Dall Italia e dal Mondo- Pagina 73

La storia infinita della “Veneranda Fabbrica” del Duomo

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In saecula saeculorum

I barcaioli, per entrare a Milano con il marmo, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”

A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce e proprio all’imboccatura della Val d’Ossola , si trovano le cave da cui proviene il marmo del Duomo di Milano. Fu Gian Galeazzo Visconti, fondatore della “Veneranda Fabbrica del Duomo”, a decidere di sostituire il mattone, originariamente pensato per la costruzione del Duomo nel progetto iniziale, con il marmo. Una scelta motivata dalla sua bellezza cristallina, screziata di rosa, unita alla grande resistenza, al punto da condizionare non solo l’architettura e la statica del Duomo sormontato dalla “Madonnina”, ma anche la parte ornamentale. A questo scopo,  il 24 ottobre 1387, Gian Galeazzo cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia e concesse il trasporto gratuito dei marmi fino a Milano attraverso le strade d’acqua, in modo che fosse possibile averne sempre in abbondanza per conservare inalterato nei secoli lo splendore  dell’opera. Inizialmente la Fabbrica utilizzò la cava a cielo aperto detta delle Piane, situata appena sopra il letto del Toce ma, successivamente, si decise di spostare l’escavazione sempre più in alto, fino alla quota di 580 metri, a causa di smottamenti, frane e carenza di materia prima. Strumenti di ferro, come ad esempio picconi, mazze, punte, cunei, palanchini, furono i soli mezzi tecnologici in uso nelle cave, fin dalla loro apertura e alcuni di essi lo sono ancora oggi. Con l’avvento dell’energia elettrica, sul finire del XX° secolo, la lavorazione è diventata più efficace grazie alle innovazioni tecnologiche (filo veloce e lame a catena diamantati, etc.), che hanno reso più rapida e selettiva la preparazione dei blocchi di marmo. Il trasporto del materiale fino a Milano avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande e poi dentro al cuore della  città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese.

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Attraverso il sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il carico arrivava fino al Laghetto, oggi Via Laghetto, a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città, utilizzavano una parola d’ordine: “Auf”, l’abbreviazione di “Ad usum fabricae”, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza pagare il pedaggio ed in Lombardia ne è rimasta traccia nell’espressione “A ufo” che significa “gratuitamente”. Nel 1874 la Cava Madre fu collegata all’abitato di Candoglia da una strada, ma il trasporto dei blocchi fino al cantiere rimase via acqua per cinque secoli, fino al 1920, per poi passare definitivamente su strada. L’esigua larghezza della vena di questo marmo rende difficile e costosa la sua estrazione. Ciò ha costituito uno dei problemi più assillanti per il rifornimento del cantiere del Duomo: risultava infatti particolarmente difficile prevedere la quantità totale di marmo richiesta da un così grande edificio e dal suo ingente apparato scultoreo. Per risolvere il problema gli architetti delle Veneranda Fabbrica furono costretti ad aprire nuove cave a quote sempre più elevate, con un conseguente aumento di costo e di tempo per il trasporto dei blocchi dai punti di estrazione fino all’imbarco sul fiume Toce. Un’ulteriore difficoltà era rappresentata, tanto nei secoli addietro, quanto ai giorni nostri, dalla percentuale di marmo utilizzabile, rispetto a quello scavato, che si aggirava tra il 10 e il 25%. Tutte queste incognite, tuttavia, non hanno mai fermato l’attività della Fabbrica, che ancora oggi affronta la grande impresa di conservazione del Duomo, curando la coltivazione e la manutenzione delle Cave, con il suo personale e il supporto delle più avanzate tecnologie.

 

Marco Travaglini

I quiz che fecero la storia della Tv

La RAI Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Erano le 11 di mattina del 3 gennaio 1954 quando, con voce cinguettante, Fulvia Colombo – la prima “signorina buonasera”- fece lo storico annuncio.  E alla sera prese  il via la prima puntata ufficiale de La Domenica Sportiva, con le immagini della partita Inter-Palermo, finita con un secco poker dei nerazzurri. Sergio Brighenti , che nell’occasione segnò una tripletta, fu il primo calciatore ospite della mitica “DS” quando in studio c’era Nicolò Carosio.

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Ben presto iniziarono anche i giochi a quiz, come Lascia o raddoppia? condotto da Mike Buongiorno, che andò in onda –ogni sabato sera, alle 21.00 – dal 26 novembre 1955 all’ 11 febbraio 1956 , per poi passare al giovedì sera dal 16 febbraio1956 al 16 luglio 1959. Il primo, e più famoso, programma a quiz della Rai, ipnotizzava i telespettatori, incollandoli davanti allo schermo in bianco e nero. La popolarità della trasmissione fu tale che la Rai, nel 1956, dovette spostarne la programmazione dal sabato al giovedì a seguito delle proteste dei gestori delle sale cinematografiche, che avevano visto assottigliarsi vistosamente i loro incassi proprio nella serata settimanale tradizionalmente più redditizia. Ma le cose non andarono per il verso giusto e il rimedio si rivelò, paradossalmente, peggiore del male, quando la serata del sabato, rimasta libera, fu occupata da Il Musichiere, a sua volta popolarissimo, condotto da Mario Riva, tanto da costringere molti cinema a installare televisori in sala per non perdere la  clientela.

