano per nulla banali o scontate. Erano il frutto di una conoscenza, un’applicazione anche tecnica, un forte senso di responsabilità.

L’intera vicenda assumeva dimensioni sempre più grandi e contorni drammatici. I giornali, nelle cronache locali e nelle pagine nazionali, dedicavano spazi importanti. Ma le cose non andarono per il verso giusto. Si ricordava benissimo quell’ultimo giorno, in cui venne forzato il blocco delle merci alla porta carraia e venne posto fine, con la forza, all’autogestione che aveva impegnato per settimane i lavoratori in uno sforzo notevole e persino commovente che aveva messo sotto gli occhi di tutti la capacità di far funzionare una realtà produttiva così complessa.

All’azienda che si disimpegnava, che tirava i remi in barca, si contrapponeva la pervicace volontà dei lavoratori che offrivano ogni giorno una dimostrazione pratica della loro capacità di far funzionare gli impianti anche senza l’ausilio della direzione. Cambiava così, nei fatti, la “catena di comando”, trasferendola in basso, nelle mani di chi aveva la responsabilità della conduzione della lotta sindacale. Anche quando si trattò di trovare le materie prime, telefonando dappertutto, contrattando con altri consigli di fabbrica l’invio del “sale 66” che serviva per produrre il nylon e non interrompere la catena produttiva, alla fine erano riusciti nell’impresa. Quando i due automezzi provenienti dalla Montedipe di Novara attraversarono i cancelli della porta carraia, transitarono tra due ali di folla festante e gli autisti furono accolti con mazzi di fiori e applausi. Il filo dell’autogestione, pur tenue, era stato riannodato tante e tante volte. Fino a quando, venne brutalmente spezzato.

Non poteva scordarsi quel pomeriggio caldo e afoso. Si trovava davanti alle rastrelliere dei cartellini di presenza, a fianco delle bollatrici. Dalla saletta sindacale provenivano voci concitate. “Ognuno ha il suo stile…Noi dobbiamo resistere alle provocazioni. Tenere duro, dimostrare che non siamo delinquenti ma gente che ha a cuore le sorti del lavoro e, in fin dei conti, di tutta la città. Ecco cosa occorre fare!”,diceva uno dei leader del Consiglio di Fabbrica. Davanti al piccolo locale dov’era in corso la riunione con i vertici sindacali del sindacato unitario dei chimici, una trentina di operai,provenienti dalla filatura nylon e dal polimero,avevano improvvisato un sit-in. Agitavano cartelli scritti a mano, con calligrafia incerta:”Non lasceremo che Pallanza muoia”, “Contro i padroni delle fibre, lotta dura“.

Le bacheche fissate al muro erano zeppe di volantini, documenti, ritagli di giornale. L’aria era pesante, il clima si arroventava. E non solo perché i raggi del sole scendevano a perpendicolo sul piazzale dove l’ombra era solo una stretta striscia che correva lungo il muro. Un giovanotto dall’aria distinta, un impiegato delegato del ricevimento merci, era entrato nella sala di corsa, quasi travolgendo il capannello di operai. Tutti lo guardavano stupefatti. Alla porta carraia, distante qualche centinaio di metri, nei pressi dell’incrocio tra viale Azari e Corso Europa, era scoppiato un gran parapiglia. “E’ arrivata la polizia!”, gridò l’impiegato. “Stanno forzando i blocchi! Stanno caricando gli operai del picchetto!”. Dopo settimane di tensione e di silenzi era arrivata una riposta: la più sbagliata, la più ingiusta e drammatica. Ad un problema sociale si rispondeva con l’ordine pubblico,con una prova di forza destinata solo ad esasperare i già tesissimi animi . Prima c’era stata la carica alla stazione ferroviaria di Fontotoce, dove i lavoratori avevano interrotto per pochi minuti la linea ferroviaria del Sempione, allo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi d’informazione. Poi direttamente davanti alla fabbrica, con l’intenzione di rimuovere picchetti e blocchi.

Quelli che seguirono furono giorni difficili e rischiosi. Operai arrestati e poi rilasciati sotto al pressione di enormi cortei di protesta. Trattative che si intrecciavano su più tavoli, a vari livelli. Dal ministero del Lavoro a Roma alla sede del gruppo a Milano, dagli uffici torinesi in piazza Castello della Giunta Regionale fino all’Unione Industriali verbanese, nel palazzo di villa Pariani a fianco del nuovo imbarcadero di Intra.

