A Barak Obama, in occasione della sua rielezione nel 2012, mancò un voto. Non uno qualsiasi, trattandosi di quello di George McGovern. Infatti, il 21 ottobre di quell’anno, l’America perse il candidato presidenziale più “di sinistra” della sua storia. L’ex senatore democratico morì a novant’anni in una clinica del South Dakota quando la sfida tra Obama e Romney si stava
avviando alle battute finali. Quarant’anni prima, all’epoca del Watergate, McGovern -considerato un “pericoloso sovversivo” e un “socialista” per le sue idee liberal – fu sconfitto da Richard Nixon nella corsa alla Casa Bianca. “Uno statista di grande coscienza e convinzioni”, lo ricordò con emozione Obama al quale, quattro anni prima, McGovern aveva dato il suo appoggio pur avendo inizialmente sostenuto Hillary Clinton. Alla sua scuola sono cresciuti leader come Bill Clinton che, nel 1972, coordinò la campagna pro-McGovern in Texas, e Gary Hart che l’organizzò su scala nazionale. Un giorno, Robert Kennendy, lo elogiò così: “Fra tutti i colleghi è la persona mossa da maggiore sentimento, quello che agisce nel modo più genuino”. Figlio di pastore metodista, diceva di aver imparato a odiare la guerra dopo aver pilotato i bombardieri B24 nel secondo conflitto mondiale. Nel 1972 il suo programma prevedeva il ritiro dal Vietnam in
cambio della liberazione dei prigionieri di guerra statunitensi, l’amnistia per gli obiettori di coscienza e una riduzione di più di un terzo in tre anni delle spese per la difesa. Ma pensava anche agli ultimi, immaginando un piano di prestiti agevolati per le persone a reddito basso e una concreta lotta alla fame nel mondo. Perse quelle elezioni di quarantacinque anni fa, e le perse anche male. Nonostante tutto rivendicò, con coerenza e orgoglio, le sue idee con un indomabile fervore “liberal” che contribuì decisamente a migliorare l’America. “Io credo nel potere delle idee”, ripeteva McGovern e , nonostante la sconfitta, fu quest’ utopica passione a consegnarlo alla leggenda.
Marco Travaglini




“Fossalta me la ricordavo ridotta dalle bombe a cumuli di macerie, al punto che neppure i topi ci potevano abitare”. Così scrisse Ernest Hemingway sul “Daily Star” di Toronto nel luglio del 1922. L’articolo, intitolato “Visita di un reduce al vecchio fronte”,
causa di un difetto alla vista) , cercò di mettere in salvo i feriti quando fu colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice che gli penetrarono nel piede e in una rotula. Il luogo in cui lo scrittore fu ferito è noto come “Buso Burato”. Lì l’acqua del Piave si dirige verso Fossalta, seguendo una linea di anse disegnate a “elle”. E lì, tra le due sponde del fiume, c’era la prima linea, con gli austriaci appostati sulla riva sinistra. Hemingway arrivò a Fossalta di Piave il 24 giugno 1918, appena conclusa la Battaglia del Solstizio e le strade del piccolo paese parevano un cimitero a cielo aperto. Quelle due settimane in cui rimase lì, fino alla notte del ferimento, segnarono in profondità la sua vita. Dopo il
ferimento, ricevute le prime cure, venne trasportato in treno all’Ospedale della Croce Rossa americana di Milano, dove fu operato. Lì rimase tre mesi, durante i quali furono necessarie ben 12 operazioni chirurgiche per estrarre le oltre 200 schegge che gli erano entrate nella gamba. Lì s’innamorò di un’infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky. Dall’intera vicenda trasse spunto per uno dei suoi romanzi più celebri, “Addio alle armi”, dove il tratto autobiografico è ben visibile. Il gesto d’eroismo che lo vide protagonista sul Piave gli valse la medaglia d’argento al valore del Regno d’Italia e la Croce di Guerra, conferitagli dagli Stati Uniti del presidente Thomas Wilson. Così, quando fece ritorno– nel gennaio del 1919 – al suo paese natale di Oak Park, nell’Illinois, venne accolto come un eroe. Hemingway, in viaggio in Italia negli anni seguenti, volle ritornare a Fossalta e in Veneto, dove ambientò anche un altro suo romanzo – “Di là dal fiume e tra gli alberi” – scritto nel 1950. Oggi una stele, posta lungo l’argine di Fossalta del Piave, ricorda il luogo dove Hemingway fu ferito. Per mantenere viva la memoria della “guerra Granda” e del legame con il celebre scrittore americano, la municipalità del piccolo centro in provincia di Venezia ha realizzato un ecomuseo intitolato “La guerra di Hemingway“: un anello di 11 chilometri in cui camminare lungo il Piave ascoltando le parole dello