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Così capitava, ad esempio, che i militari in libera uscita erano costretti a vedere i film a metà, poiché dopo il primo tempo “andava in onda” il quiz televisivo e, a una certa ora, dovevano per forza ritornarsene in caserma. La concorrenza tra il conduttore italoamericano e l’attore romano ( reso famoso anche dalla canzone-sigla della trasmissione, “Domenica è sempre domenica” )  si palesò anche sul versante del “gentil sesso” e dei concorrenti famosi. A Lascia o raddoppia venne inventata la figura della vallettadove spopolò Edy Campagnoli, mentre al Musichiere Mario Riva (che in realtà si chiamava Mariuccio Bonavolontà) era affiancato da due vallette, ribattezzate leSimpatiche, nel cui ruolo si segnalarono, tra le altre, Carla Gravina e Marilù Tolo. La trasmissione condotta da Riva, che usava la formula “niente po’ po’ di meno che”  per presentare gli ospiti di maggior  prestigio, andò in onda per novanta puntate, dal 7 dicembre 1957 al 7 maggio 1960.

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Quasi un anno in più di Lascia o raddoppia?. Ma se Mike Buongiorno, il re dei quiz portato in Italia alla Rai da Vittorio Veltroni ( il padre di Walter), poté vantare una lunghissima carriera (morì l’8 settembre del 2009, a 85 anni), Mario Riva non ebbe la stessa fortuna. Nato a Roma il 26 gennaio 1913, il presentatore del primo quiz musicale televisivo della storia della TV scomparve prematuramente e tragicamente  il 1 settembre del 1960, in seguito alle ferite riportate dopo una caduta, mentre stava presentando il secondo Festival del Musichiere all’arena di Verona. Aveva 47 anni e il paese provò una grande emozione. Ai suoi funerali, svoltisi due giorni dopo la morte a Roma, nella chiesa del Sacro Cuore di Maria in piazza Euclide, parteciparono decine di migliaia  di persone, a dimostrazione dell’affetto che il pubblico nutriva per lui. E di quanto fossero popolari i programmi della Tv  che a quei tempi, dagli schermi a tubo catodico, arrivavano nelle case degli italiani.

Marco Travaglini

 

Macchina agricola taglia braccio a ragazzino di 15 anni

DALLA SARDEGNA

E’  all’ospedale di Cagliari per una semi amputazione del braccio il ragazzino 15enne  che si trovava all’esterno della sua abitazione a Castiadas ed e’ rimasto gravemente ferito. In base a una prima ricostruzione Il giovane era  vicino a un trattore attrezzato con trinciatrice per la legna. E’ ancora da capire come  il braccio del 15enne sia finito nel macchinario da lavoro. Il ragazzo verrà  sottoposto a un delicato intervento chirurgico per ricucire il braccio.

Bram Stoker e il mistero della tomba di Dracula

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DRACULA 1La tradizione popolare vuole che sia stato sepolto nella chiesa ortodossa dell’Assunzione, nel convento di Snagov, su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a una quarantina di chilometri a nord di Bucarest

 Il 26 maggio del 1897, a Londra,  veniva pubblicato il più famoso dei libri dello scrittore irlandese Bram Stoker. Si trattava di “Dracula”, un romanzo dalle atmosfere gotiche. In verità l’idea venne concepita da Stoker qualche anno prima, esattamente 125 anni fa, tra il luglio e l’agosto del 1890. “La bocca, per quel che si scorgeva sotto i folti baffi, era rigida e con un profilo quasi crudele. I denti bianchi e stranamente aguzzi, sporgevano dalle labbra, il colore acceso rivelava una vitalità stupefacente per un uomo dei suoi anni. Le orecchie erano pallide, appuntite; il mento ampio e forte, le guance sode anche se scavate. Tutto il suo volto era soffuso d’un incredibile pallore”. Una descrizione che non lascia dubbi sull’identità del personaggio e sulla sua natura sinistra, che per la prima volta fece acquisire dignità letteraria ai vampiri. Alle credenze popolari e alle superstizioni diffuse soprattutto nei paesi dell’Est e nei Balcani, il letterato irlandese – che nella Londra “vittoriana” alternava all’attività di giornalista quella di scrittore – venne introdotto dal professore ungherese Arminius Vambéry. Fu quest’ultimo a parlargli della Transilvania, raccontando la storia del principe Vlad III di Valacchia, noto con l’appellativo di “Draculea” (che si può tradurre come “figlio del dragone”, riferito al padre Vlad II, membro dell’Ordine del Dragone). Il principe Vlad Tepes, passato alla storia come “Vlad l’Impalatore” per i suoi sadici metodi di tortura che riservava non solo ai turchi ma anche ai cristiani, nell’immaginario di Stoker si sovrappose al protagonista del suo romanzo.

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Tra l’altro, nella lingua rumena,  le parole “dragone” e “diavolo” ( “drac”) sono molto simili. Così, Vlad vide trasformare il suo soprannome “Draculea” in “Dracula” il cui significato e’ “figlio del Diavolo”. Stoker trovò anche un’altra fonte d’ispirazione in diversi articoli comparsi sui giornali dell’epoca in relazione ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1892, nella cittadina di Exter (New England). La morte di una ragazza diciannovenne scatenò l’ immaginazione dei suoi concittadini, sia per gli strani sintomi, pallore e inappetenza, sia per il fatto che a poca distanza morirono allo stesso modo madre, sorella e fratello. Ciò che per la medicina non poteva che trattarsi di tubercolosi, per la gente era un chiaro caso di vampirismo. Una suggestione dopo l’altra, mischiando storia e immaginazione, lo scrittore costruì il romanzo come una raccolta di pagine di diario scritte dai protagonisti della vicenda. Dal giovane avvocato inglese Jonathan Harker, che si reca in Transilvania per definire l’acquisto di una casa londinese da parte del Conte Dracula, alla sua fidanzata Mina Murray, oggetto del desiderio del vampiro che in lei rivede la moglie morta, fino al professore olandese Abraham Van Helsing, scienziato e filosofo che crede nell’esistenza del soprannaturale. Fatto circolare prima tra gli amici e successivamente modificato, il libro venne stampato e posto in vendita nella tarda primavera del 1897. Da allora, il successo è stato talmente ampio da creare un vero e proprio genere, con adattamenti teatrali e cinematografici come  “Nosferatu il vampiro” (1922), capolavoro del cinema muto  espressionista firmato dal tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, fino ai più recenti Dracula di Bram Stoker (tre premi Oscar nel 1993), Van Helsing (2004), il film d’animazione “Hotel Transylvania” (2012) e “Dracula Untold” del 2014. Ma c’è tutta un’altra storia che vale la pena raccontare. E qui dal racconto del libro si passa alla storia, o almeno a  qualcosa che gli assomiglia.