Si ottenne poco. La cassa integrazione, una più o meno lunga prospettiva di sussidi per non creare immediatamente una ricaduta drammatica sulle condizioni sociali di migliaia di famiglie e sull’economia di Verbania, legata a doppio filo con la “fabbrica-città”. Di produzioni da mantenere , di ciclo lavorativo da riavviare non vollero sentirne parlare. Alla fine, sindacato e lavoratori, cedettero, accontentandosi di un “filo di fumo”, di un progetto industriale che riduceva al minimo comune denominatore una storia fatta di migliaia di persone, tante storie e profonde, anche se controverse,passioni. Poco male, secondo alcuni: a poca distanza, meno di trenta chilometri, c’era la Svizzera, con le offerte di lavori meglio pagati anche se più incerti. Una prospettiva che, a breve, si ridimensionò e non corrispose alle aspettative: anche lì, oltre confine, la crisi iniziò a   “mordere”e i primi a perdere il lavoro furono parte dei frontalieri italiani che, giornalmente, varcata la frontiera di Piaggio Valmara, si disperdevano nelle fabbriche e nei cantieri tra Ascona e Bellinzona.

Di quella storia e di quella sconfitta, tra le carte che aveva conservato, c’era anche un diario. Era il taccuino su cui raccoglieva appunti e impressioni che poi riversava nelle cronache di quella vicenda sulle pagine de L’Unità, il giornale per il quale scriveva. Lo sfogliò. Trovò conferma dei documenti letti, delle storie, degli incontri. Consultò la raccolta di articoli che avevano tradotto in cronaca quelle vicende. In una provincia così piccola e così lontana dalle grandi città si era consumata una vicenda che aveva avuto un grande peso su quella comunità ma anche dimensioni simboliche molto ma molto più grandi. La “prova del budino” andò male. L’esito finale di quella storia fu una sconfitta. Una delle tante, intercalate da qualche raro successo. Ripensando a distanza di tempo a quegli operai che avevano perso il lavoro, lottando con rigore e generosità, immaginò suo nonno insieme ad altri operai e contadini, donne e uomini, stanchi,affamati e sconfitti, in marcia incolonnati verso la frontiera francese nel 1939, dopo la caduta della Repubblica. La guerra di Spagna terminava con la vittoria del franchismo alleato di Hitler e Mussolini. Quegli uomini erano stanchi, sconfitti ma non si sentivano privati della dignità, dell’orgoglio e della consapevolezza di essere stati nel giusto. La storia si incaricò di dar loro ragione, seppure in ritardo, qualche decennio dopo. Come il nonno si ritrovò a fischiettare le note della canzone cara al padre di suo padre.

Marco Travaglini

A Torino c’è Agri Christmas. Fino all’Epifania

Una grande vetrina, a cura di Confagricoltura Torino con il contributo della Camera di commercio di Torino, per conoscere, degustare e acquistare i migliori prodotti del nostro territorio.

Dal 7 dicembre al 6 gennaio dalle 10 alle 18 all’Hotel Roma Rocca Cavour in Piazza Carlo Felice 60 a Torino. Ingresso libero, degustazioni su prenotazione.  

 

Si inaugura domani mattina, martedì 7 dicembre alle 10 nei saloni dell’Hotel Roma – Rocca Cavour in Piazza Carlo Felice 60 a Torino la prima edizione di Agri Christmas, vetrina natalizia delle migliori eccellenze agroalimentari del territorio. L’ingresso alla rassegna è libero, nel rispetto delle disposizioni anti Covid.

 

L’iniziativa è di Confagricoltura Torino, con il contributo della Camera di commercio di Torino: dal 7 dicembre al 6 gennaio, tutti i giorni, dalle 10 alle 18 ad Agri Christmas sarà possibile degustare e acquistare formaggi d’alpeggio, composte e succhi di frutta biologici, riso, pasta all’uovo, gallette di mais, farina per polenta, vini a denominazione d’origine, salumi e tante altre specialità del territorio.

 

Per un mese intero, escluse le giornate di Natale, Santo Stefano e Capodanno, sono programmati appuntamenti speciali, con ingressi riservati su prenotazione, dedicati alla carne di razza Piemontese, ai formaggi dop piemontesi, alla tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino, ai vini Caluso, Carema e Canavese; sono anche previsti incontri con il caffè, il cioccolato e il Vermouth di Torino.

 

Abbiamo deciso di allestire questa rassegna – dichiara Tommaso Visca, presidente di Confagricoltura Torinoper dar modo ai torinesi e ai numerosi turisti che scelgono la prima capitale d’Italia come meta per le loro vacanze natalizie di assaggiare e acquistare le specialità che prendono origine dalle nostre imprese agricole: per le feste di Natale e di fine anno portiamo le nostre cascine in città per presentare ciò che di bello e di buono facciamo ogni giorno”. Il programma aggiornato delle iniziative di Agri Christmas è su www.confagricolturatorino.it

La prima degustazione in programma, su prenotazione, sarà giovedì 9 dicembre alle 11:30 con le specialità del Coalvi, il Consorzio allevatori vitelli di razza Piemontese.

 

Per riservare gli appuntamenti con le degustazioni, gratuite e fino a esaurimento dei posti, si può mandare un messaggio (solo whatsapp) al numero 389 953 9191 indicando nome e cognome e attendendo la risposta di conferma.