scrittore raccolte in un’audio guida e con la possibilità di scaricare ulteriori documenti e informazioni attraverso dei QR code presenti sulle steli disseminate lungo il percorso segnato – a terra – da impronte azzurre di scarpe chiodate. A Bassano del Grappa, poco più a nord del celebre ponte in legno del Palladio, sulla riva est del fiume, sorge invece Ca’ Erizzo, elegante struttura del ‘400. Nel 1918 la villa fu residenza della Sezione Uno delle ambulanze della Croce Rossa Americana. In una parte del complesso, restaurato dall’attuale proprietario, ha sede il Museo Hemingway e della Grande Guerra, che ospita inoltre una “collezione Hemingway” con una vasta documentazione. Un’ultima annotazione sul Sacrario di Fagarè, dove riposano le salme di più di diecimila caduti (per metà ignoti) nelle dure battaglie del Piave tra il 1917 e il ‘18, provenienti da ottanta cimiteri di guerra del basso Piave. Lì è sepolto anche il tenente Edward McKey, ufficiale della Croce Rossa Americana, amico personale di Hemingway che, in sua memoria, scrisse una poesia il cui testo è scolpito in ferro ed è visibile nella cappella centrale del Monumento.






In pochi ricordano l’impresa di un montanaro che sfidò le onde della Manica per amore della libertà, risultando il primo uomo al mondo ad attraversare a nuoto quel tratto di mare di 34 chilometri che separa la Gran Bretagna dall’Europa continentale e collega il mare del Nord all’oceano Atlantico
spazzacamino, si arruolò nell’armata italiana che faceva parte della Grande Armée di Napoleone Bonaparte, in cerca di fortuna. Iniziò, così, la sua avventura, agli ordini del generale di divisione Domenico Pino. Negli anni successivi, imbarcatosi sulla “Belle Poule”, fregata della flotta francese, come fuciliere di marina, combatté a Waterloo dove, ferito, venne fatto prigioniero e recluso a Dover, su un vecchio pontone inglese (una sorta di enorme chiatta galleggiante). Il 16 agosto 1817, il ventunenne fuciliere di marina decise che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di prigionia: durante la notte si gettò in acqua dirigendosi, a nuoto, verso la costa della Francia, lasciandosi alle spalle le “bianche scogliere di Dover”. Il giorno dopo arrivò sulle spiagge francesi da uomo libero che, per primo, aveva attraversato la Manica. Così, beffando gli inglesi, un montanaro piemontese che aveva imparato a nuotare nei pomeriggi estivi nelle acque gelide dei torrenti alpini, aveva compiuto un’impresa che gli valse un primato, motivata da uno straordinario e quasi imperioso gesto di libertà. Senza saperlo, Giovan Maria Salati dava, così, una precisa identità alla figura del fondista e del maratoneta del nuoto. Il resto della sua vita la passò in Francia. Trovato lavoro a Parigi presso alcuni parenti che avevano fatto fortuna come fumisti, da semplice spazzacamino, diventò lui stesso fumista impresario. Nel 1850 si trasferì a Soissons e, successivamente, al seguito del figlio prete, dimorò in varie parrocchie per poi morire, ultra ottantenne, in quella di Saint-Brice-sous-Forêt, non distante da Parigi. La storia di questo leggendario vigezzino, soldato di Napoleone e nuotatore per spirito di libertà, è stata raccontata nel libro “Giovan Maria Salati. Una beffa che fruttò il primato”. Si tratta di un bel volume, ricco di illustrazioni, scritto dopo lunghe e minuziose ricerche dal conterraneo del Salati, Benito Mazzi. Il comune di Malesco, ricordandone la figura, gli ha dedicato una mostra permanente, ospitata presso ilo storico lavatoio, vicino alla Chiesa,con pannelli illustrati recanti la storia del Salati.