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Il voivoda Vlad III di Valacchia perse la vita in circostanze poco chiare. Si presume che “Dracula” morì com’era vissuto: combattendo. Secondo alcuni la sua  testa, recisa dal corpo, venne portata a Costantinopoli come un trofeo e il suo corpo venne sepolto senza tante cerimonie dal suo rivale e vassallo dei Turchi, Basarab Laiota. Non si conosce l’esatta ubicazione della sua  tomba, anche se la tradizione popolare vuole che sia stato sepolto nella chiesa ortodossa dell’Assunzione, nel convento di Snagov, su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a una quarantina di chilometri a nord di Bucarest. Ricerche archeologiche dal 1930, nella tomba,  scoprirono però solo ossa di cavallo. Il priore di Snagov, ancora recentemente, ha contestato questa versione, rivelando che il sepolcro posto di fronte alle porte dell’iconostasi è la vera tomba di Vlad Tepes. Tuttavia, la maggior parte degli storici romeni, pensa che il vero luogo di sepoltura sia invece il monastero-fortezza di Comana , fondato e costruito nel 1461 proprio da Vlad Tepes, in quello che oggi è il distretto di Giurgiu, nel sud della Romania, al confine con la Bulgaria. Durante i lavori archeologici eseguiti nel 1970, si credette che il corpo senza testa di Vlad l’Impalatore fosse stato localizzato proprio nei sotterranei del monastero. Ma ecco, ad aggrovigliare ancor di più la matassa, una terza e clamorosa ipotesi: il conte Dracula non è morto combattendo in Transilvania ma a Napoli, ed è stato sepolto nel cuore della città, nel chiostro di Santa Maria La Nova. A sostenere quest’ardita tesi non sono dei fantasiosi “cacciatori di vampiri” ma alcuni studiosi dell’Università estone di Tallinn che, in collaborazione con studiosi italiani, hanno compiuto ricerche sulla principessa slava Maria Balsa, fuggita a Napoli nel 1479 a causa delle persecuzioni turche ed accolta nella città da Ferdinando d’Aragona. La donna, che diventò in seguito moglie del  Conte Giacomo Alfonso Ferrillo, sarebbe la figlia del Conte Vlad III di Valacchia, meglio conosciuto- come abbiamo visto – come il Conte “Dracula”. E proprio il padre l’avrebbe accompagnata, cercando e ottenendo l’anonimato. La prova fornita dagli studiosi a sostegno delle loro tesi è il fatto che il blasone che fuse gli stemmi delle famiglie Balsa e Ferrillo presenta un drago, in tutto simile a quello della casata dei principi di Valacchia. Sarà davvero così? Il conte Dracula riposa (?!) a Napoli? La storia è affascinante, ricca di sfumature e di colpi di scena, anche se sembra più la trama di un romanzo d’avventure che una realtà storica. Infatti, al momento, manca il particolare che la renderebbe clamorosa, il colpo di scena finale: il corpo di Vlad Tepes. Ed è ciò che gli studiosi scesi in campo sperano di ottenere. Nel dubbio, come il professor Van Helsing, attendiamo tenendo ben stretto in mano un appuntito paletto di frassino.

 

Marco Travaglini

Il salto dell’acciuga

acciuga bagna caoda

Un bel libro di Nico Orengo che venne pubblicato nel 1997 da Einaudi nella collana de “I coralli”. In una vecchia libreria, curiosando tra gli scaffali, l’ho scovato e acquistato. L’avevo letto quando uscì e, curioso, l’ho riletto a distanza di quasi diciott’anni. L’ho trovato ancor più bello, sorprendente e intrigante di allora

 

Storie che s’intrecciano, antiche, vecchie, nuove; pescatori, donne, finanzieri, contrabbandieri di sale, acciugai… in tutto il libro  si sente il profumo dell’aglio rosa, del salso del mare, delle valli nascoste e della Olga, la rossa di capelli che passa nelle pagine come una cometa tra i picchi delle montagne“. Così, Mario Rigoni Stern descriveva con efficacia  “Il salto dell’acciuga”, un bel libro di Nico Orengo che venne pubblicato nel 1997 da Einaudi nella collana de “I coralli”.In una vecchia libreria, curiosando tra gli scaffali, l’ho scovato e acquistato. L’avevo letto quando uscì e, curioso, l’ho riletto a distanza di quasi diciott’anni. L’ho trovato ancor più bello, sorprendente e intrigante di allora. Forse è il libro migliore dello scrittore ligure, come scrisse Lalla Romano in uno dei suoi elzeviri su “Il Corriere della Sera”. Certamente è un libro pieno di fascino, dove Orengo ( che ci ha lasciati nel 2009) accompagna il lettore in un viaggio che ci  racconta la storia delle acciughe, di come furono portate dal mare alle Alpi, sulle vie dei contrabbandieri del sale, sui carri degli acciugai ambulanti della Val Maira, approdando nelle Langhe e nel Monferrato, a Torino come nel nord del Piemonte, varcando il Ticino, approdando sui navigli di Milano dove incontrarono il gusto di tanti perché “le acciughe piacciono, è cibo povero, per povera gente“. Così il “salto dell’acciuga“, il percorso dal mare fino alle montagne, diventò un buon pretesto per parlare di terre e  genti.

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C’è chi ha azzardato un parallelo con il ” Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejevic’, dove lo scrittore croato, nato all’ombra del ponte di Mostar, ricostruisce e narra la storia “geopoetica” del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano. Un azzardo che ha un senso, una logica, un fascino.  Nico Orengo, ne “Il salto dell’acciuga”, racconta in prima persona, dialogando con gli amici, rammentando le sue peregrinazioni dal mare della sua Liguria di Ponente alla Val Maira, sulle tracce delle acciughe, fino al paesino di Moschiéres, dove immagina che i  saraceni ( “lasciati alle spalle i venti di Ponente e di Levante, i profumi mescolati del Mistral, l’eco del mare..”) si nascosero per un lungo tempo in cui “furono senza nome, invisibili e nascosti”, “per poi diventare con il mestiere di acciugai paese e abitanti”. Una borgata, Moschiéres,nei pressi di Dronero, nel cuneese,  dove usciva dai camini delle case un “ fumo che sapeva d’acciuga e aglio”. Storie antichissime, una specie d’affresco che va dal Medioevo ai giorni nostri  dove tutto s’intreccia e prende forma . Nella pagine, come una presenza a volte incombente e a volte discreta, c’è Olga, contrabbandiera di sale, vittima di continua violenza da parte di un doganiere corrotto, “finché non perse la testa e una sera gli tagliò con un rasoio il belino “. Come non citare poi il ritratto che Orengo traccia del colonnello Matteo Vinzoni, che aveva “il compito di rilevare e definire confini” tra i  possedimenti dei Savoia e le terre dei genovesi: “viaggiava a dorso di mulo, con una sacca piena di carte e matite colorate. Disegnava mappe, geografie, rilievi del terreno, ciuffi di mortella, rami di castagni, rocce e ciottoli“. E su tutto aleggia, con il suo profumo forte, l’argentea acciuga, “pesce di montagna” che si conservava nel tempo, sotto sale.  Quanti agguati attendevano i carretti degli acciugai? Fin dove si spingevano i loro commerci? Quali riti accompagnavano la bagna caoda?

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Orengo ricorda e racconta, intreccia notizie storiche e storie di paese, indaga mestieri perduti, odori e immagini che incantano nel viaggio del sale e dell’acciuga dalle onde del mar Ligure fino ai villaggi tra le più aspre cime dei monti. “Il salto dell’acciuga” non è solo un romanzo: è anche un saggio, una narrazione storica. E’ la storia di un pesce, quasi un pesce di terra si potrebbe dire, che immerso nel sale valica le montagne per diventare cibo di terra, appunto. E qui ci s’interroga su di un’antica questione: come mai la “bagna caoda”, il piatto principe del Piemonte, regione senza alcun sbocco sul mare, è a base di pesce? In un’indagine semiseria, che mescola notizie storiche, racconti privati, storie di paese, ricordi e chiacchiere, Orengo percorre la via del sale tra Liguria e Piemonte, dimostrando come il mondo dei pescatori si intrecciasse con quello dei contadini e cercando così di rispondere a questa domanda. Dopo aver letto “Il salto dell’acciuga”, onorando la scrittura dell’indimenticabile Nico Orengo, non ci si può esimere dal provare la bagna caoda, soprattutto ora che iniziano, con le brume d’autunno,  i primi freddi. La bagna caoda è un piatto semplice, con pochi ingredienti: acciughe, olio e aglio, nient’altro se non una lunga e lentissima cottura e una noce di burro alla fine. Intingendovi verdure crude o lesse, dai cardi di Nizza Monferrato ai peperoni di Carmagnola, si renderà il giusto onore all’acciuga che i liguri chiamano “pan du mar”, il pane del mare, mentre per i piemontesi erano il “pane di montagna”, perché scendeva dai monti dell’Appennino ligure o delle Alpi marittime.

Marco Travaglini

 

Uomo muore travolto e trascinato da treno

DALLA PUGLIA

Tragico incidente in cui ha perso la vita un clochard, F.B.di Monteroni di Lecce, 58 anni. L’uomo è stato travolto e ucciso da un treno mentre si trovava su di un binario della stazione di Lecce, piegato per usare una conduttura di acqua. E’ rimasto però accecato dal sole e non ha visto il treno che stava arrivando. Il corpo è stato trascinato per diversi metri prima che il convoglio si fermasse. 

Giù le mani da Skanderbeg

FOCUS INTERNAZIONALE

 di Filippo Re

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Guai a toccare Skanderbeg, l’eroe nazionale albanese che salvò per lungo tempo il Paese delle aquile dall’invasione dei turchi frenando l’espansione ottomana verso il cuore dell’Europa. Fanno discutere recenti pubblicazioni che sminuirebbero l’importanza storica del valoroso condottiero cristiano che con le sue gesta ha scritto pagine di storia memorabili e indelebili. Poco religioso, poco cattolico, non così coraggioso e audace in battaglia come si è sempre creduto finora, e perfino non albanese? No al revisionismo storico, non ci stanno gli albanesi d’Italia vedendo il loro “braveheart” ridotto a semplice e banale leggenda. Da nord a sud della penisola si ribellano i discendenti di Giorgio Castriota Skanderbeg che chiedono giustizia. E tra loro spicca la vivace e agguerrita comunità torinese e chierese dei “Vatra Arberesh”, associazione culturale che riunisce gli italiani di origine albanese, che secoli fa si insediò nel nord Italia per far conoscere la storia e le tradizioni arbereshe attraverso convegni, mostre, viaggi, presentazione di libri, canti e balli popolari di gruppi folcloristici. Anche loro sono pronti a rispondere a queste insinuazioni con fatti e documenti storici inconfutabili. Da Tirana è già arrivata una prima chiara risposta: il 2018 è stato proclamato dal governo albanese “Anno nazionale di Skanderbeg” per commemorare i 550 anni dalla sua morte, avvenuta nel gennaio 1468, all’età di 63 anni. Gli studiosi fanno osservare che, a partire dall’epistola di Papa Callisto III che lo definì “Athleta Christi e defensor fidei”, è impossibile mettere in dubbio i documenti storici finora pervenuti. Ma chi fu questo personaggio e perchè è considerato un eroe albanese? Figlio del principe Giovanni, Giorgio Castriota, a soli nove anni, fu ceduto in ostaggio al sultano ottomano Murad II, padre di Maometto II il Conquistatore, e ricevette un’educazione islamica. Fu convertito all’islam e a 18 anni era in grado di cavalcare come un giannizzero, fino a diventare un comandante di cavalleria. Combatté per il sultano, represse rivolte e occupò nuovi territori, tanto da guadagnarsi il titolo di “Skander Beg” (Alessandro Magno), un imponente soprannome che lo accompagnò per tutta la vita. Si battè al fianco dei turchi ma nel 1443 avvenne la svolta: fuggì in patria, nella sua Albania, mentre partecipava a una spedizione turca in Ungheria, già in parte occupata dagli Ottomani, durante la quale si rese conto delle terribili condizioni di sudditanza e di povertà in cui vivevano gli ungheresi. Tornò dalla parte dei cristiani, ripudiò l’islam e abbracciò il cristianesimo. Cominciò a riconquistare città e villaggi invasi dai turchi diventando in breve tempo un eroe dell’indipendenza e il difensore

della cristianità nella lotta contro l’Impero ottomano. Per 25 anni tutti i tentativi di sottomettere l’Albania compiuti da Murad II e Maometto II furono da lui respinti. L’Europa cristiana lo guardò sempre con grande ammirazione ma fu lasciato solo a combattere una guerra impossibile da vincere contro un nemico che minacciava l’intero Continente cristiano. Quando l’eroe morì, 550 anni fa, il Paese delle aquile divenne una provincia dello sterminato impero dei sultani. Gli albanesi si insediarono in Italia tra il Quattrocento e il Settecento ma è soprattutto durante la conquista turca dei Balcani che avvenne la grande fuga verso la salvezza oltre l’Adriatico. Gli italo-albanesi oggi sono sparsi un po’ in tutta la penisola. Piana degli albanesi presso Palermo, San Paolo Albanese in Basilicata, Falconara Albanese nel cosentino sono alcune delle tante comunità storiche arbereshe presenti in Italia. La regione con il maggior numero di arbereshe è la Calabria, circa 60.000, seguita dalla Puglia e dalla Sicilia, oltre a Molise, Basilicata e Campania.

La canna da zucchero e l’insanabile dissenso con Fidel

C’è sempre, in ogni storia, un antefatto che motiva  i perché dei successivi accadimenti. E l’antefatto, in questo caso, per poco non finiva in tragedia. Sì, perché il direttore della ferriera, l’ingegner Scorbutici, se poteva ancora raccontare in giro per la città ciò che gli era accaduto, dopo essersela cavata al buon prezzo di un grande spavento, era perché Osvaldo aveva una pessima mira. E l’esasperazione per le angherie, i torti e le ingiustizie patiti sul lavoro avevano fatto tremare la mano all’operaio dell’altoforno, anticipandogli il colpo di pistola che passò due dita sopra la testa dell’incredulo Venanzio Scorbutici. Il proiettile si conficcò nel muro e il direttore crollo a terra, svenuto. I due impiegati che erano con lui si misero ad urlare. “Hanno ammazzato il direttore! Aiuto! Gli hanno sparato addosso!”. Osvaldo, di fronte a tutto quel trambusto, buttò la rivoltella giù dal ponte sul fiume e scappò via, insieme a Cecco e Nando che l’avevano accompagnato e, pistole in tasca, sarebbero stati lì per lì  pronti  a far fuoco se non fossero rimasti pietrificati da una fifa blu proprio sul più bello. Così, a perdifiato, fuggirono in montagna, cercando riparo nelle vecchie cascine abbandonate dopo la guerra. I loro compagni , in qualche modo, fecero avere cibo e notizie nei due giorni successivi ma poi, considerato che i carabinieri stavano intensificando le ricerche di quelli che, nella zona, venivano ormai indicati come “gli attentatori”, si pensò di organizzare l’espatrio dei tre. Senza tante chiacchiere si pensò di mandarli in Cecoslovacchia, via Svizzera e Austria. Il tempo strettamente necessario a preparare i documenti, ovviamente falsi, e predisporre i passaggi che avrebbero consentito a  Osvaldo, Cecco e Nando di oltrepassare la “cortina di ferro”, e i tre si trovarono a Praga. L’impatto con il socialismo reale fu tutt’altro che semplice. 

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Nel cuore dell’Europa divisa, nella Praga dei primi anni sessanta, si toccava con mano il clima difficile del tempo e anche i tre si trovarono alle prese con le situazioni, i problemi, le angosce, i drammi della gente comune di quel paese. Il Partito, dopo averli fatti espatriare, non li lasciò soli. Cecco e Nando lavorarono alla Škoda di Mladá Boleslav, in Boemia centrale, a circa cinquanta chilometri a nord-ovest di Praga, alla linea di montaggio della “Spartak”, che, per motivi legali legati al nome, venne poi ribattezzata “Octavia”: una berlina a tre volumi di schema classico (motore anteriore e trazione posteriore), di linea tradizionale ma elegante. Osvaldo, invece, fu dirottato alla fabbrica di birra “Staropramen”, una delle più antiche della città. Tutti e tre, comunque, oltre al lavoro, avevano un altro impegno: occuparsi di “Radio Oggi in Italia”, la radio clandestina che, dalla capitale cecoslovacca, trasmetteva dagli anni ’50,gestita da iscritti al PCI che erano emigrati lì, quasi tutti per sfuggire a processi. La speaker dell’emittente, Stella Amici, tanto per fare un esempio, era fuggita dall’Italia all’indomani degli scontri di Modena del 1950 davanti alle Fonderie Riunite, dove sei scioperanti erano rimasti uccisi dalla polizia. Tra gli altri che si  occupavano della Radio, sempre da Praga, c’era Francesco Moranino, l’ex comandante partigiano biellese “Gemisto”, parlamentare comunista riparato in Cecoslovacchia perché inseguito da una condanna per fatti avvenuti nel corso della guerra partigiana. “Radio Oggi in Italia” era praticamente unica nel suo genere a parte un solo precedente, molto più limitato, con un’emittente in lingua francese che visse soltanto un anno e mezzo , tra l’estate del ’54 e il dicembre del ’55. Anch’essa diffusa da Praga, faceva esplicito riferimento al PCF. Il primo ministro francese Pierre Mendès-France ne pretese la chiusura e la ottenne in cambio di accordi commerciali con la Cecoslovacchia.

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La radio del PCI ,invece, continuava la sua battaglia dell’etere al servizio del più grande partito comunista dell’Occidente, pur senza apparire come espressione diretta di Botteghe Oscure. I testi delle note e dei commenti arrivavano alla redazione dai giornalisti dell’Unità e di Paese Sera o, addirittura, da dirigenti del PCI. Uno dei collaboratori più assidui era Sandro Curzi. Da dove trasmettesse era un mistero e il governo italiano si dannava l’anima nel far la guerra a questa emittente, ascoltata dai comunisti e non solo, che arrecava un gran fastidio. Infatti,  una radio non conosceva ostacoli e  poteva arrivare senza problemi anche dove comprare l’Unità in edicola o riceverla in abbonamento non era cosa facile. Furono promosse, soprattutto da parte democristiana, azioni parlamentari e persino  diplomatiche da parte dell’Italia verso la Cecoslovacchia, ma senza alcun esito. Osvaldo si occupava di smistare le notizie, Nando – che era patito di musica classica – s’ingegnava con le colonne sonore e Cecco dei turni di vigilanza perché, diceva “siamo in un paese socialista, ma non si sa mai”. “Radio Oggi in Italia” era sempre “sul pezzo” tanto che nel luglio del 1960, durante il governo Tambroni, quando a Genova e poi a Reggio Emilia avvennero violenti scontri tra dimostranti e polizia per protesta contro l’indizione di un congresso nazionale del Movimento Sociale, quella che veniva definita la “radio fantasma del PCI” riuscì a seguire gli avvenimenti praticamente in diretta, con una tempestività sorprendente (mentre Radio Rai operò con la consueta ufficialità di ispirazione governativa e solo attraverso i comuni notiziari). Ma quel tran-tran non andava a genio allo sfortunato attentatore che seguiva con grande attenzione ed entusiasmo le notizie provenienti dall’isola caraibica di Cuba dove Fidel Castro e “Che” Guevara stavano costruendo, giorno dopo giorno, la rivoluzione sotto il naso degli americani.

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Già nell’aprile di quell’anno ( era il 1961) i  mercenari, armati e sostenuti dagli americani, erano sbarcati alla baia dei Porci, dirigendosi verso la Playa Larga e la Playa Girón. Ma il tentativo da parte di esuli cubani e mercenari addestrati dalla CIA di conquistare la parte sud-ovest di Cuba, fallì e i cubani – in tre giorni di combattimenti -sconfissero gli aggressori. Lo stesso  presidente degli Stati Uniti, J.F. Kennedy, ammise le responsabilità degli Usa e annunciò, come risposta,  l’embargo totale contro Cuba. Quell’isola ribelle,terra di musica e socialismo “caliente”, dello zucchero di canna e del rum, esercitava un’attrazione incredibile e Osvaldo pensò che era il caso di offrirsi volontario per andar là, al caldo dei tropici, “ ad edificare il socialismo”. Che ci fosse un gran lavoro da fare non vi era alcun dubbio. Negli anni ’50, secondo l’UNESCO, un cubano su tre era analfabeta e quel paese apparteneva a un gruppo di nazioni il cui reddito medio pro capite oscillava tra i 300 e i 499 dollari l’anno. L’eredità del latifondismo era pesante e si poteva toccar con mano l’entità della disuguaglianza sociale. Così, con il primo viaggio utile, Osvaldo partì per la terra di Fidel , animato delle migliori intenzioni e pronto ad esportare le sue esperienze di pedagogia socialista. L’entusiasmo rivoluzionario subì un rapido raffreddamento che, in breve, diventò delusione quando s’accorse che i cubani erano ben felici di ricevere un aiuto “internazionalista” ma che questo consisteva nel partecipare alla campagna agricola della raccolta della canna da zucchero. Tagliare la canna è un mestiere duro, che stanca all’inverosimile. Quando le canne misurano 4 o 5 metri d’altezza vanno tagliate con il machete per  essere poi raccolte e portate allo zuccherificio; se non vengono lavorate immediatamente diminuisce il loro contenuto zuccherino. Lì vengono schiacciate dalle macine per far uscire il succo, molto scuro e pieno di impurità che viene raccolto in vasche, dove – al caldo –  l’acqua evapora e il succo si trasforma in sciroppo o melassa, che viene gradualmente raffinato. A quel punto i cristalli di zucchero si formano da soli, allo stesso modo dei cristalli di sale in una pozza d’acqua marina che si asciuga sole. Tra quelle canne, Osvaldo si sentiva perso, come un elfo in una foresta di giganti. Lui a cuba voleva dare una mano a “tirar su il  socialismo e far capire ai cubani l’importanza di sentirsi compagni” ma non pensava che questo equivalesse a farsi venire i calli spessi e duri sulle mani e tagliuzzarsi dappertutto in un campo “de caña de azúcar”. Così fece richiesta di tornare a Praga, insistendo a tal punto che il suo desiderio venne esaudito. E dopo qualche mese nella capitale cecoslovacca, tra la birra da imbottigliare e i programmi della radio, ormai prescritto il reato per il quale era stato condannato in contumacia, lasciò il modesto alloggio  a Malá Strana e rientrò in Italia. Un viaggio lungo e complicato lo riportò sulle rive del lago dov’era nato, negli anni a venire, oltre a pronunciare in ogni occasione la sua frase rituale (“compagni, la situazione è grave”), a  chi l’interrogava sulla scelta di andare e poi tornare in fretta da Cuba, rispondeva con una certa gravità: “Ho avuto un insanabile dissenso politico con il compagno Fidel e, insieme, abbiamo concordato che era meglio lasciar stare e non insistere nel manifestare le nostre contrarietà”.

Marco Travaglini

Quel misterioso russo che nel 1907 fece il portiere di notte

stalin hotelIl giovane  cercava lavoro ed era disposto a fare il portiere di notte. Il suo nome era Joseph, Vissarionovich Djugashvili. Per gli amici, Koba. Quel georgiano dallo sguardo glaciale era Josif Stalin

Ci sono avvenimenti storici che sembrano così incredibili da essere considerati leggende. Una di queste mi è stata raccontata ad Ancona,  durante l’attesa per l’imbarco verso Spalato, dall’altra parte dell’Adriatico. Una storia che si svolse proprio lì, accanto al porto Vecchio. Una storia raccontata, molti anni dopo, da un anziano portiere dell’Hotel Roma e Pace, il signor Pallotta . Dalle finestre di quell’albergo, a due passi dai moli, si scorgeva il mare. La pubblicità che ne decanta l’ospitalità narra di proposte di “riscaldamento a termo-sifone senza aumento di prezzo, ottimo restaurant a tutte le ore, omnibus a tutte le ore”. E’ lì che, in una fredda giornata d’inverno del 1907, un giovane russo dagli abiti eccentrici e dallo sguardo glaciale entrò nella hall dell’austero “Roma e Pace”. Indossava una blusa russa di satin nero sotto lastalin1 giacca, grigia come il logoro soprabito; gli unici segni di eleganza erano la vistosa sciarpa rossa di seta ed un ampio cappello di feltro nero. Un amico italiano lo aveva accompagnato in via Leopardi, dopo un viaggio lungo e scomodo a bordo di una nave carica di grano proveniente da Odessa. Il giovane russo cercava lavoro ed era disposto a fare il portiere di notte. Il suo nome era Joseph, Vissarionovich Djugashvili. Per gli amici, Koba. Solo alcuni anni più tardi tutto il mondo lo conobbe con un altro nome. La storia dice che il giovane, sulla trentina, fosse già ricercato per estorsione e rapina in Georgia. Il portiere di giorno al “Roma e Pace”, Paolo Pallotta, non era molto convinto di assumere quel giovane dall’aspetto dimesso, la barba rada e i baffi neri. E forse non si sbagliava. Koba era un ragazzo troppo timido e poco intraprendente. Rimase poche settimane, prima di essere congedato e riprendere il suo viaggio in direzione Venezia, dove svolse la mansione – seppure per un breve periodo – di campanaro al convento di San Lazzaro degli Armeni, sull’omonimo isolotto della laguna. Un’esperienza fugace, durata poco perchè suonava le campane con decisione e forti rintocchi, stalin4secondo il rito ortodosso, e questo non andava a genio agli abati mechitaristi.Una storia intrigante di cui si trova traccia anche nelle tavole di Corto Maltese, il personaggio dei fumetti creato dal Hugo Pratt.  Ne “La casa dorata di Samarcanda”, lungo la mitica Via della Seta, il marinaio Corto – figlio di una prostituta di Gibilterra e di un marinaio della Cornovaglia – impegnato nella ricerca del tesoro di Alessandro il Grande, caduto in mano ai bolscevichi della città dalle cupole blu, si salva da un’esecuzione grazie ad una telefonata con quel “portiere di notte”, rammentandogli i tempi di Ancona. Corto, scavando nei ricordi di quel 1907, gli disse,tra l’altro: “evidentemente non eri tagliato per fare il portiere di notte”. Chi era il giovane russo con cui s’incontrò nel vecchio porto della città marchigiana? Il mistero si svela subito: quel georgiano dallo sguardo glaciale si chiamava Josif stalin cortoStalin. Il punto di congiunzione tra la storia e l’immaginazione lo offre un volume di Raffaele Salinari, “Stalin in Italia ovvero Bepi del giasso” ( che, tradotto, suona come  “Giuseppe dal freddo”)– pubblicato a Bologna qualche anno fa, ma rimasto tagliato fuori dai circuiti di distribuzione nazionali e forse per questo poco conosciuto. Medico e docente universitario, Salinari ha voluto ricostruire un pezzo di storia italiana (e russa) della quale si è sempre saputo ben poco. Secondo le informazioni che Salinari ha raccolto, Stalin si sarebbe imbarcato in seguito ad una rapina ad un portavalori zarista. Per finanziare l’ala bolscevica del partito socialdemocratico operaio russo, Josif/Koba si dedicò agli assalti alle diligenze malgrado la pratica fosse stata disapprovata dalla dirigenza interna. Così Stalin, in fuga,  passò da Ancona per raggiungere la Svizzera dove Lenin era in esilio e si mantenne come poteva. Del suo arrivo nel capoluogo marchigiano resterebbero due testimonianze: un articolo del Candido di Giovannino Guareschi del 1957 e una lapide commemorativa nell’albergo (il “Roma e Pace”,appunto) chiusostalin2 ormai da qualche anno, i cui arredi sono stati acquistati da un anonimo collezionista, lapide inclusa. Nelle stanze ormai vuote di quel vecchio albergo hanno soggiornato altri personaggi importanti per la storia del nostro Paese: Luchino Visconti, membri di Casa Savoia e addirittura una coppia di amanti da gossip, come  Benito Mussolini e l’ucraina Angelica Balabanoff. Dietro alle serrande abbassate e alle imposte chiuse pare proprio che il “Roma e Pace” conservi storie e misteri  che aleggiando sulle sponde del Mediterraneo orientale. Che siano vere o presunte poco importa, perché in tempi dove tutto è a portata di smartphone, leggende e suggestioni ci restituiscono il piacere dell’immaginazione. E poi, diciamolo, il pericolo è passato e nessuno trema più davanti al minaccioso motto “adda venì Baffone”.

Marco Travaglini

“La squadra spezzata” di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956

Se la guardi giocare e poi vai a vedere il museo delle belle arti, apprezzerai di più certi quadri”. E’ l’inizio degli anni cinquanta a Budapest quando l’operaio Lajos parla così al figlio Gábor, protagonista de “La squadra spezzata”, affascinante e amaro romanzo di Luigi Bolognini. Già il sottotitolo del libro svela di chi sta parlando (“L’Aranycsapat di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956”). La Honvéd, squadra dell’esercito magiaro (ai tempi dell’Impero austro-ungarico– “Honvéd /difensore della patria” –  era  la definizione che veniva data alle forze armate ungheresi) è stata una leg­genda. Negli anni ‘40 e ’50, nelle file dei bianco-rossi, giocarono alcuni tra i migliori calciatori ungheresi:

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Ferenc Puskás, József Bozsik, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis, che formarono l’ossatura del mitico Aranycsapat ( la “squadra d’oro”), la nazionale ungherese che espresse il miglior calcio del mondo in quell’epoca. Macinando gol e spettacolo, acclamata ovunque, la “mitica” Ungheria regalò bellezza e orgoglio passando dai trionfi alle Olimpiadi del 1952 alle due storiche vittorie con l’Inghilterra dei “maestri” ( 6 a 3 a Wembley nel 1953 e 7 a 1 a Budapest l’anno dopo ). L’ Aranycsapat di Puskás era destinata a vincere, simbolo di un regime – quello comunista ungherese – che l’aveva eletta a simbolo. Fino alla sconfitta nella finale della Coppa Rimet del 1954, unica partita persa dai magiari  su cinquanta incontri disputati tra il 1950 e il 1956. Vale la pena ricordare la prima parte, la più esaltante, della “serie magica”: tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con 143 gol fatti e 33 subiti. Un gioco offensivo, spumeggiante, irresistibile.

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Anche l’Italia ne ungheria5fece le spese. Domenica 17 maggio 1953, a Roma, venne inaugurato lo Stadio Olimpico. Gli azzurri venivano da una tradizione favorevole: da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano. Finì con un netto 0-3 per i magiari in maglia rossa ( gol di Hidekguti e “doppietta” di Puskás). Per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta e al termine si udirono distintamente gli applausi a scena aperta dell’Olimpico. La storia di questa compagine leggendaria è raccontata magistralmente da Bo­lognini ne “La squadra spezzata “, riportando il gioco del calcio alla sua essenza, prima che diventasse (purtroppo!!) solo business e denaro. “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, disse George Bernard Shaw. Ed è ciò che racconta questo ungheria6libro dove emerge anche la figura del sedicenne Gábor che, di fronte all’infrangersi del mito degli undici “eroi” dietro al pallone di cuoio,  vide andare in frantumi anche i sogni suoi e quelli di un intero Paese. Senza le speranze suscitate dall’Aranycsapat di Puskás e compagni, restò solo una realtà dura, amara. La delusione mise in dubbio tutto quello in cui credevano lui e gli altri ungheresi. E quando, il 23 ottobre 1956,  scoppiò la rivolta contro la dittatura comunista,il giovane Gábor ungheria1prese parte alla “rivoluzione”. Lottò per creare un socialismo nuovo, democratico, “dal volto umano”. Fino a quando i carri armati sovietici invasero Budapest , soffocando nel sangue il suo sogno, quello di Imre Nagy e di un intero popolo che si trovò a combattere nelle stesse strade descritte da Ferenc Molnár ne “I ragazzi della via Pál”. Nei giorni della rivolta contro l’oppressione sovietica , la Honvéd era all’estero in tournée con i migliori giocatori. Decisero di non tornare in patria, trovando fortuna e successo altrove, come Puskás nel  Real Madrid. Il mito della “squadra d’oro”, forse la più grande di tutti i tempi, era caduto in pezzi. E non sarebbe mai più  rinato.

Marco Travaglini